Il declino del nucleare


Perché preoccuparsi tanto del problema del riscaldamento globale quando la soluzione esiste, è a portata di mano ed è «pulita»? Per George Bush, si sa, la soluzione si chiama energia nucleare. La scorsa settimana a Sydney, al vertice dell'Apec, il presidente degli Stati uniti ha fatto il solito spottone a favore delle centrali nucleari. Sicuramente apprezzato da Russia e Cina che, con l'India, ne stanno costruendo parecchie. Bush, però, ha glissato sul fatto che in casa sua questo non sta succedendo. Gli incentivi da lui concessi per rilanciare l'atomo (1,8 centesimi per chilowattora e 500 milioni di dollari in caso di ritardo nella consegna) non hanno convinto gli investitori a buttarsi in un settore fermo da più di vent'anni (prima di Cernobyl c'era stato l'incidente di Three Miles Island). Per fortuna, succede così in tutti i paesi occidentali (con l'eccezione della Francia, che ricava l'80% dell'elettricità dall'atomo e non ha mai messo in discussione la scelta nucleare). Frenano il ritorno in grande stile al nucleare le controindicazioni di sempre: consenso dell'opinione pubblica, sicurezza, smaltimento delle scorie. A queste si aggiunge un problema squisitamente economico: chi ci mette la montagna di soldi necessari per costruire una centrale atomica? «Si parla molto di rinascimento del nucleare ma, Cina a parte, nessun paese vuole fare da battistrada», afferma sconsolato Steve Kidd, direttore della Word Nuclear Association, che raccoglie le aziende dell'industria nucleare. La Wna, riunitasi l'altro ieri a Londra, ammette lo stallo: non si trovano investitori disposti a installare nuove centrali nucleari. Un impianto standard da 1 gigawatt costa 2 miliardi di dollari. Ammortizzati i costi nei primi 6-7 anni di attività, garantisce la Wna, per i successivi sessanta una centrale nucleare è «una macchina da soldi». In mercati liberalizzati e in economie non pianificate la grossa «carota» sventolata dalla Wna non basta a diradare le incognite che gravano sul business nucleare: quali saranno i prezzi dell'elettricità quando la centrale entrerà in funzione? chi si accollerà i costi dei ritardi di costruzione, dei fermi produttivi, della chiusura dell'impianto, dello smaltimento delle scorie? Finchè mano pubblica e mano privata non si metteranno d'accordo, su questi punti, nei paesi avanzati il futuro per la Wna e per i filonuclearisti resterà bigio (e roseo per noi).
I 439 reattori nucleari attualmente in funzione nel modo generano 371 mila megawatt, circa il 16% della domanda globale di elettricità. 34 i reattori in costruzione, 81 quelli pianificati, 223 quelli ipotizzati. In Cina le centrali in costruzione o progettatte sono 88. Nonostante l'alto numero, i 50 mila megawatt nucleari che la Cina produrrà entro il 2020 sono meno di quanto forniscono le centrali a carbone aperte da Pechino ogni anno. Inoltre, argomentano gli antinuclearisti, la produzione di elettricità causa solo il 20% delle emissioni globali di gas serra. Prendendo per buona la previsione «ottimistica» (per lei) della Wna, il nucleare coprirà solo il 18% della domanda di elettricità. Quindi, le emissioni di gas serra diminuiranno solo del 4%. Il gioco del nucleare non vale la candela, concludono gli ambientalisti, anche se fossero risolti con un colpo di bacchetta magica i problemi di sicurezza.
Negli anni Settanta la produzione di energia nucleare nel mondo era cresciuta del 700%, negli Ottanta del 140%, nei Novanta di meno del 5%. Nel 2000 la Germania, allora governata dalla coalizione rosso-verde, ha deciso l'uscita graduale dal nucleare, di non rimpiazzare le centrali arrivate a fine corsa. Attualmente in Germania sono in funzione 17 centrali. Dopo alcuni recenti «guasti», il ministro dell'ambiente tedesco è orientato a chiudere entro due anni i 7 impianti più vecchi. Uno scenario che non dovrebbe cambiare, nonostante Sarkozy corteggi la cancelliera Merkel perché la Germania riveda la scelta d'abbandonare il nucleare.

13 settembre 2007 www.ariannaeditrice.it

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