C’è un dato storico incontrovertibile: che i secoli recenti della storia moderna in Europa hanno realizzato gradualmente il trionfo del liberalismo. Un trionfo che Croce, nel suggestivo, se pur retoricissimo, primo capitolo della sua Storia d’Europa nel secolo XIX (Laterza, Bari 1931), chiama “età dello Spirito” o anche “Religione della libertà”. Nell’Ottocento le nazioni europee raggiungono il massimo di benessere e di libertà, aiutate in ciò dalle grandi ricchezze che loro derivano dalla conquista coloniale, che fu massima appunto in quel secolo. Un liberalismo che Croce fa coincidere con la laicità.
Ma questa laicità è la contrapposizione della fede cristiana o non ne è invece la conseguenza? Siamo laici perché anticristiani o non, invece, dobbiamo dire, come è il titolo di un famoso discorso di Luigi Giussani: Laico dunque cristiano? Per rispondere occorre partire dal fatto che laicato (popolo) e clero (parte scelta) sono due categorie interne a quella più vasta di “cristiano”. Fra di esse non esiste alcuna contraddizione, nel senso che vi sono cristiani laici e cristiani preti. Che, poi, tra il potere ecclesiastico e i poteri temporali siano spesso insorti conflitti, testimonia la laicità della tradizione europea. Di contro alle teorie asiatiche l’Europa propone regimi che rifiutano l’unità dei due poteri. Il cesaropapismo (l’imperatore è anche papa) non è occidentale, ma orientale. La teocrazia è cristiana non perché indica una subordinazione del potere temporale al clero, ma solo perché considera che ogni autorità proviene da Dio (Rom. 13, 1). Il regime occidentale, ha osservato Sturzo,è la “diarchia sociologica” che si regge su due princìpi: l’indipendenza della chiesa dal potere politico e il fondamento religioso della unità ecclesiale (Chiesa e Stato, § 5; La società, § 45; Zanichelli, Bologna 1958 e 1960).
Risulta utile collegare l’affermazione sturziana della impossibilità di una teocrazia in occidente con quanto troviamo in Tocqueville in riferimento a un paese nato protestante, non certo cattolico: gli Stati Uniti d’America. Tocqueville si chiede (l. II, parte I, cap. 5) “in che modo negli Stati Uniti la religione sa servirsi degli istinti democratici”. La tesi di Tocqueville è che non ci può essere democrazia né dove la religione coincide con la politica, né dove la democrazia rifiuta la religione. Ecco perché, conclude Tocqueville, islamismo e democrazia sono inconciliabili: “Maometto ha fatto calare dal cielo e messo nel Corano non soltanto dottrine religiose, bensì massime politiche, leggi civili e penali, teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, non parla che dei rapporti generali degli uomini con Dio e fra di loro. All’infuori di questo non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Già basta questa, tra infinite ragioni, per indicare che la prima di queste due religioni non potrebbe reggere a lungo in tempi culturalmente illuminati e democratici, mentre la seconda è destinata a regnare in quelli come negli altri” (La democrazia in America, UTET, Torino 1968, p. 511).
La superiorità del cristianesimo rispetto alle altre religioni è quella laicità, che nasce insieme con la rivoluzione di Gesù, con la sua distinzione tra Dio e Cesare (Mt. 22. 21; Mc. 12, 17; Lc. 20,23). E che Paolo di Tarso approfondisce, con la dottrina della “doppia cittadinanza” del cristiano (Heb. 13, 14; Philip. 3, 20). Questa laicità cristiana verrà accentuata dalla modernità in funzione anticlericale e anche antireligiosa. E ciò nei due momenti della desacralizzazione della religione e della sacralizzazione della politica in chiave di “religione laica”. Se, infatti, in un primo momento la politica viene distaccata dalla religione, in un secondo diviene essa stessa religione, progetto di salvezza gnostica. La laicità non si limita a distruggere la religione e la chiesa, realizzando l’imperativo voltairiano di “schiacciare l’infame”, ma le occupa e le sostituisce non già realizzando una forma di cristianesimo purificato, ma una nuova religione laicista, non meno dogmatica e intollerante.
La forma più evidente di questa laicità clericale è la cosiddetta “religione civile”, che, dentro la trasformazione protestante della chiesa cattolica in chiese nazionali trova in Hobbes le sue origini, in Rousseau il suo teorico, in Hegel la più compiuta espressione. Aprendo così la via al totalitarismo dei nipotini di Marx. Perché solo il XX secolo ha avuto il fenomeno totalitario? Molti studiosi ce l’hanno detto: perché a cause di carattere socio-economico si è aggiunto il declino della religione cristiana e la conseguente divinizzazione atea e panteistica dello Stato, la crisi di quella trascendenza di Dio e di quei diritti naturali, che erano stati teorizzati del primo “whig” della storia, cioè da S. Tommaso d’Aquino (Lord Acton). Giunta alla sua conclusione coerente, il laicismo moderno si trasforma in religione clericale e integralista.
Sarebbe, tuttavia, frettoloso ritenere che il passaggio dalla liberaldemocrazia a ciò che Talmon ha chiamato “democrazia totalitaria” e al vero e proprio totalitarismo sia fatale e inevitabile. Non è così. I molti laicismi moderni si possono ridurre a due filoni principali. Nel primo, di cui abbiamo ora parlato, lo gnosticismo ateo produce (dai puritani ai giacobini e ai bolscevichi) l’utopia totalitaria, sulla base della identità anticristiana di politica e religione. E’ l’eterogenesi del laicismo: nato in nome della libertà, produce la più completa schiavitù; scettico nei confronti della fede, genera una “mistica totalitaria”; demitizzatore della religione tradizionale, inventa una teologia mondana ancora più mitica, una escatologia secolarizzata con i suoi dogmi e le sue persecuzioni, i suoi altari e le sue processioni, le sue santificazioni e i suoi martiri: “l’unificazione forzata della società nello stato e l’affondamento in esso della persona umana” (L. Sturzo, La società, cit., p. 269).
Ma non c’è solo il liberalismo come “religione civile”. C’è anche la linea della “religione nel civile”. Se la prima conduce al totalitarismo, la seconda difende la liberaldemocrazia sia contro il comunismo, sia contro quella sua imitazione moderata che è lo stato assistenziale o sociale. E’ una linea che, capovolgendo Hegel, accentua la distinzione e la superiorità della società civile rispetto allo stato, l’inviolabilità dei diritti naturali, la funzione strumentale dei governi, il limite e il controllo del potere, come pure la possibilità della resistenza. Questa linea, da Locke a Kant, da Tocqueville e Rosmini a Einaudi e Croce, se rifiuta la religione clericale, cerca poi una difesa per il cittadino in princìpi religiosi che proteggono la libertà e la proprietà dagli abusi del potere. Prendiamo Croce: la sua “religione della Libertà” vuole essere esente da clericalesimi, ma non certo in contraddizione con lo spirito della religione tradizionale, di cui ritiene di essere la formulazione adeguata ai nuovi tempi. In tal senso, scriverà il laico Croce, tutti quanti viviamo nel solco della tradizione europea, “non possiamo non dirci cristiani” (1942). Tanto da far dire all’ultracattolico Del Noce che “con la religione della libertà non si esce dal cristianesimo” (L’epoca della secolarizzazione, Giuffré, Milano 1970, p. 249).
Il cristianesimo, infatti, è l’elemento principale del composto culturale chiamato Europa, come si è espresso con la pacatezza dello storico autentico Federico Chabod, proprio in riferimento alla frase di Croce: “Non possiamo non essere cristiani, anche se non seguiamo più le pratiche del culto, perché il cristianesimo ha modellato il nostro modo di sentire e di pensare in guisa incancellabile. Anche i cosiddetti “liberi pensatori”, anche gli “anticlericali” non possono sfuggire a questa sorte comune dello spirito europeo” (Storia dell’idea di Europa, Laterza, Bari 1964, pp. 162-3).
Non v’è dubbio che la riduzione storicistica della religione non può soddisfare pienamente lo spirito religioso. Ma non è meno vero che essa solo può costituire la piattaforma laico-religiosa comune al credente e al non-credente. E può consentire, questa religione nel civile, un utile incontro della tradizione cristiana e di quella liberale nella difesa laica della libertà contro il clericalesimo cattolico (che non manca qua e là di rialzare la testa) e contro il clericalesimo laicista, anch’esso diffuso e pericoloso per la reale laicità.
Come la laicità è, originariamente, cristiana, così il cristianesimo non teme la laicità. Anzi, ne ha bisogno come del campanello d’allarme contro la tentazione clericale. Esattamente come il laico ha bisogno di una religione, se non vuole dissolvere la sua laicità o nell’individualismo amorale o nel totalitarismo collettivista. Cristo, ci dice Dostevskij, è venuto in terra per insegnare la libertà. Il Grande Inquisitore, che lo fa uccidere una seconda volta, è appunto il clericale di sempre, cattolico o laico che sia, in tutte le sue metamorfosi, che alla libertà della decisione esistenziale contrappone il “panem (penem) et circenses” della democrazia totalitaria.
Questa dualità di liberalismo e di laicismo, il loro contrasto ed i loro esiti diversi, potrà meglio essere capita se ci riferiamo ad un caro collega da poco scomparso: Nicola Matteucci. Che fu scolaro prediletto di Felice Battaglia e insegnò Storia delle Dottrine Politiche alla Facoltà di Scienze Politiche, più tardi Filosofia morale alla Facoltà di Filosofia. Si era laureato due volte, con tesi su Croce e Gramsci. Proseguì le sue ricerche a Napoli, sotto la guida di Croce, studiando il conservatore svizzero, Jacques Mallet du Pan, deciso avversario della rivoluzione francese. Il suo liberalismo nulla aveva a che fare con il laicismo anticlericale dell’illuminismo di tradizione francese, si ispirava piuttosto al liberalismo anglosassone, lo stesso che fu scoperto in America e importato in Europa da Tocqueville (di cui Matteucci tradusse e pubblicò le opere).
Erano gli anni in cui stava nascendo il centrosinistra, cui anche la rivista “Il Mulino” (di cui per alcuni anni fu direttore) guardava con interesse: ma non Matteucci. Il quale diffidava da ogni “inciucio” e profeticamente capiva che la DC si sarebbe aperta non solo ai socialisti, ma anche ai comunisti. Bologna ne era il laboratorio privilegiato ed egli accentuò le sue critiche nell’opera Dal populismo al compromesso storico (Edizioni della Voce, Roma 1976): all’industria di stato e alla partitocrazia, al radicalismo chic, al populismo e al terzomondismo, al leninismo e al pensiero unico del PCI. Tale opposizione alla sinistra si concretò nella collaborazione, durata sino alla morte, con “Il Giornale” di Montanelli.
I suoi scritti principali esprimevano la consapevolezza che la società di massa stava distruggendo le principali conquiste della società civile: Il liberalismo in un mondo in trasformazione e Il liberalismo in una democrazia minacciata (Il Mulino, Bologna 1972 e 1981). E si convinse che la crisi non era solo del liberalismo, ma anche della più grande costruzione dell’Occidente: Lo Stato moderno (Il Mulino, Bologna 1993).
Rimase sconvolto dalla contestazione studentesca degli anni Settanta, dalla quale l’università, a suo parere, non s’era più ripresa (ne uscì con due anni di anticipo). Non era un praticante, ma nutriva grande rispetto per la religione. Lo stupirono gli eccessi del postconcilio, le cui radici trovava nell’incultura e nella politicizzazione. Molto stimava Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Non mancò di contrapporsi all’aborto facile e alla dissoluzione della famiglia. Per i cattolici tradizionalisti, Augusto Del Noce e altri, non mancava di esprimere ammirazione. Come, peraltro, per il cardinale Biffi, che difese dai suoi detrattori.
Sarà difficile dimenticare le sue genuine qualità: coerenza e discrezione, fermezza e disponibilità all’ascolto, arguzia e malinconia. La sua analisi acuta e realistica della decadenza della società liberale ha lasciato un segno. Ciò che questo conservatore moderato temeva era la nascita di una democrazia dispotica. Come il suo Tocqueville: “Poiché il passato non rischiara più l’avvenire, lo spirito avanza nelle tenebre”.
Con la sua difesa della libertà, con la sua opposizione non solo ai regimi totalitari, ma anche al populismo antidemocratico, Matteucci ci ha lasciato una grande eredità. E molto ci ha insegnato anche con quello che non ci ha detto. In lui alla parte critica, così rilevante, non si è aggiunta una parte propositiva egualmente valida, forse perché era uno storico della politica e non un filosofo della politica. Di modo che il suo messaggio è più un utilissimo purgante, che una iniezione di vitamine. Egli ha compreso che il liberalismo si esaurisce, quando perde la sua anima religiosa, che la democrazia si capovolge in una dittatura della maggioranza e spesso anche della minoranza, quando stacca il suo cordone ombelicale da valori permanenti e quando il difficile equilibrio, così bene definito da Hannah Arendt, tra dimensione individuale e dimensione pubblica si dissolve nel collettivismo di una società assistenziale e nel narcisismo degli individui separati e incomunicabili, che allo Stato chiedono un “edonismo protetto e garantito”. Ha rivendicato l’importanza del liberalismo in un’epoca in cui spariva dalla circolazione il partito che avrebbe dovuto incarnarlo, tanto che oggi, del liberalismo, si può dire ciò che Kierkegaard diceva del cristianesimo. “Siamo tutti liberali, quindi il liberalismo non esiste più”.
In altre parole: il liberalismo è nato spesso contro le chiese cristiane, ma è un frutto del cristianesimo. O riscopre questa sua radice (quella stessa che i trogloditi di Bruxelles non hanno voluto inserire nella Carta dell’Unione), o diviene esasperato individualismo, liberismo selvaggio, distruzione di quel primato della persona e della comunità sulla società su cui si fondano le teorie dei diritti e della libertà di coscienza. Sto indicando una strada diversa, quella che fu aperta dai cattolici liberali come Tocqueville, Acton, Sturzo: tutti “cattolici liberali”, non certo “liberali cattolici”, in quanto “cattolici” è il sostantivo e “liberali” è l’aggettivo: e tutti sappiamo che il sostantivo può stare senso l’aggettivo, ma non l’aggettivo senza il sostantivo.
Essi hanno in comune la constatazione che il liberalismo, se liberato dalle tendenze irreligiose e anticlericali e riportato alle sue origini, costituisce quel progetto politico in cui il cristiano oggi può meglio ritrovarsi. Quello stesso che, contro i totalitarismi europei, Pio XI, nell’enciclica del 1931 Quadragesimo anno, aveva chiamato “sussidiarietà”. O, ancor prima, che Leone XIII aveva definito con lo slogan: “La democrazia o sarà cristiana o non sarà affatto” (siamo alla fine dell’Ottocento, nulla poteva sapere papa Pecci del partito cosiddetto “Democrazia cristiana”). Sturzo è in tal senso esemplare. Egli aveva conosciuto entrambi i liberalismi. Negli anni giovanili Sturzo combatté lo pseudoliberalismo di Giolitti, che Salvemini chiamerà il “ministro della mala vita”. Fece, Sturzo, anche qualche giorno di galera. Era un liberalismo laicista e statalista, inconciliabile con gli ideali di libertà del cristianesimo. Cacciato da Mussolini (con il nihil obstat del Vaticano) nel 1924, in Inghilterra e negli Stati Uniti conobbe un diverso liberalismo, quello dei Padri Pellegrini, esuli per difendere la loro religione. Del tutto diverso da quello europeo continentale. Un liberalismo evangelico, come aveva notato Tocqueville nel suo studio su La democrazia in America. E in nome di questo secondo (anzi unico) liberalismo Sturzo combatté la sua ultima battaglia, contro le tendenze illiberali e stataliste della DC, che vedeva incarnate da La Pira, Dossetti, Fanfani, Lazzati, tutti teorici della alleanza con le sinistre e del capitalismo di stato.
Giunti alla fine del millennio della modernità, nel quale lo spirito laico ha sempre più permeato le coscienze e insieme si è largamente spento in un nichilismo ludico privo di speranza, le due laicità, quella laico-religiosa e quella religioso-laica, debbono sostenersi a vicenda. In quella unione delle due tradizioni di libertà, quella cristiana e quella liberale, che cerca di far convergere libertà e solidarietà, stato nazionale e federalismo, eguaglianza dei diritti e meritocrazia produttivistica. E che potrà costituire una solida zattera di salvezza nel naufragio del comunismo e dello stato assistenziale – due proposte politiche che appartengono al secolo ormai finito. Se Croce diceva: “Perché non possiamo non dirci cristiani? Perché siamo laici”. Noi dobbiamo fare l’affermazione complementare: “Perché non possiamo non dirci laici? Perché siamo cristiani”.

NOTA BIBLIOGRAFICA
Oltre ai volumi già citati, ricordiamo soltanto alcune opere utili per comprendere le differenze tra i due liberalismi: G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Feltrinelli, Milano 1962; N. Matteucci, voce “Liberalismo”, in Dizionario di Politica, diretto da N. Bobbio e N. Matteucci, UTET, Torino 1976; J. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Il Mulino, Bologna 1977; J. E. Acton, Cattolicesimo liberale, Bonacci, Roma 1990; R. Aron, Della libertà, SugarCo, Milano 1990; J. Rawls, Liberalismo politico, Ed. di Comunità, Torino 1999; S. Belardinelli, La comunità liberale. La libertà, il bene comune e la religione nelle società complesse, Studium, Roma 1999; G. Morra, Teologia politica e religione civile, Barghigiani, Bologna 2000.

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