La sovranità appartiene solo aello Stato:
la Consulta sconfessa la Regione
ma legittima l'entità “popolo sardo”
di Giorgio Melis
Il concetto e la sostanza di “sovranità” appartengono solo allo Stato: nessuna Regione può invocarla come propria prerogativa perché va in contrasto con la Costituzione. Lo ha ribadito la Consulta con una sentenza che accoglie un ricorso di illegittimità presentato dal Governo nell'agosto del 2006 su una legge approvata dal Consiglio regionale. Nel provvedimento si evocava appunto la “sovranità” della Regione Sardegna: improponibile, secondo il pronunciamento definitivo della Consulta. Che tuttavia non ha ritenuto di dover censurare l'espressione “popolo sardo” contenuto nella legge regionale. Sembra dunque il riconoscimento di uno status non giuridico ma di notevole significato. L'ammissione dell'esistenza del “popolo sardo” come entità specifica entra comunque in giurisprudenza. Sebbene non produca effetti di “sovranità”, pare tuttavia un dato importante, che non risulta essere mai stato ammesso come definizione accettata per gli abitanti di altre regioni.
La sentenza dei giudici costituzionali non ha effetti pratici perché la nozione di sovranità era contenuta nella legge numero 7 del 2006 - rimasta senza effetti - che istituiva la Consulta per il nuovo Statuto sardo. Rimasta lettera morta perché il contrasto tra le forze del Consiglio aveva portato all'aborto della Consulta. Tuttavia nel dispositivo si faceva riferimento alla “sovranità” regionale. La Consulta ha accolto il ricorso del Governo Prodi, in cui si eccepiva l'incostituzionalità «degli articoli 1, comma 1, e 2 comma 2 lettera a) e 3, oltre che del titolo della stessa legge “Istituzioni, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo”».
La censura si riferisce alle espressioni contenute negli articoli, per la parte in cui evocava la “sovranità” del popolo sardo e delle istituzioni regionali. Gli articoli della legge impugnata - è detto nella sentenza - si riferiscono a un nuovo speciale statuto che, «in quanto fonte di rango costituzionale abilitata dal nostro ordinamento a definire lo speciale assetto istituzionale della Regione e i suoi rapporti con lo Stato, diverrebbe una fonte attributiva di istituti tali da connotare, per natura, estensione e quantità, l'assetto regionale in termini accentuatamente federalistici piuttosto che di autonomia regionale». Inoltre - scrivono i giudici, «attraverso l'utilizzazione del termine sovranità, ci si riferisce alla pretesa attribuzione alla Regione di un ordinamento profondamente differenziato da quello attuale e, invece, caratterizzato da istituti adeguati ad accentuati modelli di tipo federalistico, normalmente frutto di processi storici nei quali le entità territoriali componenti lo Stato federale mantengono forme e istituti che risentono della loro condizione di sovranità».
In conclusione, secondo la Corte presieduta da Franco Bile, «pretendere di utilizzare in una medesima espressione legislativa, quale principale direttiva dei lavori di redazione di un nuovo Statuto speciale, sia il concetto di autonomia sia quello di sovranità equivale a giustapporre due concezioni fra loro radicalmente differenziate sul piano storico e logico, di cui la seconda sicuramente estranea alla configurazione di fondo del regionalismo quale delineato dalla Costituzione e dagli statuti speciali».
La sentenza ha un'importanza notevole perché dirime in via definitiva un'annosa questione che non è di lana caprina ma di sostanza. Da molti, non solo dal fronte indipendentista o ultrasardista, si è spesso invocato un ruolo “sovrano” dell'autonomia speciale. «Un errore che mi è accaduto di segnalare: invano», spiega il giurista Pietro Ciarlo. «Ha ragione la Corte perché secondo la Costituzione la sovranità appartiene al popolo italiano», dunque «è attribuita solo allo Stato», non anche condivisibile con sue articolazioni regionali o di altro livello. « materia non negoziabile, irrinunciabile. Un'eventuale ma impossibile accettazione della dizione inserita nella legge, «avrebbe potuto produrre effetti dirompenti a livello nazionale e in altre realtà. Basti pensare all'uso che ne avrebbe potuto fare la Lega Nord, che addirittura persegue la secessione e l'indipendenza».
D'accordo anche uno studioso dell'autonomia come Francesco Cocco: «La proclamazione di una sovranità regionale sarebbe stata in contrasto con quella dello Stato. Ma ha certo un significato rilevante che sia stata ammessa la definizione di “popolo sardo”, che non mi pare abbia precedenti». In verità Emilio Lussu e altri grandi autonomisti hanno sempre parlato di “nazione sarda”. Benché Lussu l'avesse con amarezza definita «una nazione abortiva» specie dopo l'approvazione dello Statuto regionale: tanto depotenziato rispetto a quello siciliano che fu offerta e rifiutata l'attribuzione anche alla Sardegna (non si accettarono “costituzioni” concesse ad altri: si voleva fare, disgraziatissimamente, da sé), con enorme perdità di poteri.
Lussu, dopo quell'iniziale, irrimediabile infortunio dei costituenti sardi, ebbe a pronunciare una sentenza lapidaria. «L'autonomia sarda sta al federalismo che volevamo come un gatto a un leopardo: appartengono entrambi alla specie dei felini ma in una scala di valori infinitamente lontani». Anche Cocco è d'accordo: «Si è sempre evocato il concetto di nazione sarda, anche nel primo dizionario del canonico Spano. Ma la rivendicazione di sovranità era estranea, per evidenti ragioni di costituzionalità, ai padri dell'autonomia». Discorso chiuso, dunque, che in realtà non poteva mai essere aperto. Resta che per la prima volta in un responso costituzionale passa la nozione di “popolo sardo”. Chiaramente in senso etnico. Ma esprime il riconoscimento di “nazionalità” benché fermato sulla soglia invarcabile della sovranità statuale.