Nel 1919 si formò l’associazione della “Giovane Sardegna”, esordio e premessa di quel che sarà più tardi il Partito sardo d’azione. La “Giovane Sardegna” si proponeva di unire tutti i sardi dell’isola e del continente in un blocco regionale capace di esercitare un’utile pressione sul governo per ottenere che fossero mantenute le promesse fatte durante la guerra ai soldati; l’organizzatore della “Giovane Sardegna” nel continente era un tale professor Pietro Nurra,
socialista, che molto probabilmente oggi fa parte del gruppo di “giovani” che nel
Quarto stato scopre ogni settimana qualche nuovo orizzonte da esplorare. Vi aderivano con l’entusiasmo che crea ogni nuova probabilità di pescar croci, commende e medaglini, avvocati, professori, funzionari. L’assemblea costituente, convocata a Torino per i sardi abitanti nel Piemonte, riuscì imponente per il numero degli intervenuti. Era in maggioranza povera gente, popolani senza qualifica distinguibile, manovali d’officina, piccoli pensionati, ex carabinieri, ex guardie carcerarie, ex soldati di finanza che esercitavano piccoli negozi svariatissimi; tutti erano entusiasmati dall’idea di ritrovarsi tra compaesani, di sentire discorsi sulla loro terra alla quale continuavano ad essere legati da innumerevoli fili di parentele, di amicizie, di ricordi, di sofferenze, di speranze: la speranza di ritornare al loro paese, ma ad un paese più prospero e ricco, che offrisse le condizioni di vivere, sia pure modestamente.
I comunisti sardi, in numero preciso di otto, si recarono alla riunione, presentarono alla presidenza una loro mozione, domandarono di fare una controrelazione. Dopo il discorso infiammato e retorico del relatore ufficiale, adorno di tutte le veneri e gli amorini dell’oratoria regionalistica, dopo che gli intervenuti avevano pianto ai ricordi dei dolori passati e del sangue versato in guerra dai reggimenti sardi, e si erano entusiasmati fino al delirio all’idea del blocco compatto di tutti i figli generosi della Sardegna, era molto difficile “piazzare” la controrelazione; le previsioni più ottimistiche erano se non il linciaggio, per lo meno una passeggiata fino in questura dopo essere stati salvati dalle conseguenze del “nobile sdegno della folla”. La controrelazione, se suscitò una enorme stupefazione, fu però ascoltata con attenzione, e una volta rotto l’incanto, rapidamente, se pur metodicamente, si giunse alla conclusione rivoluzionaria.
Il dilemma: siete voi, poveri diavoli di sardi, per un blocco coi signori di Sardegna che vi hanno rovinato e sono i sorveglianti locali dello sfruttamento capitalistico, o siete per un blocco con gli operai rivoluzionari del continente, che vogliono abbattere tutti gli sfruttamenti ed emancipare tutti gli oppressi? - questo dilemma fu fatto penetrare nei cervelli dei presenti. Il voto per divisione fu un formidabile successo: da una parte un gruppetto di signori sgargianti, di funzionari in tuba, di professionisti lividi dalla rabbia e dalla paura con una quarantina di poliziotti per contorno di consenso, e dall’altra tutta la moltitudine dei poveri diavoli e delle donnette vestite da festa intorno alla piccolissima cellula comunista. Un’ora dopo, alla Camera del lavoro era costituito il Circolo educativo socialista sardo con 256 inscritti; la costituzione della “Giovane Sardegna” fu rinviata
sine die e non ebbe mai luogo.
Fu questa la base politica dell’azione condotta fra i soldati della brigata Sassari, brigata a composizione quasi totalmente regionale. La brigata Sassari aveva partecipato alla repressione del moto insurrezionale di Torino dell’agosto 1917; si era sicuri che essa non avrebbe mai fraternizzato con gli operai per i ricordi di odio che ogni repressione lascia nella folla anche contro gli strumenti materiali della repressione e nei reggimenti per il ricordo dei soldati caduti sotto i colpi degli insorti. La brigata fu accolta da una folla di signori e signore che offrivano ai soldati fiori, sigari, frutta. Lo stato d’animo dei soldati è caratterizzato da questo racconto di un operaio conciatore di Sassari, addetto ai primi sondaggi di propaganda: “Mi sono avvicinato a un bivacco di piazza X (i soldati sardi nei primi giorni bivaccarono nelle piazze come in una città conquistata) e ho parlato con un giovane contadino che mi aveva accolto cordialmente perché di Sassari come lui. “Cosa siete venuti a fare a Torino?”. “Siamo venuti a sparare contro i signori che fanno sciopero”. “Ma non sono i signori quelli che fanno sciopero, sono gli operai e sono poveri”. “Qui sono tutti signori: hanno il colletto e la cravatta: guadagnano 30 lire al giorno. I poveri io li conosco e so come sono vestiti, a Sassari, sì, ci sono molti poveri; tutti “gli zappatori” siamo poveri e guadagniamo 1,50 al giorno”. “Ma anche io sono operaio e sono povero”. “Tu sei povero perché sei sardo”. “Ma se io faccio sciopero con gli altri sparerai contro di me?”. Il soldato rifletté un poco poi mettendomi una mano sulla spalla: “Senti, quando fai sciopero con gli altri, resta a casa!”.
Era questo lo spirito della stragrande maggioranza della brigata che contava solo un piccolo numero di operai minatori del bacino di Iglesias. Eppure, dopo pochi mesi, alla vigilia dello sciopero generale del 20-21 luglio, la brigata fu allontanata da Torino, i soldati anziani furono congedati e la formazione divisa in tre: un terzo fu mandato ad Aosta, un terzo a Trieste, un terzo a Roma. La brigata fu fatta partire di notte, all’improvviso; nessuna folla elegante li applaudiva alla stazione; i loro canti se erano anch’essi guerrieri, non avevano più lo stesso contenuto di quelli cantati all’arrivo.