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    Predefinito Nuovo interessantissimo libro sul mito di Garibaldi

    Ovviamente passato sotto il colpevole silenzio dell'italietta del vecchio comunista, ancora legato alle sottane grondanti sangue meridionale del boss nizzardo che rovinò il mezzogiorno ed inventò la mafia.
    RECENSIONI </SPAN>



    Lucy Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 608, € 28,00.






    Il 2007, anno bicentenario della nascita a Nizza di Giuseppe Garibaldi (1807-1882), ha visto la pubblicazione di numerosi studi sul personaggio, fra i quali finora merita attenzione soprattutto la biografia scritta dall’inglese Lucy Riall — professore di Storia al Birbeck College dell’Università di Londra —, intitolata emblematicamente Garibaldi. L’invenzione di un eroe.
    La Riall, infatti, seguendo la nascita e la formazione del mito garibaldino, mostra com’esso si snodi all’interno di un percorso studiato e costruito ad arte, sia pure su un sostrato di eventi autentici, allo scopo di renderlo protagonista di quella «religione civile» che avrebbe dovuto cementare lo spirito del nascente Stato italiano.
    La tesi centrale dell’opera è che «[...] la celebrità di Garibaldi fu il risultato di una precisa strategia politica e retorica» (p. XXVII) e, più specificamente, che il suo culto «[...] fu in realtà concepito, costruito e divulgato con cura, e il suo scopo fu di sostenere, promuovere e giustificare un processo di violento e rapido mutamento di regime» (p. 324); inoltre, dopo la sua morte questo culto venne ufficializzato nel tentativo «[...] di trasformare il Risorgimento in un »luogo della memoria» e di dare agli italiani una educazione politica che avrebbe dovuto contrastare la tradizionale fedeltà nei confronti degli insegnamenti della Chiesa cattolica e degli antichi regimi» (pp. XIV-XV).
    Lo storico Alberto Banti ha messo in luce l’esistenza di un «canone» risorgimentale che attraverso romanzi, poesie, dipinti e opere liriche ha generato un repertorio di simboli, metafore e immagini popolari (1); questi hanno prima innescato un significativo mutamento culturale e politico e poi prodotto una narrazione dell’unificazione italiana in termini eroici, non solo conquistando l’interesse di molti contemporanei ma anche ostacolando una riconsiderazione critica del processo risorgimentale, sia in Italia che all’estero. Il mito — risultato di un complesso sforzo propagandistico volto a presentare la lotta dei «patrioti» come la fase ultima della storia nazionale italiana — «[...] poté essere frutto di una rappresentazione erronea, di un’illusione, o una vera e propria falsità, ma aveva un’innegabile forza retorica e mobilitante, cosa che almeno in parte era l’effetto di un’accurata strategia politica. Di fatto, questa strategia politica ebbe un tale successo che ancora oggi condiziona il nostro modo di comprendere e di rapportarci al Risorgimento e ai suoi protagonisti» (p. XXVIII).
    Ciò vale soprattutto per i paesi anglosassoni, dove la lettura mitologica di quegli avvenimenti, presentati come un trionfo apparentemente semplice del bene sul male, s’inseriva in una tradizione politica e religiosa che alimentava i pregiudizi anti-cattolici delle popolazioni. Proprio a Londra, durante la visita di Garibaldi nel 1864, il mito conosce il momento di più alta celebrazione — grazie anche all’acceso protestantesimo degli inglesi, «caratterizzato da “furia e villanie straordinarie”» (p. 364) — e fa una delle sue prime apparizioni la «politica spettacolare». Anche in quel caso il successo è preparato e accompagnato da un’accorta propaganda dei circoli politici radicali, svolta soprattutto attraverso la stampa. La stampa è al centro dell’attenzione della studiosa inglese, non solo come fonte per lo studio dei modi e dei tempi della costruzione del mito garibaldino, ma, più in generale, per analizzare la nascita e la diffusione delle mitologie politiche. In Italia i capi del movimento rivoluzionario riescono a formare un’opinione pubblica radicale senza avere il controllo del governo o di un partito politico moderno, allora inesistente, utilizzando le nuove tecniche di comunicazione — non ultima la letteratura romantica popolare, destinata in quegli anni al successo commerciale grazie alla sua economicità, accessibilità e standardizzazione —, che creavano e trasmettevano a un grande pubblico una serie di temi-chiave, fra cui quello dell’eroe pronto a sacrificare la propria vita per la libertà e la giustizia: «[...] questo italiano idealizzato, questo eroe audace, virile e onorevole, sembra trovare un suo preciso corrispettivo nella figura di Garibaldi» (p. 13). Il suo carisma fu anche il prodotto di una rielaborazione artificiale, ma corrispondeva alle reali caratteristiche dell’uomo e alle aspettative del pubblico.
    In un capitolo intitolato significativamente Alla ricerca di Garibaldi viene illustrata la nascita della fama del Nizzardo, risultato di una strategia concepita da Giuseppe Mazzini (1805-1872) e appoggiata dai suoi seguaci, «compreso lo stesso Garibaldi» (p. 51), abile controllore della propria immagine e ben consapevole del nesso che già allora andava creandosi fra politica e sistemi di comunicazione di massa. Nonostante la cattiva fama acquistata negli anni sudamericani (1836-1847), soprattutto sulla stampa argentina, francese e britannica, egli diventa un simbolo della «nuova» Italia, non solo immaginata ma operante realmente attraverso i suoi figli valorosi: «Nella struttura narrativa e nel ricorso a temi familiari possiamo quindi vedere la creazione di una storia di Garibaldi e della sua legione che ricorda quelle narrate da romanzi, poesie e dipinti popolari, e allo stesso tempo aspira a tracciare una storia fondativa di più ampia portata, sulle cui basi possa sorgere la nuova società italiana» (p. 53). L’affermazione di questa storia era legata, comunque, allo sviluppo di una specifica opinione pubblica italiana, che per di più aveva familiarità con una tradizione di figure eroiche creata con un preciso intento politico, quello di dare credibilità alle voci che affermavano l’esistenza di un sentimento nazionale conculcato. «La promozione di Garibaldi a eroe nazionale negli anni Quaranta dell’Ottocento deve essere vista come parte di un processo di lotta politica mirante a rendere popolare una specifica visione della comunità nazionale, incarnandola in un personaggio» (p. 66).
    L’esperienza della Repubblica Romana, nel 1849, rappresenta la seconda tappa nella costruzione del mito: le «rappresentazioni» di cui l’«eroe» si rende protagonista in quei mesi non sono quasi mai improvvisate, i discorsi sono scritti con grande attenzione e spesso dati subito alle stampe, viene curata anche l’eccentricità degli abiti e dei comportamenti, attirando l’attenzione degli osservatori e dei primi inviati speciali. Il primo obbiettivo di questa strategia era di reclutare volontari pronti a combattere con dedizione e coraggio e d’incitare le donne a persuadere i loro uomini in tal senso, il secondo quello di coinvolgere un pubblico di lettori più ampio. «La stampa, che già prima del 1848, quando Garibaldi si trovava ancora in Uruguay, si era rivelata uno strumento decisivo per la creazione della sua fama, nel biennio rivoluzionario lo lanciò definitivamente come personaggio pubblico, capace di attirare interesse anche al di fuori della ristretta cerchia dei circoli e delle associazioni democratiche» (p. 101). In quel contesto, la morte della brasiliana Anita Ribeiro da Silva (1821 ca-1849) — prima di tre mogli e madre di quattro degli otto figli riconosciuti da Garibaldi — conferisce anche una dimensione sentimentale a un mito altrimenti fondato unicamente sulla guerra e sull’avventura.
    Dopo il fallimento della rivoluzione del 1848-1849 il Nizzardo si ritira dalla vita politica e si dedica, fra l’altro, a propagandare sé stesso e le sue idee, approvando le prime biografie scritte da ammiratori, cominciando a comporre le Memorie e consegnandone copie ad amici di nazionalità diversa affinché ne curassero la diffusione a livello internazionale. Accanto al personaggio reale viene in tal modo a coesistere quello immaginario, generato dagli articoli e dai libri che venivano modellati sulla base di priorità politiche, sviluppando le potenzialità narrative con episodi del tutto inventati, ma che avevano la caratteristica di essere verosimili e di rispondere alle attese popolari. «La fama che lo riguardava — relativa alle sue azioni, al suo aspetto e alla sua vita privata — venne sostenuta dalla rapida e massiccia offerta di informazioni a stampa [...]. Il suo fascino fu confezionato per venire incontro a quelli che apparivano i gusti e le esigenze di questa nascente cultura politica, ed egli stesso operò per crearla» (pp. 190-191).
    Quando egli porta a compimento il ralliement con la monarchia sabauda, riconoscendo in essa la guida del processo risorgimentale in Italia, muta anche l’iconografia, che in pochi anni segna un distacco radicale dalle versioni precedenti, mettendone in risalto l’immagine rispettabile, in uniforme e con capelli e barba in ordine, di un generale al comando di volontari ben disciplinati. «La rappresentazione della guerra del 1859 ebbe un’importanza cruciale per dare vita a un culto di dimensioni europee per Garibaldi, e fu una componente essenziale per la costruzione del mito del “risorgimento” italiano, una narrazione completa, ricca di personaggi, in parte inventata e in parte riferita a fatti storici» (p. 243).
    Il culto garibaldino contribuisce a rendere visibile e convincente un ideale di Italia eroica che fino a quel momento era esistito solo nella letteratura, nella musica e nelle arti visive. Al proprio carisma personale e alla propria «controfigura immaginaria» (p. 246), che avevano contribuito a convincere l’opinione pubblica europea dell’esistenza di un «problema italiano», Garibaldi aggiunge nel 1860 una serie di successi militari strepitosi. La spedizione dei Mille ha inizio non a caso in Sicilia, dove alle secolari aspirazioni autonomistiche della popolazione dell’isola si aggiungono l’orientamento liberaleggiante dell’aristocrazia, che ne aveva attenuato la fedeltà verso la monarchia, e l’endemica turbolenza dei contadini, i quali respingevano in buona parte le sollecitazioni religiose e legittimistiche, cui si mostravano invece sensibili i ceti rurali delle altre zone della Penisola. L’intera spedizione è un capolavoro di regia: al seguito del Generale viaggiano gli inviati dei maggiori giornali italiani ed europei, mentre i fratelli pittori lombardi Domenico (1815-1878) e Girolamo (1827-1890) Induno lo ritraggono nelle scene principali della campagna che — nelle pagine del romanziere Alexandre Dumas (1803-1870), auto-investitosi della funzione di storico dei Mille — diventa una festa di colori e di suoni, una marcia gloriosa e pittoresca, e conquista immediatamente i lettori. L’avanzata garibaldina, inoltre, viene accompagnata da una serie di proclami e discorsi entusiasmanti, che fanno riferimento ai Vespri e all’orgoglio dei siciliani nonché al sentimento religioso delle popolazioni, mentre il ricorso a feste e a celebrazioni serve a elaborare «un’estetica politica» (p. 283) volta a promuovere un senso di appartenenza nazionale e ad accreditare l’impresa come un’avventura popolare giustificata moralmente. Nelle sue apparizioni pubbliche Garibaldi prende in prestito alcuni elementi dei rituali tradizionali, anche monarchici, e nelle stesso tempo è attento a creare un’atmosfera familiare, muovendosi a piedi fra la gente e mostrandosi accessibile a tutti. «Questo eclettico miscuglio di sacro e quotidiano — un’unione fra l’autorità rituale e la rilassata intimità del capo democratico — può aiutare a spiegare il successo popolare del suo culto, e a dare conto della spontanea reazione emotiva alla sua presenza» (p. 279).
    Il mito è ormai in grado di auto-alimentarsi attraverso una miscela di realtà e di finzione e grazie alla sua natura «“interattiva”» (p. 370): non è sempre chiaro quali fossero i soggetti che trasmettevano e quelli che ricevevano in quell’«opera d’arte dinamica» (p. 369) dai molti scenari — simboli e associazioni, discorsi e proclami, memorie e giornali, romanzi e melodrammi —, dove una moltitudine di soggetti si sentivano personalmente coinvolti e attivi protagonisti. «In questo modo, nella creazione del mito di Garibaldi operano sia la nuova possibilità di sfruttare per fini politici le moderne tecniche di comunicazione di massa, sia le modalità operative proprie della retorica nazionalista, che per costruire un’ideologia politica popolare e persuasiva si appoggiava sul recupero, l’appropriazione e la rielaborazione di elementi tratti da discorsi e pratiche preesistenti» (p. 473).
    Dopo l’impresa nell’Italia Meridionale Garibaldi non è più soltanto un generale vittorioso ma anche un punto di riferimento per molteplici raggruppamenti d’ispirazione democratica e radicale, che danno vita a quel vasto e autonomo movimento politico noto come «garibaldinismo», termine indicante uno stato d’animo che si traduce in azione, in febbre di combattimento, in spirito di solidarietà fra gli uomini, quasi una fede laica, che subentra alla religione dei padri. Nella politica italiana di quegli anni egli svolge un ruolo centrale attraverso una gran mole di corrispondenza e una presenza instancabile sulla stampa, che tengono alto il suo prestigio e continuano a imporre all’opinione pubblica l’attualità delle questioni di Roma e di Venezia. Al rafforzamento del mito giova anche l’«esilio» nell’isola sarda di Caprera, che gli garantisce contemporaneamente visibilità e lontananza, aggiunge un tassello ulteriore alla mistica del «Cincinnato» e lo lascia di riserva per le ore grandi della storia. Alla morte del Generale la rivista parigina Revue des deux mondes, pur nell’ambito di un articolo critico su L’ultimo dei condottieri, tributa un omaggio al suo coraggio e al suo senso del teatro: «“gli uomini famosi dovrebbero sempre fare in modo di concludere la propria esistenza su un’isola, niente li rende più grandi della solitudine che ciò crea intorno a loro. Più piccola è l’isola, più grande appare l’uomo, e Caprera è un’isola davvero minuscola”» (p. 438).
    In ultimo la Riall si sofferma sul ruolo svolto da Garibaldi e dai suoi seguaci nel «fare» gli italiani e nel costruire una nuova identità nazionale — inasprendo soprattutto gli attacchi alla Chiesa, identificata come il vero avversario —, anche se la loro mitologia si rivela efficace più come ideologia di opposizione alla nuova classe dirigente unitaria che come cemento della nazione.
    Gli ultimi anni della sua vita hanno un grande valore politico e simbolico, perché indicativi sia degli sforzi e delle difficoltà d’imporre una religione «civile» alternativa al cattolicesimo, sia del tentativo di stimolare un ulteriore fase del processo rivoluzionario in Italia.
    «In conclusione, il mito di Garibaldi può non corrispondere alla realtà, ma fu senza dubbio straordinariamente efficace. [...] la popolarità di cui godette ci offre importanti spunti per comprendere la più generale funzione dei miti nell’ambito dei movimenti nazionali, mostrandoci che i miti vincenti non sono né autentici né inventati, ma scaturiscono da una convincente sintesi di entrambe le cose; e che non sono né spontanei né imposti, ma possono essere molto più appropriatamente definiti come il prodotto di un intricato processo di negoziazione fra “attore” e “pubblico”, nel quale risulta difficile scoprire chi sia l’attore» (pp. 478-479).



    Francesco Pappalardo



    Note

    (1) Cfr. Alberto Mario Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000.

  2. #2
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    Molto bene, notate che è una casa editrice importante e non la solita coraggiosa ma piccola casa editrice a stampare un libro del genere.

  3. #3
    Omia Patria si bella e perduta
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    Ho comprato il libro ed ho cominciato a leggerlo.... è veramente un testo di storia con S maiuscola!!!!
    Consiglio a tutti la lettura.

 

 

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