RINASCITADivieto di dissenso: Budapest, cortei e tensione
Martedì 23 Ottobre 2007 – 17
8 – Siro Asinelli - Budapest
A Budapest la tensione è alta: una città quasi immobile in attesa che avvenga qualcosa. Una città - ma è l’intera Ungheria - che in questi giorni in cui si celebra la Rivoluzione anti-sovietica del 1956 sembra ritornare d’un colpo a cinquantuno anni prima. Con lo sguardo rivolto inevitabilmente a quanto accaduto lo scorso anno, quando migliaia di manifestanti anti-governativi scesero in piazza per contestare l’esecutivo Gyurcsany, reo di essere il legittimo erede di quello stesso apparato comunista che ha tenuto in scacco il Paese fino alla caduta del Muro di Berlino, e oggi reo di favorire la svendita del Paese agli speculatori neoliberisti.
Un anno fa le immagini degli scontri di piazza e dell’occupazione della sede della televisione di Stato – messa a ferro e a fuoco – fecero il giro del mondo. I mass media riportarono l’accaduto come opera di frange della tifoseria estrema, di fantomatici gruppi di neonazisti vari mischiati tra la folla dei dimostranti. A distanza di un anno, e alla vigilia di un’altra settimana di tensione, è stato lo stesso primo ministro Gyurcsany a ripetere la stessa storia, avvertendo che il clima delle celebrazioni che si terranno già da oggi potrebbe essere appestato dalla presenza di non meglio precisate “bande di estrema destra”. Nella giornata di domenica, in una Budapest deserta, le agenzia di stampa internazionali avevano riportato la notizia diffusa dal governo ungherese di un corteo non autorizzato inscenato di fronte alla sede del parlamento da presunti “gruppi neonazisti”.
Una notizia strumentale, dato che la capitale ha sonnecchiato per tutta la giornata e di agitazioni, “neonaziste” o meno, non vi è stata neanche l’ombra. Il falso allarme lanciato da Gyurcsany rende bene l’idea del clima che si respira. Il governo teme un nuovo confronto con la piazza e mette le mani avanti denunciando a priori organizzazioni estremiste che starebbero organizzando manifestazioni violente. Il nostro accompagnatore István Gedai, tra i leader della rivolta del ’56 e stimato archeologo ungherese, già direttore del Museo Nazionale di Budapest, racconta senza troppi preamboli una verità riscontrabile anche in altri Paesi, Italia per prima: “Il clima è questo. Ogni volta che un governo o un potere forte ha bisogno di demonizzare un avversario, lo taccia di nazismo, fascismo o antisemitismo”. Per le inevitabili manifestazioni di dissenso di questi giorni, insomma, Gyurcsany ha tirato fuori dal cilindro la carta “neonazista”.
Anche alla Casa degli Ungheresi, nei pressi della centralissima piazza Astoria, vi è molto scetticismo sugli allarmi lanciati dall’esecutivo in vista della giornata odierna. La sensazione, ci dicono, è che il governo stia preparando il terreno mediatico per una repressione violenta contro qualsiasi forma di dissenso. La Casa degli Ungheresi è più di un circolo o di un ritrovo, è il luogo dove convergono le forze dissidenti del Paese, le stesse forze che, seppure divise in una miriade di sigle associazionistiche e partiti più o meno rappresentativi, hanno in comune un sentimento nazionalista e, soprattutto, non vogliono dimenticare i fatti del ’56. In questi giorni, è normale che a farla da protagonisti siano proprio gli uomini e le donne che cinquantuno anni fa scesero in piazza contro il regime filo sovietico e contro gli oltre duemila carri armati inviati da Mosca per soffocare la rivolta. I “giovani ungheresi” di allora sono oggi anziani che meritano il rispetto della piazza che in queste ore manifesta contro il governo. Tutti, o quasi, vantano anni di prigionia politica. Tutti, o quasi, vedono nel clima che si respira negli ultimi anni in Ungheria la stessa tensione di cinque decadi fa. “No, non si può paragonare il 23 ottobre del 1956 ad oggi”, afferma Miklós Völgyesi, oggi rispettato giudice, ieri dissidente, leader dei rivoltosi e prigioniero politico: “Non ci troviamo alla vigilia di una sollevazione popolare, piuttosto sembra di rivivere gli anni successivi all’intervento sovietico, quando il potere era ormai consolidato attraverso la repressione poliziesca e la complicità degli stessi signori che oggi si dicono socialisti, liberali o democratici”. Il problema dell’Ungheria odierna, sottolinea il magistrato, è che non vi sono prospettive di cambiamento. L’unica strada percorribile è quella della difesa contro un governo repressivo che ha il vantaggio, aggiunge sconsolato, “di godere dell’appoggio degli altri governi europei”. Come nel’56, anche oggi il silenzio che circonda l’Ungheria è assordante.
Assieme ad un nutrito gruppo di avvocati, giuristi e magistrati, Völgyesi ha dato il via ad una campagna per ristabilire la verità sugli scontri dello scorso anno ed assicurare assistenza legale gratuita a chi deve ancora difendersi dalle accuse di sedizione e violenza contro lo Stato. Il “Civil Jogáász Bizottság” è un comitato di difesa civile, “assolutamente libero da interferenze governative” come tiene a sottolineare l’avvocatessa Anna Szöor, oggi alla Casa degli Ungheresi per una conferenza in cui il comitato rende pubbliche un anno di battaglie legali contro Stato e Polizia e lancia una nuova campagna in difesa delle libertà civili. Da oggi fino alla fine delle celebrazioni, una squadra di avvocati seguirà da vicino tutte le manifestazioni previste, autorizzate e non. Il loro compito è quello di salvaguardare il diritto alla libertà di parola e scoraggiare il ministero degli Interni dall’ordinare azioni repressive con troppa leggerezza, come accaduto lo scorso anno.