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    Predefinito Petizione contro la violenza sui rom

    da www.corriere.it

    «I politici gareggiano a chi urla più forte, ma l'emergenza non esiste»
    Petizione contro la violenza sui rom
    L'appello lanciato da un gruppo di scrittori
    e intellettuali: «Nessun popolo è illegale»

    MILANO - «Nessun popolo è illegale». Si conclude così la petizione lanciata online da un gruppo di scrittori e intellettuali italiani, «stanchi di assistere alla deriva razzista che attraversa l'Italia, purtroppo aggravata dalla morte violenta di Giovanna Reggiani». Una denuncia contro la «criminalizzazione di massa» alimentata da alcuni recenti episodi di cronaca: «Una donna è stata violentata e uccisa a Roma - si legge nel testo. - L'omicida è sicuramente un uomo, forse un rumeno. Rumena è la donna che, sdraiandosi in strada per fermare un autobus che non rallentava, ha cercato di salvare quella vita. L'odioso crimine scuote l'Italia, il gesto di altruismo viene rimosso».

    LE FIRME - La petizione («Il triangolo nero») è stata proposta, tra gli altri, da Gianni Biondillo, Girolamo De Michele, Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Marco Rovelli, Antonio Scurati e Wu Ming. Tra i firmatari si leggono i nomi di Nanni Balestrini, Bernardo Bertolucci, Enrico Brizzi, Erri De Luca, Carlo Lucarelli, Franca Rame, Roberto Saviano, Simoma Vinci e molti altri. Gli aderenti hanno già superato il numero di 1500.

    I DATI E I RAPPORTI - «Odio e sospetto alimentano generalizzazioni - afferma l'appello - tutti i rumeni sono rom, tutti i rom sono ladri e assassini, tutti i ladri e gli assassini devono essere espulsi dall'Italia. Politici vecchi e nuovi, di destra e di sinistra gareggiano a chi urla più forte, denunciando l'emergenza. Emergenza che, scorrendo i dati contenuti nel "Rapporto sulla Criminalità (1993-2006)", non esiste: omicidi e reati sono, oggi, ai livelli più bassi dell'ultimo ventennio, mentre sono in forte crescita i reati commessi tra le pareti domestiche o per ragioni passionali. Il rapporto "Eures-Ansa 2005, L’omicidio volontario in Italia" e l'indagine Istat 2007 dicono che un omicidio su quattro avviene in casa; sette volte su dieci la vittima è una donna; più di un terzo delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, e il responsabile di aggressione fisica o stupro è sette volte su dieci il marito o il compagno: la famiglia uccide più della mafia, le strade sono spesso molto meno a rischio-stupro delle camere da letto».

    PARALLELI - «Nell'estate 2006 quando Hina, ventenne pakistana, venne sgozzata dal padre e dai parenti - si legge ancora - politici e media si impegnarono in un parallelo fra culture. Affermavano che quella occidentale, e italiana in particolare, era felicemente evoluta per quanto riguarda i diritti delle donne. Falso: la violenza contro le donne non è un retaggio bestiale di culture altre, ma cresce e fiorisce nella nostra, ogni giorno, nella costruzione e nella moltiplicazione di un modello femminile che privilegia l'aspetto fisico e la disponibilità sessuale spacciandoli come conquista. Di contro, come testimonia il recentissimo rapporto del "World Economic Forum" sul "Gender Gap", per quanto riguarda la parità femminile nel lavoro, nella salute, nelle aspettative di vita, nell'influenza politica, lItalia è 84esima. Ultima dell'Unione Europea. La Romania è al 47esimo posto».

    SPAURACCHIO - «Se questi sono i fatti, cosa sta succedendo? Succede che è più facile agitare uno spauracchio collettivo (oggi i rumeni, ieri i musulmani, prima ancora gli albanesi) piuttosto che impegnarsi nelle vere cause del panico e dell’insicurezza sociali causati dai processi di globalizzazione. Succede che è più facile, e paga prima e meglio sul piano del consenso viscerale, gridare al lupo e chiedere espulsioni, piuttosto che attuare le direttive europee (come la 43/2000) sul diritto all'assistenza sanitaria, al lavoro e all'alloggio dei migranti; che è più facile mandare le ruspe a privare esseri umani delle proprie misere case, piuttosto che andare nei luoghi di lavoro a combattere il lavoro nero. «Manca solo che qualcuno rispolveri dalle soffitte dell’intolleranza il triangolo nero degli asociali - conclude il testo - il marchio d'infamia che i nazisti applicavano agli abiti dei rom. E non sembra che l'ultima tappa, per ora, di una prolungata guerra contro i poveri. Ma delitti individuali non giustificano castighi collettivi. Essere rumeni o rom non è una forma di "concorso morale". Non esistono razze, men che meno razze colpevoli o innocenti. Nessun popolo è illegale».




    16 novembre 2007

  2. #2
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    Predefinito

    Perché non lo firmerò


    di Sherif El Sebaie

    Pochi giorni fa, in anteprima assoluta, un carissimo amico di Nazione Indiana mi ha inoltrato - invitandomi giustamente a firmarlo - un appello molto interessante, intitolato "Il triangolo nero". L'appello, promosso da un gruppo di amici scrittori (e i nomi di prestigio di certo non mancano) allarmati dalla deriva razzista che attraversa l’Italia, sta facendo il giro della rete in queste ore. E' un appello condivisibile in ogni sua frase, ogni parola, ogni virgola, ogni punto: impensabile non firmarlo. Chi, come il sottoscritto, ha fatto della battaglia contro il razzismo e la xenofobia una battaglia quotidiana, sia sul blog che nella vita "vera", non può di certo rimanere insensibile di fronte a questa encomiabile assunzione di responsabilità. Non è forse evidente, infatti, che "La storia recente di questo paese è un susseguirsi di campagne d’allarme, sempre più ravvicinate e avvolte di frastuono. Le campane suonano a martello, le parole dei demagoghi appiccano incendi, una nazione coi nervi a fior di pelle risponde a ogni stimolo creando “emergenze” e additando capri espiatori"? Non è forse vero che dopo l'omicidio di Giovanna Reggiani per mano di un Rom non si è parlato invece della donna rom "che, sdraiandosi in strada per fermare un autobus che non rallentava, ha cercato di salvare quella vita" e che invece della "donna rumena violentata e ridotta in fin di vita da un uomo" non si era saputo nulla, cosi come dopo l'aggressione a tre innocenti rumeni per "vendetta", "nessun cronista è andato accanto al letto di quei feriti, che rimangono senza nome, senza storia, senza umanità"? Chi potrebbe negare che "nell’estate 2006 quando Hina, ventenne pakistana, venne sgozzata dal padre e dai parenti, politici e media si impegnarono in un parallelo fra culture. Affermavano che quella occidentale, e italiana in particolare, era felicemente evoluta per quanto riguarda i diritti delle donne. Falso: la violenza contro le donne non è un retaggio bestiale di culture altre, ma cresce e fiorisce nella nostra, ogni giorno, nella costruzione e nella moltiplicazione di un modello femminile che privilegia l’aspetto fisico e la disponibilità sessuale spacciandoli come conquista"? Nessuno, con un minimo di onestà intellettuale almeno, potrebbe negare tutto questo. Eppure io quell'appello non lo firmerò. Non posso firmarlo. Vorrei tanto farlo, ma non lo farò. E non sto parlando solo di questo particolare appello ma di tutti gli altri appelli - tutti condivisibilissimi - che sono apparsi o che appariranno in rete.


    Il motivo che me lo impedisce non scaturisce soltanto dalla mia convinzione che non basta una firma su una email che gira per cambiare il mondo, ma perché oggi firmare un appello è come firmare una propria condanna a morte virtuale. C'è sempre qualcuno in giro dotato del tempo sufficiente per scorrere le diecimiladuecentotrentratre firme in calce all'appello in questione per vedere chi altro l' ha firmato. E se vi scopre qualcuno che gli sta antipatico, o con cui non è d'accordo ideologicamente o politicamente, sono guai. "Ah, quell'appello l'ha firmato quel nazista del cognato della vicina di casa di mia nipote": allora tutti quelli che l'hanno firmato son scalmanati nazisti. Oppure quell'appello "l'ha firmato quel fetente comunista del portinaio della cugina di mia bisnonna": allora sono tutti pezzenti comunisti. Se invece compaiono sia le firme dei "nazisti" che quelle dei "comunisti", si grida ovviamente al complotto nazicomunista, e agli interessi oscuri che hanno miracolosamente accomunato entrambi. Se poi a proporre l'appello stesso è gente controversa (e oggi "controversi" lo sono un po' tutti grazie a martellanti campagne diffamatorie di varia natura e intensità), allora è la fine. La tua firma in calce al documento diventa una specie di marchio della bestia, un sigillo dell'Apocalisse: "Hai accettato di mettere la tua firma vicino a questo e a quell'altro!", "Come hai osato firmare il documento con Tizio e Caio!" Come se le loro firme fossero affette da lebbra e avessero il potere di contagiare, con l'inchiostro virtuale, anche la mia persona. Come se io avessi apposto la mia firma in calce al documento perché vi compare questo o quell'altro e non perché ho invece aderito ad un'idea, un principio, una causa giusta indipendentemente da tutto e da tutti. Il risultato è che si assiste persino a scene esilaranti di persone che si affrettano a "ritirare" le proprie firme, magari dopo aver letto, condiviso e persino firmato un appello, perché non sia mai che la loro firma si ritrovi accanto a quella di Sempronio, che - lo sanno tutti - frequenta le prostitute. Ecco perché mi sono sempre imposto di non firmare nessun appello (Quell'unica volta che ho fatto un'indispensabile eccezione, la mia firma non è apparsa, forse per un disguido). Anche se ne condivido persino la punteggiatura. Il rischio di ritrovarsi invischiato in una di quelle demenziali diatribe "per associazione" e "per contiguità" è troppo alto. La mia sola firma potrebbe scatenare le fantasie più malate, dare adito alle teorie di complotto più assurde. A questo punto, gli appelli - per quanto mi riguarda almeno - stanno bene dove sono stati concepiti, ovvero nelle nostre menti e nelle nostre coscienze. Se devono proprio assumere qualche altra forma, che sia quella del nostro operato quotidiano.

    http://salamelik.blogspot.com/2007/1...lo-firmer.html

  3. #3
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    Citazione Originariamente Scritto da Outis Visualizza Messaggio
    Perché non lo firmerò


    di Sherif El Sebaie

    Pochi giorni fa, in anteprima assoluta, un carissimo amico di Nazione Indiana mi ha inoltrato - invitandomi giustamente a firmarlo - un appello molto interessante, intitolato "Il triangolo nero". L'appello, promosso da un gruppo di amici scrittori (e i nomi di prestigio di certo non mancano) allarmati dalla deriva razzista che attraversa l’Italia, sta facendo il giro della rete in queste ore. E' un appello condivisibile in ogni sua frase, ogni parola, ogni virgola, ogni punto: impensabile non firmarlo. Chi, come il sottoscritto, ha fatto della battaglia contro il razzismo e la xenofobia una battaglia quotidiana, sia sul blog che nella vita "vera", non può di certo rimanere insensibile di fronte a questa encomiabile assunzione di responsabilità. Non è forse evidente, infatti, che "La storia recente di questo paese è un susseguirsi di campagne d’allarme, sempre più ravvicinate e avvolte di frastuono. Le campane suonano a martello, le parole dei demagoghi appiccano incendi, una nazione coi nervi a fior di pelle risponde a ogni stimolo creando “emergenze” e additando capri espiatori"? Non è forse vero che dopo l'omicidio di Giovanna Reggiani per mano di un Rom non si è parlato invece della donna rom "che, sdraiandosi in strada per fermare un autobus che non rallentava, ha cercato di salvare quella vita" e che invece della "donna rumena violentata e ridotta in fin di vita da un uomo" non si era saputo nulla, cosi come dopo l'aggressione a tre innocenti rumeni per "vendetta", "nessun cronista è andato accanto al letto di quei feriti, che rimangono senza nome, senza storia, senza umanità"? Chi potrebbe negare che "nell’estate 2006 quando Hina, ventenne pakistana, venne sgozzata dal padre e dai parenti, politici e media si impegnarono in un parallelo fra culture. Affermavano che quella occidentale, e italiana in particolare, era felicemente evoluta per quanto riguarda i diritti delle donne. Falso: la violenza contro le donne non è un retaggio bestiale di culture altre, ma cresce e fiorisce nella nostra, ogni giorno, nella costruzione e nella moltiplicazione di un modello femminile che privilegia l’aspetto fisico e la disponibilità sessuale spacciandoli come conquista"? Nessuno, con un minimo di onestà intellettuale almeno, potrebbe negare tutto questo. Eppure io quell'appello non lo firmerò. Non posso firmarlo. Vorrei tanto farlo, ma non lo farò. E non sto parlando solo di questo particolare appello ma di tutti gli altri appelli - tutti condivisibilissimi - che sono apparsi o che appariranno in rete.


    Il motivo che me lo impedisce non scaturisce soltanto dalla mia convinzione che non basta una firma su una email che gira per cambiare il mondo, ma perché oggi firmare un appello è come firmare una propria condanna a morte virtuale. C'è sempre qualcuno in giro dotato del tempo sufficiente per scorrere le diecimiladuecentotrentratre firme in calce all'appello in questione per vedere chi altro l' ha firmato. E se vi scopre qualcuno che gli sta antipatico, o con cui non è d'accordo ideologicamente o politicamente, sono guai. "Ah, quell'appello l'ha firmato quel nazista del cognato della vicina di casa di mia nipote": allora tutti quelli che l'hanno firmato son scalmanati nazisti. Oppure quell'appello "l'ha firmato quel fetente comunista del portinaio della cugina di mia bisnonna": allora sono tutti pezzenti comunisti. Se invece compaiono sia le firme dei "nazisti" che quelle dei "comunisti", si grida ovviamente al complotto nazicomunista, e agli interessi oscuri che hanno miracolosamente accomunato entrambi. Se poi a proporre l'appello stesso è gente controversa (e oggi "controversi" lo sono un po' tutti grazie a martellanti campagne diffamatorie di varia natura e intensità), allora è la fine. La tua firma in calce al documento diventa una specie di marchio della bestia, un sigillo dell'Apocalisse: "Hai accettato di mettere la tua firma vicino a questo e a quell'altro!", "Come hai osato firmare il documento con Tizio e Caio!" Come se le loro firme fossero affette da lebbra e avessero il potere di contagiare, con l'inchiostro virtuale, anche la mia persona. Come se io avessi apposto la mia firma in calce al documento perché vi compare questo o quell'altro e non perché ho invece aderito ad un'idea, un principio, una causa giusta indipendentemente da tutto e da tutti. Il risultato è che si assiste persino a scene esilaranti di persone che si affrettano a "ritirare" le proprie firme, magari dopo aver letto, condiviso e persino firmato un appello, perché non sia mai che la loro firma si ritrovi accanto a quella di Sempronio, che - lo sanno tutti - frequenta le prostitute. Ecco perché mi sono sempre imposto di non firmare nessun appello (Quell'unica volta che ho fatto un'indispensabile eccezione, la mia firma non è apparsa, forse per un disguido). Anche se ne condivido persino la punteggiatura. Il rischio di ritrovarsi invischiato in una di quelle demenziali diatribe "per associazione" e "per contiguità" è troppo alto. La mia sola firma potrebbe scatenare le fantasie più malate, dare adito alle teorie di complotto più assurde. A questo punto, gli appelli - per quanto mi riguarda almeno - stanno bene dove sono stati concepiti, ovvero nelle nostre menti e nelle nostre coscienze. Se devono proprio assumere qualche altra forma, che sia quella del nostro operato quotidiano.

    http://salamelik.blogspot.com/2007/1...lo-firmer.html
    Un articolo scritto tenendo conto che c'è gente come Magdi Allam e Saverio Ferrari o simili..... francamente non ha tutti i torti e con i tempi che corrono c'è da aspettarsi di tutto.

  4. #4
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    più che petizione...direi peto...

  5. #5
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    più che petizione...direi peto...
    Mah...

  6. #6
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    più che petizione...direi peto...
    Hai perso un'altra occasione per stare zitto.

 

 

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