Senza sottovalutare il «peccato originale» che macchiò l’evento fondatore del comunismo mondiale, si può, tuttavia, essere d’accordo con lo storico russo Vladimir Buldakov, autore di un originale libro intitolato Il caos rosso che analizza la dinamica rivoluzionaria russa del 1917 come una forma di psicopatologia collettiva sfociata in un delirio di violenza, a dire che Lenin non era «in alcun modo una spia tedesca» o un «agente» del Kaiser: Lenin «naturalmente, sapeva di lavorare in un certo senso per i nemici militari della Russia. Ma l’aspetto morale della questione non lo turbava. Se l’imperialismo mondiale era condannato a distruggersi rivoluzionariamente, i sussidi da parte della Germania erano soltanto una conferma significativa della validità della prognosi marxista. Dall’alto di questa premessa ogni schifiltosità sembrava a Lenin una scempiaggine». Né, d’altra parte, si può sostenere che ciò che accadde in Russia nel 1917 sia stato semplicemente il frutto di una «congiura», anche se è indubbio che il torbido intreccio di interessi germanico-bolscevico permise, nel contesto di altre circostanze, lo scatenamento di una catastrofe radicata in uno strato profondo della realtà storica.
Gli intellettuali occidentali a Zurigo, dove Lenin aveva risieduto, da Werfel a Zweig, da Romain Rolland a James Joyce (che, saputo della cosa, definì il ritorno di Lenin «una sorta di cavallo di Troia») potevano disapprovare l’accordo del rivoluzionario russo con un imperialismo, quello tedesco, al fine di distruggere un altro imperialismo, quello zarista come avvio, secondo un progetto strategico azzardato, di un crollo dell’intero mondo capitalistico. E i generali tedeschi Hoffmann e Ludendorff potevano dirsi soddisfatti dell’esito dei finanziamenti a Lenin e compagni. Ma più ragione aveva un acuto uomo politico russo, Nikolaj Ustrjalov, che da controrivoluzionario passò poi a teorizzare un’ideologia nazional- bolscevica in quanto nel comunismo vincitore riconobbe una forza statale capace di riunificare l’impero russo, a scrivere che Lenin era «al di là del bene e del male», vera incarnazione di un’energia rivoluzionaria elementare che in lui si faceva volontà ferrea e si ammantava di rigida razionalità, capace di qualsiasi azione, oltre ogni scrupolo morale, in obbedienza al fine assoluto del potere del partito comunista. Il che spiega non soltanto la collaborazione con lo Stato maggiore tedesco, ma anche il susseguente e permanente terrorismo «rosso» di Stato, che in Stalin toccò il suo apogeo. Quanto all’«oro di Berlino», il generale Ludendorff fece in tempo a vedere, in una Germania diventata ormai per contraccolpo nazista, come esso si fosse trasformato in «oro di Mosca», profuso nel mondo a sostegno finanziario dell’idea rivoluzionaria teorizzata con rigore da Marx e da Lenin messa in pratica arditamente, sconvolgendo non la Russia soltanto, ma l’intero assetto internazionale