Nucleare, il sonno della ragione genera mostri

di Gemma Contin

su Liberazione del 04/11/2007


Vent'anni fa l'Italia decideva a larghissima maggioranza, attraverso un referendum, di non volere sul suo territorio impianti nucleari per la produzione di energia.
L'incidente alla centrale di Chernobyl, una cittadina ucraina di 45 mila abitanti a 120 chilometri a nord di Kiev, avvenuto il 26 aprile del 1986 con l'esplosione del quarto reattore e la fuoriuscita di particelle ad alto tasso di radioattività (la reazione fu 200 volte superiore a quella delle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki) provocò una nube radioattiva che si espanse per buona parte dell'Europa, avvolse anche l'Italia, ebbe serie ricadute sui suoli e sulle produzioni ortofrutticole, agricole, forestali e zootecniche.
L'impressione e il timore furono enormi non solo per il numero dei morti e di persone che in conseguenza furono colpite da cancro alla tiroide (4.000 casi a tutt'oggi) ma anche per la relativa vicinanza e perché non era il primo incidente a centrali nucleari che avveniva nel mondo. Prima di quello, il più famoso è stato l'incidente agli impianti statunitensi di Three Miles Island, raccontato in un film diventato celebre con il nome di "Sindrome cinese".
Sta di fatto che vent'anni fa, a un anno di distanza dall'incidente di Chernobyl, il popolo italiano, ai tre quesiti posti dal referendum - sul potere del Cipe di localizzare impianti nucleari sul territorio nazionale; sulla possibilità di Comuni e Regioni di ricevere contributi se accettavano la costruzione di centrali atomiche; sulla partecipazione dell'Enel alla costruzione di tali centrali «con società o enti stranieri» purché dislocate all'estero - rispose con un rifiuto nettissimo, con una percentuale del 70,4 al primo quesito, del 69,1 al secondo e del 63% al terzo. La scelta antinucleare era inequivocabile, anche per l'alta percentuale (75 elettori su 100) di affluenza alle urne, mai più raggiunta in nessun altro referendum.
Da allora in poi, però, non c'è stata occasione di rincari petroliferi, di crisi energetiche, di rischi geopolitici nelle aree fornitrici (dal blocco del petrolio iracheno allo scontro tra Russia e Ucraina sul controllo della produzione di gas) che non abbiano scatenato i nuclearisti di casa nostra nella riproposizione del ricorso all'uso dell'energia atomica (civile s'intende, proprio come in Iran) assistiti nel tempo dai teorici degli "impianti sicuri" e delle "nuove tecnologie di monitoraggio", e persino da qualcuno che va farneticando di "scorie pulite" o, peggio, "riciclabili".
E naturalmente, poiché l'approvvigionamento e il costo del petrolio, la scarsezza delle scorte, la crescita esponenziale della domanda di Cina e India, l'assenza di nuovi giacimenti economicamente sfruttabili, pongono questioni e problemi reali con cui i paesi che non producono ma che importano e sono dipendenti dalle risorse fossili devono fare costantemente i conti, ecco che all'assalto di sempre nuove riproposizioni del nucleare come soluzione a tutti i mali energetici di cui soffriamo - e soffrono le imprese, e, va detto, anche la competitività dei nostri prodotti, oltre che la bolletta energetica del paese e delle famiglie - troviamo schierati in prima linea, nell'ordine: la Confindustria; il giornale della Confindustria (che ieri ha pubblicato uno speciale che titolava Il ritorno dell'atomo: si incrina il fronte del «No» ); gli economisti che scrivono sul giornale della Confindustria; gli esperti che scrivono per testate i cui editori sono particolarmente sensibili, quando non sono direttamente coinvolti, in business energetici.E non solo loro, ma anche i top manager delle grandi imprese in parte ancora in mano pubblica, come l'Enel o l'Eni, e le famiglie dei petrolieri come i Moratti e i Garrone, e poi tutti gli alti livelli e i loro consulenti delle società di trasporto, indifferentemente per mare, cielo, strada o rotaia.

E il ministro delle Attività produttive, che ha in mano anche la delega delle politiche energetiche e ogni tanto occhieggia al nucleare e dice che se ne può parlare, e molti pensatori che lo circondano, nuclearisti convinti, cominciando, va da sé, dal sempreverde generale Carlo Jean, ex presidente della Sogin - Società gestione impianti nucleari, e finendo con il professor Luigi Paganetto, già preside della facoltà di Economia dell'università di Tor Vergata, ora numero uno dell'Enea che, se non ricordiamo male, sta per Ente nazionale energie alternative.
In ogni caso nessuno, ma proprio nessuno, né prima con il governo di centrodestra né adesso con quello di cnetrosinistra, si spende con la stessa foga affinché l'Italia abbracci una politica seriamente alternativa incentrata sulle energie rinnovabili (come hanno fatto la Germania di Angela Merkel e la Spagna di José Luis Zapatero) e avvii lo sviluppo delle tecnologie necessarie a renderle economicamente praticabili su larga scala.
Così, prima o poi, i nuclearisti avranno ragione.


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