Appeso al voto di un senatore eletto nella circoscrizione Africa-Asia-Oceania e anche alla cartella medica di un mazzetto composto da Premi Nobel ed ex-Presidenti della Repubblica convertiti in senatori a vita, il governo non aveva molte alternative di fronte al ricatto avanzato dalla coppia Bordon-Manzione. Il risultato è stato l’approvazione di un emendamento che, in maniera quasi improvvisa e senza un adeguato dibattito, introduce in Italia la possibilità di azione collettive (l’istituto americano della class action).
Il senso della cosa è semplice. Talora vi sono imprese che causano danni di entità limitata ad una vasta, anche vastissima, platea di soggetti (consumatori, ad esempio) e in tali situazioni nessun singolo individuo può essere interessato ad agire in giudizio – proprio per il carattere modesto del danno subito – contro il danneggiante. La class action si propone di ovviare a tutto ciò rendendo disponibile per il cittadino una forma di azione congiunta, di tipo collettivo, che condanni chi ha sbagliato e restituisca a chi ne ha titolo i piccoli danni subiti. Spesso si tratta di somme spesso davvero piccole (in America si usa indennizzare anche distribuendo buoni-acquisto), ma che riguardano un numero altissimo di persone.

L’introduzione in Italia di tale istituto, però, è destinata a creare più danni che benefici e si può già anticipare che causerà oneri molto alti alle imprese, con evidenti conseguenze negative sia per i clienti delle stesse che per l’occupazione. Senza considerare, come vedremo, le ricadute disastrose su un sistema giudiziario che già oggi è allo stremo e che ora – dopo questa apparentemente “piccola” riforma – peggiorerà ancor più.
La class action, va detto, è un istituto molto contestato anche negli Stati Uniti: soprattutto perché ha aperto la strada ad azioni ingiustificate e demagogiche, che in vari casi hanno trovato giudici compiacenti e che quindi hanno gravemente penalizzato molte imprese. Mentre spesso si attribuisce la colpa della litigation explosion (il moltiplicarsi delle controversie che è tipico della società americana) all’introduzione del cosiddetto contingent fee, il patto quota-lite (grazie al quale un avvocato può essere pagato con una percentuale di ciò che il cliente riesce ad ottenere, e solo in caso di vittoria), la vera peste della giustizia civile americana ha origini culturali: ed è in larga misura riconducile al prevalere di una magistratura pregiudizialmente favorevole al malato contro il medico, al consumatore contro l’impresa, e via dicendo. Oltre Oceano la class action si innesta su tutto ciò, producendo ampie devastazioni.
Anche in Italia si ha ormai ampia conoscenza di ciò, grazie a quella cinematografia che esalta l’azione intrepida del solito avvocato all’assalto della cattiva multinazionale o anche grazie al rilievo dato alla condanna dell’impresa che vende hamburger, poiché taluni suoi clienti sono obesi. Ma nel nostro Paese, dove la tradizione marxista è ben radicata e lo spirito anti-capitalista soffia ben più forte che negli Usa, è ragionevole attendersi esiti anche peggiori.
Per giunta, la versione “all’italiana” della class action si adatta ovviamente allo spirito del luogo e quindi assomma ai vizi dell’istituto americano tutti i problemi che da tempo ci angustiano. Basti dire che solo le associazioni dei consumatori sono autorizzate ad agire contro o quell’azienda. Ma quali associazioni? Quelle registrate presso uno specifico registro istituito dall’art. 137 del Codice del Consumo, le quali finiscono per costituire una nuova élite, dotata di una straordinaria capacità ricattatoria nei riguardi di ogni produttore. Non bastasse questo, con la nuova norma un’impresa condannata sarà costretta a destinare risorse a un fondo che, tra i suoi compiti, ha quello di sviluppare azioni di tutela di consumatori e utenti, ma anche di finanziare le associazioni stesse.

La class action americana, si è detto, ha molti difetti: ma almeno ha una sua logica. Il guaio della norma recentemente approvata – e che diventerà legge se la Camera non la boccerà nel suo esame della finanziaria – è invece quello di essere del tutto contraddittoria, poiché ad esempio non può escludere la possibilità che diverse associazioni dei consumatori intentino cause analoghe davanti allo stesso ufficio giudiziario e per gli stessi fatti. Tanto più che essa prevede un’attribuzione delle spese legali destinata a scatenare conseguenze molto gravi.
Nel caso in cui l’azienda sia condannata (anche solo in parte), essa deve sostenere tutte le spese, ma se invece a perdere è l’associazione dei consumatori il giudice deve necessariamente “liquidare in ogni caso a carico del gratuito patrocinio” sia la parcella del convenuto sia le altre spese legali, con l’eccezione del difensore della classe.
La disparità di trattamento è evidente, e tale da incentivare l’avvio di cause anche senza fondamento. Non si capisce, ad esempio, per quale motivo l’avvocato della classe non dovrebbe essere retribuito per il lavoro svolto, ma ancor più grave è il fatto che per coprire gli errori dei responsabili delle associazioni dei consumatori si debba attingere alle già scarse risorse del gratuito patrocinio. Cosa c’entrano i contribuenti, da cui quei fondi provengono, con le cause avventate o anche solo ingiustificate che verranno decise da questo o quel capopopolo?

In un paio di suoi studi di notevole interesse (realizzati per l’Istituto Bruno Leoni e disponibili nel sito dell’istituto stesso), Silvio Boccalatte ha smontato pezzo per pezzo la class action “all’amatriciana” varata in questi giorni, suggerendo anche come il ricorso a istituti già presenti nel nostro ordinamento (dal litisconsorzio alla connessione) o anche limitate modifiche del Codice di procedura civile potrebbero rispondere molto meglio alle esigenze che si è cercato tanto maldestramente di soddisfare con questa innovazione normativa.

http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=5884