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    Il Gesù della storia
    Data: Giovedì, 25 aprile 2002 @ 12:00:00 CEST
    Argomento: Il Gesù della storia e i suoi seguaci

    È possibile conoscerlo?
    di Andrea Nicolotti
    Dall’epoca illuministica, ci si chiese se fosse possibile o meno ricostruire con le fonti a nostra disposizione un storia attendibile di Gesù. Nacque così la cosiddetta “Ricerca sul Gesù storico”, che con metodi e presupposti sempre nuovi si è proposta di rispondere a questa domanda.



    La vecchia ricerca su Gesù (1778-1906)
    Quello del Gesù storico è un problema di data recente, figlio dell'Illuminismo. Per l'epoca più antica era ritenuta cosa certa che i Vangeli ci forniscano notizie assolutamente attendibili su Gesù; non si scorgeva in ciò nessun problema. L'indagine storica neotestamentaria di quell’epoca, a parte alcune eccezioni, si limitava essenzialmente a parafrasare e ad armonizzare i quattro Vangeli; soltanto alla fine del XVIII secolo ci si chiese se il Gesù realmente esistito e il Cristo predicato dalla Chiesa ed annunciato nei Vangeli fossero la stessa persona.
    Il primo che si occupò della questione fu Samuel Reimarus. Nato nel 1694 ad Amburgo, professore di lingue orientali, aveva scritto una Apologia degli adoratori razionali di Dio; tenuta volontariamente segreta, fu pubblicata postuma da Gotthold Ephraim Lessing in sette frammenti, uno dei quali era intitolato Dello scopo di Gesù e dei suoi discepoli. Un altro frammento dell’anonimo di Wolfenbüttel (1778)1.
    Si deve distinguere, diceva il Reimarus, tra lo scopo di Gesù, cioè tra l'intento che Gesù perseguiva, e lo scopo dei suoi discepoli. Gesù sarebbe stato un Messia politico ebraico, un liberatore degli Ebrei dal dominio straniero; messo a morte, non avrebbe raggiunto il suo scopo. I suoi discepoli, allora, che cosa avrebbero potuto fare? Essi, non volendo tornare alla propria condizione precedente, avrebbero rubato il cadavere di Gesù, inventato l'annuncio della sua risurrezione e del suo ritorno, creando in tal modo una nuova religione. I discepoli sarebbero stati dunque gli inventori della figura del Cristo.
    L'impressione suscitata fu grande, ed il rigetto del libello unanime. Tuttavia il Reimarus aveva per la prima volta posto un problema: il Gesù della storia ed il Cristo della rivelazione, sono la stessa cosa, dal momento che storia e dogma sono due cose diverse?
    Con il Reimarus inizia il problema del Gesù storico: giustamente Albert Schweitzer ha intitolato la prima edizione della sua Storia della ricerca sulla vita di Gesù (1906) Da Reimarus a Wrede2. La rappresentazione fatta dal Reimarus del Gesù storico era fallace: Gesù non era un rivoluzionario politico. Ma il Reimarus non aveva per caso ragione, almeno in linea di massima, col sostenere che il vero Gesù era diverso dal Cristo rappresentatoci dai Vangeli, soprattutto da quello di Giovanni? Chi era egli nella realtà?
    A questa domanda cercò di rispondere l'indagine sulla vita di Gesù (Leben Jesu Forschung) iniziata in epoca illuministica, ed in seguito all’interrogativo nacquero infiniti ritratti del Messia. Il difetto di questi ritratti stava nel pregiudizio illuminista e nell’intento antidogmatico che li animava. I razionalisti descrissero Gesù come un moralista, gli idealisti come quintessenza dell'umanità, gli esteti lo lodarono come l'artista geniale della parola, i socialisti come l'amico dei poveri e riformatore sociale. Gesù venne modernizzato: il risultato fu che ogni epoca, ogni teologia, ogni autore ritrovava nella personalità di Gesù il proprio ideale. Tra le opere più note, ricordo la Vita di Gesù di Georg W. F. Hegel (1795)3, di David F. Strauss (1835) 4 e di Ernest Renan (1863) 5.
    Tutte queste diverse vite di Gesù ebbero in comune il fatto che spesso la personalità di Gesù venne tracciata sulla base delle convinzioni dei diversi commentatori. Essa non venne dedotta solo dalle fonti, ma fu prevalentemente frutto di costruzione psicologica liberamente creata; Albert Schweitzer, nell'opera citata, denunciò con acutezza inesorabile molte di queste immagini di fantasia:
    L’indagine storica sulla vita di Gesù non è partita dal puro interesse storico, ma ha cercato il Gesù della storia come colui che poteva liberarlo dal dogma […] Ogni epoca ha trovato i suoi pensieri in Gesù […] e ogni singolo lo creò secondo la propria personalità6.
    All'origine di tali questioni, si trova una certa concezione del metodo storico e della conoscenza religiosa. Nel corso del XIX secolo la scienza storica si era proposta un ideale di assoluta obiettività che tendeva ad assimilarla alle scienze naturali, così com’erano intese allora. Appariva necessario liberare i dati non soltanto dagli elementi manifestamente leggendari, ma da qualsiasi apporto soggettivo dello storico. Applicando rigorosamente i principi del metodo storico, si sarebbe isolato l’evento così come avvenne un tempo; poi, combinando questi risultati obiettivi, si sarebbe ricostruita una storia ordinata. Solo così, si pensava, sarebbe stato possibile risuscitare obiettivamente una biografia od un ritratto di Gesù. Ma ogni tentativo di ricostruire una vita di Gesù in tal guisa “scientifica”, che non teneva conto delle numerose altre variabili e utilizzava la critica letteraria delle fonti in maniera troppo personale, dette risultati differenti e spesso inconciliabili.
    Alcune intuizioni della vecchia Leben Jesu Forschung rimasero attuali anche nella successiva ricerca: la metodologia storico critica, l’ambientazione giudaica della figura di Gesù e lo sforzo di una sospensione dalla dogmatica nell’approccio ai testi.
    1 I frammenti dell'Anonimo di Wolfenbuttel pubblicati da G. E. Lessing, Napoli, Bibliopolis, 1977.
    2 Von Reimarus zu Wrede. Eine Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, Tübingen, Mohr, 1906.
    3 Das Leben Jesu. Aus Hegels teologischen Jugendschriften nach den handschriften der Kgl. Bibliothek in Berlin, Tübingen, Mohr, 1907; trad. ital. Vita di Gesù, Roma, Newton Compton, 1995; Brescia, Queriniana, 2001.
    4 Das Leben Jesu. Kritisch bearbeitet von David Friedrich Strauss, Tubingen, Osiander, 1835-1836; rist. anast. Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1969; trad. ital. La vita di Gesù o Esame critico della sua storia, Milano, Sanvito, 1863-1865.
    5 Vie de Jésus, Leipzig, société Bibliophile, 1863; trad. ital. Roma, Newton Compton, 1990.
    6 Traggo dalla seconda edizione, tradotta in italiano: Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Brescia, Paideia, 1986 (ediz. origin. Tübingen, Mohr, 1913), pp. 74-75.
    Il Gesù della storia e il Cristo della fede
    I teologi si limitarono in un primo tempo a difendersi da questi tentativi di ricostruzione storica; solo nel 1892 essi presero parte al dibattito tramite uno scritto di Martin Kähler: Il cosiddetto Gesù storico [historisch] e l’autentico [geschichtlich] Cristo biblico1. Si deve considerare molto attentamente in sé stesso il titolo di questo scritto, se si vuole capire il proposito del Kähler. Questi distingue da un lato tra Gesù e Cristo, e dall'altro tra storico historisch e storico geschichtlich.
    Con Gesù egli intende l'uomo di Nazareth, come l'indagine sulla vita di Gesù lo aveva descritto; e designa, invece, con Cristo il salvatore predicato dalla Chiesa. Col termine historisch egli indica i puri e semplici fatti del passato, con geschichtlich ciò che racchiude un significato duraturo. Dunque egli contrappone il cosiddetto Gesù historisch, cioè storico-reale, al Cristo geschichtlich, il Cristo storico-biblico, come gli Apostoli lo hanno predicato.
    Questa la sua tesi: solo il Cristo biblico è comprensibile per noi, ed egli solo ha significato durevole per la fede.
    In un primo tempo il richiamo del Kähler non ebbe alcuna eco; soltanto anni dopo fu ripreso da Rudolf Bultmann. Questi nel 1929 scriveva:
    Io sono indubbiamente del parere che noi non possiamo sapere più nulla della vita e della personalità di Gesù, poiché le fonti cristiane non si sono interessate al riguardo se non in modo molto frammentario e con taglio leggendario, e perché non esistono altre fonti su Gesù2.
    Lo scopo primario ed esclusivo dei Vangeli, secondo l’autore, era la catechesi: agli evangelisti non interessava affatto ricostruire la figura storica di Gesù, ma annunciarlo come Cristo Figlio di Dio. Nei Vangeli, dunque, non troviamo il Gesù della storia, ma il Cristo della fede; il personaggio di Gesù è sicuramente esistito, ma la fede di cui è stato fatto oggetto lo ha completamente sottratto alla storia. Pretendere di ricostruire la vita di Gesù a partire dai Vangeli significherebbe quindi cercare in essi proprio quello che non c'è; e quand'anche le ricostruzioni storiche fossero attendibili, esse non avrebbero nulla da dire al credente, perché egli, con la sua fede, salta la storia a piè pari, se ne disinteressa.
    A Bultmann, il cui pensiero esercitò un’influenza fortissima sulla ricerca del XX secolo, furono mosse varie obiezioni: in primo luogo non convinse il suo atteggiamento di rinuncia totale a qualunque collocazione storico-cronologica degli avvenimenti relativi all'uomo Gesù: non c'è dubbio che la sua figura sia stata in una certa misura idealizzata dagli evangelisti, ma poneva e pone tuttora obiettive difficoltà pensare che questa idealizzazione sia stata talmente radicale da far scomparire totalmente un personaggio dalla storia a non molto tempo di distanza dalle sue vicende.
    Occorre ricordare qui quella che diverrà una delle più diffuse Vite di Gesù in assoluto, opera dell’abate Giuseppe Ricciotti; uscita nel gennaio del 19413 ebbe prima della fine dell’anno ben quattro edizioni, e giunse nel 1948 ad essere tradotta in 15 lingue. A quasi quarant’anni dalla morte dell’autore, è tutt’oggi ristampata4.
    In essa l’autore si scaglia contro i maggiori esponenti della Old Quest e contro le reazioni di stampo bultmanniano:
    Ho mirato, dunque a far opera di critica. So benissimo che quest’ultima parola, comparsa già nel titolo, sarà giudicata usurpata da coloro per i quali la scienza critica è soltanto demolitrice e la sua ultima conclusione deve essere un «No» […] Cotesti demolitori sono oramai quasi «superati» […] Oggi, in forza sia delle recentissime scoperte documentarie sia di tante altre ragioni, la saggia critica mira ad essere costruttrice e la sua ultima conclusione vuole essere un «Sì».
    Pur nel suo carattere divulgativo, l’opera è molto attenta al dato storico e all’analisi documentaria: si può certamente considerarla un importante preludio agli orientamenti successivi. Opera innovativa, se si tiene conto della riluttanza fino ad allora mostrata da gran parte degli studiosi cattolici ad entrare in discussione con le istanze della critica mitteleuropea.
    1 Der sogenannte historische Jesus und der geschichtliche, biblische Christus, Munchen, Kaiser, 1956; trad. ital. Napoli, D’Auria, 1993.
    2 Jesus, Berlin, Deutsche Bibliothek, 1929; trad. ital. Gesù, Brescia, Queriniana, 1972, p. 103.
    3 Vita di Gesù con una introduzione critica, Milano, Rizzoli, 1941, e successive ristampe e riedizioni a cura di diverse case editrici.
    4 In Italia, con prefazione di Vittorio Messori, Milano, Mondadori, 1996.
    La nuova ricerca sul Gesù storico (1953-1975)
    La reazione al pessimismo di Bultmann avvenne per bocca dei suoi discepoli, in occasione di una riunione di suoi ex-allievi di Marburgo. In particolare, Ernst Käsemann si espresse contro Bultmann nel 1953 con un noto articolo dal titolo Il problema del Gesù storico1. Qui l’autore avanza tre tesi importanti: 1) Venendo meno ogni connessione tra il Cristo della fede e il Gesù della storia il cristianesimo diviene un mito astorico, e l’annuncio cristiano un annuncio docetista. 2) Se la Chiesa antica aveva così poco interesse per la storia di Gesù, perché produsse i Vangeli, con quel forte richiamo alla storia ad ogni passo? 3) Anche se i Vangeli sono un prodotto della fede postpasquale, essi richiedono una fiducia nell’identità tra Gesù terreno e Signore risorto. L’intervento di Käsemann può essere considerato la data d’inizio della cosiddetta Nuova ricerca sul Gesù storico.
    La novità di questa «nuova ricerca» non stava tanto nella ricerca stessa, quanto nell’orizzonte teologico in cui essa si inseriva: la «vecchia» ricerca liberale aveva puntato ad un Gesù storico, contrapponendolo alla predicazione dei suoi discepoli; Bultmann aveva capovolto questa impostazione puntando sulla predicazione, resa indipendente dal Gesù storico; la «nuova ricerca» voleva ricomporre la frattura tra i due elementi.
    A Käsemann dobbiamo l'elaborazione di una serie di criteri grazie a cui sarebbe possibile, dai Vangeli, risalire al Gesù storico e pronunciarsi, con un buon grado di probabilità, sulla storicità effettiva di questo o quel detto o fatto di Gesù. Il metodo di Käsemann fu riassunto nei suoi Saggi esegetici2.
    Il maggior teorico della New Quest fu James Robinson con il suo La nuova ricerca del Gesù storico3; il primo post-bultmanniano a pubblicare un completo studio storico su Gesù (tuttora valido) secondo la nuova corrente fu nel 1956 Günther Bornkamm, con il suo Gesù di Nazaret4. Nel frattempo, le posizioni scettiche di Bultmann trovarono sempre meno approvazione, come traspare dal volume intitolato Il Gesù della storia ed il Cristo del Kerygma, pubblicato nel 1960 e contenente saggi di J. Jeremias, J. L. Hromàdka, N. A. Dahl, B. Reicke, P. Althaus, O. Cullmann, W. Grundmann, O. Michel, W. Michaelis, H. Riesenfeld, L. Goppelt, G. Delling5. Due noti trattati nati sulla scia di questo orientamento sono le opere dei cattolici René Latourelle A Gesù attraverso I Vangeli (1978)6 e Francesco Lambiasi L’autenticità storica dei Vangeli (1976)7.
    Nella sua Teologia del Nuovo Testamento Leonhard Goppelt si allontanava in questo modo dalla teologia di Bultmann:
    Per la tradizione dei Vangeli è di primaria importanza l'integrazione tra il ministero terreno di Gesù e il kérygma [= messaggio della Chiesa primitiva], in modo che il primo diventi la base che sostiene il secondo. Questa «reminiscenza» di Gesù rimane, in modo particolare nei grandi Vangeli, l'intenzione primaria [...] Se vogliamo esporre la teologia neotestamentaria mantenendone la struttura intrinseca, dobbiamo porre anzitutto il problema del Gesù terreno8.
    Trent’anni dopo l’opera di Käsemann, Ed Parish Sanders scriveva, in aperta opposizione al vecchio giudizio di Bultmann:
    L’orientamento prevalente oggi sembra il seguente: noi possiamo conoscere molto bene ciò che Gesù stava per compiere, possiamo conoscere una buona parte di quel che disse e questi due aspetti diventano significativi all'interno del giudaismo del primo secolo9.
    1 Das Problem des historischen Jesu, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche» LI (1954), pp. 125-153; trad. ingl. The Problem of Historical Jesus, in Essays on New Testament Themes, SBT 41, London, 1964, pp. 15-47.
    2 Trad. ital. Casale Monferrato, 1985.
    3 A New Quest of the Historical Jesus, London, SCM, 1959; trad. ital. della II edizione tedesca (1967) Kerygma e Gesù storico, Brescia, Paideia, 1977.
    4 Jesus von Nazareth, Stüttgart, Kohlhammer, 1956; trad. ital. Gesù di Nazaret, Torino, Claudiana, 19772.
    5 H. RISTOW – K. MATTHIAE (a cura di), Das historische Jesus und der kerygmatische Christus, Berlin, Evangelische Verlagsanstalt, 1960.
    6 L’accès à Jésus par les Evangiles, histoire et herméneutique, Tournai, Desclée, 1978; trad. ital. Assisi, Cittadella, 19883.
    7 II edizione Bologna, EDB, 1986. Anche Gesù di Nazaret. Una verifica storica, Casale, Marietti, 1983.
    8 Theologie des Neuen Testaments, Gottingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1976; trad. ital. Teologia del Nuovo Testamento, Brescia, Morcelliana, 1982-1983, vol. I, p. 65.
    9 Jesus and Judaism, London, SCM, 1985, p. 2; trad. ital. Gesù e il giudaismo, Genova, Marietti, 1992.
    La terza ricerca sul Gesù storico
    Da qualche tempo si parla di una «terza ricerca» del Gesù storico; il nome pare sia stato coniato da Tom Wright per indicare un nuovo indirizzo ed impulso alla ricerca del Gesù storico, dopo un periodo di stagnazione della precedente indagine:
    Mentre la cosiddetta New Quest stava ancora cautamente discutendo su presupposti e metodi, producendo lunghissime storie della redazione da cui si poteva spremere una o due gocce in più di autentico materiale gesuano, un movimento totalmente diverso iniziava in luoghi diversi e senza alcuna premessa o programma unificato. Fortificati dai materiali giudaici, ora più disponibili, questi studiosi lavorarono come storici, convinti che è possibile conoscere moltissimo di Gesù di Nazaret e che vale la pena di farlo1.
    Questa nuova scuola rivolge tre critiche alla precedente: l’eccessiva analiticità e importanza della storia delle forme, che rischia di isolare le forme letterarie dal contesto; i rischi dell’utilizzo dei criteri di dissomiglianza di Gesù dall’ambiente giudaico e dalla Chiesa, che rischiano di creare una sorta di Gesù estrapolato dal suo ambiente (criteri che discuteremo più avanti); l’enfasi posta sulla teologia dell’annuncio evangelico come criterio per il recupero di Gesù. Per quanto riguarda il rapporto tra storia e teologia, si va dall’opposizione astiosa di un E. P. Sanders alla auspicata sospensione metodologica di J. P. Meier. I detti ed i fatti di Gesù vengono collocati in un quadro storico più ampio, e si incoraggia un confronto con altre scienze, tra cui quelle sociali.
    La terza ricerca ha sfatato alcuni luoghi comuni della ricerca precedente, ad esempio nella tendenza a negare (nella Old Quest) o demitizzare (New Quest) i racconti miracolosi, dei quali cerca di ritrovare non la spiegazione scientifica o metafisica, bensì la loro percezione popolare. Si afferma generalmente in modo più fiducioso il valore storico delle fonti primarie, i Vangeli canonici; lo studioso ebreo David Flusser all’inizio della sua monografia su Gesù scriveva:
    Questo libro è stato anzitutto scritto per dimostrare che è possibile scrivere una vita di Gesù. Certo, possediamo più notizie sugli imperatori a lui contemporanei e su alcuni poeti romani, ma accanto allo storico Giuseppe Flavio e forse Paolo, Gesù è l’ebreo post-testamentario sulla cui vita e dottrina siamo meglio informati2.
    Al di là di questi lati comuni, i tentativi indicati sotto questa etichetta non sono tali da identificare una prospettiva completamente unitaria. L’istanza di valorizzare maggiormente l’ebraicità di Gesù, presentata come paradigma comune di questa ricerca, va in direzione diametralmente opposta alla sopravvalutazione del Vangelo di Tommaso operata da alcuni, che sfocia in una sorta di Gesù quasi «gnostico», puramente sapienziale, la cui ebraicità è pesantemente cancellata. La mentalità refrattaria alla dimensione escatologica, storico-salvifica e cristologica ci riporta alle consuete alternative tradizionali, più che ad un approccio nuovo. Certe esasperate rappresentazioni di Gesù (rivoluzionario o pacifista, restauratore di Israele, stoico-cinico o mago) paiono ricordare la varietà delle figure tratteggiate dalla Leben Jesu Forschung tardo ottocentesca.
    Nonostante le solenni dichiarazioni di neutralità storica, dietro agli sforzi di ricostruire il Gesù storico talora affiorano le motivazioni ideologiche: neo-positivismo (E. P. Sanders), teologia della liberazione (Marcus J. Borg3, Douglas E. Oakman4, Richard A. Horsley5), rapporto con l’ebraismo in senso troppo giudaizzante (E. P. Sanders) o troppo poco (J. D. Crossan).
    Il differente peso dato alle varie componenti della tradizione di Gesù ed al suo sfondo sociopolitico, culturale e religioso, può creare figure unilaterali di Gesù. Privilegiando la tradizione dei miracoli da un lato e i papiri magici dell’altro, si ha un Gesù mago (Morton Smith6) o un pio taumaturgo ed esorcista (G. Vermes); privilegiando la tradizione dei detti sapienziali a discapito di quelli escatologici emerge un Gesù sapiente (F. Gerald Downing7, J. D. Crossan), oppure, seguendo il procedimento opposto, un profeta escatologico (Ben F. Meyer8, E. P. Sanders, J. Charlesworth). L’accento sulla tradizione della morte di Gesù ne può fare un rivoluzionario prozelota (Samuel G. F. Brandon9) o un pacifista vittima dell’oppressione; l’attenzione al contesto giudaico ne fa un Rabbi (David Flusser10, Bruce D. Chilton11) o un fariseo illuminato (Harvey Falk12), mentre l’attenzione a quello ellenistico lo dipinge come un filosofo cinico (F. G. Downing, Burton L. Mack13, J. D. Crossan). L’enorme varietà dei risultati non pone in questione il valore storico dei Vangeli, ma piuttosto la varietà dei metodi e delle opzioni degli studiosi.
    A titolo esemplificativo, si potranno esaminare un po’ più da vicino le letture di quattro autori della Third Quest, scegliendo tra coloro le cui opere hanno avuto maggior risonanza tra il pubblico non specializzato:
    Lo studioso ebreo Geza Vermes nel suo Gesù l’ebreo (1973)14 e nelle opere successive si propone di porre il ministero di Gesù nell’ambiente giudaico del I secolo; egli è convinto di poter dimostrare la fondatezza dei racconti evangelici, se proiettati sullo sfondo del materiale giudaico parallelo. In breve, la tesi dell’autore è che la figura di Gesù corrisponde a quella dei rabbi carismatici, in particolare Honi e Hanina ben Dosa. La sua analisi dei vari titoli attribuiti a Gesù cerca di dimostrare come possano tutti essere inquadrati nella descrizione dell’uomo carismatico. Nello stesso tempo, in conclusione del lavoro, afferma la «incomparabile superiorità» di Gesù sugli altri venerandi «santi» galilei, lasciando aperto l’interrogativo: se Gesù rimane diverso e superiore, come spiegarlo, e chi è?
    Ed Parish Sanders15 descrive Gesù come un uomo che condivise la speranza escatologica ebraica come l’attesa di un grande intervento di Dio per la restaurazione di Israele, radicalizzandola e proclamandola imminente; la sua condanna a morte sarebbe stata suscitata dal timore provato dagli Ebrei nel veder crescere il suo movimento. Sanders, come altri studiosi ebrei (M. Buber) o «laici» (tra i quali, nella prima metà del XX secolo, gli italiani postmodernisti Omodeo, Salvatorelli, Martinetti, Parente) ritiene storica la predicazione escatologica e la rivendicazione messianica di Gesù (in opposizione a Vermes). Sanders rigetta la visione di Gesù come santo o maestro, che non spiega le conseguenze della sua attività pubblica - specie la morte - per quella di un Gesù restauratore di Israele; la sua lettura di Gesù come profeta escatologico è molto vicina a quella di A. Schweitzer16. Sanders è stato criticato per il suo metodo, e per aver minimizzato od accantonato alcuni dati assodati della ricerca; inoltre egli ha programmaticamente escluso dalla sua analisi pagine e pagine di racconti evangelici, non sottoponendo alla medesima critica le fonti ebraiche più tardive17.
    John Dominic Crossan ha fondato nel 1985 con Robert W. Funk il Jesus Seminar, che ha raccolto un gruppo di studiosi della Bibbia (quasi tutti americani) che si sono riuniti per diversi anni votando con palline colorate il grado di fedeltà al vero insegnamento di Gesù di quanto è riportato nei Vangeli. Una pallina rossa significa “Gesù lo ha detto sicuramente”; quella rosa “Pare che possa averlo detto”; quella grigia “Probabilmente non l’ha detto”, e quella nera “Gesù non lo avrebbe mai detto”. Ne è risultata la monografia The Five Gospels: What Jesus Really Said (I cinque Vangeli: che cosa Gesù ha detto veramente)18, un’edizione dei Vangeli "a colori", in cui ogni frase riportata è colorata secondo quel criterio. Essi conclusero che l’82% dei detti attribuiti a Gesù non fu realmente pronunciato da lui; della preghiera del Padre nostro, ad esempio, furono considerate autentiche due parole solamente: “Padre nostro”, appunto19. Il titolo I cinque Vangeli allude al Vangelo di Tommaso, che conterrebbe gli insegnamenti più autentici di Gesù; questo va di pari passo alla descrizione dell’attività di Gesù come risposta alla situazione sociale contemporanea del mondo ebraico (stranamente, dato il carattere metastorico del medesimo). La conclusione è quella di un Gesù predicatore di un Regno che non va compreso in senso apocalittico, bensì etico-sapienziale. Crossan ha pubblicato anche un Gesù. Una biografia rivoluzionaria (1993)20. Gesù è dipinto come un rivoluzionario sociale e femminista, con la volontà di sovvertire le strutture gerarchiche del tempo, praticante la magia in opposizione al culto del Tempio; i tratti della sua predicazione escatologica sono negati, sostituiti da una predicazione volta a scoprire il regno di Dio presente nell’esperienza umana di ciascuno. Il lavoro del Seminar si è attirato molte severe critiche, oltre che per i metodi seguiti, a causa della improbabile colorazione gnostica e cinica di Gesù, e della negazione dell’escatologia futura, così radicata in testi evangelici e forme letterarie diverse. Si tratta forse del peggior esempio degli aspetti fuorvianti della Third Quest, i cui risultati, malamente volgarizzati, hanno alimentato una vasta produzione di materiale giornalistico e cinematografico (si ricordi, ad esempio, il film Stigmate, che si rifà all’idea del Quinto vangelo presentata dallo Jesus Seminar).
    John P. Meier ha iniziato nel 1991 un’opera in quattro volumi (tre usciti) dal titolo Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico21, nella quale si può trovare una equilibrata discussione sui principi metodologici e critici della ricerca, con una lunga discussione preliminare sulle fonti giudaiche, pagane ed apocrife (quest’ultime eccessivamente sopravvalutate in ambiente americano, ma qui, forse proprio allo scopo di opporsi a questa sopravvalutazione, talora troppo dequalificate).
    1 S. NEILL – T. WRIGHT, The Interpretation of the New Testament, Oxford, Oxford University Press, 19882, p. 379.
    2 Jesus, Reinbek, Rowohlt, 1968; trad. ital. sull’ultima edizione tedesca Jesus, Brescia, Morcelliana, 1997 (da evitare la precedente traduzione dell’editrice Lanterna, 1976).
    3 Conflict, Holiness and Politics in the Teachings of Jesus, New York, Edwin Mellen Press, 1984; Jesus, a new Vision. Spirit, Culture, and the Life of Discipleship, San Francisco, Harper, 1987.
    4 Jesus and the Economic Questions of his Day, Lewiston, Edward Mellen Press, 1986.
    5 Sociology and the Jesus Movement, New York, Crossroad, 1989; Jesus and the Spiral of Violence. Popular Jewish Resistance in Roman Palestine, Minneapolis, Fortress, 1993.
    6 Jesus the Magician, San Francisco, Harper, 1978; trad. ital. Gesù mago, Roma, Gremese, 1990.
    7 Jesus and the Threat of Freedom, London, SCM, 1987.
    8 The Aims of Jesus, London, SCM, 1979.
    9 Jesus and the Zealots. A Study of the Political Factor in Primitive Christianity, Manchester, Manchester University Press, 1967; trad. ital. Gesù e gli Zeloti, Milano, Rizzoli, 1983.
    10 Jesus, Reinbek, Rowohlt, 1968; trad. ital. sull’ultima edizione tedesca Jesus, Brescia, Morcelliana, 1997 (da evitare la precedente traduzione dell’editrice Lanterna, 1976).
    11 A Galilean Rabbi and his Bible. Jesus' Use of the Interpreted Scripture of his Time, Wilmington, Glazier, 1984; Jesus in Context. Temple, Purity and Restoration, Leiden, Brill, 1997.
    12 Jesus the Pharisee. A new Look at the Jewishness of Jesus, New York, Paulist Press, 1985.
    13 A Myth of Innocence. Mark and Christian Origins, Philadelphia, Fortress, 1991.
    14 Jesus the Jew, London, Collins, 1973; trad. ital. Milano, Borla, 1983. Anche Jesus and the World of Judaism, London, SCM, 1983; The Religion of Jesus the Jew, London, SCM, 1993; I volti di Gesù, Milano, Bompiani, 2000.
    15 Jesus and Judaism, London, SMC, 1985 (trad. ital. Gesù e il giudaismo, Genova, Marietti, 1992); Gesù, la verità storica, Milano, Mondadori, 1995 (dal titolo inglese assai meno accattivante The Historical Figure of Jesus, London, Allen Lane, 1993).
    16 Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Brescia, Paideia, 1986 (ediz. origin. Tübingen, Mohr, 1913).
    17 Cfr. ad esempio la critica di G. SEGALLA, Gesù, profeta escatologico della restaurazione di Israele?, in «Studia Patavina» XL (1993), pp. 83-102; ristampato in Id., Sulle tracce di Gesù, Assisi, Cittadella, pp. 265-295.
    18 New York, MacMillan, 1993.
    19 In Marco solo il “Date a Cesare” (17,22). In Matteo: 5,38-39 "Porgi l’altra guancia"; 13,33 parabola del lievito; 20,1-15 parabola dei vignaiuoli; 22 il “Date a Cesare”. Delle beatitudini, fu accettato solo il “Beati gli affamati, i poveri ed i tristi”. In Luca 2,20 le medesime beatitudini; 6,27 “Amate i vostri nemici”; 6,29 il discorso del “Porgi l’altra guancia”; 10,30 il buon Samaritano; 13,20 parabola del lievito; 16,1 parabola dell’amministratore astuto. Giovanni è del tutto ignorato.
    20 Jesus. A Revolutionary Biography, San Francisco, Harper, 1994; trad. ital. Firenze, Ponte alle Grazie, 1994.
    21 A Marginal Jew. Rethinking the Historical Jesus, New York, Doubleday, 1991; Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, Brescia, Queriniana, 2001-
    Fonti e criteri di storicità
    La ricerca dell’ultimo cinquantennio è stata propiziata da uno studio nuovo delle fonti già note e dalla scoperta di fonti nuove, soprattutto quelle di Qumràn e di Nag Hammadi, e dal materiale proveniente dagli scavi archeologici 1.
    Occorre distinguere tra le fonti dirette su Gesù e quelle indirette, che contribuiscono a ricostruire l’ambiente sociale, politico, religioso ed economico in cui Gesù visse. Tra le fonti dirette, anzitutto i Vangeli e gli scritti non cristiani che menzionano Gesù (Flavio Giuseppe, Tacito, Svetonio, le fonti giudaiche, etc.). La novità maggiore sta nello studio delle fonti indirette, giudaiche (apocrifi dell’Antico Testamento, rotoli del Mar Morto, scritti di Flavio Giuseppe, Targum, scritti rabbinici) e greche (papiri magici greci e fonti della scuola stoico-cinica, da utilizzare con attenzione), e nell’utilizzo delle recenti scoperte archeologiche.
    Nello studio delle fonti vengono applicati metodi diversi: quello storico-critico, che è il medesimo applicato per qualsiasi altro testo dell’antichità, quello storico-letterario (li esaminiamo nella sezione dedicata al Nuovo Testamento) e quello sociologico. Per quanto riguarda l’approccio ai Vangeli, gli studiosi hanno cercato di individuare dei criteri per valutare ciò che in essi proviene da Gesù stesso, per distinguerlo dalla tradizione della Chiesa primitiva; tra i tanti proposti ricordo:
    Criterio dell’imbarazzo (o contraddizione): È molto improbabile che la Chiesa abbia creato qualcosa che le causasse imbarazzo. La tendenza negli stadi successivi della tradizione è piuttosto quella di attenuarlo (ad esempio, il battesimo di Gesù da parte di Giovanni, che poteva offuscare la superiorità di Gesù di fronte al Battista). Ma non necessariamente ciò che a noi può sembrare imbarazzante lo era per la Chiesa primitiva.
    Criterio della discontinuità (o dissomiglianza o originalità o doppia irriducibilità): Sono da ritenersi storicamente autentici i dati evangelici non riconducibili né alle concezioni del giudaismo, né al linguaggio, alla prassi e al pensiero della Chiesa delle origini. Questo criterio è stato recentemente un po’ ridimensionato, in quanto la sua applicazione radicale fa di Gesù un isolato dall’ambiente di origine e separato dalla Chiesa che lo considera suo fondatore, insistendo troppo sulla unicità e sulla superiorità di Gesù su di essi. Si tende allora a ritenerlo comunque valido in senso positivo e non in negativo: con questo criterio si può stabilire un nucleo sicuro di detti o fatti a Gesù certamente attribuibili, ma non si possono escludere gli altri in blocco. D'altra parte occorre ricordarsi che la nostra conoscenza del giudaismo e del cristianesimo dell'epoca è pur sempre imperfetta.
    Criterio della molteplice attestazione: È da considerare probabilmente storico ciò che è attestato unanimemente da più tradizioni neotestamentarie (e/o non neotestamentarie) o che si può ritrovare presente in più forme differenti (narrazioni, controversie, discorsi, ecc.). Occorre però tener conto che l’attestazione di una singola fonte non è un motivo sufficiente per escludere un racconto, e non è impossibile che un detto non autentico ma molto antico sia potuto entrare in più linee della tradizione (relativa antichità quindi, non gesuanità).
    Criterio della coerenza (o concordanza): Sono considerati probabilmente autentici i detti o le azioni conformi all'ambiente o all'epoca di Gesù e coerenti con il suo insegnamento, la sua prassi e la sua immagine in generale. Questo criterio interviene dopo che una certa quantità di materiale storico è stato isolato dai criteri precedenti. Va comunque ricordato che la predicazione di Gesù, che non ci è nota in forma di esposizione di una dottrina sistematica, non sempre può essere valutata sulla base di questo criterio.
    Criterio di spiegazione necessaria (o sufficiente): Sono probabilmente storici quegli elementi la cui autenticità è necessario riconoscere per comprendere altri elementi storicamente accertati. Questo criterio può avere una duplice funzione: da una parte, utilizzando dati già certi, esso cerca di individuare una spiegazione necessaria dei fatti, che sia coerente e sufficiente, la quale illumini e disponga armoniosamente tutti questi elementi (che altrimenti rimarrebbero inspiegabili); dall'altra, quando l'interpretazione necessaria è nota, può essere di aiuto nell'isolare gesti e parole che la supportino. È il caso della spiegazione del perché Gesù fu sottoposto al supplizio capitale (qualcuno parla di un apposito criterio del rifiuto e dell'esecuzione): c'è già un dato di fatto (ovvero la condanna a morte di Gesù da parte delle autorità): il compito diviene quello di cercare gli elementi nei testi che la giustificano. Allo stesso modo, quei dati storici la cui autenticità è già stata verificata servono a spiegarci il motivo della sua condanna, e ne confermano indirettamente la storicità. Non può in questo senso essere storico un Gesù blando, semplice creatore di simboli che parlava per enigmi e non minava alle radici le persone, specie le autorità giudaiche e romane che ne decretarono la morte; la sua esecuzione, infatti, risulterebbe incomprensibile.
    Alcuni autori preferiscono raggruppare alcuni dei criteri precedenti sotto una denominazione unica: è il caso del criterio di plausibilità storica degli effetti esercitati da Gesù sulla tradizione e del contesto storico in cui egli ha operato.
    Occorre riaffermare che l'applicazione di questi criteri, i quali hanno un valore diverso tra loro, non è assolutamente meccanica, ma tiene conto di diversi fattori e gradi di probabilità. Essi, inoltre, vengono utilizzati in modo convergente: cum plurima cuncurrunt, maiora sunt indicia.
    1 Per la documentazione, J. H. CHARLESWORTH, The Historical Jesus in Light of Writings Contemporaneous to Him, in «Aufstieg und Niedergang der römischen Welt» II,25/1 (1982), pp. 451-456; Gesù nel giudaismo del suo tempo alla luce delle più recenti scoperte, Torino, Claudiana, 19982 (ediz. orig. 1988); Jesus’ Jewishness. Exploring the Place of Jesus in Early Judaism, Philadelphia, American Interfaith Institute, 1991; Gesù e la comunità di Qumràn, Casale, Piemme, 1997 (ediz. orig. 1992).
    Osservazioni conclusive
    È evidente che la Ricerca su Gesù (Jesus research), o Indagine sul Gesù storico (Quest for the Historical Jesus) ha assunto da cinquant’anni un andamento diverso dal passato, assai produttivo.
    È senz'altro esatto che non si può pensare di poter scrivere una precisa biografia di Gesù nel senso moderno del termine; tuttavia è possibile risalire in una certa misura al Gesù della storia (non al Gesù degli storici!) ed alla sua predicazione. In primo luogo, sono le fonti che ci vietano di limitarci al kérygma della Chiesa primitiva: ogni versetto del Vangelo ci attesta che l'origine del cristianesimo non è la predicazione della Chiesa, né l’esperienza pasquale dei discepoli, né un’idea del Cristo. L'origine del cristianesimo è un avvenimento storico, e precisamente la comparsa dell'uomo Gesù di Nazareth, crocifisso sotto Ponzio Pilato, ed il suo messaggio.
    Scrive in proposito James H. Charlesworth:
    È evidente che gli evangelisti non erano interessati in via prioritaria a far sapere chi era stato il Gesù storico e che cosa aveva detto e fatto; ma sostenere che gli autori del Nuovo Testamento non s'interessavano affatto alle parole e alle azioni di Gesù anteriori alla sua morte sul Calvario, non esprime la loro posizione. Alcuni aspetti particolari della vita di Gesù erano essenziali alla vita quotidiana e alla riflessione dei suoi primi seguaci. Dalla vita di Gesù - come dalle antiche tradizioni formative - essi appresero come pensare, predicare, insegnare, sopportare sofferenze e perfino il martirio. Racconti su quello che Gesù aveva detto e fatto erano condivisi dai testimoni oculari, i quali ovviamente tendevano ad abbellire il racconto, ma dobbiamo ricordare che avevano anche una memoria eccezionale. Oggi noi studiosi passiamo così tanto tempo a leggere le fonti storiche primarie e la bibliografia secondaria da non possedere più la fertile memoria degli antichi, o di quelle persone che ancora oggi, nel Medio Oriente, sono in grado di recitare a memoria la Torah, il Corano o l'Iliade parola per parola1.
    1 Jesus within Judaism. New Light from Exciting Archaeological Discoveries, Garden City, Doubleday, 1988; trad. ital. Gesù nel giudaismo del suo tempo alla luce delle più recenti scoperte, Torino, Claudiana, 1994, p. 27.
    Bibliografia
    Una sintetica esposizione dei risultati dello studio storico di Gesù è J. P. MEIER, Gesù, in R. E. BROWN – J. A. FITZMYER – R. E. MURPHY, Nuovo grande commentario biblico, trad. ital., Brescia, Queriniana, 1997, pp. 1730-1746, con una bibliografia generale.
    Del medesimo autore, l’opera attesa in quattro volumi A Marginal Jew. Rethinking the Historical Jesus, New York, Doubleday, 1991- (usciti i primi tre: The Roots of the Problem and the Person; Mentor, Message, and Miracles; Companions and Competitors); trad. ital. Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, Brescia, Queriniana, 2001- (Le radici del problema e della persona; Mentore, messaggio e miracoli; Compagni e antagonisti).
    Un panorama sulla storia della ricerca su Gesù con particolare attenzione per le moderne tendenze in G. SEGALLA, Sulle tracce di Gesù, Assisi, Cittadella, 2006.
    Una ottima monografia a più mani sui diversi aspetti della ricerca moderna: A. PITTA (a cura di), Il Gesù storico nelle fonti del I-II secolo, Bologna, Dehoniane, 2005 (Ricerche Storico-Bibliche 17/2). Leggi recensione.
    Molto utile sulla metodologia di ricerca e per la bibliografia V. FUSCO, La ricerca del Gesù storico. Bilancio e prospettive, in R. FABRIS (ed.), La Parola di Dio cresceva, Bologna, EDB, 1998 (Supplementi alla Rivista Biblica 33), pp. 487-519, con bibliografia ragionata.
    V. FUSCO, Introduzione generale ai Sinottici, in M. LACONI (a cura di), Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli (Logos. Corso di studi biblici, vol. 5), Torino, LDC, 1994, pp. 33-132.
    G. BARBAGLIO et alii, Conoscenza storica di Gesù. Acquisizioni esegetiche e utilizzazioni nelle cristologie contemporanee, Brescia, Paideia, 1978.
    G. BARBAGLIO, Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica., Bologna, EDB, 2002.
    Interventi di più autori sull’argomento sono raccolti in D. MARGUERAT – E. NORELLI – J. M. POFFET (a cura di), Jésus de Nazareth. Nouvelles aproches d’une énigme, Genève, Labor et Fides, 1998.
    J. GNILKA, Gesù di Nazaret. Annuncio e storia, trad. ital., Brescia , Paideia, 1993.
    D. GEORGI, Leben Jesu Teologie e Leben Jesu Forschung, in «Theologische Realenzyklopädie» XX (1990), pp. 566-576.
    G. PIROLA – F. COPPELLOTTI (a cura di), Il Gesù storico. Problema della modernità, Casale Monferrato, Piemme, 1988.
    B. CHILTON – C. A. EVANS, Studying the Historical Jesus. Evaluation of the State of Current Research, Leiden, Brill, 1994.
    Per una ricognizione delle pubblicazioni specializzate su Gesù, C. A. EVANS, Life of Jesus Research. An Annotated Bibliography, Leiden, Brill, 1996.
    Collegamenti
    Per approfondire il tema della cosiddetta “Terza ricerca” sul Gesù storico, si veda di John P. MEIER, professore alla University of Notre Dame, l’articolo The Present State of the “Third Quest” for the Historical Jesus: Loss and Gain, in «Biblica» LXXX (1999), pp. 459-487.
    In esso l’autore esamina i lati positivi e negativi di questa indagine, concentrandosi sugli studi di area anglofona. Tralasciati i discutibili assunti dello Jesus Seminar, la “terza ricerca” del Gesù storico ha apportato alcuni significativi contributi: il suo carattere ecumenico ed internazionale, la chiarificazione del problema dell’affidabilità delle fonti, l’immagine più esatta del giudaismo del I secolo, l’uso delle nuove acquisizioni dell’archeologia, della filologia e della sociologia, il chiarimento dei criteri di storicità, la giusta attenzione alle tradizioni dei miracoli e il carattere giudaico di Gesù.
    Armand PUIG I TÀRRECH, della Facultad de Teologia de Catalunya, La recherche du Jésus historique, in «Biblica» LXXXI (2000), pp. 179-201.
    La ricerca per il Gesù storico è compito dello storico, ma egualmente interessa il teologo e l’esegeta. Le fonti e la verifica della loro storicità meritano un’attenzione speciale. Il criterio della plausibilità storica, recentemente formulato da G. Theissen, supera le prospettive metodologiche adottate fino ad oggi. Si ripropone il problema dello studio del rapporto fra storia e fede, che è stato interrotto con l’Illuminismo, e dell’analisi della continuità tra Gesù e la sua Chiesa primitiva.
    Vittorio FUSCO (+), della Facoltà teologica dell’Italia meridionale, Passato e futuro nella «Ricerca del Gesù storico», in Acta Pontificii Instituti Biblici 1998-99, pp. 605-613.
    L’interesse per la ricerca storico-critica sulla figura di Gesù era già presente in nuce nella Chiesa antica. Difficoltà di raggiungere un consenso nelle varie interpretazioni, e riproposizione di vecchie teorie talora spacciate per nuove. Due paradigmi ricorrenti: Gesù come predicatore escatologico ebraico, o Gesù non-escatologico, puramente etico-sapienziale. La fede degli storici ha stimolato, ha alimentato la razionalità storica, senza minimamente svuotarla delle esigenze metodologiche che le sono proprie.
    Hugo STAUDINGER (+), professore di storia alle Università di Münster e Paderborn, Arbitrarietà dell'alternativa fra il «Gesù storico» e il «Cristo kerygmatico», in Credibilità storica dei Vangeli, Bologna, EDB, 1991, pp. 11-20.
    Nel commento di un teologo quelli che a suo parere sono i limiti della distinzione tra il Gesù storico ed il Cristo della fede (o kerigmatico). Porre l'alternativa se i Vangeli costituiscano un messaggio di salvezza oppure una testimonianza di eventi storici è porre la domanda in modo sbagliato. Carattere specifico dei racconti evangelici. Utilità della distinzione fra gli avvenimenti storici e le interpretazioni teologiche ad essi connesse.
    Birger A. PEARSON, professore emerito di Studi Religiosi alla University of California, Santa Barbara, The Gospel According to the Jesus Seminar.
    Analisi critica della metodologia e dei risultati del Jesus Seminar e delle sue pubblicazioni dei «Cinque Vangeli».







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    Testimonianze extracristiane
    Data: Mercoledì, 15 agosto 2001 @ 12:00:00 CEST
    Argomento: Il Gesù della storia e i suoi seguaci

    sulla persona di Gesù di Nazareth e sulla Chiesa primitiva
    di Andrea Nicolotti
    Tutte le testimonianze storiche e le reminescenze su Gesù e sulla Chiesa secondo le fonti non cristiane dei primi due secoli.



    Sommario
    Introduzione
    Natività - Bassorilievo di Jacopo della Quercia, Portale della Chiesa di S. Petronio, Bologna
    Il presente capitolo si prefigge di raccogliere tutte le testimonianze storiche e tutte le reminiscenze sulla persona di Gesù di Nazareth e sui primi Cristiani, quali rinvenibili negli scritti di autori non cristiani dei primi due secoli dell’era volgare.
    Certamente tali testimonianze sono assai poche di fronte all’abbondanza delle fonti cristiane che trattano delle origini del cristianesimo; tuttavia, ciò non genera stupore nello storico, il quale è ben avvezzo a simili “penurie” di fonti. Gli scrittori non direttamente interessati a questa nuova fede, infatti, tendono a disinteressarsi di un fenomeno che per i primi tempi viene visto semplicemente come una questione religiosa interna al popolo ebraico. L’attenzione per il fenomeno cristiano nascerà solamente quando esso acquisterà una certa rilevanza sociale, tale da farlo balzare innanzi agli occhi di tutti.

    Per questo motivo, vedremo che le prime testimonianze non cristiane entrarono a far parte degli scritti dell’epoca per necessità pratiche e per motivi spesso contingenti; gli accenni a Gesù ed ai suoi seguaci, quando vengono inseriti in opere redatte in questi primi due secoli, sono digressioni che hanno la funzione di completare la narrazione di altri avvenimenti storici (Tacito, Svetonio), o sono parte di libri storici che trattano specificamente della Giudea (Giuseppe), o ancora sono contenuti all’interno di corrispondenza tra il potere romano centrale e le sue ramificazioni provinciali (Plinio, Adriano) oppure sono spunti polemici o satirici di pagani, Ebrei e filosofi contro i Cristiani (Petronio, Trifone, Apuleio, Marco Aurelio, Luciano, Galeno, Epitteto e Celso). Pertanto, le notizie storiche più interessanti riguardo al cristianesimo antico andranno successivamente ricercate tra gli scritti cristiani.
    Seguono, in ordine cronologico, queste testimonianze, di importanza e valore storico più o meno degno di nota.
    Per due trattazioni significative della questione, si vedano: R. Van Voorst, Gesù nelle fonti extrabibliche, Torino, Edizioni Paoline, 2004; E. Norelli, La presenza di Gesù nella letteratura gentile dei primi due secoli, in A. Pitta (a cura di), Il Gesù storico nelle fonti del I-II secolo, Bologna, Dehnoniane, 2005 (Ricerche Storico Bibliche 17/2), pp. 175-215.
    Giuseppe Flavio
    Giuseppe Flavio.
    Le prime chiare testimonianze storiche sulla persona di Gesù, ci sono tramandate dallo storico giudeo-romano Giuseppe Flavio (37-103 circa), che fu prima legato del Sinedrio, governatore della Galilea e comandante dell’esercito giudaico nella rivolta antiromana, ed in seguito consigliere al servizio dell’imperatore Vespasiano e di suo figlio Tito.
    Nella sua opera Antichità giudaiche (93-94), nella quale narra la storia ebraica da Abramo sino ai suoi tempi, egli fa un accenno indiretto a Gesù; l’occasione gli è fornita dal racconto della illegale lapidazione dell’apostolo Giacomo (detto tradizionalmente il Minore), che era a capo della comunità cristiana di Gerusalemme, avvenuta nel 62, descritto come un atto sconsiderato del sommo sacerdote nei confronti di un uomo virtuoso:
    “Anano […] convocò il sinedrio a giudizio e vi condusse il fratello di Gesù, detto il Cristo, di nome Giacomo, e alcuni altri, accusandoli di trasgressione della legge e condannandoli alla lapidazione” (Ant. XX, 200)1.
    In un altro passo, invece, egli fa menzione della figura di Giovanni Battista; Erode Antipa, per sposare Erodiade moglie del proprio fratello aveva ripudiato la figlia di Arete, re di Nabatene, la quale si rifugiò dal proprio padre. Ne sorse una guerra nel 36 in cui Erode fu sconfitto, e questo è il commento di Giuseppe:
    “Ad alcuni dei Giudei parve che l’esercito di Erode fosse stato annientato da Dio, il quale giustamente aveva vendicato l’uccisione di Giovanni soprannominato il Battista. Erode infatti mise a morte quel buon uomo che spingeva i Giudei che praticavano la virtù e osservavano la giustizia fra di loro e la pietà verso Dio a venire insieme al battesimo; così infatti sembrava a lui accettabile il battesimo, non già per il perdono di certi peccati commessi, ma per la purificazione del corpo, in quanto certamente l’anima è già purificata in anticipo per mezzo della giustizia. Ma quando si aggiunsero altre persone - infatti provarono il massimo piacere nell’ascoltare i suoi sermoni - temendo Erode la sua grandissima capacità di persuadere la gente, che non portasse a qualche sedizione - parevano infatti pronti a fare qualsiasi cosa dietro sua esortazione - ritenne molto meglio, prima che ne sorgesse qualche novità, sbarazzarsene prendendo l’iniziativa per primo, piuttosto che pentirsi dopo, messo alle strette in seguito ad un subbuglio. Ed egli per questo sospetto di Erode fu mandato in catene alla già citata fortezza di Macheronte, e colà fu ucciso”. (Ant. XVIII, 116-119)2.
    È interessante il motivo politico che Giuseppe aggiunge a quello addotto dai vangeli, ovvero le continue rampogne del battista ad Erode per la sua situazione adultera.
    Ma la testimonianza di gran lunga più interessante è contenuta nel capitolo decimottavo della medesima opera, ed è nota tra gli storici come Testimonium flavianum. Essa, a causa della difficoltà di alcune sue affermazioni, fu oggetto di un lungo dibattito fra gli studiosi. Così infatti si presenta nella forma a noi tramandata:
    “Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, sempre che si debba definirlo uomo: era infatti autore di opere inaspettate, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a sé molti Giudei, e anche molti della grecità. Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, coloro che da principio lo avevano amato non cessarono. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunziato i divini profeti queste e migliaia d’altre meraviglie riguardo a lui. Fino ad oggi ed attualmente non è venuto meno il gruppo di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani” (Ant. XVIII, 63-64)3.
    Per molti le affermazioni evidenziate dal carattere corsivo, presentate in tal modo, sembrano essere opera di uno scrittore che crede alla divinità di Gesù, alla sua risurrezione, alla sua qualità di Messia (Cristo) predetto dai profeti; a un giudeo non convertito al cristianesimo, qual era Giuseppe, tali cose sono parse difficilmente ascrivibili.
    Per questo motivo, a partire dal secolo XVI con Gifanio e Osiandro, l’autenticità del passo è stata messa in dubbio da un numero sempre crescente di commentatori, pur non mancando coloro che la difendevano anche tra autori di larga fama, quali F. K. Burkitt4, A. von Harnack5, C. G. Bretschneider e R. H. J. Schutt. Una gran parte di studiosi, invece, non giudicava il Testimonium come totalmente apocrifo, opera di getto d’un cristiano che l’ha inserito in quel punto della storia di Giuseppe, bensì lo riteneva un passo interpolato, scoprendovi il lavorio di una mano cristiana che avrebbe ritoccato volontariamente o involontariamente un tratto autentico delle Antichità6 (per ritocco involontario si allude ad un errore non così raro dei copisti, i quali talora inserivano inopportunamente nel testo alcune annotazioni o glosse marginali, apposte da qualche lettore; della possibilità di tale errore ci informano già gli antichi)7.
    Si è notato che se il passo su Gesù fosse stato costruito a tavolino da un interpolatore cristiano, sarebbe stato verosimilmente inserito subito dopo il resoconto di Giuseppe su Giovanni Battista, mentre in Giuseppe l’accenno a Gesù non segue il racconto di Giovanni. D’altra parte, sarebbe strano che Giuseppe abbia omesso di registrare qualche informazione su Gesù, dato che si occupa del Battista, di Giacomo e di altri personaggi del genere; né il cristianesimo, da storico qual era, gli poteva essere ignoto, essendo a quei tempi penetrato fin nella famiglia imperiale. Quando poi Giuseppe più avanti tratta di Giacomo, invece di indicare come si faceva di solito il nome del padre per identificarlo (Giacomo figlio di …), lo chiama “fratello di Gesù detto il Cristo”, senza aggiungere altro, lasciando intendere che questa figura era già nota ai suoi lettori. Se a ciò si aggiunge che Flavio Giuseppe parla già di altri “profeti” (come appunto Giovanni, oppure Teuda), è perfettamente plausibile che si sia occupato anche di Cristo.
    Esaminando il problema, notiamo che:
    1. Tutti i manoscritti greci delle opere di Giuseppe che noi possediamo dal secolo XI in giù, contengono questo passo nella medesima forma; esso è pure citato due volte dallo storico Eusebio di Cesarea nei primi decenni del IV secolo8. Quindi, a questo proposito, la tradizione testuale è forte.
    2. Origene, alla metà del secolo III, attribuisce al nostro Giuseppe l’affermazione che Gerusalemme fu distrutta per castigo divino in punizione del martirio dell’apostolo Giacomo, aggiungendo: “E la cosa sorprendente è che egli, pur non ammettendo il nostro Gesù essere il Cristo, ciò nondimeno rese a Giacomo attestazione di tanta giustizia” (Commentarium in Matthaeum, X,17)9. Questa notizia pare essere in contraddizione con quanto si legge nel nostro Testimonium. In un’altra opera riprende il medesimo concetto, facendo egualmente rilevare come Giuseppe dica queste cose “sebbene non credente in Gesù come il Cristo” (Contra Celsum, I,47)10. Di qui si ha la conferma di quanto ipotizzato riguardo alla fede non cristiana di Giuseppe. È invece discutibile la conoscenza che Origine mostra delle Antichità: vero è che Giuseppe considera iniqua la condanna sommaria di Giacomo, e la indica come la causa della deposizione del sommo sacerdote Anano da parte dell’autorità romana; egli infatti aveva convocato il sinedrio e pronunciato una condanna a morte senza il permesso del procuratore della Giudea, approfittando del periodo che incorse tra la morte di Festo e l’insediamento del successore Albino. Purtuttavia, Giuseppe Flavio in nessun passo afferma che per il martirio di Giacomo Gerusalemme si attirò la punizione divina, come ci dà ad intendere Origene. Nello stesso errore incorre Eusebio, che attribuisce a Giuseppe la medesima sentenza11. Secondo taluni12, poiché il medesimo Eusebio per i fatti di Giacomo utilizza ampiamente l’antico storico Egesippo13, vi fu una confusione tra le notizie di Egesippo e Giuseppe, forse anche favorita da una certa somiglianza dei nomi (pronunciati in greco rispettivamente Ighìsippos e Iòsipos). Questo ci può far pensare che Origene ed Eusebio non conoscessero a fondo le opere di Giuseppe, per lo meno in questi punti.
    3. Dal lato della critica interna, il linguaggio del Testimonium non è dissonante dallo stile di Giuseppe. Tra i tanti commentatori, è opportuno ricordare H. St. J. Thackeray, il quale trattò a lungo dell’argomento dal punto di vista stilistico e filologico, e da negatore assoluto della autenticità del passo divenne sostenitore della sua sostanziale autenticità, sposando la tesi della parziale interpolazione cristiana14.
    4. Il testo, anche se liberato dalle aggiunte evidenti, conserva un ottimo senso, sia grammaticalmente che storicamente; secondo alcuni le aggiunte cristiane, che spezzano il fluire del discorso, sono tutte in forma parentetica, come se fossero state aggiunte in mezzo ad un testo preesistente. Se eliminate, renderebbero la narrazione più scorrevole. Alcune espressioni, inoltre, difficilmente appartengono ad un Cristiano (ad esempio, quando si dice che Pilato condannò a morte Cristo, si parla di "uomini notabili fra noi", come se l'autore fosse un Giudeo).
    5. Sono state proposte alcune correzioni che renderebbero il testo ancora meno “cristiano”. Ad esempio, la frase “maestro di uomini che accolgono con piacere la verità” potrebbe essere corretta in “maestro di uomini che accolgono con piacere le cose inconsuete” (a causa della somiglianza delle parole greche talêthê = la verità, e taêthê, le cose inconsuete). L’espressione taêthê è poco comune, e poteva essere più facilmente confusa con il più noto talêthê. In questo caso, la descrizione di Gesù come “autore di opere straordinarie” della riga precedente si attaglierebbe benissimo a questa osservazione. Più avanti, nella frase “E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato”, se il kaí iniziale viene tradotto in senso avversativo (=ma) e non come semplice congiunzione (=e), si ha di fronte una considerazione sull’atteggiamento dei Cristiani, i quali avrebbero dovuto secondo l’autore abbandonare Gesù in seguito alla sua morte, ma invece continuarono a seguirlo.

    Una svolta decisiva nell’analisi del testo fu impressa nel 1971 dalla scoperta di una Storia universale scritta in Siria nel X secolo dal vescovo e storico cristiano Agapio di Ierapoli (in Frigia, Asia Minore), che riporta una traduzione araba del Testimonium. Per molti essa rappresenta un testo migliore di quello greco tramandato, compatibile con il pensiero di Giuseppe e privo di quelle affermazioni "cristiane" che sono state contestate dai critici; in tal modo, parve confermare sia la sostanziale autenticità del passo, sia la teoria di coloro che già prima avevano ipotizzato un’interpolazione successiva con i soli metodi della critica interna15.
    Ecco il testo arabo:
    “Similmente dice Giuseppe l’ebreo, poiché egli racconta nei trattati che ha scritto sul governo dei Giudei: “Ci fu verso quel tempo un uomo saggio che era chiamato Gesù, che dimostrava una buona condotta di vita ed era considerato virtuoso (o: dotto), e aveva come allievi molta gente dei Giudei e degli altri popoli. Pilato lo condannò alla crocifissione e alla morte, ma coloro che erano stati suoi discepoli non rinunciarono al suo discepolato (o: dottrina) e raccontarono che egli era loro apparso tre giorni dopo la crocifissione ed era vivo, ed era probabilmente il Cristo del quale i profeti hanno detto meraviglie”16.
    Come è possibile notare da un semplice raffronto tra i due testi, siamo di fronte alle medesime informazioni: tuttavia, mentre nella recensione greca Giuseppe sembra riferire in prima persona le considerazioni “cristiane” nei riguardi di Gesù, quasi le condividesse, in quello arabo egli si limita esclusivamente a riportare quanto i discepoli di Gesù riferivano su di lui. Da parte sua, l’autore testimonia l’esistenza storica di quello che egli chiama in entrambi i testi un “uomo saggio”.
    L’importanza di questo testo forse più “puro” sta nel fatto che è opera di un vescovo cristiano: parrebbe difficile pensare che in uno scrittore cristiano il testo di Giuseppe sia stato modificato in senso minimizzante nei confronti di Gesù. Per cui, probabilmente, Agapio aveva di fronte una migliore recensione del testo di Giuseppe17. “Migliore recensione” non significa “originale”; egli infatti traduceva da una versione siriaca, forse anch’essa viziata da qualche intervento redazionale spurio.
    Alla luce di tutto ciò, i critici moderni sono ormai concordi nel ritenere il passo del Testimonium come sostanzialmente autentico nella sua testimonianza storica di Gesù, sebbene per molti esso ha aver subito prima del secolo IV delle interpolazioni cristiane. E non manca chi, diversamente spiegando le parti cosiddette "cristiane", ritiene che queste interpolazioni non esistano, e che il testo sia interamente autentico (Étienne Nodet, per esempio). L'importante monografia di Serge Badet (favorevole all'autenticità completa) affronta tutti questi problemi ed è un riferimento imprescindibile18. Lucio Troiani ha dimostrato che il testo può anche essere conservato così com'è, senza dover ipotizzare alcuna alterazione cristiana (leggi l'articolo).
    Quanto ci interessa rilevare, in sostanza, è che Giuseppe Flavio cita nelle sue opere storiche tre personaggi evangelici, ovvero Giovanni Battista, Giacomo il Minore e Gesù medesimo, collocando intorno all’anno 30 d.C. l’attività e la morte di quest’ultimo, per mano di Ponzio Pilato su denuncia delle autorità giudaiche dell’epoca.
    NOTE AL TESTO
    1 `O ”Ananoj [..] kaq…zei sunšdrion kritîn kaˆ paragagën e„j aÙtÕ tÕn ¢delfÕn 'Ihsoà toà legomšnou Cristoà, 'I£kwboj Ônoma aÙtù, ka… tinaj ˜tšrouj, æj paranomhs£ntwn kathgor…an poihs£menoj paršdwke leusqhsomšnouj. Ed. B. Niese, Berolini, 1885-1892.
    2 Tisˆ d tîn 'Iouda…wn ™dÒkei Ñlwlšnai tÕn `Hrèdou stratÕn ØpÕ toà qeoà kaˆ m£la dika…wj tinnumšnou kat¦ poin¾n 'Iw£nnou toà ™pikaloumšnou baptistoà. Kte…nei g¦r d¾ toàton `Hrèdhj ¢gaqÕn ¥ndra kaˆ to‹j 'Iouda…oij keleÚonta ¢ret¾n ™paskoàsin kaˆ t¦ prÕj ¢ll»louj dikaiosÚnV kaˆ prÕj tÕn qeÕn eÙsebe…v crwmšnoij baptismù sunišnai: oÛtw g¦r d¾ kaˆ t¾n b£ptisin ¢podekt¾n aÙtù fane‹sqai m¾ ™p… tinwn ¡mart£dwn parait»sei crwmšnwn, ¢ll' ™f' ¡gne…v toà sèmatoj, ¤te d¾ kaˆ tÁj yucÁj dikaiosÚnV proekkekaqarmšnhj. Kaˆ tîn ¥llwn sustrefomšnwn, kaˆ g¦r ¼sqhsan ™pˆ ple‹ston tÍ ¢kro£sei tîn lÒgwn, de…saj `Hrèdhj tÕ ™pˆ tosÒnde piqanÕn aÙtoà to‹j ¢nqrèpoij m¾ ™pˆ ¢post£sei tinˆ fšroi, p£nta g¦r ™ókesan sumboulÍ tÍ ™ke…nou pr£xontej, polÝ kre‹tton ¹ge‹tai pr…n ti neèteron ™x aÙtoà genšsqai prolabën ¢nele‹n toà metabolÁj genomšnhj [m¾] e„j pr£gmata ™mpesën metanoe‹n. Kaˆ Ð mn Øpoy…v tÍ `Hrèdou dšsmioj e„j tÕn Macairoànta pemfqeˆj tÕ proeirhmšnon froÚrion taÚtV kt…nnutai.
    3 G…netai d kat¦ toàton tÕn crÒnon 'Ihsoàj sofÕj ¢n»r, e‡ge ¥ndra aÙtÕn lšgein cr»· Ãn g¦r paradÒxwn œrgwn poiht»j, did£skaloj ¢nqrèpwn tîn ¹donÍ t¢lhqÁ decomšnwn, kaˆ polloÝj mn 'Iouda…ouj, polloÝj d kaˆ toà `Ellhnikoà ™phg£geto· `O CristÕj oátoj Ãn. Kaˆ aÙtÕn ™nde…xei tîn prètwn ¢ndrîn par' ¹m‹n staurù ™pitetimhkÒtoj Pil£tou oÙk ™paÚsanto oƒ tÕ prîton ¢gap»santej· ™f£nh g¦r aÙto‹j tr…thn œcwn ¹mšran p£lin zîn tîn qe…wn profhtîn taàt£ te kaˆ ¥lla mur…a perˆ aÙtoà qaum£sia e„rhkÒtwn. E„j œti te nàn tîn Cristianîn ¢pÕ toàde çnomasmšnon oÙk ™pšlipe tÕ fàlon.
    4 In «Theologisch Tijdschrift» (1913), p. 135 ss.
    5 Der jüdisch Geschichtsschreiber Josephus und Jesus Christus, in «Internationale Monatsschrift für Wissenschaft, Kunst und Technik» VII (1913), coll. 1037-1068. Ma la posizione dell'autore non fu sempre coerente.
    6 Già alla fine del XIX secolo T. REINACH sosteneva questa tesi; cfr. in «Revue des Études juives» XXXV (1897), p. 1 ss. Egli fu uno di coloro che tentarono di recuperare i testo originale espungendo quei passi che parevano inaccettabili. Più recentemente E. Bammel ha tentato anch’egli una ricostruzione, ottenendo il massimo mutamento di significato con minime alterazioni testuali (poche lettere all’interno delle parole); cfr. O. BETZ et alii (a cura di), Josephus Studien, Göttingen, 1974, pp. 9-22. In generale sulle posizioni degli studiosi, cfr. A. M. DUBARLE, L’originalité du témoignage de Flavius Josèphe sur Jésus, in «Recherches des Sciences Religieuses» LII (1964), pp. 177-203, e .
    7 HIERONYMUS, Epistula CVI, 46: "Mi stupisco del fatto che non so qual temerario ha pensato di dover incorporare nel testo una nostra annotazione marginale, che abbiamo scritto per istruzione del lettore [...] Perciò se è stato aggiunto qualcosa a lato per studio, non deve essere incorporato al testo"; ed. J. Labourt, Paris, 1995, pp. 124-125. Vedi anche per lo stesso problema le osservazioni di Galeno (Claudii Galeni opera omnia, ed. C. G. Kühn, Leipzig, 1824, XVI, 202; XVII, 634). Cfr. R. DEVREESSE, Introduction à l'étude des manuscrits grecs, Paris, Imprimerie National, 1954, p. 81.
    8 Historia ecclesiastica I, 11; Demonstratio evangelica III, 3, 105-106.
    9 Kaˆ «tÕ qaumastÒn ™stin» Óti, tÕn 'Ihsoàn ¹mîn oÙ katadex£menoj enai CristÒn, oÙdn Âtton 'IakèbJ dikaiosÚnhn ™martÚrhse tosaÚthn. Ed. E. Klostermann, Leipzig, 1933.
    10 Ka…toi ge ¢pistîn tù 'Ihsoà æj Cristù. Ed. M. Borret, Paris, 1967.
    11 Historia ecclesiastica II, 23, 20.
    12 Ad esempio si veda G. RICCIOTTI, in Flavio Giuseppe, lo storico Giudeo-romano, vol. I, Torino, 19492, p. 157.
    13 Ivi, II, 23, 4-18. Egesippo era uno storico attivo all’epoca dell’imperatore Marco Aurelio (161-180), noto per i suoi cinque libri di Memorie, di cui conserviamo qualche frammento.
    14 L’analisi minuziosa del passo si trova in Josephus: the Man and the Historian, New York, 1929, pp. 136-149. A p. 137 Thackeray afferma: “L’evidenza del linguaggio, che da un lato mostra segni dello stile dell’autore, e dall’altro non è quello che avrebbe usato un cristiano, mi appare decisiva”, e ancora, a p. 142: “Il criterio dello stile fa pendere la bilancia in favore dell’autenticità del passaggio considerato nel suo complesso, se non in ogni dettaglio. Se il testo fu mutilato e modificato, lo fu almeno su una base di Giuseppe”.
    15 Cfr. S. PINÈS, An arabic version of the Testimonium Flavianum and its implications, Jerusalem, 1971.
    16 Traduzione tratta da J. MAIER, Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia, 1994, p. 65.
    17 Invece Pier Angelo Gramaglia, col metodo dell’analisi linguistica e tramite una retroversione greca del testo arabo, sminuisce l’importanza della recensione araba del testo come testimonianza di un testo puro di Giuseppe (Il Testimonium Flavianum. Analisi linguistica, in «Henoch» XX (1998), pp. 153-177). Come si può vedere, la questione è ancora aperta.
    18 É. NODET, Jésus et Jean Baptiste selon Josèphe, in «Revue Biblique» XCII (1985), pp. 321-348 e 497-524; S. BARDET, Le Testimonium Flavianum. Examen historique, considérations historiographiques, Paris, Cerf, 2002. Per una ricognizione delle interpretazioni del passo nei secoli, si veda pure A. WHEALEY, Josephus on Jesus. The Testimonium Flavianum Controversy from Late Antiquity to Modern Times, New York, Lang, 2003; cfr. anche quanto riportato all'indirizzo http://www.josephus.yorku.ca/pdf/whealey2000.pdf. In genere, sul sito http://www.josephus.yorku.ca si trova una buona bibliografia.
    Cornelio Tacito

    Tacito.

    Il grande storico romano Tacito (54-119), pretore, oratore, consul suffectus e proconsole in Asia, scrisse attorno al 112 i suoi 16 libri di Annali, che narrano la storia romana dalla fine del principato di Augusto (14 d.C.) alla morte dell’imperatore Nerone (68).
    Nel 64 scoppiò il grande e ben noto incendio della città di Roma, del quale il medesimo imperatore fu accusato dall’opinione pubblica; il nostro storico ci narra che Nerone cercò in tutti i modi di favorire le vittime del disastro e di stornare da sé l’accusa che pendeva sul suo capo, con vari provvedimenti1
    “Tuttavia né con sforzo umano, né per le munificenze del principe o cerimonie propiziatorie agli dei perdeva credito l’infamante accusa secondo la quale si credeva che l’incendio fosse stato comandato”
    A questo punto si inserisce il riferimento a Cristo ed ai suoi seguaci:
    “Perciò, per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l'impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale pratica religiosa di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso. Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l’accusa dell'incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo” (Ann. XV, 44)2
    La descrizione di Tacito ci informa innanzitutto che a quell’epoca la comunità cristiana di Roma disponeva di un considerevole numero di membri, poiché una ingens multitudo rappresenta certo un numero considerevole. Poi, ci fornisce qualche spunto anche per comprendere quale fosse l’idea della Roma pagana riguardo a questa nuova fede.
    Tacito ci fa notare che i cristiani erano invisi al popolo “a causa delle loro nefandezze”, e che la loro fede era una “esiziale superstitio”; essi sono definiti “rei” e “meritevoli di pene severissime”, accusati di “odio del genere umano”.
    Il cristianesimo era agli occhi dei pagani una superstitio nova, e i cristiani erano dei molitores rerum novarum, perché introducevano un culto e uno stile di vita assai diverso da quello tradizionale. Superstitio non è più, nel linguaggio romano, un sinonimo di religio, ma ne è l’opposto; superstitiones sono quei culti stranieri o innovatori che non corrispondono alla tradizione degli antenati (mos maiorum) e non hanno ricevuto pubblico riconoscimento. Così, fin dall’epoca antica, stabiliva la prescrizione attribuita al re Numa e riportata da Cicerone: “Nessuno abbia proprie divinità nuove o straniere, non riconosciute pubblicamente”3. Superstitiones sono definiti quindi tutti i culti orientali, il cui carattere a lor modo di vedere smodato (immodicus) non può non suscitare una istintiva diffidenza agli occhi del romano colto; non sono esenti da questa accusa il giudaismo e la religione egiziana.
    Il cristianesimo è dunque una superstizione straniera, e per di più dotata dell’eccesso comune ai culti orientali; è una “superstizione nuova”, per cui non gode neppure della caratteristica dell’antichità, che dai Romani veniva sempre guardata con grande rispetto4.
    La colpa dei cristiani è quella riassunta dall’espressione “odio del genere umano”: essi costituivano nella società imperiale un gruppo a sé, estraniato dalla vita pubblica e dalla religiosità comune, che era un elemento di coesione sociale. Il rifiuto di adesione alla religione dello stato era visto come un atto di sovversione politica, esattamente come la tendenza a rifiutare costumi ed istituzioni tradizionali e ad estraniarsi dalla vita pubblica. La stessa accusa era stata rivolta dagli scrittori greci ai Giudei, e il medesimo Tacito la aveva già affibbiata a loro, come ora fa con i Cristiani, tacciandoli di “ostile odio verso tutti gli altri”5. Ma mentre gli Ebrei potevano vantare l’antichità del loro culto, i Cristiani non erano visti altrimenti che come una pianta avulsa dal ceppo giudaico. Negli stessi anni, Plinio il Giovane pare essersi parzialmente ricreduto circa i pregiudizi che derivavano da tal giudizio, come ci indica la lettera che esamineremo più avanti.
    Le poche parole di Tacito riferite a Gesù Cristo, mostrano che egli è ben informato a riguardo, e che la fonte a cui attinse dovette su questo punto essere ottima. Invero si sa che Tacito raccoglie le notizie con molta circospezione, al punto che talora si è potuto con buon esito riconoscere i documenti preesistenti di cui egli si è valso, e in qualche modo stabilire le derivazioni delle notizie riferite. Il fatto che Tacito non usi le classiche espressioni del “sentito dire”, quali ferunt, tradunt (si dice, si racconta) ci fa pensare che egli attingesse a notizie di prima mano.
    Il problema delle fonti delle quali Tacito si è avvalso è un tema ancora aperto, ma la critica ha oramai raggiunto dei risultati assodati6. Innanzitutto Tacito, per la sua posizione politica, aveva accesso agli acta senatus, ovvero i verbali delle sedute del senato romano, e gli acta diurna populi Romani, ovvero gli atti governativi e le notizie su ciò che accadeva giorno per giorno. Egli è comunemente riconosciuto come storico tra i più scrupolosi, come ci attesta anche l’antica testimonianza di Plinio il Giovane che ne loda la diligentia7; Tacito si dedicò infatti con gran diligenza e scrupolo alla raccolta di informazioni e notizie, utilizzando non solo fonti letterarie, ma anche documentarie. Certo anch’egli, come era costume, seguì pure i lavori degli storici precedenti: egli stesso cita le opere di quattro autori, ovvero Plinio il Vecchio, Vipsiano Messalla, Cluvio Rufo e Fabio Rustico. Difficile è però la ricostruzione precisa delle fonti (tutte perdute) usate per ogni singola sezione della sua opera, che erano probabilmente le stesse cui attinsero anche i contemporanei Svetonio e Plutarco, come dimostrano certe concordanze assai precise su alcuni argomenti comuni.
    Si è detto che Plinio il Vecchio (23-79, deceduto mentre osservava l’eruzione del Vesuvio) è una delle fonti esplicitamente citate da Tacito; egli, inoltre, era amico del nipote di lui, Plinio il Giovane, il cui grande legame ci è testimoniato dall’epistolario incorso tra i due.
    Prima di parlare delle guerre giudaiche Tacito ha una digressione sulla Giudea che, nell’insieme, riproduce una descrizione fatta da Plinio il Vecchio nel libro V della sua Naturalis historia8. Ora, sappiamo che Plinio conosceva la Palestina direttamente, in quanto si era colà recato e forse aveva preso parte alla guerra del 70; sappiamo anche che la sua opera più importante ed ambiziosa, alla quale certamente Tacito attinse, fu la perduta A fine Aufidi Bassi, che trattava il periodo tra la fine dell’impero di Claudio e l’ascesa di Vespasiano, e che fu pubblicata postuma dal nipote. Per questo, si è avanzata da alcuni l’ipotesi che Tacito, nel riferire notizie su Gesù, abbia seguito una qualche citazione di Plinio, oggi perduta9; questa congettura, pur essendo assai seducente, deve ancora essere sottoposta a verifica.
    Due analisi di questo passaggio di Tacito da parte dei proff. Marius Lavency e Ludovic Wankenne dell'università di Lovanio sono reperibili in rete, in lingua francese.
    NOTE AL TESTO
    1 Cfr. J: BEAUJEU, L’incende de Rome en 64 et les Chrétiens, Bruxelles, 1960.
    2 Sed non ope humana, non largitionibus principis aut deum placamentis decedebat infamia quin iussum incendium crederetur. Ergo abolendo rumori Nero subdidit reos et quaesitissimis poenis adfecit, quos per flagitia invisos vulgus Christianos appellabat. Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque. Igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt. Et pereuntibus addita ludibria, ut ferarum tergis contecti laniatu canum interirent, aut crucibus adfixi aut flammandi, atque ubi defecisset dies in usum nocturni luminis urerentur. Hortos suos ei spectaculo Nero obtulerat et circense ludicrum edebat, habitu aurigae permixtus plebi vel curriculo insistens. Unde quamquam adversus sontis et novissima exempla meritos miseratio oriebatur, tamquam non utilitate publica sed in saevitiam unius absumerentur. Ed. E. Koestermann, Lipsiae 1965.
    3 De legibus II, 8, 19.
    4 I riti dei Giudei, ad esempio, per quanto diversi da quelli di tutti gli altri popoli, vanno difesi per la loro antichità. Cfr. TACITO, Historiae, V, 5, 1. Sui rapporti tra Roma e il cristianesimo, si vedano P. DE LABRIOLLE, La réaction païenne, Paris, 1934; M. SORDI, I Cristiani e l’impero romano, Milano, 1984; G. JOSSA, I Cristiani e l’impero romano da Tiberio a Marco Aurelio, Napoli, 1991.
    5 Historiae V, 5.
    6 Cfr. G. GARBARINO (a cura di), Letteratura latina, Torino, 1992, vol. III, p. 392-393; G. B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Storia e testi della letteratura latina, Firenze, 1989, vol. III, p. 326.
    7 Epistulae VII,33.
    8 Historiae V, 2-13; Naturalis historia V,15.
    9 Ipotesi suggerita da P. BATIFFOL, Il valore storico dei vangeli, Firenze, 1913, p. 45.
    Plinio il Giovane
    Plinio il Giovane, statua dall'edicola dei fratelli Rodari (Como, lunetta del portale mediano della cattedrale)
    Gaio Cecilio Plinio Secondo (61-112/113), nipote dello storiografo Plinio il Vecchio, fu allievo del famoso retore Quintiliano, avvocato, consul suffectus e governatore della Bitinia e del Ponto. Egli ci ha lasciato una raccolta di epistole contenute in 10 libri, l’ultimo dei quali contiene il carteggio ufficiale tra lui e l’imperatore Traiano. Queste lettere risalgono per lo più al periodo del governatorato di Plinio in Bitinia, ovvero agli anni 111-113, e sono una fonte documentaria di eccezionale importanza.
    In una di queste lettere - scritta nello stesso periodo in cui l’amico Tacito redigeva il suo racconto sulla persecuzione cristiana del 64 - egli si rivolge a Traiano per ottenere istruzioni da seguirsi nel trattare con i cristiani della Bitinia e del Ponto, ove, come detto, ricopriva la carica di legato con potere consolare.
    Eccone il testo:
    “È per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza?
    Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome.
    Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi.
    Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani.
    Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo.
    Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario l’interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una religione balorda e smodata.
    Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa religione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma” (Epist. X, 96, 1-9)1
    Traiano imperatore
    Segue la concisa risposta dell’imperatore Traiano:
    “Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi” (Epist. X, 97)2
    Plinio, da quanto si ricava da questa epistola, ma in genere da tutto il carteggio, ci appare come un funzionario scrupoloso e leale, ma anche alquanto indeciso, in balia alla costante preoccupazione di non prendere iniziative personali che rischino di essere disapprovate dal suo superiore. A ciò, da quanto trapela dalle risposte, fa riscontro l’energica e sbrigativa sicurezza dell’imperatore, che talora appare perfino infastidito dai continui quesiti di Plinio; lo stile di tali risposte rispecchia, specie nel lessico, il linguaggio tecnico-amministrativo della cancelleria imperiale.
    Plinio, nella sua epistola, ci informa di non aver mai “preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani”; l’uso del termine cognitiones ci informa che doveva trattarsi di veri e propri processi, e non solo di comuni operazioni di polizia. Per questo motivo, egli non sa come deve comportarsi, ed eventualmente quanto deve tenere in conto l’età, l’eventuale precedente apostasia dalla fede e il ravvedimento. Soprattutto, egli non sa se deve processare il cristiano semplicemente come tale, o per i delitti che una tale qualifica supponeva. Rispondendo, Traiano non scioglie espressamente questo dubbio; ma dalla sua risposta risulta nettamente che era il solo nome di cristiano ad essere processato, ciò che del resto risulta anche da altri documenti, apologie, atti dei martiri, etc.
    In effetti, non sono oggetto di inquisizione le consuete accuse che il volgo rivolgeva ai cristiani, le nefandezze che registrava Tacito3. Né Plinio avvalora tali accuse di crimina occulta; anzi, descrivendo il pasto comune dei cristiani come semplice ed innocente, rigetta implicitamente le dicerie di infanticidio, riunioni edipodee e cene tiestee in cui ci si cibava di infanti (cattiva comprensione dell’eucarestia, in cui ci si cibava del corpo di Cristo?), e non ritiene i cristiani pericolosi membri di eterìe, sodalizi sovversivi. Ugualmente, egli ritiene che “qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione”.
    Il cartaginese Quinto Settimio Fiorente Tertulliano (160-222 circa), avvocato e letterato, assieme agli altri apologisti si è ampiamente diffuso su queste calunnie che circolavano tra il popolino (su cui aveva già fatto leva Nerone per accusare i cristiani dell’incendio di Roma), dichiarando espressamente che comunque non avevano nulla a vedere con i motivi delle sentenze di morte: “Le vostre sentenze”, scrive, “muovono da un solo delitto: la confessione dell’essere cristiano. Nessun crimine è ricordato, se non il crimine del nome”4. Egli anzi cita la formula di queste sentenze: “In fin dei conti, che cosa leggete dalla tavoletta? Egli è cristiano. Perché non aggiungete anche omicida?”5
    Il procedimento di Plinio è il seguente: egli interroga i presunti cristiani, e se essi risultano tali, e non ritrattano entro il terzo interrogatorio, li manda a morte. Per coloro che neghino di essere cristiani, o dicano di esserlo stato in passato, anche vent’anni prima (allusione alle apostasie dovute alla persecuzione di Domiziano?), egli pretende la dimostrazione di quanto affermano, inducendoli a sacrificare agli dei, a venerare l’effigie dell’imperatore e a imprecare contro Cristo.
    Traiano approva la procedura del suo subordinato, aggiungendo che i cristiani non vanno ricercati, ma quando vengano denunciati debbono essere mandati al patibolo.
    Tale curiosa istruzione sarà criticata ferocemente dagli apologisti cristiani successivi: i cristiani non vanno ricercati; se denunciati, vanno puniti, a meno che non ritrattino la loro fede. Evidentemente, se i cristiani fossero stati accusati di delitti veri e propri, non si vede perché non avrebbero dovuto essere giudicati per quanto avevano fatto; e se fossero stati individui colpevoli e pericolosi, avrebbero dovuto essere ricercati, per rendere conto dei loro misfatti.
    Così Tertulliano commenta tali disposizioni imperiali:
    “Scopriamo pure che nei nostri confronti è persino proibita l’indagine. […] Traiano rispose che non si doveva ricercare questa gente, però la si doveva punire se veniva denunciata. O sentenza apertamente contraddittoria! Dice che non vanno ricercati, come se fossero innocenti, e comanda che siano puniti, come se fossero colpevoli. Risparmia ed infierisce, sorvola e punisce. Per qual motivo esponi te stesso alla censura? Se li condanni, perché allora non li fai ricercare? Se non li ricerchi, perché allora non li assolvi? […] Dunque voi condannate un accusato che nessuno volle si ricercasse, il quale, mi pare, non ha meritato la pena perché colpevole, ma perché, non dovendo essere ricercato, si è fatto prendere” (Apolog. II, 6-11)6.
    Il rescritto di Traiano è un documento della incerta situazione in cui il governo si trovava di fronte al successo della propaganda cristiana, e della mancanza di una precisa e coerente legislazione in merito; ma l’epistola di Plinio ci procura anche una descrizione della vita religiosa di quei cristiani della Bitinia e del Ponto. Essi “sono soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente”. Oltre al riferimento a Cristo, ed al suo culto, abbiamo il primo accenno alla celebrazione dell’eucarestia.
    NOTE AL TESTO
    1 Sollemne est mihi, domine, omnia de quibus dubito ad te referre. Quis enim potest melius vel cunctationem meam regere vel ignorantiam instruere? Cognitionibus de Christianis interfui numquam: ideo nescio quid et quatenus aut puniri soleat aut quaeri. Nec mediocriter haesitavi, sitne aliquod discrimen aetatum, an quamlibet teneri nihil a robustioribus differant; detur paenitentiae venia, an ei, qui omnino Christianus fuit, desisse non prosit; nomen ipsum, si flagitiis careat, an flagitia cohaerentia nomini puniantur. Interim, iis qui ad me tamquam Christiani deferebantur, hunc sum secutus modum. Interrogavi ipsos an essent Christiani. Confitentes iterum ac tertio interrogavi supplicium minatus: perseverantes duci iussi. Neque enim dubitabam, qualecumque esset quod faterentur, pertinaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri. Fuerunt alii similis amentiae, quos, quia cives Romani erant, adnotavi in urbem remittendos. Mox ipso tractatu, ut fieri solet, diffundente se crimine plures species inciderunt. Propositus est libellus sine auctore multorum nomina continens. Qui negabant esse se Christianos aut fuisse, cum praeeunte me deos adpellarent et imagini tuae, quam propter hoc iusseram cum simulacris numinum adferri, ture ac vino supplicarent, praeterea male dicerent Christo, quorum nihil cogi posse dicuntur qui sunt re vera Christiani, dimittendos putavi. Alii ab indice nominati esse se Christianos dixerunt et mox negaverunt; fuisse quidem sed desisse, quidam ante triennium, quidam ante plures annos, non nemo etiam ante viginti. quoque omnes et imaginem tuam deorumque simulacra venerati sunt et Christo male dixerunt. Adfirmabant autem hanc fuisse summam vel culpae suae vel erroris, quod essent soliti stato die ante lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem seque sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta ne latrocinia ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum adpellati abnegarent. Quibus peractis morem sibi discedendi fuisse rursusque coeundi ad capiendum cibum, promiscuum tamen et innoxium; quod ipsum facere desisse post edictum meum, quo secundum mandata tua hetaerias esse vetueram. Quo magis necessarium credidi ex duabus ancillis, quae ministrae dicebantur, quid esset veri, et per tormenta quaerere. Nihil aliud inveni quam superstitionem pravam et immodicam. Ideo dilata cognitione ad consulendum te decucurri. Visa est enim mihi res digna consultatione, maxime propter periclitantium numerum. Multi enim omnis aetatis, omnis ordinis, utriusque sexus etiam vocantur in periculum et vocabuntur. Neque civitates tantum, sed vicos etiam atque agros superstitionis istius contagio pervagata est; quae videtur sisti et corrigi posse. Ed. M. Schuster – R. Hanslik, Leipzig, 1958.
    2 Actum quem debuisti, mi Secunde, in excutiendis causis eorum, qui Christiani ad te delati fuerant, secutus es. Neque enim in universum aliquid, quod quasi certam formam habeat, constitui potest. Conquirendi non sunt; si deferantur et arguantur, puniendi sunt, ita tamen ut, qui negaverit se Christianum esse idque re ipsa manifestum fecerit, id est supplicando dis nostris, quamvis suspectus in praeteritum, veniam ex paenitentia impetret. Sine auctore vero propositi libelli nullo crimine locum habere debent. Nam et pessimi exempli nec nostri saeculi est.
    3 Si vedano in proposito le indicazioni degli apologeti del II e III secolo, come Tertulliano (Apologeticum VII-IX), Minucio Felice (Octavius IX, XXVIII, XXX-XXXII), Giustino (I Apologia XII,2; XXVI,7; Dialogus cum Tryphone Iudaeo X,1) e altri.
    4 Sententiae vestrae nihil nisi christianum confessum; nullum criminis nomen extat, nisi nominis crimen est (Ad nationes I, 3).
    5 Denique quid de tabella recitatis? Illum christianum. Cur non et homicidam? (Apologeticum II)
    6 Atquin invenimus inquisitionem quoque in nos prohibitam. […] Tunc Traianus rescripsit, hoc genus inquirendos quidem non esse, oblatos vero puniri oportere. O sententiam necessitate confusam! Negat inquirendos ut innocentes et mandat puniendos ut nocentes. Parcit et saevit, dissimulat et animadvertit. Quid temetipsam censura circumuenis? Si damnas, cur non et inquiris? Si non inquiris, cur non et absolvis? […] Damnatis itaque oblatum, quem nemo voluit requisitum; qui, puto, iam non ideo meruit poenam, quia nocens est, sed quia non requirendus inventus est. Ed. E. Waltzing, Paris, 1961.

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    Svetonio
    Gaio Svetonio Tranquillo (70-126 circa), amico di Plinio e forse suo compagno in Bitinia, ricoprì l’importante incarico di archivista (procurator a studiis), segretario (ab epistulis) e bibliotecario (a bibliothecis) dell’imperatore Adriano, fino all’anno 122, quando assieme al prefetto del pretorio Setticio Claro venne destituito ed allontanato dalla corte imperiale.
    Claudio Imperatore.
    Nella sua opera Vita dei dodici Cesari, una raccolta di dodici biografie degli imperatori da Cesare a Domiziano scritta intorno al 120, ci lascia due accenni ai cristiani. Il primo si trova nella vita di Claudio:
    “Espulse da Roma i Giudei che per istigazione di Cresto erano continua causa di disordine” (Vita Claudii XXIII, 4)1
    Non ci si deve stupire del fatto che Svetonio scriva Chrestus in luogo di Christus; basti notare che le parole greche Chrestòs (buono, eccellente) e Christòs (unto, Messia) erano pronunciate allo stesso modo, e potevano essere facilmente confuse, specie da chi non fosse ben informato sui fatti2 ; a riprova di ciò, vediamo che Svetonio parla di Giudei, ancora incapace come tanti suoi connazionali di avvertire le differenze tra quest’ultimi ed il cristianesimo nascente, che da essi ormai si differenziava e sempre più si allontanava. Per Svetonio, che probabilmente ricavò questa notizia dagli archivi imperiali cui aveva libero accesso, si tratta semplicemente di un provvedimento imperiale atto ad eliminare focolai di turbolenza, e non ancora di una reazione mirata al cristianesimo; è facile pensare che la predicazione del Cristo tra i Giudei romani da parte di altri Giudei, oppure la predicazione di Giudei verso i Pagani, abbia generato qualche reazione del genere di quelle narrate negli Atti degli Apostoli, che agli occhi dell’autorità romana poteva turbare l’ordine pubblico.
    La notizia di Svetonio concorda perfettamente con quanto è riportato negli Atti degli Apostoli riguardo all’arrivo di Paolo a Corinto:
    “Dopo di ciò, partito da Atene [Paolo] andò a Corinto. E trovato un giudeo di nome Aquila, pontico di nascita, da poco giunto dall’Italia, e la moglie sua Priscilla, per il fatto che Claudio aveva ordinato che tutti i Giudei partissero da Roma, andò da loro” (Act. XVIII, 1-2)3
    Secondo lo storico Paolo Orosio, che riprende la notizia di Svetonio e cita anche Giuseppe Flavio, tale espulsione avvenne nel nono anno dell’impero di Claudio, ovvero tra il gennaio del 49 e il gennaio del 50 d.C.; poiché Paolo probabilmente arrivò a Corinto nel dicembre del 49, il tutto coinciderebbe. Qualche storico ha messo invece in relazione la notizia con un provvedimento preso dall’imperatore nel 41 e narrato da Cassio Dione. Ma tale provvedimento non è una espulsione di Giudei, ma solo un divieto di riunirsi, in quanto ritenuto troppo numerosi. Si può pensare che un secondo provvedimento, più radicale, abbia seguito quello del 414.
    Il secondo accenno ai Cristiani, Svetonio lo colloca nella vita di Nerone; esso in poche parole ci riassume quanto già narrato più diffusamente da Tacito, con il quale condivide anche le consuete accuse di superstitio nova ac malefica:
    “Sottopose a supplizi i Cristiani, una razza di uomini di una superstizione nuova e malefica” (Vita Neronis XVI, 2)5.
    NOTE AL TESTO
    1 Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expulit. Ed. H. Ailloud, Paris, 1931.
    2 Ci sono molti esempi nei manoscritti della confusione tra i due termini, sia in greco che in latino. Lo stesso vale per alcune iscrizioni asiatiche e siciliane: Corpus Incriptionum Graecarum II, add. 2883d; 3857g.p., e Inscriptiones Graecae XIV 78.154.191.196.
    3 Met¦ taàta cwrisqeˆj ™k tîn 'Aqhnîn Ãlqen e„j KÒrinqon. Kaˆ eØrèn tina 'Iouda‹on ÑnÒmati 'AkÚlan, PontikÕn tù gšnei, prosf£twj ™lhluqÒta ¢pÕ tÁj 'Ital…aj kaˆ Pr…skillan guna‹ka aÙtoà di¦ tÕ diatetacšnai KlaÚdion cwr…zesqai p£ntaj toÝj 'Iouda…ouj ¢pÕ tÁj `Rèmhj, prosÁlqen aÙto‹j.
    4 Paolo Orosio scrive: "Anno eiusdem nono expulsos per Claudium Urbe Iudaeos Iosephus refert; sed me magis Svetonius movet qui ait hoc modo: “Claudius Iudaeos inpulsore Christo adsidue tumultuantes Roma expulit”; Historiarum adversos paganos libri septem, VII, 6, 15, ed. Arnaud-Lindet, Paris, 1991. Invece Cassio Dione, Historiae Romanae, 60,6,6, scrive: “I Giudei non li scacciò... ma comandò loro di non riunirsi, pur continuando a vivere secondo il proprio costume tradizionale” (ToÚj te 'Iouda…ouj [...] oÙk ™x»lase mšn, tù d d¾ patr…J b…J crwmšnouj ™kšleuse m¾ sunaqro…zesqai. Ed. ed. U. P. Boissevain, Cassii Dionis Cocceiani Historiarum Romanarum quae supersunt, Berolini, 1955-19692).
    5 Afflicti supliciis Christiani, genus hominum superstitionis novae ac maleficae.
    Adriano Imperatore
    L'imperatore Publio Adriano in un ritratto ufficiale. (Roma, Museo Nazionale Romano).
    Publio Adriano, successore di Traiano, imperatore dal 117 al 138, ricevette una lettera da Quinto licinio Silvano Graniano, proconsole d’Asia nel 120 circa, nella quale si richiedevano istruzioni riguardo al comportamento da tenersi con i Cristiani, spesso oggetto di delazioni anonime e accuse ingiustificate. Egli rispose con un rescritto, che ci è pervenuto nella Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, indirizzato al successore di Graniano, Caio Minucio Fundano, in carica nel 122-123.
    In esso si legge:
    “Se pertanto i provinciali sono in grado di sostenere chiaramente questa petizione contro i Cristiani, in modo che possano anche replicare in tribunale, ricorrano solo a questa procedura, e non ad opinioni o clamori. E’ infatti assai più opportuno che tu istituisca un processo, se qualcuno vuole formalizzare un’accusa. Allora, se qualcuno li accusa e dimostra che essi stanno agendo contro le leggi, decidi secondo la gravità del reato; ma, per Ercole, se qualcuno sporge denuncia per calunnia, stabiliscine la gravità e abbi cura di punirlo” (Hist. Eccl. IV, 9, 2-3)1.
    Gli apologisti, a partire da Giustino, che riporta il testo di questo rescritto in appendice alla sua prima Apologia, hanno interpretato favorevolmente questa disposizione, vedendo nella richiesta di Adriano il primo tentativo di distinguere tra l’accusa di nomen christianus e i suoi presunti flagitia; il semplice nome cristiano non doveva essere perseguito, e gli eventuali reati dovevano essere prima dimostrati tramite regolare processo, come per qualsiasi cittadino. In tal guisa interpretano anche molti studiosi moderni; tuttavia, ancora sotto Antonino Pio i Cristiani erano oggetto di persecuzione solamente in quanto tali. Nonostante la contraddittorietà dei provvedimenti, ci si avvia lentamente ad un progressivo riconoscimento della nuova fede.
    NOTE AL TESTO
    1 E„ oân safîj e„j taÚthn t¾n ¢x…wsin oƒ ™parciîtai dÚnantai diiscur…zesqai kat¦ tîn Cristianîn, æj kaˆ prÕ b»matoj ¢pokr…nasqai, ™pˆ toàto mÒnon trapîsin, ¢ll' oÙk ¢xièsesin oÙd mÒnaij boa‹j. Pollù g¦r m©llon prosÁken, e‡ tij kathgore‹n boÚloito, toàtÒ se diaginèskein. E‡ tij oân kathgore‹ kaˆ de…knus…n ti par¦ toÝj nÒmouj pr£ttontaj, oÛtwj Órize kat¦ t¾n dÚnamin toà ¡mart»matoj· æj m¦ tÕn `Hraklša e‡ tij sukofant…aj c£rin toàto prote…noi, dial£mbane Øpr tÁj deinÒthtoj kaˆ frÒntize Ópwj ¨n ™kdik»seiaj. Ed. G. Bardy, Paris, 1952.
    Trifone Giudeo
    Il martire e filosofo cristiano Giustino intorno all’anno 160 scrisse un Dialogo col giudeo Trifone, con il quale perseguiva lo scopo di dimostrare che il cristianesimo era la naturale continuazione dell’ebraismo. L’opera è strutturata in forma di un dialogo tra l’autore e l’ebreo Trifone, nel quale secondo alcuni, probabilmente a torto, è ravvisabile il noto Rabbi Tarphon1 ; in tal caso, la finzione letteraria del dialogo sarebbe forse l’eco di una reale discussione avvenuta tra i due ad Efeso nel 135.
    Nel racconto, Giustino ricorda un avvertimento che sarebbe stato inviato dagli Ebrei palestinesi ai Giudei della diaspora, che contiene un giudizio su Gesù:
    “E’ sorta un’eresia senza Dio e senza Legge da un certo Gesù, impostore Galileo; dopo che noi lo avevamo crocifisso, i suoi discepoli lo trafugarono nottetempo dalla tomba ove lo si era sepolto dopo averlo calato dalla croce, ed ingannano gli uomini dicendo che è risorto dai morti e asceso al cielo” (Tryph. CVIII, 2)2.


    Il passo ci riporta un’accusa che avrà una certa fortuna, quella dell’inganno ordito dai discepoli di Gesù e del trafugamento del suo corpo dal sepolcro. La stessa accusa è ricordata da Tertulliano nel XXX capitolo del De spectaculis.
    Per il resto, il passo non è di grande interesse storico, anche perché la sua provenienza e la sua autenticità sono alquanto incerte; certo esso testimonia un giudizio di alcuni Giudei del tempo di Giustino su Gesù.
    NOTE AL TESTO
    1 Si veda ad esempio il parere di J. MAIER in Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia 1994, p. 219-220.
    2 A†res…j tij ¥qeoj kaˆ ¥nomoj ™g»gertai ¢pÕ 'Ihsoà tinoj Galila…ou pl£nou Ön staurws£ntwn ¹mîn, oƒ maqhtaˆ aÙtoà klšyantej aÙtÕn ¢pÕ toà mn»matoj nuktÒj, ÐpÒqen katetšqh ¢fhlwqeˆj ¢pÕ toà stauroà, planîsi toÝj ¢nqrèpouj lšgontej ™ghgšrqai aÙtÕn ™k nekrîn kaˆ e„j oÙranÕn ¢nelhluqšnai. Ed. G. Archambault, Paris, 1909.
    Marco Aurelio
    Marco Aurelio Imperatore, statua equestre in bronzo (piazza Campidoglio, Roma)
    Il successore di Antonino Pio, Marco Aurelio Antonino, imperatore dal 161 al 180, scrisse intorno al 170, in lingua greca, un’opera in 12 libri, intitolata A se stesso, nella quale raccolse massime, pensieri, ricordi e meditazioni di contenuto filosofico.
    In essa trova spazio un accenno al martirio dei Cristiani:
    “Oh, come è bella l’anima che si tiene pronta, quando ormai deve sciogliersi dal corpo, o estinguersi, o dissolversi o sopravvivere! Ma tale disposizione derivi dal personale giudizio, e non da una mera opposizione, come per i Cristiani; sia invece ponderata e dignitosa, in modo che anche altri possano esserne persuasi, senza teatralità” (Ad sem. XI, 3)1.
    Come già Plinio il Giovane, così anche Marco Aurelio pare essere infastidito dalla ostinazione dei cristiani, che vanno incontro al martirio pur di non rinnegare la propria fede. Per l’imperatore, questo tipo di morte non è frutto di un giudizio interno, sano e ponderato, ma è un segno di fanatismo, frutto di una “ una mera opposizione”. Ed è proprio sotto l’impero di questo sovrano saggio e filosofo, che prende forma la grande persecuzione che porterà alla morte, tra gli altri, di Giustino, Policarpo di Smirne, Carpo, Papilo, Agatonice, e dei cosiddetti Martiri di Lione.
    NOTE AL TESTO
    1 O†a ™stˆn ¹ yuc¾ ¹ ›toimoj, ™¦n ½dh ¢poluqÁnai dšV toà sèmatoj, kaˆ ½toi sbesqÁnai À skedasqÁnai À summe‹nai. TÕ d ›toimon toàto †na ¢pÕ „dikÁj kr…sewj œrchtai, m¾ kat¦ yil¾n par£taxin æj oƒ Cristiano…, ¢ll¦ lelogismšnwj kaˆ semnîj kaˆ éste kaˆ ¥llon pe‹sai, ¢tragódwj.Ed. A. S. L. Farquharson, Oxford, 1944.
    Epitteto
    Epitteto.
    Nato verso la metà del I secolo, a Gerapoli, il filosofo stoico Epitteto fu maestro a Roma e fu tra i filosofi che subirono la cacciata dalla capitale voluta dall’imperatore Domiziano. Raccolta una cerchia di discepoli a Nicopoli in Epiro, vi fondò una scuola, attiva nel periodo del principato di Adriano (117-138); alcune testimonianze del suo insegnamento ci sono pervenute tramite la raccolta di Dissertazioni del discepolo Arriano (95-175 circa).
    In un passo di quest’opera, trattando di un tema assai caro allo stoicismo, ovvero la mancanza di paura di fronte alla morte, Epitteto enumera vari categorie di persone che hanno questo atteggiamento, come i bambini e i pazzi (incoscienti), coloro che per qualche motivo desiderano la morte, oppure coloro che accettano la morte con serenità, come i filosofi.
    Tra coloro che invece non hanno paura della morte solo per abitudine (ethos), egli enumera i “Galilei”.
    “Anche per follia uno può resistere a quelle cose, o per ostinazione, come i Galilei” (Diss. Ab Arriano digestae IV, 6, 6)1.
    Con l’espressione “quelle cose” il filosofo intende gli atti compiuti dai tiranni, e chiamando i Cristiani “Galilei” usa un titolo comune.
    Egli ha forse davanti agli occhi alcuni casi di persecuzione (la lettera di Paolo a Tito presume una comunità cristiana a Nicopoli, ove Epitteto insegnò a lungo), e non riesce a spiegarsi l’atteggiamento di ostinazione dei Cristiani, al quale egli reagisce invocando nelle righe successive “il ragionamento e la dimostrazione”. Come già per Plinio, i cristiani sono degli irrimediabili cocciuti; il motivo della fede per lui è completamente ignoto o incompreso.
    NOTE AL TESTO
    1 Eta ØpÕ man…aj mn dÚnata… tij oÛtwj diateqÁnai prÕj taàta kaˆ ØpÕ œqouj oƒ Galila‹oi.Ed. H. Schenkl, Leipzig, 1916.
    Galeno
    Ritratto di Claudio Galeno secondo una xilografia del sec. XVI.
    Claudio Galeno (129-200 circa), il noto medico-filosofo di Pergamo, fu medico personale degli imperatori Marco Aurelio e Commodo. A differenza di Epitteto e Luciano, egli ha un’opinione realmente positiva sulla tenuta morale dei Cristiani1.
    Attraverso la Historia anteislamica di Abulfida ci è pervenuto questo passo:
    “I più tra gli uomini non sono in grado di comprendere con la mente un discorso dimostrativo consequenziale, per cui hanno bisogno, per essere educati, di miti. Così vediamo nel nostro tempo quegli uomini chiamati Cristiani trarre la propria fede dai miti. Essi, tuttavia, compiono le medesime azioni dei veri filosofi. Infatti, che disprezzino la morte e che, spinti da una sorta di ritegno, aborriscano i piaceri carnali, lo abbiamo tutti davanti agli occhi. Vi sono infatti tra loro sia uomini che donne i quali per tutta la vita si sono astenuti dai rapporti; e vi sono anche coloro che sono a tal punto progrediti nel dominare e dirigere gli animi, e nella più tenace ricerca della virtù, da non cedere in nulla ai veri filosofi” (De sentent. Pol. Plat)2.
    Non è più soltanto il disprezzo della morte che colpisce Galeno, ma anche tutta la vita morale dei Cristiani. Giustino testimonia che alcuni Cristiani si astenevano interamente dal matrimonio, e tale costume era proposto ai pagani come esempio di virtù; si riteneva infatti che un tal genere di vita trovasse assentimento e ammirazione anche presso gli avversari. Invero, la filosofia del tempo inclinava all’ascetismo, e le attestazioni in favore della loro moralità non mancano. La Chiesa, tuttavia, metterà ben presto freno all’eccesso di questo rigetto della normale vita matrimoniale; esemplare è la condanna dell’apologista siro Taziano nel 172, il fondatore della setta degli Encratiti3.
    Certamente, al di là di questo, Galeno condanna la fede dei cristiani come affermazione ostinata di cose affatto indimostrate; essa non è fondata sulla ragione (logos), per cui essa non è saggezza, bensì credulità.
    “Nessuno subito da principio, come se fosse pervenuto alla dottrina di Mosè o Cristo, ascolti leggi indimostrate, nelle quali non si deve per nulla credere”. (De differentia pulsuum libri quattuor II, 4)4.
    “Infatti si potrebbero dissuadere prima quelli che provengono da Mosé e Cristo, che non i medici o i filosofi, i quali si sono consumati sui loro principi”. (Ivi, III, 3)5.
    Per Galeno, sarebbe molto più difficile far cambiare idea ad un filosofo o ad un medico, con alle spalle la sua scienza, che a un cristiano, aggrappato solo alla sua fede.
    NOTE AL TESTO
    1 Cfr. R. WALZER, Galen on Jews and Christians, Oxford, 1949.
    2 Hominum plerique orationem demonstrativam continuam mente assequi nequeunt, quare indigent, ut instituantur, parabolis. Veluti nostro tempore videmus homines illos, qui Christiani vocantur, fidem suam e parabolis petiisse. Hi tamen interdum talia faciunt, qualia qui vere philosophantur. Nam quod mortem contemnunt, id quidem omnes ante oculos habemus; item quod verecundia quadam ducti ab usu rerum venerearum abhorrent. Sunt enim inter eos et feminae et viri, qui per totam vitam a concubitu abstinuerint; sunt etiam qui in animis regendis coercendisque et in acerrimo honestatis studio eo progressi sint, ut nihil cedant vere philosophantibus. Ed. Fleischer, Leipzig, 1831, p. 109.
    3 Cfr. R. M. GRANT, The heresy of Tatian, in «Journal of theological Studies» n.s. V (1954), pp. 62-68.
    4 […]†na m» tij eÙqÝj kat' ¢rc¦j, æj e„j Mwãsoà kaˆ Cristoà diatrib¾n ¢figmšnoj, nÒmwn ¢napode…ktwn ¢koÚV, kaˆ taàta ™n oŒj ¼kista cr». Ed. C.G. Kühn, Leipzig, 1824.
    5 Q©tton g¦r ¥n tij toÝj ¢pÕ Mwãsoà kaˆ Cristoà metadid£xeien À toÝj ta‹j aƒršsesi prostethkÒtaj „atroÚj te kaˆ filosÒfouj.

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    Frontone
    Marco Cornelio Frontone, di origine di Cirta, in Africa, visse a Roma, ove fu avvocato e retore a tal punto apprezzato da ottenere l’incarico di curare l’educazione retorica dei futuri imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero. Nel 143 fu consul suffectus, e godette di tale fama da essere considerato dai suoi contemporanei un novello Cicerone; egli fu il rappresentante del cosiddetto movimento arcaicizzante che dominò la prosa del secolo II.
    Di una sua Orazione contro i Cristiani, pronunciata tra il 162 e il 166, ci fa menzione l’apologista Minucio Felice nel suo Octavius (ultimo quarto II secolo); egli definisce Frontone: “non un teste diretto che arrechi la sua testimonianza, ma solo un declamatore che volle scagliare un’ingiuria”1, a causa delle sue accuse infamanti verso i Cristiani.
    L’interlocutore pagano Cecilio, rifacendosi all’orazione suddetta che è ricostruibile per lo meno a grandi linee dalle citazioni2, affermava tra l’altro:
    “ Essi, raccogliendo dalla feccia più ignobile i più ignoranti e le donnicciuole, facili ad abboccare per la debolezza del loro sesso, formano una banda di empia congiura, che si raduna in congreghe notturne per celebrare le sacre vigilie o per banchetti inumani, non con lo scopo di compiere un rito, ma per scelleraggine; una razza di gente che ama nascondersi e rifugge la luce, tace in pubblico ed è garrula in segreto. Disprezzano ugualmente gli altari e le tombe, irridono gli dei, scherniscono i sacri riti; miseri, commiserano i sacerdoti (se è lecito dirlo), disprezzano le dignità e le porpore, essi che sono quasi nudi! […] Regna tra loro la licenza sfrenata, quasi come un culto, e si chiamano indistintamente fratelli e sorelle, cosicché, col manto di un nome sacro, anche la consueta impudicizia diventi incesto. […] Ho sentito dire che venerano, dopo averla consacrata, una testa d’asino, non saprei per quale futile credenza […] Altri raccontano che venerano e adorano le parti genitali del medesimo celebrante e sacerdote […] E chi ci parla di un uomo punito per un delitto con il sommo supplizio e il legno della croce, che costituiscono le lugubri sostanze della loro liturgia, attribuisce in fondo a quei malfattori rotti ad ogni vizio l’altare che più ad essi conviene […] Un bambino cosparso di farina, per ingannare gli inesperti, viene posto innanzi al neofita, […] viene ucciso. Orribile a dirsi, ne succhiano poi con avidità il sangue, se ne spartiscono a gara le membra, e con questa vittima stringono un sacro patto […] Il loro banchetto, è ben conosciuto: tutti ne parlano variamente, e lo attesta chiaramente una orazione del nostro retore di Cirta […] Si avvinghiano assieme nella complicità del buio, a sorte” (Octavius VIII,4-IX,7)3.
    Graffito del colle Palatino: caricatura di un uomo crocefisso con testa d'asino.
    A risposta di questo armamentario di accuse infamanti e di seconda mano (Ho sentito dire…), possono valere le parole che il cristiano Giustino rivolgeva in quegli stessi anni ad un altro accusatore del cristianesimo, il filosofo cinico Crescente: “Veramente è ingiusto ritenere per filosofo colui che, a nostro danno, rende pubblicamente testimonianza di cose che non conosce, dicendo che i Cristiani sono atei e scellerati; e dice ciò per ricavarne grazia e favore presso la folla, che resta ingannata”4.
    Si noti che questo intervento raccoglie tutte assieme accuse che già circolavano dal secolo precedente, sottintese fin dalle parole di Tacito; ma se alcuni storici si prendevano la briga di verificarne la veridicità, come fece Plinio il Giovane, altri contribuivano a diffonderle.
    Interessante il riferimento al culto della testa d’asino, una vecchia accusa già usata da Tacito contro gli Ebrei, dalla quale si era già difeso Giuseppe Flavio5; di essa abbiamo anche una rappresentazione figurativa, un graffito di età severiana ritrovato sul Palatino, e ora conservato nell’antiquarium, raffigurante la caricatura di un uomo crocifisso con testa d’asino, con ai suoi piedi un altro uomo in atto di adorazione, il tutto accompagnato dalla scritta: “Alessameno adora il suo Dio”6.
    NOTE AL TESTO
    1 Octavius XXXI, 2.
    2 Il problema storico e letterario del testo è affrontato da P. FRASSINETTI, L’orazione di Frontone contro i Cristiani, in «Giornale italiano di Filologia» II (1949), pp. 238-254.
    3 Qui de ultima faece collectis imperitioribus et mulieribus credulis sexus sui facilitate labentibus plebem profanae coniurationis instituunt, quae nocturnis congregationibus et ieiuniis sollemnibus et inhumanis cibis non sacro quodam, sed piaculo foederatur, latebrosa et lucifuga natio, in publicum muta, in angulis garrula, templa ut busta despiciunt, deos despuunt, rident sacra, miserentur miseri (si fas est) sacerdotum, honores et purpuras despiciunt, ipsi seminudi! […] Inter eos velut quaedam libidinum religio miscetur, ac se promisce appellant fratres et sorores, ut etiam non insolens stuprum intercessione sacri nominis fiat incestum. […] Audio eos turpissimae pecudis caput asini consecratum inepta nescio qua persuasione venerari […] Alii eos ferunt ipsius antistitis ac sacerdotis colere genitalia […] Et qui hominem summo supplicio pro facinore punitum et crucis ligna feralia eorum caerimonias fabulatur, congruentia perditis sceleratisque tribuit altaria, ut id colant quod merentur. […] Infans farre contectus, ut decipiat incautos, adponitur ei qui sacris inbuatur […] occiditur. Huius, pro nefas! sitienter sanguinem lambunt, huius certatim membra dispertiunt, hac foederantur hostia […] Et de convivio notum est; passim omnes locuntur, id etiam Cirtensis nostri testatur oratio. […] infandae cupiditatis involvunt per incertum sortis, etsi non omnes opera, conscientia tamen pariter incesti, quoniam voto universorum adpetitur quicquid accidere potest in actu singulorum. Ed. J. P. Waltzing, Louvain, 1903.
    4 II Apologia VIII.
    5 Historiae V, 3-4; Contra Apionem, II, 80.
    6 La prima descrizione è quella di R. GARRUCCI, Un crocifisso graffito da mano pagana nella casa dei Cesari sul Palatino, Roma, 1856.
    Luciano di Samosata
    Il retore scettico Luciano, nato a Samosata intorno al 120 e morto dopo il 180, attivo nell’età degli Antonini, ci ha lasciato un’opera intitolata La morte di Peregrino, nella quale l’autore, un decennio dopo lo svolgimento dei fatti, narra del teatrale suicidio del fanatico Peregrino Proteo, sul rogo che si era eretto a Olimpia nel 165 o 167.
    Questa singolare figura di filosofo, che per Luciano è certo un ciarlatano, era stato per un certo periodo cristiano, per poi passare alla filosofia cinica. Per mostrare il suo disprezzo per la morte, che Luciano invece definisce “amor di gloria”, egli si gettò tra le fiamme del rogo.
    Durante il periodo di adesione al cristianesimo, nel quale era stato anche in carcere, veniva visitato continuamente dai suoi fratelli cristiani, che da ogni dove si affrettavano a venire per consolarlo, assisterlo, aiutarlo; secondo Luciano essi erano degli sciocchi, ingannati da quell’impostore:
    “Allora Proteo venne a conoscenza della portentosa dottrina dei cristiani, frequentando in Palestina i loro sacerdoti e scribi. E che dunque? In un batter d’occhio li fece apparire tutti bambini, poiché egli tutto da solo era profeta, maestro del culto e guida delle loro adunanze, interpretava e spiegava i loro libri, e ne compose egli stesso molti, ed essi lo veneravano come un dio, se ne servivano come legislatore e lo avevano elevato a loro protettore a somiglianza di colui che essi venerano tuttora, l’uomo che fu crocifisso in Palestina per aver dato vita a questa nuova religione.
    […] Si sono persuasi infatti quei poveretti di essere affatto immortali e di vivere per l’eternità, per cui disprezzano la morte e i più si consegnano di buon grado. Inoltre il primo legislatore li ha convinti di essere tutti fratelli gli uni degli altri, dopoché abbandonarono gli dei greci, avendo trasgredito tutto in una volta, ed adorano quel medesimo sofista che era stato crocifisso e vivono secondo le sue leggi. Disprezzano dunque ogni bene indiscriminatamente e lo considerano comune, seguendo tali usanze senza alcuna precisa prova. Se dunque viene presso di loro qualche uomo ciarlatano e imbroglione, capace di sfruttare le circostanze, può subito diventare assai ricco, facendosi beffe di quegli uomini sciocchi” (De morte Per. XI-XIII)1.
    Interessante il riferimento al Cristo, mai nominato perché troppo spregevole, che viene considerato un sofista (nel senso dispregiativo del termine), ed il “primo legislatore” dei Cristiani, le cui leggi sono da essi seguite (anche Giustino martire, ad esempio, chiama Gesù "legislatore"). L’unica notizia storica su Gesù è il ricordo della sua crocifissione; alcune espressioni fanno pensare ad una diretta conoscenza di certi ambienti cristiani.
    NOTE AL TESTO
    1“Oteper kaˆ t¾n qaumast¾n sof…an tîn Cristianîn ™xšmaqen, perˆ t¾n Palaist…nhn to‹j ƒereàsin kaˆ grammateàsin aÙtîn xuggenÒmenoj. Kaˆ t… g£r; ™n brace‹ pa‹daj aÙtoÝj ¢pšfhne, prof»thj kaˆ qias£rchj kaˆ xunagwgeÝj kaˆ p£nta mÒnoj aÙtÕj ên, kaˆ tîn b…blwn t¦j mn ™xhge‹to kaˆ dies£fei, poll¦j d aÙtÕj kaˆ sunšgrafen, kaˆ æj qeÕn aÙtÕn ™ke‹noi Ædoànto kaˆ nomoqštV ™crînto kaˆ prost£thn ™pegr£fonto, met¦ goàn ™ke‹non Ön œti sšbousi, tÕn ¥nqrwpon tÕn ™n tÍ Palaist…nV ¢naskolopisqšnta, Óti kain¾n taÚthn telet¾n e„sÁgen ™j tÕn b…on. [...] Pepe…kasi g¦r aØtoÝj oƒ kakoda…monej tÕ mn Ólon ¢q£natoi œsesqai kaˆ bièsesqai tÕn ¢eˆ crÒnon, par' Ö kaˆ katafronoàsin toà qan£tou kaˆ ˜kÒntej aØtoÝj ™pididÒasin oƒ pollo…. ”Epeita d Ð nomoqšthj Ð prîtoj œpeisen aÙtoÝj æj ¢delfoˆ p£ntej een ¢ll»lwn, ™peid¦n ¤pax parab£ntej
    qeoÝj mn toÝj `EllhnikoÝj ¢parn»swntai, tÕn d ¢neskolopismšnon ™ke‹non sofist¾n aÙtÕn proskunîsin kaˆ kat¦ toÝj ™ke…nou nÒmouj biîsin. Katafronoàsin oân ¡p£ntwn ™x ‡shj kaˆ koin¦ ¹goàntai, ¥neu tinÕj ¢kriboàj p…stewj t¦ toiaàta paradex£menoi. Àn to…nun paršlqV tij e„j aÙtoÝj gÒhj kaˆ tecn…thj ¥nqrwpoj kaˆ pr£gmasin crÁsqai dun£menoj, aÙt…ka m£la ploÚsioj ™n brace‹ ™gšneto „diètaij ¢nqrèpoij ™gcanèn. Ed. A.M. Harmon, Cambridge, 1936.
    Celso
    Celso, ritratto.
    Chiude l’elenco delle testimonianze non cristiane del II secolo quella uscita dalla penna dell’oscura figura del filosofo Celso; di lui sappiamo solamente che fu un intellettuale seguace di quel medio platonismo che a quel tempo conobbe una notevole fioritura con Plutarco, Attico, Albino, Massimo di Tiro ed altri ancora.
    Tra tutti coloro che si occuparono dell’attacco verso i Cristiani (ci sono rimasti i nomi e talora alcune accuse poco significative del cinico Crescente, di Cecilio, di Frontone, dell’oratore Aristide e di Ierocle), egli è, assieme a Porfirio nel secolo successivo, l’unico veramente degno di nota.
    Sappiamo che Celso scrisse un’opera dedicata interamente alla polemica contro i Cristiani, dal titolo Discorso veritiero (Alethès lógos); esso è comunemente datato tra il 177 e il 180, gli ultimi anni della correggenza di Marco Aurelio col figlio Commodo (171-180). Ma quest’opera, ignorata a quel che sembra dai contemporanei e trascurata dalle generazioni successive, ci è giunta parzialmente solo perché Origene nel 248 decise di farne una dettagliata confutazione (il Contra Celsum); per ribatterne una ad una le argomentazioni, egli riportò letteralmente gran parte dei passi.
    Celso pare non voler riconoscere nulla di buono ai Cristiani: pur sdegnando le volgari calunnie che ancora circolavano al suo tempo, che in parte abbiamo già ricordato e su cui gli apologisti ci hanno lasciato numerose attestazioni (incesto e banchetti tiestei, ma anche accuse di adorare un idolo con testa d’asino, la croce, il sole, i genitali dei sacerdoti, di suscitare venti e tempeste, di invocare fame e pestilenze, di compiere sortilegi), egli rappresenta l’atteggiamento degli avversari del II secolo. Il filosofo mostra di conoscere almeno in parte la Bibbia (certamente qualcosa del vangelo di Matteo) e le sette fuoriuscite dalla “grande Chiesa”; egli accusa il cristianesimo di essere il figlio bastardo della più abbietta religione nazionale, il giudaismo. Solamente l’etica di Cristo pare talora resistere alla sua disapprovazione, ed anche la dottrina del Logos gli aggrada.
    In ultima analisi, tuttavia, il Discorso veritiero è uno scritto politico e pratico: Celso è preoccupato dal fatto che i Cristiani non partecipino alle feste pagane, non prestino servizio militare, non ricoprano cariche pubbliche, collocandosi al margine della società civile (l’odio del genere umano già descritto ottant’anni prima da Tacito). Questo rifiuto di partecipare alla vita pubblica è per lui un “grido di rivolta”1. L’appello con cui si concludeva l’opera di Celso, affinché i Cristiani non si sottraggano più all’ordine civile e religioso generale, servendo così al bene dello stato già tanto debilitato e in pericolo a causa di nemici interni ed esterni, mette in luce questa preoccupazione politica che attraversa tutto il suo scritto.
    Da quanto Origene ci ha conservato, possiamo trarre alcuni giudizi su Gesù Cristo:
    Ad un certo punto si parla della “madre di Gesù, scacciata dall’artigiano che l’aveva maritata, accusata di adulterio, messa incinta da un certo soldato di nome Panthera” (Contra Celsum, I, 32)2.
    “Spinto dalla miseria andò in Egitto a lavorare a mercede, ed avendo quindi appreso alcune di quelle discipline occulte per cui gli Egizi son celebri, tornò dai suoi tutto fiero per le arti apprese, e si proclamò da solo Dio a motivo di esse” (Ivi, I, 28)3.
    “Gesù raccolse attorno a sé dieci o undici uomini sciagurati, i peggiori dei pubblicani e dei marinai, e con loro se la svignava qua e là, vergognosamente e sordidamente raccattando provviste” (Ivi, I, 62)4.


    L’accusa di illegittimità e la figura del soldato Panthera sono state rinvenute anche in ambiente giudaico5: in tal senso, l’origine del nome Gesù figlio di Panthera (Jesûa‘ ben Pandera), testimoniato con piccole varianti grafiche, sarebbe una corruzione del greco parthénos (vergine), una qualifica di Maria che sarebbe stata grossolanamente mal interpretata dai Giudei, fino a farne il nome di un presunto violentatore di lei; diversamente, altri ritengono queste accuse provenienti dai Giudei come tardive rispetto alla testimonianza di Celso. Panthera allora potrebbe essere un vero nome di persona, diffuso tra le truppe romane, come anche testimoniato da alcune iscrizioni.
    È interessante vedere come Origene risponde alle accuse di Celso, specie quando mostra una perfetta ignoranza dei fatti (ad esempio quando parla di dieci o undici discepoli, quando è ben noto che erano dodici). Celso mostra di dipendere da fonti anteriori, specialmente cristiane (il Vangelo di Matteo, ad esempio).
    NOTE AL TESTO
    1 Contra Celsum VIII, 2.
    2 [...] ™n Î ¢nagšgraptai ¹ toà 'Ihsoà m»thr æj ™xwsqe‹sa ¢pÕ toà mnhsteusamšnou aÙt¾n tšktonoj, ™legcqe‹sa ™pˆ moice…v kaˆ kÚousa ¢pÒ tinoj stratiètou Panq»ra toÜnoma. Ed. M. Borret, Paris, 1967-1969.
    3 Kaˆ Óti oátoj di¦ pen…an e„j A‡gupton misqarn»saj k¢ke‹ dun£meèn tinwn peiraqe…j, ™f' aŒj A„gÚptioi semnÚnontai, ™panÁlqen ™n ta‹j dun£mesi mšga fronîn, kaˆ di' aÙt¦j qeÕn aØtÕn ¢nhgÒreuse.
    4 [...] dška epen À ›ndek£ tinaj ™xarths£menon tÕn 'Ihsoàn ˜autù ™pirr»touj ¢nqrèpouj, telènaj kaˆ naÚtaj toÝj ponhrot£touj, met¦ toÚtwn tÍde k¢ke‹se aÙtÕn ¢podedrakšnai, a„scrîj kaˆ gl…scrwj trof¦j sun£gonta.
    5 Cfr. Hullin 2, 22-23; Aboda Zara 40d; Shabbat 14d. Cfr. M. GOLDSTEIN, Jesus in the Jewish tradition, New York, 1950, pp. 32-39.
    Thallos
    All’interno di una sua Cronaca in lingua greca, uno storico di nome Tallo (Thallos) ha lasciato menzione di un fatto concernente il giorno della morte di Gesù: l’oscuramento del cielo[1]. Purtroppo l'opera è andata perduta, ma la citazione del passo che riguardava Gesù era stata inserita nella Chronographia di Sesto Giulio Africano. Questo scrittore, vissuto tra la fine del secondo e il primo quarantennio del III secolo, è noto come progettista della biblioteca imperiale di Settimio Severo; anche la sua opera, però, una storia universale dalle origini ad Eliogabalo, è andata perduta. Fortunatamente alcune parti dell'opera sua sono state citate attorno all'anno 800 da un altro storico bizantino, Giorgio Sincello. La sua opera si intitola Ecloga chronographica, una storia universale che copriva gli anni dalla creazione del mondo fino al regno di Diocleziano. E così, ricordate da Sesto Giulio Africano e ricopiate da Giorgio Sincello, le parole di Tallo sono arrivate fino ai nostri giorni. Giorgio Sincello infatti asserisce di riportare un passo “tratto da Africano, riguardo agli eventi associati con la passione” di Gesù. Africano diceva, richiamando i Vangeli:
    Una terribile oscurità si abbatté su tutto il mondo, le rocce furono spezzate da un terremoto e molti luoghi della Giudea e del territorio restante furono abbattuti. Tallo, nel terzo libro delle Storie, definisce questa oscurità come eclissi del sole, a mio parere irragionevolmente[2].
    Africano continuava il discorso contestando l'affermazione di Tallo: un'eclissi non può verificarsi durante un plenilunio (la Pasqua ebraica), quando la Luna è diametralmente opposta al Sole; doveva quindi trattarsi di un oscuramento straordinario ed inusuale. In tal modo avevano risposto, tra gli altri, anche Origene, Girolamo e Giovanni Crisostomo, contro quegli scrittori anticristiani, soprattutto Celso, che avevano usato questa argomentazione dell'eclissi per contestare la validità del racconto evangelico.
    Non ci interessa qui addentrarci nella disputa sulla natura dell'oscuramento del cielo raccontato dai Vangeli; ci preme però sottolineare che un autore pagano aveva tentato una spiegazione naturalistica di un evento evangelico che evidentemente egli conosceva. È un peccato che l'opera di Tallo sia perduta; ma l'abituale affidabilità di Giulio Africano induce a pensare che la sua citazione sia veritiera. Il contesto può essere facilmente immaginato: Tallo è a conoscenza della spiegazione soprannaturale dell'oscurità registrata dagli evangelisti al momento della morte di Gesù, e ne contesta il carattere soprannaturale, descrivendola come una semplice eclissi. A questo punto Giulio Africano critica la conclusione di Tallo, avanzando l'argomentazione del plenilunio pasquale.
    Non è assolutamente dato di sapere da dove Tallo abbia tratto le informazioni sull'oscuramento del sole nel giorno della morte di Gesù; il fatto che ne parlino anche i Vangeli non significa che Tallo li abbia necessariamente conosciuti: forse si basava su altre fonti scritte che contenevano il racconto della passione, oppure poteva aver ascoltato la testimonianza orale di qualche cristiano. Certamente egli è testimone dell'esistenza di un racconto della passione di Gesù che circolava nel suo ambiente e che evidentemente egli ritiene di dover spiegare in qualche modo.
    Ora, la questione da risolvere riguarda l'identità e soprattutto l’epoca in cui Tallo visse[3]. Spesso si afferma che si trattava di un Tallo samaritano (Thallos samareus) residente a Roma a metà del I secolo, il quale secondo lo storico ebreo Giuseppe Flavio avrebbe concesso un grande prestito ad Agrippa. Ma l'identificazione si basa su una congettura testuale: i manoscritti di Giuseppe infatti riportano la dicitura allos Samareus, cioè “un altro Samaritano”[4]. Poiché così la frase risulterebbe difficile, in quanto l'autore immediatamente prima non stava parlando di nessun altro Samaritano, molti filologi (a partire da Hudson nel 1720) hanno aggiunto la lettera theta davanti ad allos, dando origine a Thallos. Ecco che questo Thallos potrebbe essere il Tallo di Giulio Africano; d’altra parte Tallo era un nome ricorrente nelle liste dei funzionari della casa imperiale, che evidentemente potevano disporre di molto denaro[5]. Si tratterebbe allora del più antico riferimento non cristiano a Gesù, in quanto risalente ad un ventennio dopo la sua morte. Ma qualcuno ha rigettato la correzione, lasciando il testo inalterato[6]; se così fosse, saremmo davanti ad uno storico ampiamente citato da diverse fonti[7], vissuto certamente prima del 180 d.C. - in quanto noto a Teofilo di Antiochia - ma sconosciuto, e neppure necessariamente ebreo, anche se nella sua opera parlava di Mosè. A Roma, comunque, sono attestati altri che portavano quel nome, tra cui un segretario di Augusto[8].
    Un altro problema riguarda la lunghezza dell'opera di Tallo: secondo un passo della Chronica di Eusebio di Cesarea, sopravvissuta solo in traduzione armena, si afferma che Tallo “raccoglie materiale dall'epoca della caduta di Troia fino alla 167° olimpiade” (112-109 a.C.)[9]. Ma dal nostro e da altri passi di Tallo, a noi pervenuti, si evince che la sua storia partiva da prima (la storia di Bel, Cronos, Mosè) e continuava ben oltre. Alcuni pensano ad un errore della traduzione armena, e correggono con argomentazioni paleografiche il numero 167 in 207 (anni 49-52) o 217 (89-92); in quest’ultimo caso, Tallo sarebbe vissuto alla fine del I secolo, o anche dopo. Altri invece pensano all'esistenza di una prima e di una seconda edizione ampliata della medesima opera; altri ancora ipotizzano che Eusebio conoscesse un’altra opera di Tallo, diversa da quella di cui stiamo trattando.
    In definitiva, rimane in sospeso la questione dell’identità di Tallo. La datazione della sua opera agli anni ’50 del I secolo è incerta, perché basata sulla congetturale identificazione di Tallo con il samaritano citato da Flavio Giuseppe, e sull’idea che egli sia vissuto poco dopo il 52 (se si accetta una delle due correzioni del passo di Eusebio). Nell’ipotesi meno ottimistica, Tallo avrebbe potuto essere uno storico non samaritano, vissuto in un periodo indefinito tra la morte di Gesù (che egli conosce) e il 180 (quando viene citato per la prima volta da altri scrittori). La notizia di Tallo rimane importante, ma non è dimostrabile che si tratti della testimonianza extracristiana più antica, come talora si è affermato.
    [1] Mc 15,33: “Giunta l'ora sesta, si fece buio su tutta la terra fino all'ora nona”; cfr. Mt 27,45; Lc 23,44.
    [2] Kaq' Ólou toà kÒsmou skÒtoj ™p»geto foberètaton, seismù te aƒ pštrai dierr»gnunto
    kaˆ t¦ poll¦ 'Iouda…aj kaˆ tÁj loipÁj gÁj katerr…fqh. Toàto tÕ skÒtoj œkleiyin toà ¹l…ou Q£lloj ¢pokale‹ ™n tr…tV tîn `Istoriîn, æj ™moˆ doke‹ ¢lÒgwj. Ed. K. Müller, Fragmenta Historicorum Graecorum, Paris, 1841-1870, vol. III, 517-519, frammento 8.
    [3] Su tutta la questione: F. JACOBY, Die Fragmente der griechischen Historiker, Berlin, 1922-1958, vol. IIB, p. 1157, e IID, pp. 835-836; H. RIGG, Thallus: The Samaritan?, in «Harvard Theological Review» XXXIV (1941), pp. 111-119 ; P. PRIGENT, Thallos, Phlégon et le Testimonium Flavianum témoins de Jésus?, in Paganisme, Judaïsme, Christianisme. Influences et Affrontements dans le Monde Antique, Paris, 1978, pp. 329-334; E. SCHÜRER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, Brescia, 1997, vol. III/1, pp. 699-700; R. E. VAN VOORST, Gesù nelle fonti extrabibliche, Cinisello Balsamo, 2004, pp. 33-37; E. NORELLI, La presenza di Gesù nella letteratura gentile dei primi due secoli, in A. Pitta (a cura di), Il Gesù storico nelle fonti del I-II secolo, Bologna, Dehnoniane, 2005 (Ricerche Storico Bibliche 17/2), pp. 177-182.
    [4] Antiquitates iudaicae, XVIII,VI,4 § 167: “Inoltre da un altro samaritano, che era liberto di Cesare, Agrippa riuscì a ottenere un prestito di un milione di dracme, con cui estinse il debito con Antonia”.
    [5] Un’iscrizione latina parla di un T. Cl. Thallus praepositus velariorum domus Augustianae (Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, p. 8649).
    [6] Cfr. I. MIEVIS, À Propos de la Correction 'Thallos' dans les 'Antiquités Judaïques' de Flavius Josèphe, in «Revue Belge de Philologie et d'Histoire» XIII (1934), pp. 733-740. H. RIGG, Thallus, op. cit., intende l’allos pronominalmente, e traduce: “Da un altro, samaritano di stirpe, che era liberto di Cesare, etc.”
    [7] Tallo è citato da Teofilo di Antiochia (180 circa, Ad Autolycum, 3,29), Minucio Felice (inizio III sec., Octavius, 21,4), Tertulliano (197, Apologeticum, 10; Ad nationes, 2,12), pseudo-Giustino (III sec., Cohortatio ad Graecos, 9), Lattanzio (a cavallo tra III e IV sec., Divinae institutiones, 1,23; 1,13).
    [8] Svetonio, Augustus, 67; Altri Tallo sono menzionati nelle iscrizioni (Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, pp. 6987-6988)
    [9] J. Karst, Die Chronik des Eusebius aus dem Armenischen übersetzt, Leipzig, 1911 (GCS 20), p. 125.
    Appendice
    Secondo taluni commentatori, vi sarebbero anche altre testimonianze storiche che meriterebbero di essere inserite nella presente trattazione, il cui valore però è discusso; le riporto quindi in appendice, dando conto dello stato della ricerca in proposito.


    Appendice: Petronio
    La volontà di Petronio di alludere al cristianesimo nei propri scritti è discussa ed è tuttora oggetto di studio.
    E’ ormai ampiamente accettata la datazione dei frammenti del romanzo latino intitolato Satyricon all’età neroniana (54-68 d.C.), e l’identificazione del suo autore con Tito Petronio Negro, personaggio la cui morte per suicidio, avvenuta nel 66, è drammaticamente descritta dallo storico Tacito nei suoi Annali1. Egli ci è presentato come proconsole della Bitinia e poi console; dopo questi incarichi era stato ammesso nel circolo “dei pochi intimi di Nerone, arbitro di raffinatezza, a tal punto che quegli nulla riteneva essere dolce o voluttuoso, se non ciò che Petronio avesse approvato per lui”2. Da questo epiteto di “arbitro di raffinatezza” (arbiter elegantiae) è scaturito il nome conservatoci dalla tradizione manoscritta con il quale l’autore è universalmente conosciuto: Petronius Arbiter.
    Alcune allusioni all’incendio di Roma del 64 orienterebbero la datazione del romanzo agli anni 64-653, negli anni in cui, dopo l’incendio di Roma, i cristiani subirono la loro prima persecuzione.
    Protagonisti del romanzo sono due giovani, Encolpio e Gitone, cui si aggiungono successivamente Ascilto, Agamennone ed il vecchio poeta Eumolpo; tra le varie peripezie narrateci da Petronio, spicca il lungo racconto di una pantagruelica e lussuriosa cena organizzata in casa del ricchissimo liberto Trimalcione (comunemente identificato con Nerone).
    Circa un secolo fa il Preuschen in uno studio che suscitò molte reazioni aveva evidenziato profonde somiglianze fra un passo del vangelo di Marco, l’unzione di Betania, ed un passo del Satyricon. In esso si narra di Trimalcione il quale, durante il banchetto da lui apprestato, procede all’unzione dei convitati con il nardo, prefigurando tramite gesti simbolici le proprie esequie; di qui, data la somiglianza di questo racconto con l’episodio evangelico, ed anche a causa dello stato degli studi sulla datazione dei vangeli del tempo, lo studioso credette poter spiegare tali somiglianze ipotizzando una imitazione di Petronio da parte dell’evangelista Marco4 . Senza entrare ora nella questione della datazione e della origine del vangelo di Marco, ci basterà notare che non è improbabile che Petronio nel momento in cui scrisse il Satyricon potesse essere a conoscenza di tale scritto, che secondo l’antica tradizione patristica fu redatto proprio a Roma.
    Uno studio di Ilaria Ramelli ha ripreso in considerazione l’ipotesi del Preuschen, ribaltandola: sarebbe stato Petronio a parodiare il vangelo di Marco, e non viceversa.5
    Non sarà inopportuno riprendere qui le sue osservazioni, iniziando proprio dal racconto dell’unzione.
    In Petronio, durante la cena, Trimalcione si fa recare le vesti preparate per la sua sepoltura, del vino con cui saranno lavate le sue ossa e dell’unguento; aperta un’ampolla di Nardo, unge i convitati in prefigurazione della sua unzione funebre e li invita a considerare il pasto come il suo banchetto funebre.
    Nel vangelo di Marco, mentre Gesù si trova a mensa, arriva una donna con un vaso di alabastro pieno di nardo genuino prezioso, lo rompe e unge Gesù sul capo. Il Cristo dice a suo riguardo che ella sta ungendo in anticipo il suo corpo per la sepoltura.
    Come si può notare dalle parti in corsivo, le somiglianze sono evidenti. Ecco in sinossi i due testi, quello del Satyricon e quello del vangelo di Marco:
    “Porta anche dell’unguento e un assaggio da quell’anfora, con cui voglio siano lavate le mie ossa” […] Subito aprì l’ampolla del nardo, unse tutti noi e disse “Spero che possa piacermi da morto quanto da vivo”. Poi comandò che fosse infuso del vino in una brocca e disse “Fate come se foste stati invitati ai miei funerali”6.
    Essendo [Gesù] a Betania in casa di Simone il lebbroso, mentre giaceva, venne una donna che aveva un vaso di alabastro di unguento di puro nardo prezioso; rotto l’alabastro, lo versò sul capo di lui […] “Ciò che ebbe, ella lo fece: anticipò di ungere il mio corpo per la sepoltura”7.
    Trimalcione afferma di aver consultato un astrologo, che gli ha predetto la morte dopo altri trent’anni, cosa della quale egli è persuaso8; poiché dunque non vi è alcuna imminenza della morte per lui, l’ipotesi della parodia del racconto evangelico non pare così azzardata9.
    Un altro passo della cena pare avere reminiscenze evangeliche:
    “Mentre diceva queste cose, un gallo domestico cantò. Turbato da quella voce, Trimalcione comandò che fosse versato del vino sotto la tavola e che anche la lucerna ne venisse cosparsa. Poi passò l’anello nella mano destra e disse: “Non senza ragione questo trombettiere ha dato il segnale; infatti o dovrà scoppiare un incendio, o qualcuno dei vicini dovrà morire. Lungi da noi! Per cui, chi mi porterà questo accusatore riceverà un premio”. In men che non si dica venne portato un gallo da una casa vicina, che Trimalcione ordinò venisse cotto in pentola” (Sat. LXXIV, 1-4)10.
    Mentre qui il canto del gallo è visto come presagio di sciagura, nel resto della tradizione greco-romana esso è preannunzio del giorno e della vittoria, mai presagio di morte11 . Nel vangelo, il duplice canto del gallo invece è indice del tradimento di Pietro prima della morte di Gesù12.
    La definizione petroniana del gallo come index, ovvero, in linguaggio giuridico, come denunziatore, accusatore, sembra ricordare la funzione che rivestì il gallo in Marco, ovvero quella di denunziare il triplice tradimento di Pietro.
    Anche il noto episodio della matrona di Efeso, pare avere altri richiami evangelici:
    “Una matrona di Efeso, […] avendo perso il marito, […] seguì il defunto persino nel sepolcro. […] Nello stesso tempo il governatore della provincia comandò che fossero crocifissi dei ladroni proprio accanto al sepolcro nel quale la matrona piangeva il recente cadavere. La notte seguente, quando il soldato che sorvegliava le croci affinché nessuno togliesse i corpi per seppellirli, notò un lume splendere tra le tombe e udì il gemito di qualcuno che piangeva […] volle sapere chi fosse e che cosa facesse. Scese quindi nella tomba. […] Dunque giacquero assieme non solo quella notte nella quale fu consumato il loro imene, ma anche il seguente ed il terzo giorno, tenendo certamente chiuse le porte del sepolcro. […] Ma i parenti di un crocifisso, come videro diminuita la sorveglianza, tirarono giù di notte l’appeso e gli resero l’estremo ufficio. E quando il giorno successivo il soldato […] vide una croce senza cadavere, atterrito dal supplizio raccontò alla donna quello che era successo. […] Ella disse allora di togliere il corpo del proprio marito dall’arca e di attaccarlo a quella croce che era vuota. Il soldato approfittò dell’ingegno dell’avvedutissima donna, ed il giorno dopo il popolo si meravigliava di come quel morto avesse potuto salire sulla croce” (Sat. CXI-CXII)13.
    La citazione di un governatore provinciale (Pilato?), dei ladroni crocifissi, della guardia sepolcrale e dei tre giorni nel sepolcro, e infine il tema del trafugamento del cadavere, un’accusa rivolta ai cristiani già da tempo14, ci farebbero pensare ad una parodia del racconto della morte e risurrezione del Cristo.
    Una volta accettata la dipendenza Marco-Petronio, molti passi si prestano a simili letture: ad esempio la presunta allusione all’eucarestia nelle parole di Eumolpo che lascia i suoi averi a chi mangerà pubblicamente le sue carni dopo la morte (CXLI, 2)15.
    Recentemente Giuseppe Giovanni Gamba in una monografia che ha mosso i suoi passi da queste constatazioni16, ha creduto di poter commentare tutto il Satyricon in chiave autobiografica, partendo dal presupposto che Petronio abbia voluto fare la parodia del cristianesimo al quale, assieme anche a Nerone, avrebbe per un certo periodo aderito, per poi ripudiarlo. Di qui le identificazioni di Petronio medesimo con Encolpio, di Nerone con Ascilto, di Agrippina con la sacerdotessa Quartilla, di Seneca con Agamennone e di Trimalcione con l’apostolo Pietro che in quel periodo predicava a Roma.
    Al di là di questi sviluppi assolutamente innovativi, qualora fosse anche solo provato un collegamento tra gli avvenimenti evangelici ed il romanzo di Petronio nel modo sopra esposto, saremmo di fronte alla prima velata testimonianza non cristiana di Gesù e della sua Chiesa, redatta nel tempo in cui gli apostoli Pietro e Paolo predicavano e subivano il martirio nella capitale dell’impero romano. Fino a quel momento, possiamo solo considerare questa chiave interpretativa come una interessante ipotesi che necessita di ulteriore approfondimento.
    NOTE AL TESTO
    1 XVI, 17-19. Una rassegna dello status quaestionis dell’attribuzione è offerta dalla voce curata da L. PEPE per il Dizionario degli scrittori greci e latini, a cura di F. DELLA CORTE, Milano, 1987, vol. III, pp. 1605-1618.
    2 Inter paucos familiarium Neroni adsumptus est, elegantiae arbiter, dum nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset. Ed. A. Ernout, Paris, 1962.
    3 Cfr. K. F. C. ROSE, The date and the author of the Satyricon, Leiden, 1971.
    4 E. PREUSCHEN, Die Salbung Jesu in Bethanien, in «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft» III (1902), pp. 252-253, e IV (1903), p. 88.
    5 I. RAMELLI, Petronio e i Cristiani: allusioni al vangelo di Marco nel Satyricon?, in «Aevum» LXX (1996), pp. 75-80. Cfr. anche: http://www.augustea.it/zucchi/Cultura/Ramelli.htm#par3.
    6 Satyricon LXXVII,7; LXXVIII, 3-4: “Profer et unguentum et ex illa amphora gustum, ex qua iubeo lavari ossa mea” […] Statim ampullam nardi aperuit omnesque nos unxit et “Spero” inquit “futurum ut aeque me mortuum iuvet tamquam vivum”. Nam vinum quidem in vinarium iussit infundi et “Putate vos” ait “ad parentalia mea invitatos esse”. Ed. K. Müller, München, 1983.
    7 Marco XIV, 3; XIV, 9: “Cum esset Bethaniae in domo Simonis leprosi et recumberet, venit mulier habens alabastrum unguenti nardi puri pretiosi; fracto alabastro, effudit super caput eius […] “Quod habuit, operata est: praevenit ungere corpus meum in sepulturam”. Nova Vulgata, Città del Vaticano, 1986.
    8 Satyricon LXXVIII, 1.
    9 Cfr. per il tema della morte nel racconto del banchetto di Trimalcione: G. GAGLIARDI, Il corteo di Trimalcione. Nota a Petronio 28, 4-5, in «Rivista di filologia e di istruzione classica» CXII (1984), pp. 285-287; Id., Il tema della morte nella cena petroniana, in «Orpheus» X (1989), pp. 13-25.
    10 Haec dicente eo gallus gallinaceus cantavit. Qua voce confusus Trimalchio vinum sub mensa iussit effundi lucernamque etiam mero spargi. Immo anulum traiecit in dexteram manum et “non sine causa” inquit “hic bucinus signum dedit; nam aut incendium oportet fiat, aut aliquis in vicinia animam abiciet. Longe a nobis! Itaque quisquis hunc indicem attulerit, corollarium accipiet”. Dicto citius [de vicinia] gallus allatus est, quem Trimalchio iussit ut aeno coctus fieret.
    11 Cfr. G. AMIOTTI, Il gallo animale oracolare?, in Sibille e linguaggi oracolari, mito, storia e tradizione, Convegno del 20-24 settembre 1994, Macerata, 1996.
    12 Mc. XIV,30; XIV, 68; XIV, 72.
    13 Matrona quaedam Ephesi […] cum virum extulisset, […] in conditorium etiam prosecuta est. […] Interim imperator provinciae latrones iussit crucibus affigi secundum illam casulam, in qua recens cadaver matrona deflebat. Proxima ergo nocte cum miles, qui cruces asservabat ne quis ad sepulturam corpus detraheret, notasset sibi [et] lumen inter monumenta clarius fulgens et gemitum lugentis audisset, […] concupiit scire quis aut quid faceret. Descendit igitur in conditorium. […] Iacuerunt ergo una non tantum illa nocte qua nuptias fecerunt, sed postero etiam ac tertio die, praeclusis videlicet conditorii foribus […] Itaque unius cruciarii parentes ut viderunt laxatam custodiam, detraxere nocte pendentem supremoque mandaverunt officio. At miles […] ut postero die vidit unam sine cadavere crucem, veritus supplicium, mulieri quid accidisset exponit. […] Iubet ex arca corpus mariti sui tolli atque illi quae vacabat cruci affigi. Usus est miles ingenio prudentissimae feminae, posteroque die populus miratus est qua ratione mortuus isset in crucem.
    14 Nel vangelo di Matteo (XXVIII, 13-15) le guardie del sepolcro di Gesù, istigate dai sacerdoti, devono dire che “i suoi discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo”. […] Così questa diceria si è divulgata fra i Giudei fino ad oggi”.
    15 Omnes qui in testamento meo legata habent praeter libertos meos hac condicione percipient quae dedi, si corpus meum in partes conciderint et astante populo comederint.
    16 Petronio Arbitro e i Cristiani. Ipotesi per una lettura contestuale del Satyricon, Roma, 1997.
    Appendice: Apuleio
    Apuleio
    Il retore africano Apuleio di Madaura (120-180 circa) scrisse intorno al 160 il noto romanzo Le metamorfosi (conosciuto anche come L’asino d’oro), in cui si narrano le peripezie di un certo Lucio che, trasformato in asino, subirà ogni sorta di avventure prima di essere nuovamente riportato alla propria condizione originaria.
    Ad un certo punto del racconto Lucio, già in forma di asino, viene acquistato da un onesto mugnaio, maritato ad una donna dissoluta così descritta:
    “Quel mugnaio, che mi aveva fatto sua proprietà pagandomi, un uomo peraltro buono e soprattutto modesto, aveva ottenuto in sorte come moglie una donna pessima, di gran lunga la peggiore di tutte le donne, e sosteneva pene estreme in casa e a letto, al punto che, per Ercole, anche io me ne doglievo in silenzio per lui. Non mancava alcun vizio a quella pessima donna, ma tutte le nefandezze erano confluite nel suo animo come in una melmosa latrina: crudele, funesta, ammaliatrice, ubriacona, ostinata, caparbia, vergognosamente avara nell’arraffare, scialacquatrice nelle spese per le sue porcherie, nemica della fede, avversaria del pudore. In quel tempo, disprezzati e calpestati i divini numi, al posto della religione stabilita fingeva sacrilegamente di credere in un Dio che proclama unico, osservando cerimonie inconsistenti e ingannando tutti gli uomini e il suo misero consorte, dandosi fin dal mattino al vizio e offrendo continuamente il suo corpo alla fornicazione” (Metam. IX, 14)1.
    Alcuni critici hanno creduto di vedere, nel ritratto di questa donna, una cristiana; gli elementi a favore sono innanzitutto l’allusione alla credenza in un Dio unico e alle inconsistenti cerimonie. In secondo luogo, la terminologia usata per descrivere la sua dissolutezza, ricorda da vicino quella utilizzata ad esempio da Tacito nei confronti dei Cristiani (i flagitia), e gli aggettivi “ostinata” e “caparbia” richiamano alla mente la pertinacia e l’obstinatio dell’epistola di Plinio a Traiano.
    In mancanza di ulteriori elementi, tale interpretazione rimane comunque un’ipotesi.
    NOTE AL TESTO
    1 Pistor ille, qui me pretio suum fecerat, bonus alioquin vir et adprime modestus, pessimam et ante cunctas mulieres longe deterrimam sortitus coniugam poenas extremas tori larisque sustinebat, ut hercules eius vicem ego quoque tacitus frequenter ingemescerem. Nec enim vel unum vitium nequissimae illi feminae deerat, sed omnia prorsus ut in quandam caenosam latrinam in eius animum flagitia confluxerant: saeva, scaeva, viriosa, ebriosa, pervicax, pertinax, in rapinis turpibus avara, in sumptibus foedis profusa, inimica fidei, hostis pudicitiae. Tunc spretis atque calcatis divinis numinibus in vicem certae religionis mentita sacrilega praesumptione dei, quem praedicaret unicum, confictis observationibus vacuis fallens omnis homines et miserum maritum decipiens matutino mero et continuo stupro corpus manciparat. Ed. Giarratano – Frassinetti, Torino, 1961.
    Appendice: Testimonianze giudaiche
    Ho scelto di inserire in appendice, e quindi sotto condizione, quei passi nei quali tradizionalmente molti commentatori scorgono espliciti o impliciti riferimenti a Gesù di Nazareth e ai Cristiani. Per secoli, Ebrei e Cristiani, convinti dell’impossibilità che la tradizione rabbinica avesse tralasciato di lasciare qualche testimonianza su Gesù, hanno estrapolato dagli scritti uno svariato numero di passi, e li hanno collegati al Cristianesimo nascente, sempre senza tenere sufficiente conto del contesto e della tradizione testuale.
    Il risultato di questa attività è la pubblicazione di numerose raccolte di detti rabbinici su Gesù e il Cristianesimo1.
    Che alcuni passi del Talmud e della Misnah, così come ci sono pervenuti, contengano passi ostili a Cristo e alla sua Chiesa, è indubbio; ma il problema sta nello stabilire il momento in cui tali passi furono introdotti nel testo, o furono modificati in senso anticristiano. In realtà, le prime testimonianze manoscritte complete risalgono all’alto medioevo, ed i frammenti o le citazioni più antiche ci mostrano una tradizione testuale molteplice, ampiamente uniformata in epoca altomedievale e ancor di più con l’avvento della stampa.
    Un diverso approccio ai testi è stato inaugurato dagli studi di Johann Maier2; egli ha preso in esame tutti quei passi in cui tradizionalmente si sono viste allusioni cristiane, dimostrando come pochissimi di quei passi reggano ad un’indagine critica. “Per il giudaismo il cristianesimo fu in un primo tempo un fenomeno marginale tra altri; più tardi, il cristianesimo innalzato a religione di stato fu a tal punto visto come la prosecuzione di «Roma», che elementi specificamente cristiani non vennero nemmeno percepiti in quanto tali. Le affermazioni anticristiane contenute nei testi rabbinici riposano su interpolazioni e rielaborazioni posteriori, e sono quindi da considerarsi come fonti per la conoscenza dei rapporti tra giudaismo e cristianesimo non nell’antichità bensì nel primo medioevo”3.
    Quindi, resta accertata la presenza di passi anticristiani nella letteratura rabbinica; ma è dubbio il momento storico in cui furono inseriti. A buon diritto, quindi, ho scelto si inserirne alcuni in appendice, in quanto la loro origine antica, e quindi il loro valore storico di testimonianze dei primi secoli dell’era cristiana, sono stati messi in dubbio dai succitati studi.
    Il Talmud babilonese ci riporta questo racconto (tra parentesi quadre le parole contenute solo in alcuni manoscritti):
    “Viene tramandato: [al venerdì] alla sera della Parasceve si appese Ješu [ha-nôserî = il cristiano]. Un araldo per quaranta giorni uscì davanti a lui: «Egli [Ješu ha-nôserî] esce per essere lapidato, perché ha praticato la magia e ha sobillato e deviato Israele. Chiunque conosca qualcosa a sua discolpa, venga e l’arrechi per lui». Ma non trovarono per lui alcuna discolpa, e lo appesero [al venerdì] alla sera della Parasceve.
    Disse Ulla: «Credi tu che egli [Ješu ha-nôserî] sia stato uno per il quale si sarebbe potuto attendere una discolpa? Egli fu invece un istigatore all’idolatria, e il Misericordioso ha detto «Tu non devi avere misericordia e coprire la sua colpa!». Con Ješu fu diverso, perché egli stava vicino al regno” (Sanhedrin B, 43b)4.
    La spiegazione tradizionale è la seguente5: il passo si riferisce a Gesù, del quale viene anche ricordato con precisione il giorno di esecuzione. L’accenno all’araldo che per quaranta giorni rimanda l’esecuzione di Gesù, è una risposta dell’apologetica ebraica al racconto cristiano della passione, che ci descrive invece un processo frettoloso e privo di testimoni. Il verbo “appendere” al posto di “crocifiggere” non è un problema, perché riscontrabile anche nel Nuovo Testamento (At. 10,39; Gal. 3,13) e in Giuseppe Flavio. La divergenza tra la dichiarazione “esce per essere lapidato” e la successiva morte di croce, è forse un modo per far concordare la verità della crocifissione con l’idea di un processo interamente ebraico.
    L’analisi opposta, invece, preferisce riferire il passo ad un’altra persona, che solo casualmente fu prima lapidata e poi appesa alla Parasceve; egli aveva cinque discepoli (di cui si parla più avanti), tutti lapidati come lui; la frase “con Ješu fu diverso, perché egli stava vicino al regno” significa che quest’uomo era un collaborazionista romano6.
    Un’altra frase del rabbi Abbahu (Palestina, III-IV sec.) è stata vista come una condanna di Cristo:
    “Se qualcuno ti dice: «Io sono Dio», egli è un mentitore; «Io sono il figlio dell’uomo», alla fine dovrà pentirsene; «Io ascenderò al cielo», egli ha detto questo, ma non lo compirà” (Ta‘anit J, 2,1)7.
    La frase si adatta bene a Gesù ma anche ad altri uomini che secondo la testimonianza di Celso in Fenicia e Palestina si attribuivano tali qualità divine (Origene, Contra Celsum VII,9). Invece, secondo altri, si tratta della descrizione stereotipata di un dominatore arrogante8.
    Un altro passo in cui compare il nome di Gesù, è conservato nel Talmud babilonese (‘Aboda Zara 16b); ne abbiamo però altre due recensioni abbastanza differenti (Tosefta Hullin 2,24 e Midrash Qohelet Rabba 1,1.8). Si tratta di un racconto di rabbi Eli‘ezer ben Hyrkanos (I-II sec.).
    Tosefta Hullin
    “Mentre una volta passeggiavo lungo la strada di Sepphoris, trovai Giacomo, un uomo di Kfar Siknin, e mi disse una parola di eresia in nome di Ješûa‘ ben Pntjrj:
    Midrash Qohelet Rabba
    “Io, una volta, andavo lungo la strada di Sepphoris. Mi venne incontro un uomo e Giacomo da Kfar Siknaja era il suo nome. Egli mi disse una parola in nome di Ješû ben Pndr’e questa parola mi ha fatto piacere:
    ‘Aboda Zara
    “Io, una volta, passeggiavo sulla strada superiore di Sepphoris, e trovai un uomo dei discepoli di Ješu ha-nôserî e Giacomo da Kfar Siknaja era il suo nome. Egli mi disse:

    [Continuando con la sola recensione babilonese:]
    «Sta scritto nella vostra Torà: Tu non devi portare il prezzo del meretricio e del cane nella casa del Signore Dio tuo [Deut. 23,19]. Si può dunque fare una latrina per il sommo sacerdote?»
    Ma io gli risposi di no.
    Egli mi disse: «Così mi ha insegnato Ješu ha-nôserî: Dal prezzo del meretricio è raccolto, al prezzo del meretricio deve tornare [Mic. 1,17]. Dal luogo della sporcizia sono venuti, al luogo della sporcizia devono tornare».
    E la cosa mi piacque, e per questo sono stato arrestato, per eresia”9.
    Per chi vi vede un passo cristiano, siamo di fronte ad un detto di Gesù riportato da una fonte rabbinica, che richiama la sua lotta all’osservanza pedissequa e letterale della legge giudaica. E la condanna del rabbi Eli‘ezer, è una condanna del pensiero cristiano. La questione dell’uso del denaro ottenuto col peccato che non può essere impiegato nel Tempio (qui chiamato “casa del Signore”) richiama alla mente la questione dei trenta denari di Giuda (Mt. 27,6-7).
    Si è pensato che questo passo si riferisca certo a Gesù, ma che il suo logion sia stato inventato dai Giudei per screditarlo10; per altri, invece, il passo originariamente non aveva nulla a che fare con Gesù, ma la confusione sarebbe frutto di una maldestra interpolazione medievale. La mescolanza tra Ješûa‘ ben Pntjrj (Pantera?), Ješû ben Pndr’ (Pandera?) e Ješu ha-nôserî (il cristiano), lo studio del contesto e della trasmissione del testo, rivelerebbero un improprio accostamento a Gesù11.
    Esistono numerose citazioni rabbiniche di un certo Ješûa‘ ben Pandera o Panteri/Pantera‘; il fatto che fonti non ebraiche (Celso) parlassero di un certo Gesù figlio di Panther fa pensare alla stessa persona (corruzione del greco parthénos, vergine, o nome di soldato romano?). Secondo Maier, però, tale interpretazione è errata. Ben Pandera era un mago ricordato nella tradizione palestinese, come anche Ben Stada: queste figure vennero poi confuse con Gesù, poi chiamato ha-nôserî, e i passi attribuiti erroneamente a lui. Ma in realtà, questo avvenne molto più tardi12.
    Di notevole importanza un testo dello Šemônê ‘esre (le Diciotto benedizioni), che apriva la celebrazione sinagogale. Non ci è pervenuto un testo originario, ma diverse redazioni, una delle quali (quella di un frammento della Genizah del Cairo) ci conserva esplicita menzione dei cristiani (o “nazareni”) all’interno della dodicesima benedizione:
    “Che per gli apostati non vi sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il dominio dell’usurpazione, e periscano in un istante i Nazarei (nôserîm) e gli eretici (minim): siano cancellati dal libro della vita e non siano iscritti con i giusti. Benedetto sei tu, Signore, che schiacci gli arroganti”13.
    Che i Giudei maledicessero i Cristiani nella preghiera, è testimoniato anche da Giustino, Girolamo ed Epifanio; Giustino, in particolare, rinfaccia ai Giudei di maledire nelle sinagoghe coloro che si son fatti cristiani14. Ma non tutte le redazioni li nominano chiaramente, poiché altre a noi pervenute sono rivolte genericamente ai minim (eretici), senza altre determinazioni. Certo è che nel termine minim si possono comprendere anche i Cristiani, ma non solo. Non è detto poi che esistesse una sola redazione della preghiera, uguale per tutti; secondo la tradizione è la sua formulazione è originaria di Jamnia, tra gli anni 85 e 100 del I secolo, sotto rabbi Gamaliele II, ma facilmente si tratta di un testo già presente anteriormente, sotto diversa forma. Il testo di questa preghiera non sarà comunque mai fisso, fino ai nostri giorni.
    Le fonti cristiane sembrano riferirsi ad una maledizione esplicita contro i Cristiani; d’altra parte, la ricostruzione delle varie redazioni del testo è alquanto difficile, e secondo diversi studiosi la menzione dei Nazarei non è originaria, bensì aggiunta successivamente. In conclusione, se è chiaro un intento di maledizione dei Cristiani nella preghiera giudaica, non è chiaro quando e dove in essa fu inserito esplicitamente tale nome15.
    NOTE AL TESTO
    1 Ad esempio: R. M. MEELFÜHRER, Jesus in Talmude, Altdorf, 1681; H. LAIBLE, Jesus Christus im Thalmud, Leipzig, 1891; R. T. HERFORD, Christianity in Talmud und Midrash, London, 1903, e molti altri.
    2 In italiano la buona raccolta di Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia, 1994.
    3 J. MAIER, Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia, 1994, dalla presentazione in copertina.
    4 In J. MAIER, op. cit, p. 204.
    5 Ad esempio in R. PENNA, L’ambiente storico culturale delle origini cristiane, Bologna, 1984, pp. 244-245.
    6 Cfr. J . MAIER, op. cit., pp. 202-214.
    7 In J . MAIER, op. cit., p. 96.
    8 Cfr. J . MAIER, op. cit., p. 96; R. PENNA, op. cit., pp. 245-246.
    9 In J . MAIER, op. cit., pp. 147-149.
    10 Cfr. J. JEREMIAS, Gli agrapha di Gesù, Brescia, 1965, pp. 47-49.
    11 Cfr. J . MAIER, op. cit., pp. 143-169.
    12 Cfr. J . MAIER, op. cit., pp. 232-243.
    13 In J . MAIER, op. cit., p. 63, con altri passi paralleli; R. PENNA, op. cit., p. 248. Una trattazione di questa preghiera in E. SCHÜRER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, vol. II, Brescia, 1987, pp. 547-554, ove si trova una traduzione delle due recensioni babilonese e palestinese, ed una bibliografia esaustiva.
    14 Cfr. W. HORBURY, The Benediction of the Minim and Early Jewish-Christian Controversy, in «Journal of Theological Studies» XXXIII (1982), pp. 19-61.
    15 Cfr. Cfr. J . MAIER, op. cit., pp. 55-64; R. PENNA, op. cit., pp. 248-249. Sulla questione si veda ora L. VANA, La birkat ha-minim è una preghiera contro i giudeocristiani?, in G. FILORAMO - C. GIANOTTO (a cura di), Verus Israel, Brescia, 2001, pp. 147-189. In breve, S. MIMOUNI, Les Chrétiens d'origine juive dans l'antiquité, Paris, 2004, pp. 71-92







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    La formazione di Gesù
    Data: Venerdì, 15 agosto 2003 @ 12:00:00 CEST
    Argomento: Il Gesù della storia e i suoi seguaci

    Riflessioni sul problema della formazione culturale di Gesù
    di Paolo Sacchi
    Gesù era un ebreo che visse nella Palestina del I secolo. La sua opera, il suo pensiero e la sua formazione culturale vanno pertanto esaminati ed interpretati in rapporto alle correnti di pensiero del suo tempo.



    Introduzione
    Già pubblicato in «Henoch» XIV (1992), pp. 243-260.
    “The full significance of the Pseudepigrapha for Jesus research is not yet envisioned or written.”
    (Charlesworth J.H., Jesus within Judaism, 1988, p. 51)

    E' oggi concezione vastamente affermata, anche se non nuova, che Gesù era un ebreo che visse nella Palestina del I secolo. La sua opera e il suo pensiero vanno pertanto studiati e interpretati all'interno della storia e delle domande che quella società si poneva. Una volta impostato il problema della ricerca su Gesù in questo modo, la sua unicità risulta ridimensionata, ma sarebbe un errore credere che la nuova impostazione abbia eliminato tutte le difficoltà, se non altro perché ogni uomo ha la sua unicità, che va colta non in maniera astratta, ma sulla base delle costellazioni ideologiche del suo tempo. All'interno poi di ogni costellazione ideologica le idee si dispongono in più strati a seconda del valore che una società o un gruppo attribuisce loro. C'è un livello generale di idee che contraddistingue gli ebrei di fronte a tutti i pagani, vere idee madri del giudaismo, quali, per esempio, la fede in un Dio che si è rivelato storicamente, il giudizio di Dio sul mondo, l'importanza della Legge e dell'impurità, il senso profondo del peccato e il problema dell'origine del male, l'attesa messianica; c'è poi un livello inferiore che si può presupporre marcare le differenze fra gruppo e gruppo; vi sono poi livelli ancora inferiori che possono caratterizzare sottogruppi e infine idee personali.
    La formazione di Gesù
    Poiché da Gesù, attraverso la prima comunità cristiana, è derivato quell'importante fenomeno storico che è il cristianesimo, bisogna pensare, in linea di principio, che Gesù abbia comunicato agli ebrei che lo seguirono idee sufficientemente originali da produrre, sia pure attraverso l'interpretazione dei seguaci e in mezzo agli avvenimenti storici, il grande fenomeno cristiano.
    Il problema della unicità di Gesù è noto da tempo e non è annullato dal fatto che egli sia sentito oggi pienamente ebreo. Il problema può solo porsi in maniera migliore, perché abbiamo molti più documenti di quanti non avessero gli studiosi di uno o due secoli fa. Del resto, già il Reimarus, affermando che Gesù era ebreo e andava studiato sullo sfondo delle idee del suo tempo e che la frattura avvenne fra lui e suoi discepoli dava una prima impostazione del problema storico e una prima soluzione1.
    Noi qui non intendiamo affrontare il problema della frattura2, ma solo cercare di individuare la posizione di Gesù in mezzo alle correnti del suo tempo. Forse questo potrebbe essere un primo passo per superare la rigidità con cui il problema della frattura è stato posto. Gli avvenimenti vanno colti nel loro fluire.
    Le fonti che abbiamo a disposizione per affrontare il nostro argomento sono le seguenti. 1) Il Nuovo Testamento. A parte la difficoltà di stabilire, caso per caso, che cosa sia veramente di Gesù e che cosa della prima comunità, tuttavia resta la fonte principale per avere informazioni sulle origini cristiane. Può dare anche informazioni riguardanti i farisei, che vanno accolte per i fatti e dottrine che enunciano indipendentemente dal giudizio. Comunque, anche fatti e dottrine vanno confrontati con quanto dice la Mishnah. 2) La Mishnah. Il testo è utile per individuare idee del tempo di Gesù soprattutto di parte farisaica. C'è il problema della datazione di molte parti. Gli studi sulla stratificazione della Mishnah sono solo agli inizi e le difficoltà non mancano. 3) Gli Pseudepigrafi. Ritengo il problema delle interpolazioni cristiane non così grave come alcuni ritengono. Le interpolazioni cristiane sono in genere bene individuabili e il dubbio metodico va bene in filosofia, ma non in filologia. 4) Letteratura qumranica. 5) Le notizie che si ricavano dagli scrittori, storici e non, ebrei di lingua greca, quali Giuseppe Flavio e Filone.
    Resta ancora il problema del peso globale che ciascun gruppo di fonti può avere. Se uno sfoglia lo Strack e Billerbeck3 può avere l'impressione che nei Vangeli non ci sia nulla che non sia tramandato anche dalla tradizione rabbinica: singole frasi e singole massime sono documentate simili o uguali nell'uno come nell'altro corpus. Ma, come nota il Ben Horin4, è l'accumularsi nel Nuovo Testamento di un certo tipo di massime e di pensiero che dà a questo un aspetto inconfondibile di fronte alla tradizione rabbinica.
    Il fatto è che l'uso, tipico degli ebrei, di esprimersi ricorrendo spesso a topoi letterari universalmente noti, tanto che molti sopravviveranno fino al tardo Talmud (Gemara), fa sì che una medesima massima possa essere impiegata per difendere anche idee differenti5. In altri termini, il confronto non va condotto, o non va condotto solamente, a livello di singole frasi, ma va esteso a interi contesti e alle idee soggiacenti.
    In questa analisi non ci interessano le idee comuni a tutto il giudaismo, che lo caratterizzano di fronte alla civiltà occidentale di allora, considerate in se stesse, ma piuttosto il modo con cui furono interpretate e vissute dai vari gruppi. Cercherò di rivolgere l'attenzione su alcuni elementi che sembrano tali da permettere di distinguere nettamente un gruppo, una corrente di pensiero da un'altra per la loro importanza e per la vastità delle conseguenze che ricadevano sia su singole idee sia sulla vita religiosa e sul comportamento in genere.
    Il pensiero giudaico del tempo di Gesù era travagliato da molti problemi, che si raggruppavano intorno ad alcuni temi fondamentali, dei quali ho già tracciato un elenco. Non tutti questi temi sono riflessi nella predicazione di Gesù, almeno in maniera diretta. Mi limito ad alcuni casi in cui il pensiero di Gesù può essere raggiunto in maniera sufficientemente chiara.


    Per semplificare il procedimento, userò in questo articolo solo il vangelo di Marco, che è ritenuto concordemente il più antico6. Anche se gli altri sinottici presentano, essi stessi, detti e fatti di Gesù in quadri teologici diversi, tuttavia il vangelo di Marco sembra il più adatto per un primo accostamento al nostro problema. Resta inoltre il problema che non è facile distinguere che cosa fosse di Gesù stesso e che cosa della prima comunità. Credo il problema insolubile, almeno in termini di ipsissima verba, ma non così grave come può sembrare a prima vista, perché, data l'antichità della documentazione e l'osmosi fra Maestro e discepoli, penso che i nostri documenti, e in particolare il vangelo di Marco, rispecchino abbastanza da vicino la situazione iniziale. La vita in comune aveva creato una comunità ancora prima della morte di Gesù7.
    1 REIMARUS H.S., I frammenti dell'anonimo di Wolfenbüttel, pubblicati da G.E. Lessing, (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, serie testi 3) a cura di F. Parente, Napoli 1977, p. 365: "...errore comune fra i cristiani: questi, confondendo la dottrina di Gesù con quella degli apostoli,...". Cfr. anche p. 358.
    2 Un'ottima sintesi del problema in PARENTE F., Il problema storico dei rapporti tra essenismo e cristianesimo prima della scoperta dei Rotoli del Mar Morto, in «La Parola del Passato» 86, 1962, 333-370 e 95, 1964, 81-124.
    3 STRACK H.L. - BILLERBECK P., Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, München 1922-
    4 BEN CHORIN S., Fratello Gesù, Un punto di vista ebraico sul Nazareno, Brescia 1985 (Edizione tedesca del 1967), p. 116.
    5 VERMES G., Jewish Literature and the New Testament Exegesis, in " Journal of Jewish Studies" 33, 1982, 361-378, pp 372 sgg.
    6 Cfr. SCHMITHALS W., Einleitung in die drei ersten Evangelien, Berlin - New York 1985. Circa la possibilità di una data alta del vangelo di Marco, cfr. CARMIGNAC J., La naissance des Evangiles synoptiques, Paris 1984 1 & 2; Robinson J.A.T., Redating the New Testament, London 1976.
    7 Cfr. THEISSEN G., Gesù e il suo movimento. Analisi sociologica della comunità cristiana primitiva, Torino 1979, p. 16 (edizione tedesca del 1977). Sono convinto che il criterio della Discontinuità debba essere applicato con cautela.
    1) Marco 2, 1-11 (l'episodio del paralitico).
    A un primo livello interpretativo, si nota che in questo passo Gesù identifica se stesso con la figura e, in ogni caso e soprattutto con le funzioni del Figlio dell'Uomo, un personaggio celeste che ci è noto dal circa contemporaneo Libro delle Parabole, dove ha funzioni di giudice universale alla fine dei tempi1. Conosce tutti i segreti della giustizia e fu creato prima del tempo. Non sappiamo se la gente conosceva la teologia del Libro delle Parabole, ma è certo che almeno questo sapeva, che il Figlio dell'Uomo era il giudice supremo; altrimenti il colloquio fra Gesù e la gente non avrebbe alcun senso.
    In questo caso il rapporto fra il Libro delle Parabole e Gesù è chiaro, ma non andrà interpretato in maniera letteraria. Da questo testo non si deduce tanto che Gesù conoscesse il Libro delle Parabole, quanto che doveva esistere fra la gente, almeno nella Galilea, una conoscenza diffusa del Figlio dell'Uomo come Giudice supremo. Ora, il Libro delle Parabole è etichettato dai moderni come libro apocalittico. Purtroppo si tratta di una categoria di pensiero ignota agli antichi. Inventare categorie moderne di pensiero è legittimo, ma è indispensabile metterle in rapporto al pensiero antico. Altrimenti l'uso delle fonti diventa impossibile, perché il linguaggio nostro non coincide con quello antico e potremmo essere tentati a pensare che gli antichi ignorassero quelle opere che noi chiamiamo apocalittiche: un fenomeno troppo vasto e denso di pensiero per essere stato ignorato dai contemporanei. Vedremo in seguito come interpretare questo fatto.
    Questo brano suscita anche un altro problema. Gesù dice di essere in grado di rimettere i peccati, cioè di "giustificare". Il problema della liberazione dal male e dal peccato in particolare era molto sentito all'epoca di Gesù e già da tempo; perché il peccato era sentito come l'unico vero ostacolo alla salvezza. Si pensi allo Yom Kippur e al rilievo che aveva questa festa nel libro dei Giubilei (5, 17-18).
    Nell'essenismo esisteva una forma di giustificazione gratuita: chiunque aderiva alla setta e aveva fede ('emunah) nel Maestro di Giustizia otteneva la giustificazione (Pesher Hab. 8, 2-3), oppure secondo le parole della Regola (1QS 3, 6): «Perché per mezzo dello spirito del vero consiglio riguardante la condotta dell'uomo sono purificati tutti i suoi peccati». Ma si vedano anche le parole dell'autore anonimo di 1QS 11, 3 sgg: «Con la sua giustizia egli cancella i miei peccati, perché dalla fonte della sua conoscenza Egli ha fatto scaturire la mia luce...Dalla fonte della Sua giustizia deriva la mia giustificazione (mishpati)...Io, se sbaglio, la misericordia di Dio (hasde el) è sempre la mia salvezza e, se inciampo per il male della carne, il mio giudizio (si fonda) sulla giustizia di Dio che sempre sta salda .Egli sempre purifica tutti i miei peccati. Con la sua giustizia egli mi purifica dall'impurità dell'uomo e dal peccato dei figli dell'uomo». Nelle Hodayot si legge (1H 4, 37-38): «Tu purifichi (tekapper) l'iniquità e puri[fichi (tt[hr]) i figli dell'uo]mo dal peccato per mezzo della tua giustizia...ché hai creato il giusto e il malvagio». La traduzione di questi passi non sempre è sicura, specialmente per quanto riguarda le parole in corsivo, ma il senso generale è sicuro.
    L'episodio del paralitico mostra come anche per Gesù (e a quanto pare all'inizio della sua predicazione, nell'interpretazione di Marco) la giustificazione gratuita dal peccato appariva come l'unica via di salvezza dal male. Certo la giustificazione del Maestro di Giustizia è legata al suo predeterminismo e alla sua particolare concezione dell'illuminazione; elementi che non ci sono nel pensiero di Gesù, ma l'idea che la via di salvezza consiste nell'ottenere attraverso un qualunque mezzo, che forse non è ancora chiaro nel suo pensiero, il perdono gratuito da parte di Dio, è propria anche di Gesù. Il tema della giustificazione gratuita mette il pensiero di Gesù in relazione con l'essenismo piuttosto che con l'apocalittica2 o col farisaismo.
    1 Accetto l'interpretazione del Figlio dell'Uomo di Daniele 7 come simbolo collettivo di tutto il popolo di Israele. Comunque la figura del Figlio dell'Uomo, simbolica in Daniele, divenne in seguito figura autonoma e reale. Il tentativo recente di interpretare anche il Figlio dell'Uomo del Libro delle Parabole come simbolo collettivo per Israele non trova appoggio nel testo. Cfr. SEGALLA G., Le figure mediatrici di Israele tra il III sec. a.C. e il I sec. d.C.: progettazione e illustrazione del tema, in "Ricerche storico bibliche" 1, 1989, 13-66.
    2 Cfr. l'Apocalisse Siriaca di Baruc e il Quarto Libro di Ezra, che hanno posizioni esplicite e contrarie a quelle di Gesù: la salvezza appartiene al giusto.


    2) Il calendario.
    Secondo tutti e tre i sinottici Gesù celebrò la Pasqua prima che la si celebrasse in Gerusalemme. Quella festa importante che i tre sinottici fanno cadere nel sabato successivo alla morte di Gesù, Giovanni la chiama esplicitamente Pasqua, cosa che gli permette di sviluppare il teologumeno di Gesù agnello che muore insieme agli agnelli pasquali. Naturalmente Giovanni non dice che Gesù aveva già celebrato la sua Pasqua: Gesù aveva solo fatto «la Cena».
    Questa contraddizione aveva sempre molestato i critici. Credo che la soluzione prospettata dalla Jaubert e, nonostante le critiche, riconfermata più volte, sia della massima evidenza1. Gesù non seguiva il calendario dei Farisei, ma ne seguiva un altro.
    Ora, questa presenza di due calendari liturgici diversi al tempo di Gesù è certa. Da una parte si seguiva il più antico calendario solare; da un'altra il calendario lunisolare proprio già da tempo dell'amministrazione di Giuda, perché era il calendario di tutti i popoli circonvicini. Il calendario lunisolare, che esisteva in Gerusalemme almeno dal tempo di Menelao2, fu introdotto nella liturgia verso la fine del I sec. a.C., secondo un passo più volte riportato nelle scritture rabbiniche e che narra come ci si rivolse a Hillel (il vecchio) per risolvere il problema, se era più forte la legge del sabato o quella della Pasqua, «perché si era dimenticata la norma». Poiché la Pasqua cade di sabato con discreta frequenza, è assolutamente impensabile che nessuno si ricordasse più come ci si comportava in passato. In realtà ci volle una decisione normativa solo in quanto era un caso che prima non era mai capitato nel tempio3.
    Questo fenomeno del doppio calendario lascia intravedere una società che, sul piano religioso, doveva essere in qualche modo spaccata in due: coloro che seguivano l'innovazione liturgica dei farisei e coloro che non la seguivano.
    1 Cfr. JAUBERT A., La date de la Cène, Paris 1957; JAUBERT A., Jésus et le calendrier de Qumran, in "New Testament Studies" 7, 1960-61, 1-30; JAUBERT A., Le mercredi où Jésus fut livré, in "New Testament Studies" 14, 1968, 145-164; MODA A., La date de la cène; sur la thèse de M.lle Annie Jaubert, in "Nicolaus" 3, 1975, 53-116; VANDERKAM J.C., The Origin, Character and Early History of the 364-Day Calendar: A Reassessment of Jaubert' Hypothesis, in "Catholical Biblical Quarterly" 41, 1979, 390-411.
    2 Cfr. BECKWITH R.T., The Earliest Enoch Literature and its Calendar; Marks of their Origin, Date and Motivation, in "Revue de Qumran" 10, 1981, 365-403; CRYER F.H., The 360-Day Calendar Year and Early Judaic Sectarianism, in "Scandinavian Journal of Old Testament" 1, 1987, 116-122; DAVIES P., Calendrical Change and Qumran Origins: An Assessment of VanderKam's Theory, in "Catholical Biblical Quarterly" 45, 1983, 80-89; SACCHI P., Testi palestinesi anteriori al 200 a.C, in "Rivista Biblica" 34, 1986, 183-204; VANDERKAM J.C., 2 Maccabees 6, 7a and Calendrical Change in Jerusalem, in "Journal for the Study of Judaism" 12, 1981, 52-74; VANDERKAM J.C., The 364-Day Calendar in the Enochic Literature, in Soc. Bibl. Lit. Sem. Papers 22, Chico 1983, 157-165. [Cfr. altra bibliografia aggiornata in: Il calendario giudaico, nel sito www.christianismus.it n.d.r.].
    3 JPesahim 33a. Cfr. MANNS F., Pour lire la mishna, Jerusalem 1984, pp. 50-51.
    3) L'impurità (Marco 7).
    Al tempo di Gesù l'impurità1 costituiva problema da tempo. Nella lettera di Aristea il problema della purità nasce dal contatto coi pagani e la risposta è dettata sia dal convincimento di essere nel giusto, sia dal desiderio di trovare una risposta adeguata alla mentalità pagana2. Ma in seguito il problema deve essere penetrato nella stessa società giudaica. Non ci si domandò più come rispondere ai pagani, ma in maniera più esistenziale che valore avesse la purità. R. Hanina ben Dosa (I a metà del I sec.d.C.), che fece un trato di strada portando sulle spalle la carcassa di un serpente (`arod), dette a suo modo una risposta al problema: l'impurità non esiste3. E' interessante notare che noi deduciamo una concezione di R. Hanina da un suo gesto: forse anche alcuni gesti di Gesù potrebbero essere sottoposti a questo medesimo metodo di analisi.
    L'essenismo sviluppò il concetto di impurità in senso opposto: non solo l'impurità esisteva, ma era sinonimo di peccato e in ogni caso una forza maligna. «L'uomo, diceva il Maestro di Giustizia, è nel peccato (`awon) fino dall'utero» (1QH 4, 29-30). In questo caso "peccato" non significa “trasgressione”, ma il suo significato è più vasto: doveva essere una forza, una res che in qualche modo invadeva l'uomo fino dal suo concepimento. Nella Regola della Comunità si legge che chi non entra nella setta «non sarà giustificato per la grande (?) durezza del suo cuore...non sarà santificato nemmeno da tutta l'acqua dei mari e dei fiumi..., ma resterà completamente impuro per tutto il tempo che rifiuterà la volontà (mishpatim) di Dio» (3, 3-6). La via di salvezza dal peccato coincide con la purificazione. Le norme di purità furono importantissime per gli esseni. L'impurità era il peccato stesso.
    Ora, secondo Gesù, l'impurità esisteva realmente4. Si limitava a escludere che potessero esistere cibi impuri, o, in ogni caso, che la loro impurità fosse capace di contaminare l'uomo. Non esiste, in Gesù, una presa di posizione circa l'impurità da contatto5. Ma nell'insieme appare chiaro che per Gesù contaminava il peccato e solo quello. Ma resta aperto il problema di come interpretare il peccato, se anche la trasgressione delle norme di purità era in effetti un peccato.
    Dall'insegnamento di Gesù ai discepoli si deduce che per lui le norme di purità dovevano essere considerate abrogate. D'altra parte il concetto di `norma di purità, che per noi che viviamo venti secoli dopo, è chiaro, doveva essere abbastanza complicato a esprimersi in quel tempo, in una società non abituata alla concettualizzazione. Un termine, che indicasse quelle cose che noi oggi chiamiamo "norme di purità", mancava. L'espressione moderna deriva proprio dalla concettualizzazione, posteriore a Gesù, dei termini del problema. Perché altro è dire «l'impurità esiste» o «non esiste»; altro è dire «l'impurità esiste, ma non tutto ciò che si crede che contamini, contamina». Ci voleva una parola che indicasse quelle cose che si credeva che contaminassero, ma che non contaminavano.
    Ciò rese l'insegnamento di Gesù ambiguo e lo si vede bene dai problemi che ebbe la chiesa nascente su questo punto (vedi l'episodio di Pietro a Cesarea che non sa se entrare o meno nella casa del pagano e quello di Pietro ad Antiochia6). Resta comunque che l'impurità per Gesù esisteva ed era una forza negativa legata al peccato.
    Nella II a metà del I secolo anche Ben Zakkai tornò sul problema dell'impurità, per affermare7, sulla linea di Hanina ben Dosa, che l'impurità non esiste («Il cadavere non contamina»; «l'acqua non purifica»), ma contemporaneamente insiste che tutto ciò che riguarda la purità è contenuto nella Torah e che quindi l'uomo ha l'obbligo di osservare la volontà di Dio.
    Anche sul tema dell'impurità le diverse opinioni degli ebrei si dispongono intorno a due centri: coloro che credevano che l'impurità esistesse realmente e coloro che la consideravano solo un problema legato alla Legge. I gruppi ebraici sembrano disporsi sempre allo stesso modo. Da una parte i farisei, dall'altra gli esseni: non è chiaro da che parte stiano i testi che chiamiamo apocalittici, perché il problema non mi pare che vi appaia.
    1 Cfr. BOOTH R.P., Jesus and the Laws of Purity, Tradition History and Legal History in Mark 7 (Journal for the Study of the New Testament Suppl. Series 13), Sheffield 1986.
    2 Cfr. Lettera di Aristea, §§ 142 sgg.
    3 Cfr. bTaanit 25a e bBerakot 33a. Vedi anche VERMES G., Gesù l'ebreo, Roma 1982, Roma 1983 (Seconda edizione inglese dello stesso anno).
    4 Cfr. anche Matteo, 15. L'ideologia riguardante il puro e l'impuro è la stessa che in Marco, anche se i due brani non sono uguali. La mancanza del tema dell'impurità dei cibi si può spiegare in Luca pensando ai destinatari pagani.
    5 Mi resta difficile interpretare alcuni gesti di Gesù che potrebbero riguardare questo problema, come l'episodio dell'emorroissa (Marco 5, 25-34) e certa facilità ad incontrare i peccatori. Si tratta di gesti che non sono così radicali come quello di R. Hanina, ma abbiamo visto che per Gesù l'impurità esisteva.
    6 Cfr. Atti 10 e Galati 2, 11-14. Per un'interpretazione diversa degli avvenimenti narrati in questi passi, cfr. VERMES G., Gesù l'ebreo, op.cit., 31-32 e Idem, The Gospel of Jesus the Jew, Newcastle upon Tyne 1981, p. 39. Fra gli atti di Gesù che possono gettare qualche luce sulla sua concezione dell'impurità, penso che possano avere qualche importanza gli episodi del cap. 5 di Marco (22-43), sia tutti quegli episodi che mostrano una certa facilità di Gesù a intrattenersi anche con pubblici peccatori.
    7 Questo testo è studiato dal NEUSNER, The Idea of Purity in Ancient Judaism (Studies in Judaism in Late Antiquity), Leiden 1973, p. 105-106. Egli ne mette in dubbio l'antichità. In effetti «if Yohanan ben Zakkai had said such a thing, then his opinion was everywhere ignored for the next four or five centuries... This to be sure is not a decisive argument, for his pro-gentile sayngs were similarly ignored». A favore dell'antichità del passo, o almeno delle sue idee, sta soprattutto il fatto che rispondeva a una esigenza precisa del giudaismo della fine del I secolo, nel quale, come abbiamo visto, il problema era stato posto ed esigeva una risposta. Una volta che l'allontanamento da pagani e da minim fu realizzato, il problema restò nell'ombra a lungo.
    4) Il messianismo.
    Il discorso sulla messianicità di Gesù è stato viziato dall'interpretazione che normalmente si dava (e ancora si dà da parte di alcuni studiosi) del messianismo. Il Messia atteso, si dice, doveva essere, per gli ebrei del tempo di Gesù, il discendente di David che sarebbe salito sul suo trono per ristabilire le sorti di Israele e dell'umanità (è la concezione dei Salmi di Salomone). Se questa fosse stata la concezione messianica di tutti gli ebrei, è chiaro che la pretesa che Gesù fosse il Messia (concezione che fu alla base della Chiesa nascente), sarebbe stata assolutamente innovativa in seno al giudaismo; tanto innovativa da essere addirittura al di fuori delle normali categorie del pensiero ebraico. In Marco il problema del segreto messianico è indizio del fraintendimento del pensiero di Gesù da parte di alcuni contemporanei, fraintendimento che ben corrisponde a certa ambiguità del pensiero di Gesù. Il testo di Marco sembra più vicino ai fatti che non il vangelo di Giovanni. Questi interpreta Gesù senza mezzi termini. Gesù non volle essere re, perché il suo regno era di un altro mondo (6, 15 e 18, 36). Il fatto è che non tutti gli ebrei aspettavano il messia-condottiero, come attendeva ancora R. Aqiba. Al tempo di Gesù c'erano in Palestina anche altri tipi di messianismo, legati o al sacerdozio o a figure superumane.
    Il pensiero di Gesù riguardo al Messia è espresso chiaramente in Marco 12, 35-37. Che Gesù si sentisse o meno figlio di David, ci tenne a chiarire che il Messia era superiore a David, il quale lo chiamò «mio signore». Qui non si tratta di stabilire se l'interpretazione che Gesù dette del salmo fosse giusta o sbagliata: si tratta solo di affermare che era la sua. Egli si sentì il Figlio di Dio1 e quindi superiore a David. E' stato osservato che l'appellativo di "Figlio di Dio" non era per gli ebrei da intendersi alla lettera e che fu titolo attribuito non solo a Gesù2, ma resta in ogni caso la sua autoidentificazione col Figlio dell'Uomo, il terribile Giudice escatologico, anche se con Gesù diventa il giudice che perdona. Se Gesù si ritenne Messia, fu Messia superumano e se fra i vari titoli che furono attribuiti a Gesù, quello che si affermò nella prima comunità cristiana fu quello di Messia, ciò fu possibile solo perché per molti ebrei del tempo il Messia doveva avere caratteri superumani.
    Oggi può sembrare strano che si potesse pensare che esistevano figure superumane, ma la cosa non era così ai tempi di Gesù. Tutti sapevano che Elia doveva tornare sulla terra, perché così stava scritto nella Scrittura (Malachia 3, 22-24) e, se doveva tornare sulla terra, voleva dire che non era morto, anche se era nato come tutti gli uomini. Anche di Enoc si sapeva che non era morto (Genesi 5, 24) e l'esistenza della cosiddetta Tradizione Enochica mostra che molti credevano che Enoc fosse vivo in qualche parte del cosmo con funzioni particolari e molto vaste. Recenti scoperte di Qumràn ci hanno fatto vedere l'esistenza anche di un Melchisedek celeste3, indicato come un elohim4. Del Figlio dell'Uomo il Libro delle Parabole dirà addirittura che fu creato prima del tempo (Enoc Etiopico 48, 3). Se il fenomeno delle figure superumane era comune a tutto il giudaismo, lo sviluppo delle loro funzioni e della loro sempre maggiore grandezza fu fenomeno che avvenne nella sfera dell'essenismo e dell'apocalittica.
    Era opinione diffusa al tempo di Gesù che qualcuna di queste figure (e magari anche altre) potessero venire o tornare a vivere sulla terra con funzioni salvifiche. Si legge in Matteo 11, 14 : «Egli è quell'Elia che deve venire»; in 16, 14 : «Alcuni dicono che sei Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei profeti». Si veda anche Luca 9, 7-9;18-19; Giovanni 1, 19-21. Qualunque sia l'interpretazione esatta di ciascuno di questi passi, è chiaro che Gesù interpretava la sua funzione nei piani di Dio come messianica e di un messianismo decisamente più simile a quello superumano degli esseni e dell'apocalittica che a quello umano (davidico o no) dei farisei.
    Resta il fatto delle sua autoidentificazione con la più grande di tutte le figure superumane, implicita in Marco ed esplicita poi, ancora una volta, in Giovanni5. In questo appare la novità di Gesù, ma è anche chiaro in quale sfera di pensiero si muoveva.
    1 Cfr. CHARLESWORTH J H., The Righteous Teacher and the Historical Jesus, in Weaver W.P., Perspectives on Christology, Nashville 73-94, pp. 82-89.
    2 Cfr. VERMES G., Gesù l'ebreo, Roma 1983, pp. 224-233.
    3 E' il frammento 11Q13 (=11QMelch). Cfr. VAN DER WOUDE A.S., Melchisedek als Erlösergestalt in den neugefundenen eschatologischen Midrashin aus Qumran Höhle XI, in "Oudtestamentische Studie" 14, 1965, 354-373 e PUECH E., Notes sur le manuscrit de 11QMelchisédeq, in "Revue de Qumrân" 12, 1987, 483-515. Cfr. inoltre la Lettera agli ebrei, 7, 3: «Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita...» e Enoc Slavo 68-73, dove Melchisedec nasce virginalmente da Sofonim ed è portato dall'arcangelo Michele nel giardino dell'Eden, dove vive eternamente.
    4 Sul Melchisedec detto 'elohim, cfr. GIANOTTO C., Melchisedek e la sua tipologia (Supplementi alla "Rivista Biblica" 12), Brescia 1984, 64-75.


    5 L'identificazione di Gesù è implicita nei sinottici (vedi il passo di Marco 2 precedentemente studiato); diviene esplicita in Giovanni, anche se usa questo titolo per Gesù più raramente degli altri evangelisti: cfr. 9, 35-39. Questo si spiega bene con la data più tarda dell'opera di Giovanni rispetto a quella dei sinottici. Quando Giovanni scriveva, Gesù era ormai il Messia.
    5) Un caso importante di halakah: il divorzio.
    Non c'è dubbio che per i farisei il divorzio, o meglio il ripudio era lecito secondo la Legge deuteronomica. Si poteva discutere sui motivi che lo legittimavano, ma non sul principio1. Altrettanto è chiaro che il ripudio non era lecito per gli esseni, anzi questi respingevano, molto probabilmente, anche le seconde nozze del vedovo2. Nel vangelo di Marco, la posizione di Gesù sembra uguale a quella essenica, tranne il problema delle seconde nozze del vedovo, del quale non parla. Paolo le concede, ma, se per concederle, fa alcuni ragionamenti, ciò significa che si trattava di un problema discusso, non pacifico. E' sostanzialmente una concessione, fatta da Paolo alla luce del principio «è meglio sposarsi che ardere»3.
    Ancora una volta il pensiero di Gesù si muove nella sfera della spiritualità essenica, non di quella farisaica.
    1 Si veda la discussione fra le scuole di Hillel e di Shammai sulle cause che legittimavano il ripudio. Cfr. STRACK E BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, I, pp. 313 sgg. (Gittim 9, 10).
    2 Cfr. Documento di Damasco 4, 20-21: lqht sty nsym bhyyhm, wyswd hbry'h «zkr wnqbah br' 'wtm» «Essi prendono due donne nella loro (riferito agli uomini) vita, mentre il principio della creazione è: maschio e femmina Dio li creò». Per quanto vi siano molte interpretazioni e quella qui indicata non sia la più seguita, tuttavia se il testo va letto per quello che dice non può significare altro, perché "loro" è riferito a un sostantivo maschile. Dunque il senso è: «La colpa consiste nel fatto che essi prendono più di una moglie durante la vita». Il fatto stesso che si sottolinei "durante la vita" mostra che il problema non sta nella simultaneità (condanna della poligamia), ma nel permettere le seconde nozze. MORALDI L. (I manoscritti di Qumran, Torino 1986 2, p. 236) dichiara il testo non chiaro, ricorda tutte le interpretazioni possibili e opta per "loro" da intendere come riferito alle donne. Cfr. BRAUN H., Qumran und das Neue Testament, Tübingen 1966, I, 40-42 e 192-193.
    3 Paolo (1Cor. 7) a proposito dei non sposati e dei vedovi, consiglia di vivere in continenza (v.9); ma alla fine (v. 39) spiega che le seconde nozze sono lecite, perché la moglie è vincolata dalla Legge al marito per tutto il tempo in cui il marito vive (che è la falsariga del «durante la vita» del Documento di Damasco). Ma se il marito muore, la donna è libera. Paolo non ha in mente la poligamia, ma chiaramente le nozze del vedovo: se deve argomentare per concedere (Paolo ha già fatto la concessione al v.8), ciò significa che la cosa non era del tutto ovvia e che qualcuno doveva negare questo diritto del vedovo alle seconde nozze.
    Conclusioni
    Dall'analisi condotta su questi pochissimi passi, riguardanti però motivi di fondo del pensiero giudaico del tempo di Gesù, il giudaismo appare sostanzialmente diviso in due grandi tipi. Ciò che li caratterizza come "grandi tipi" non è indicato dalle singole conclusioni, ma dai punti di partenza e dai concetti usati per risolvere i problemi. L'importanza del messianismo deriva da un atteggiamento di sfiducia nell'uomo che non è nuovo nel giudaismo, come non è nuovo l'atteggiamento opposto: questa sfiducia nell'uomo cerca una via di salvezza esclusivamente nella bontà e nella misericordia divine. Quest'atteggiamento favorisce la concezione dell'impurità come res, perché l'impurità così concepita limita veramente l'uomo, che in certe posizioni estreme dell'essenismo sembra addirittura annullato.
    Ma questi due atteggiamenti opposti c'erano già da tempo nel mondo giudaico, anche se non concettualizzati. Colui che attendeva la salvezza dal re-messia (Isaia 11) aveva una religiosità diversa da colui che scrisse Deuteronomio 30, 15: «Ecco io pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male»1.
    Questa impressione, ricavata dall'esame dei testi, che esistessero in Palestina due tipi principali di giudaismo, è sostanzialmente confermata dal pensiero di Giuseppe Flavio, che può essere considerato testimone diretto del periodo di cui stiamo parlando, anche se da porsi alla sua fine.
    Giuseppe Flavio distingue all'interno del giudaismo solo tre gruppi, cui dà il nome di farisei, sadducei ed esseni: le correnti di pensiero giudache (hairéseis o philosophíai) sono per Giuseppe Flavio sempre tre, anche quando in Antichità Giudaiche (A.J.) 18 ne presenta quattro: le filosofie sono tre (§ 11); «Alla quarta filosofia...» (§ 23).
    Per quanto Giuseppe Flavio si diffonda in molte notizie riguardanti queste sette e specialmente in quelle riguardanti gli esseni, tuttavia riassume sempre il suo pensiero secondo un principio preciso, che a Giuseppe Flavio appariva come il fondamento delle divergenze. Il criterio era costituito dallo spazio che ciascuna setta attribuiva all'azione dell'uomo e a quella di Dio. Ai due estremi della categoria interpretativa stanno gli esseni e i sadducei. I farisei stanno nel mezzo e questo doveva essere per Giuseppe Flavio un segno di merito. Spiega però che storicamente i sadducei erano inconsistenti (A.J. 18, 17) e di fatto assorbiti dai farisei. Ne consegue che egli vedeva le ideologie giudaiche di Palestina, almeno fino al 70, classificabili in due grandi gruppi che potevano essere detti, in maniera più astratta che storica, quello degli esseni e quello dei farisei-sadducei. I due gruppi si distinguevano per il fatto che gli uni attribuivano tutti gli eventi umani a Dio, mentre gli altri sentivano il valore dell'azione umana. E' ovvio che si tratta di una classificazione fatta su base ideologica in senso lato più che storica: i principi del farisaismo e dell'essenismo non furono solo dei gruppi che portarono storicamente questi nomi e che Giuseppe Flavio sapeva anche poco numerosi, anche se più o meno influenti. In altri termini le "filosofie" giudaiche non corrispondono ai gruppi storicamente attivi. E' interessante notare che il termine "filosofie" compare solo nel testo da lui scritto per ultimo; prima le "filosofie" erano dette hairéseis, termine che presupponeva una maggiore concretezza storica e che alla fine gli sembrò inadeguato.
    Chiarissimo è il testo di A.J. 13, 172-173, che è il più breve e quindi il più schematico di tutti. Il nocciolo del problema, per Giuseppe Flavio, è l'atteggiamento dell'ebreo di fronte a ciò che egli chiama Destino. I farisei, dice Giuseppe Flavio, ritengono che solo alcune cose siano opera del Destino (cioè del volere di Dio2); i sadducei negano questo Destino e ritengono l'uomo responsabile di tutto ciò che gli capita nella vita; gli esseni dichiarano che di tutto è padrone il Destino3.



    Data l'esperienza diretta di Giuseppe Flavio, il suo criterio storiografico doveva essersi formato a contatto con un problema particolarmente sentito in quel tempo e tale da dividere gli animi. Questa osservazione lo rende particolarmente importante: non è una divisione operata da noi e di cui i contemporanei non avevano coscienza. Se la coscienza di questa divisione fosse solo nostra, essa avrebbe importanza solo per scrivere la storia del pensiero, ma, se ne avevano coscienza anche i contemporanei, essa appartiene anche alla storia.
    Una conferma che la classificazione di Giuseppe Flavio era basata sui principi teorici, anche se derivati da partiti storici, ci viene, oltre che dal fatto già accennato che gli antichi conoscevano molti più nomi di gruppi giudaici che i tre usati da Giuseppe Flavio per fare la sua classificazione4, anche dal fatto opposto e complementare che noi moderni usiamo almeno un termine ignoto agli antichi: quello di apocalittica. Eppure i testi che noi chiamiamo apocalittici mostrano l'esistenza di una corrente di pensiero che difficilmente poteva essere ignota a Giuseppe Flavio, data la quantità delle opere e la loro originalità in seno al giudaismo. Il fatto che noi oggi mettiamo molte, ma non tutte le opere apocalittiche in relazione all'essenismo5 può spiegare perché Giuseppe Flavio ignorasse questa corrente di pensiero. Le opere apocalittiche dovevano stare per lui o dall'una o dall'altra parte: mettere nello stesso gruppo Enoc Etiopico 10, 8 e 98, 4 è impossibile, se non si ricorre al concetto moderno di "sviluppo storico".
    Da questa breve analisi appare che la formazione di Gesù fu di tipo essenico. La sua unicità va ricercata nell'ambito di questo tipo di pensiero, che lo portò necessariamente a un continuo confronto con l'altra parte. Dico "confronto" e non "scontro", perché si trattò sempre di un dialogo fra ebrei condotto, secondo la mentalità ebraica del tempo, non sui grandi principi, ma solo su molti problemi particolari. Del resto, il pensiero di Gesù fu sempre lontano dall'estremismo essenico.
    1 Cfr. Siracide 15, 11-17. Tutte le varianti del versetto 15, centrale per il pensiero derivano dal problema della libertà di scelta. L'autore scrisse che Dio mise l'uomo in mano della sua capacità di decidere (diabúlion); ma per qualche copista «in mano della sua capacità di decidere» divenne «in mano del suo nemico», o anche «in mano della sua natura» (le due lezioni furono poi conflate). Accanto al «fare la volontà di Dio è intelligenza» troviamo anche che è «fede». Doveva trattarsi di un problema veramente sentito e dibattuto.
    2 Per ‘Destino’ Giuseppe Flavio dice sempre heimarméne, parola cara agli stoici e da Giuseppe Flavio scelta, perché forse la più usata al suo tempo, ma anche perché era la più vicina, proprio perché usata dagli stoici, al concetto di "volontà divina", che egli voleva rendere.
    3 Cfr. anche A.J. 18, 13 (per i farisei); § 17 (per i sadducei); § 18 (per gli esseni). Nel B.J. i paragrafi 2, 119-166 sono dedicati quasi interamente agli esseni. Ai sadducei e ai farisei Giuseppe Flavio riserva solo i §§ 162-166 e solo in questi appare la presentazione schematica fondata sul criterio della libertà di scelta. Per gli esseni questa interpretazione appare solo nei testi più brevi. Si tratta, dunque, di un criterio riassuntivo e generale, ma proprio per questo importantissimo ai fini di una qualunque classificazione delle correnti del tempo.
    4 Dalle fonti cristiane si possono ricavare fino a 13 - 14 nomi. In genere gli autori forniscono serie di sette nomi, ma i nomi delle serie non coincidono. Il totale dei nomi è il seguente: Ebioniti, Ellenisti, Emerobattisti, Erodiani, Esseni, Farisei, Galilei, Genisti, Masbatei, Meristi, Nazareni, Sadducei, Samaritani, Scribi (Per gli "scribi" come gruppo sociale, cfr. NEUSNER J., The Formation of Rabbinic Judaism: Yavneh (Jamnia) from A.D. 70 to 100, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt II, 19/2, 3-42, p. 3 e 37-41). Cfr. Eusebio, IV, 22, 7; Giustino, Dialogo 80; Epifanio Hereses, I, 14 sgg; Constitutiones Apostolicae, 6, 6; Pseudogerolamo, Indiculus haereseorum, Isidoro di Siviglia, Origenes, 8, 4. Giuseppe Flavio può parlare del Battista, dello stesso Gesù, di Giuda il Galileo, e, ovviamente di molti altri, ma non per questo modifica il suo schema interpretativo generale.
    5 Cfr. SACCHI P., L' apocalittica giudaica e la sua storia, Brescia, Paideia, 1990; Id., Per una storia dell'Apocalittica in Atti del terzo convegno dell'Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo, 9-11 novembre 1982, Roma 1985, 9-34, p. 26; Idem, Riflessioni sull'essenza dell'apocalittica: Peccato d'originre e libertà dell'uomo, in Henoch" 5, 1983, 31-61; GARCÍA MARTÍNEZ F., Essénisme qumranien: Origines, caractéristiques, héritage, in Atti del quinto Congresso Internazionale dell'Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo 12-15 novembre 1984, Roma 1987, 37-58, p. 48.







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    Gesù nel suo tempo: i concetti di peccato, espiazione e sacrificio
    Data: Domenica, 29 febbraio 2004 @ 12:00:00 CET
    Argomento: Il Gesù della storia e i suoi seguaci

    di Paolo Sacchi
    Alcuni temi fondamentali del multiforme giudaismo del I secolo d.C. nella interpretazione di Gesù



    Introduzione
    Già pubblicato in «Archivio teologico torinese» V (1999), pp. 20-29.

    Le nostre conoscenze riguardanti la storia della Palestina al tempo di Gesù sono aumentate in questi ultimi cinquanta anni e continuano ad aumentare in maniera tale che l’aggiornamento è possibile solo con qualche sforzo. I motivi dell’aumento di conoscenza sono molteplici. In primo luogo bisogna ricordare la scoperta dei manoscritti del Mar Morto, i quali hanno trascinato con sé, date le affinità evidenti, un grande interesse per i cosiddetti “apocrifi dell’Antico Testamento”, che da tempo venivano pressoché ignorati. Lo studio di questi ha dato vita a partire dagli anni 70 a numerose edizioni-traduzioni. Ma mancano ancora commenti veramente approfonditi dedicati alla maggior parte di questi. Resta difficile per ora capire per molti di essi quale fosse l’ideologia soggiacente. Un altro elemento destinato a portare luce sulle tendenze ideologiche che c’erano agli inizi dell’era cristiana è il targum Neophiti che costituisce una pagina di teologia giudaica tutta da chiarire e inserire nella storia del pensiero del tempo. Si scoprono sempre più i limiti delle ricerche che si appoggiavano sulla mishnah.
    E’ ormai assodato che il giudaismo del tempo di Gesù non era un monolito, ma era ricco di tendenze varie e talora contrapposte. Così, Gesù non va guardato sullo sfondo del giudaismo, ma su quello delle varie correnti del tempo. Qualcuno dice addirittura sullo sfondo dei giudaismi. Frasi del tipo «Giacomo è più ebreo di Paolo» non hanno oggi alcun senso e dovranno essere sostituite, eventualmente, da frasi come «Giacomo è più vicino al farisaismo di Paolo». In ogni caso anche questa affermazione può aver bisogno di essere modificata. In altri termini, l’uguaglianza “giudaismo - farisaismo” non tiene più.
    Per orientare il lettore nel panorama delle ideologie esistenti nella Palestina del tempo di Gesù, mi provo a stilare uno schema dei principali punti di riferimento caratterizzanti ciascun gruppo. Questo schema deve essere considerato un puro tentativo, perché non ho alcun testo di questo tipo cui far riferimento. Informo che mi sono basato sulle opere meglio conosciute, ma avverto che la singola citazione d’appoggio non è altro che un passo che, pur essendo significativo, tuttavia trae la forza del significato dalla struttura in cui si trova. Resta inoltre il fatto che ogni opera ha caratteristiche proprie, per cui la categoria “corrente di pensiero” va vista in maniera non troppo rigida.
    Abbreviazioni
    Elenco delle sigle; fra parentesi è indicata la data approssimativa dell’opera.
    *1H, Enoc Etiopico, formato da cinque libri: LV, LP, LA, LS, EE.
    1QH, Hodayot, Inni.
    1QS, Regola della Comunità.
    2B, Apocalisse siriaca di Baruc (70-100 d.C.).
    *2H, Enoc Slavo (la sua recensione più antica [detta B] è della metà del I sec. d.C.). Le citazioni di questo articolo si riferiscono sempre a questa.
    4E, Quarto libro di Ezra (70-120 d.C.)
    ApSof, Apocalisse di Sofonia (circa metà del I sec. d.C.).
    *EE. Epistola di Enoc (parte del II sec. = Protoepistola di Enoc [PEE]e parte del I sec. a.C.)
    Giub, Libro dei Giubilei (seconda metà del II sec. a.C.).
    *LA, Libro dell’Astronomia IV-III a.C., certamente anteriore al 200).
    *LP, Libro delle Parabole (circa 30 a.C).
    *LS, Libro dei Sogni (circa 160 a.C.)
    *LV, Libro dei Vigilanti =Angeli (IV-III sec. a.C., certamente anteriore al 200).
    pHab, pesher Habacuc.
    TRuben, Testamento di Ruben (forma definitiva del I sec. a.C., con materiale chiaramente più antico).
    Schema delle ideologie dominanti al tempo di Gesù
    a) Enochismo.
    L'enochismo è quella forma di religione giudaica che a partire dall'epoca postesilica si sviluppò in maniera complessa fino al I sec. d.C., scorrendo parallelamente al giudaismo che oggi ci appare come ufficiale e che, più storicamente, possiamo etichettare come sadocita. Il nome di enochismo deriva da quello del rivelatore della maggior parte delle opere che vengono attribuite all’enochismo. Esso sembra combaciare in gran parte con l'essenismo secondo le informazioni che abbiamo dalle fonti ebraiche di lingua greca (Filone e Giuseppe Flavio). Opere sicuramente enochiche sono quelle in cui il rivelatore è Enoc. Altre opere di ideologia simile a quella enochica, ma il cui rivelatore non è Enoc, vengono inserite in quella teologia che una volta era chiamata apocalittica oppure nel gruppo ancora più vasto e ideologicamente indeterminato degli apocrifi1. L'enochismo si distingue dal giudaismo sadocita per le seguenti caratteristiche che permangono durante tutta la sua storia:
    1) L’enochismo ignora la Legge mosaica2 (1H [LS] 89,27-38: episodio del Sinai, Mosè si occupa solo del Tabernacolo; 2B 4,5). Alcune opere fondamentalmente enochiche del II-I sec. a.C. (Giub; EE) riconoscono la Legge di Mosè, ma subordinata alla Legge delle Tavole Celesti3 (1H [EE] 99,2), il cui contenuto resta, comunque, in termini generici, come la condanna dei ricchi, dei frodatori, degli idolatri 4(1H [EE] 94,6 - 103,5). Nei testi più recenti si sviluppa l'idea dell'amore (2H/B 44,4; 50,5-6; 52,7-13; anche verso gli animali: 58, 6) come unico criterio etico5.
    2) Il cosmo, nella fase più antica, è concepito nel LV come disordine dovuto a ribellioni angeliche (1H [LV] 8 [a livello storico], 18,15 [a livello cosmico], ma nell’introduzione, che è posteriore, è ordine [1H 2,1]. Nel LA il cosmo è ordine. In seguito è ordine, ma con forti presenze demoniache (Giub 5,11-12; 10,7-10)
    3) L’enochismo riconosce il tabernacolo e il Tempio di Salomone, ma non di quello sadocita (1H [LS] 90,28; cfr. anche Giub 1,17; RT 29, 8-10).
    4) Nelle opere enochiche non c’è nessun accenno all'esistenza delle norme di purità (eccetto mangiare il sangue: 1H [LV] 7,5; Giub 7,31; 1H [EE] 98,11 e il generico riferimento alle offerte impure di [LS] 89,73).
    5) L'impuro esiste realmente in natura come conseguenza del peccato angelico. Questo rappresenta l'origine del male permanente nella storia o attraverso l’impurità o attraverso l’opera diabolica stessa (1H [LV] 10,8; 19,1; 10,7.8.22;12,4; cfr. il peccato delle sette stelle in 1H [LV] 18,15; 21,3) ma è il senso generale del libro che porta in questa direzione; chiarissimo il Truben 2,1-3. 15).
    6) La storia (periodizzata in eoni) è predeterminata, ma l'individuo è libero e responsabile (Giub: cfr. anche le due tarde apocalissi non enochiche 2B 18,2; 54,15; 56,10-13; 4E 3,8; 7,72. 104. 127).
    7) Esistenza dell'anima immortale e disincarnabile, destinata ad essere giudicata da Dio dopo la morte (1H [LV] 9,3. 10 (Sincello); 22; Giub 23,31; 4E 7,32. 75-101; 2B 30, 1-2).
    8) Esistenza di inferno e paradiso: frequente soprattutto la menzione dell’inferno (1H [LV] 18,14; 19,1; 21,3; 22,10-11; 25; Giub 7,29; 22,22; 24,31; LS 83,2-7;88,1-3; 90,26-27; EE 99,11; LP 61,5; 62,15-16; 2B 59,10.
    9) Nei testi più recenti la salvezza sembra legata esclusivamente al pentimento, che può avvenire anche dopo la morte (LP 50; 63; 68,5; ApSof 10,11).
    10) Il calendario usato è quello solare.
    11) In quanto al messianismo, esso è documentato chiaramente nell’enochismo a partire dal LP e ha carattere superumano. Prima di LP sembra che più che di Messia si debba parlare di rivelatore di salvezza, certamente sempre con caratteri superumani.
    b) Qumranesimo.
    Il qumranesimo è una sorta di eresia enochica sorta verso la metà del II sec. a.C., che si distingue per credere 1) nel predeterminismo assoluto (quindi, anche individuale; Dio ha creato Satana per odiare tutto ciò che egli compie: [1QS 4,1b]). 2) Il qumranesimo accetta pienamente la Legge mosaica (1QS 5,8), che tende a unificare eliminando differenze e contraddizioni (RT). 3) Accetta l'importanza della purità (peccato e impurità coincidono e l'uomo è peccatore/impuro fin dall'utero: 1QH 4,29-30). 4) Sviluppa l'idea della giustificazione per mera grazia (1QS 11,3) e tende a dare alla fede (emunah) in Dio dei contenuti ideologici precisi (pHab 8,3). 5) I qumranici usano il calendario solare. 6) Non riconoscono il Tempio di Gerusalemme. 7) Credono nell’esistenza dell’anima; l’anima degli adepti vive già nell’eterno.
    c) Farisei.
    I farisei sono, insieme coi sadducei, gli eredi del sadociti­smo; al tempo di Gesù 1) hanno al centro della loro teologia il valore della Legge (mosaica) sia scritta, sia orale. 2) Credono nella piena libertà di scelta dell'uomo e quindi nella sua piena responsabilità. 3) Credono nella resurrezione e/o immortalità dell'anima; 4) vedono probabilmente già al tempo di Gesù il Giudizio dopo la morte come conto sugli atti di osservanza e di trasgressione della Legge (Pirqe Avot 3,16). 5) Al tempo di Gesù usano anche nel Tempio il calendario lunisolare ellenistico e laico (probabilmente solo dalla seconda metà del I sec. a.C.). 6) Non è chiaro come interpretassero le norme di purità. Già alla fine del I sec. doveva esistere la tendenza a considerarle semplici comandamenti da osservare senza che l'impurità avesse una sua realtà. In ogni caso al tempo di Gesù il problema della realtà dell'impuro, che cosa fosse, era molto sentito probabilmente per il confronto col mondo ellenistico occidentale.
    Come si vede il farisaismo si contrappone nettamente all'e­nochismo (e ancor più al qumranesimo) su un punto fondamentale: il rapporto fra l'opera di Dio e quella dell'uomo nella creazione della salvezza. L'intervento di Dio è maggiore nelle opere a tendenza enochica (o essenica) che in quelle a tendenza farisaica. Nel farisaismo l'uomo salva se stesso per mezzo dell'osservanza dei comandamenti, perché gli atti di osservanza cancellano gli atti di trasgressione e la giustizia (sedaqah) praticata (quello che noi chiameremmo “le opere buone”) cancella le ingiustizie commesse (Sukkah 49b6). Nell'enochismo le ingiustizie commesse possono solo essere perdonate per mera bontà divina, purché il peccatore si penta.
    d) Sadducei
    Tralascio di presentare i sadducei sia per la scarsezza di notizie sia perché al tempo di Gesù erano ideologicamente isolati e, sempre ideologicamente, sotto il predominio farisaico. Vale comunque la pena di ricordare che 1) non riconoscevano la validità della legge orale e con molta probabilità limitavano la scrittura alla sola Torah. 2) Non accettavano né l'esistenza dell'anima immortale e destinata al Giudizio, né la resurrezione. 3) Circa la liturgia del Tempio avevano una tradizione che discordava in parte da quella che usavano al tempo di Gesù, la quale doveva essere di origine farisaica. Gli indizi esistono, ma sono frammentari.
    Su almeno due punti tutte e tre le più vive tendenze del tempo concordavano: uno è il convincimento che il peccato è ciò che provoca la vendetta di Dio e, quindi, il malessere sociale; è ciò che impedisce la salvezza sia in questo mondo, sia nell'altro. Date le conseguenze concrete che, a torto o a ragione, si attribuivano al peccato, questo era un problema centrale per gli ebrei del I sec. Ciò non toglie che la liberazione dal peccato sia vista in termini diversi dalle tre sette sulla base dei principi generali professati da ciascuna. L'altro punto è l'attesa del Messia. Va, però, sottolineato che l'immagine del Messia poteva essere molto diversa da autore ad autore anche all'interno dello stesso gruppo. In altri termini, sembra che la forma in cui si sarebbe rivelato sarebbe stata chiarita solo al momento della sua rivelazione.
    Gesù si muove e predica sullo sfondo di queste idee e non è difficile, leggendo il Nuovo Testamento, cogliere accettazione di esse o polemica contro di esse. Anche le innovazioni cristiane hanno sempre una radice in problemi del tempo.
    1In realtà molti scritti cosiddetti “apocrifi dell’Antico Testamento” attendono ancora di essere collocati in una prospettiva storica adeguata.
    2 L’enochismo conosce il Pentateuco, ma non lo considera Legge.
    3 La documentazione più antica delle Tavole celesti è in 1H (LA) 81. In esse sta scritto tutto ciò che riguarda il mondo, le leggi del cosmo e la stessa storia degli uomini, passata e futura.
    4 Giub cita qua e là qualche legge come letta nelle Tavole Celesti (4,5. 32; 23,32; 30,9), ma nessuno ha mai fatto una trascrizione completa di queste leggi, che appaiono essere inventate di volta in volta a seconda delle esigenze.
    5 L’amore è chiamato “pietà e dolcezza” , formalmente sulla base di Prov. 31,26 (2H 42,13), ma il punto di vista dell’autore di 2H è molto diverso. Un’altra virtù fondamentale in 2H è la pazienza.
    6 Cfr. COHEN A., Il Talmud, Bari 1935, pp. 140-146 e 266-274.
    Giovanni Battista
    Tutti i vangeli concordano nell'indicare un rapporto fra Gesù e il Battista. Giova, dunque, cercare di delineare la sua teologia. Giovanni vedeva chiaramente i mali della sua società, che riteneva, come tutti, conseguenza del peccato. Guardando nel futuro, egli vedeva la rovina imminente ed inevitabile, se non ci fosse stato un cambiamento di rotta immediato. La scure era già posta alla radice; inutile appellarsi ai meriti dei padri; la responsabilità era individuale.1 Se molti accorrevano a lui, vuol dire che la sua fama era divulgata, ma vuol dire anche che condividevano la sua diagnosi dei mali del tempo.
    Giovanni non predicava solo la necessità della conversione (fino a questo punto probabilmente tutti erano d'accordo), ma anche un battesimo di penitenza (báptisma metanoías), che doveva seguire al penti­mento. Il battesimo era un rito purificatorio, serviva, cioè, per togliere dal peccatore un'impurità reale. Mi pare che l'unico modo per capire il senso che Giovanni attribuiva al suo battesimo sia ammettere che per Giovanni il peccato producesse un'impurità, secondo una teologia le cui radici possono risalire fino a Isaia (cap. 6), ma che era particolarmente attiva presso i qumranici.
    Deve essere chiarito che l'impurità non era un fatto puramente rituale, come sembra indicare un’espressione che circola, “impurità rituale”: sembra che riguardasse solo il culto e il Tempio. L’impurità era, invece, un fatto reale che riguardava la vita quotidiana. Se un problema aperto c'era, esso riguardava la natura dell'impurità e la sua relazione col peccato. Non tutti accettavano che anche il peccato producesse impurità. In altri termini: trasgredire una legge riguardante la relazione con le cose impure è un peccato, ma non tutti accettavano che la trasgressione di un qualunque comandamento producesse a sua volta un’impurità. Evidentemente Giovanni non accettava l'idea qumranica che l'uomo nascesse già impuro, ma, in ogni caso, riteneva che il peccato producesse un'impurità che doveva essere tolta. La sua via verso Dio era fatta, pertanto, di purità: per evitare qualunque contaminazione, anche minima, mangiava solo cibi, non solo di per sé puri, ma raccolti e preparati dalle sue stesse mani: cavallette e miele selvatico. Si trattava, perciò, di cibi non elaborati né raccolti da altri, che potevano anche essere in stato di impurità e quindi corrompere la purità del cibo.
    L'avvicinamento a Dio non era impedito solo dalla trasgres­sione, ma dallo stato di impurità conseguente. Anzi il vero ostacolo permanente doveva essere proprio questo. L'ostacolo fondamentale verso la salvezza era costituito per Giovanni dall'impurità conseguente sia al contatto con cose impure, sia al peccato.
    1Il tema era dibattuto. Sulla stessa linea di Giovanni fu 2H (vd. 53,1-2); sul versante opposto stette l’ApSof.
    Gesù e i contenuti della Legge.
    Gesù, come è ben noto, si staccò da Giovanni e non ebbe timore né a mescolarsi con la gente che poteva essere in stato di impurità, né a mangiare cibi toccati da altri. Ciò non toglie che anche lui vedeva il peccato come il grande problema da risolvere: era venuto apposta per i peccatori, non per i giusti (Mc 2,16-17 e passi paralleli). Il peccato era, pertanto, anche per Gesù, il grande nemico della salvezza. A questo proposito due sono le cose da cercare di chiarire: 1) quali erano i contenuti della legge secondo Gesù; 2) quale lo strumento di salvezza dal peccato.
    a. Gesù e le norme di purità.
    Un punto che distingue nettamente Gesù dal suo contesto è il fatto che dette alla Legge contenuti diversi da quelli mosaici della tradizione. Tocco qualche caso chiarissimo, cominciando da quello delle norme di purità. Secondo Marco (cap. 7), Gesù abolì le norme di purità riguardanti i cibi (7, 19). Ma, se uno legge il testo attentamente, si accorge che Gesù prese spunto da un problema particolare, quello che riguarda gli alimenti, per arrivare a conclusioni che vanno al di là della sfera alimentare, anche se non è chiaro di quanto.
    «Non quello che entra dalla bocca rende impuro l'uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l'uomo» (7, 12). La domanda posta dai farisei riguardava solo il problema se era lecito o meno mangiare senza una certa abluzione prescritta dalla tradizione. La risposta di Gesù va già oltre la domanda con le prime parole: «Non quello che entra dalla bocca, rende impuro l'uomo». Essa, infatti, riguarda non il modo di mangiare, ma gli alimenti stessi. Ma la seconda parte («quello che esce») abbraccia conseguenze più vaste ancora ed enuncia, in qualche modo, un principio generale. La sola cosa che può contaminare l'uomo (e qui 'contaminare' deve avere il significato che davano al concetto di impurità enochici e qumranici, signifi­cato di depotenziamento spirituale più che fisico, di impedimento ad avvicinarsi a Dio) è la trasgressione della Legge, ovviamente quale era insegnata da Gesù. L'interpretazione dell'Evangelista «Con questo Gesù intendeva dichiarare puri tutti gli alimenti» è riduttiva e mostra un certo imbarazzo della prima tradizione cristiana, che era ebraica, di fronte all'insegnamento di Gesù.
    In altri termini, con Gesù abbiamo un’interpretazione del concetto di impurità come valenza estremamente negativa, ma i contenuti del­l'impurità sono detti diversi da quelli ritenuti tali dalla tradizione sadocita. Bisogna, però, considerare che in questa tradizione la trasgressione delle norme di purità era già un peccato; se Gesù disse «solo ciò che esce dalla bocca può contaminare l'uomo» vuol dire che assumeva a contenuto della Legge solo ciò che noi oggi chiamiamo etico, ma questo era un concetto che gli ebrei del tempo non conoscevano, o, comunque, non avevano formalizzato. Dire che nulla è impuro in natura può essere un principio valido e ben comprensibile (cfr. già la Lettera di Aristea § 143; Rom 14, 14), ma se chi ascoltava scendeva dal principio generale ai contenuti effettivi, si doveva trovare di fronte a difficoltà insormontabili, perché per l'ebreo di allora tutto era legge allo stesso modo. Dal discorso di Gesù risultano chiaramente abolite le norme di purità riguardanti i cibi, ma risultano anche potenzialmente eliminate altre leggi analoghe, la cui precisazione ci manca. E le norme di purità riguardavano anche il culto, la sfera sessuale, i contatti coi pagani1.
    b. Gesù e il ripudio
    Come è noto, Gesù negò la liceità del ripudio, nonostante che fosse regolato dalla Legge mosaica, che egli sembra accettare come valore nelle linee generali («Che cosa leggi nella Legge?»). Ciò che interessa è la spiegazione del suo giudizio nel caso particolare. Nel caso del ripudio la Legge non vale, perché «agli inizi non fu così». Dunque, la Legge mosaica ha valore storico, non assoluto: il valore assoluto appartiene a ciò che fu agli inizi. In questo Gesù si differenzia anche dal libro dei Giubilei, perché questo accettava la Legge mosaica, quando non contraddiceva le Tavole Celesti. Gesù non conosce le Tavole Celesti, ma risolve il problema in maniera storica, cosa che è molto moderna. Ciò che è storico ha sempre un valore relativo.
    1Nella Lettera di Aristea si legge: «In generale, tutte le cose secondo il principio di natura sono uguali, in quanto governate da un'unica potenza, ma all'astensione da alcune cose e all'uso di altre si collega un significato profondo e specifico per ciascuna». Come si vede già agli ebrei del II sec. a.C. l'impurità faceva problema. Cfr. SACCHI, Storia del Secondo Tempio, Torino 1994, pp. 442-443.


    Gesù e il peccato
    I contenuti della Legge non sono più quelli mosaici. L’insegnamento di Gesù avvicina la morale mosaica a quella enochica, ma il punto di partenza, la base del discorso di Gesù è la morale fondata sulla Legge di Mosè, alla quale, però, è tolto il valore assoluto che aveva per i farisei. Ovviamente, il concetto di peccato chiaramente resta, anzi è radicalizzato. Degno della Geenna non era solo chi uccideva, ma anche chi offendeva il prossimo. Si può dire che la situazione di Gerusalemme era per Gesù ancora più cupa che per il Battista. E in effetti alla «scure posta alla radice» di Giovanni, Gesù affianca il suo pianto sulla distruzione di Gerusalemme e del Tempio1. Gesù non pensava né che la sua predicazione, né che la sua morte, della quale era cosciente, avrebbero portato una soluzione al male del peccato. Gesù non pensò mai a una società senza peccato. La sua missione, evidentemente, non era quella di creare una tal società. Il perdono e l’amore cristiano sono strumenti umani che non realizzano lo scopo ultimo, che rimane la sconfitta del peccato e del male.
    1 La distruzione del Tempio è motivo già antico nella letteratura giudaica. Una raccolta recente di questi passi è in PENNA R., I ritratti originali di Gesù il Cristo, inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, I, Gli inizi, Cinisello B. 1996, p. 70.
    Gesù e l’espiazione.
    Al tempo di Gesù l’idea che il peccato dovesse essere in qualche modo espiato per essere perdonato da Dio è diffusa. Come al solito, non si era d’accordo sui mezzi, o, per meglio dire, ce n’erano più d’uno e forse erano accettati un po’ tutti. Nell’insieme si può notare che i qumranici avevano sostituito interamente il culto del Tempio con la preghiera e l’espiazione era opera dello spirito divino che operava in seno all’assemblea degli uomini della setta1. Gli enochici non parlano normalmente del Tempio2, se non per dire che è destinato alla distruzione; della sua funzione al loro tempo non parlano. I farisei vedono l’espiazione per mezzo delle opere buone. Ciò non toglie che lo yom kippurim fosse celebrato anche nel Tempio.
    L’idea che il peccato andasse espiato era idea antica e risaliva almeno ad Ezechiele e sfociò nel rituale della festa dell’espiazione, regolato definitivamente in epoca postesilica. Il rituale è descritto in Lev 16. (cfr. anche Lev 23,27-32 e Num 29,7-11). Il principio dell’espiazione è costituito dall’idea che il sangue espia. Si veda Lev 17,11: «La vita (nefesh) degli esseri viventi (habbasar, “della carne”) è nel sangue; Io l’ho dato a voi per fare l’espiazione sopra l’altare per le vostre vite; perché il sangue espia per mezzo della vita (bannefesh)». In altri termini: poiché il peccato merita la morte, l’offerta di una vita placa la divinità che rinuncia così a richiedere la vita del peccatore. Questo è irrazionale, ma è profondamente radicato nella coscienza ebraica a partire dal primo postesilio. E’ solo tenendo presente questa concezione del sacrificio espiatorio che si comprende il ragionamento dell’autore della Lettera agli Ebrei nel cap. 9. L’allusione al rituale dello yom kippurim è chiarissima. Gesù lo ripete e, se il suo gesto ha un valore superiore a quello del Sommo Sacerdote, è per due motivi: il primo è la superiorità del sacerdozio del Cristo rispetto a quello del Sommo Sacerdote, il secondo è la superiorità dello strumento, perché al sangue delle vittime è sostituito il sangue stesso di Gesù. Il valore del sangue come strumento di sacrificio, qualunque sia il fine del sacrificio, è chiaro e si comprende bene solo nella luce delle idee di allora. Se questa è interpretazione contemporanea e diffusa (cfr. anche Rom 3,25; 1 Giov 2,2; 4,10) , ci si può però domandare se essa rappresenta o meno l’intenzione di Gesù.
    1 Cfr. 1QS 3,6-9: «E’ per mezzo dello Spirito dell’Assemblea della Verità di Dio che sono espiate tutte le azioni dell’uomo, tutte le sue colpe, cosicché egli possa contemplare la Luce della Vita. Per mezzo dello Spirito Santo della Comunità (fondata) sulla Sua Verità egli è purificato da tutte le sue colpe. Il suo peccato è espiato in spirito di rettitudine e di umiltà; con l’umiltà del suo animo di fronte ai comandamenti di Dio è purificato il suo corpo, quando è asperso di acqua lustrale ed è santificato con l’acqua della contrizione».
    2 Fa eccezione 2H, ma il Tempio di cui parla non è quello di Gerusalemme, ma quello non identificato di Azuhan (o Ahuzan). 2H critica soprattutto il modo con cui venivano sacrificati gli animali nel Tempio di Gerusalemme..
    Gesù e la sua passione.
    A me sembra certo che Gesù abbia voluto la sua morte e la sua passione. Forse a «ha voluto» si può sostituire «non ha rifiutato», ma non mi sembra che il senso cambi molto. E nella Passione e nella morte violenta il sangue è elemento presente. Vedremo se per Gesù il sangue aveva importanza. Tutti e quattro i vangeli concordano nell’orientare il racconto sulla morte di Gesù. Mi pare, però, che l’attenzione non sia rivolta soltanto alla morte, intesa come fine, sia pure violenta, ma piuttosto verso tutte le sofferenze che essa comportò. Gesù piange e chiede al Padre che, se quel calice poteva passare, che passasse. La coscienza di ciò che stava per accadere rende più dolorosi gli ultimi giorni. Si insiste sulle torture nel campo romano, sullo stato debilitato di Gesù che deve portare la sua croce fino al luogo del supplizio, sulla sua disperazione: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?». La tradizione cristiana, seguendo il senso dei Vangeli, quando intendeva parlar della morte di Gesù, l’ha chiamata «Passione» e «Passione» non è solo «morte». Tutto lascia pensare che il dolore1 e il sangue fossero sentiti dalla tradizione cristiana e da Gesù stesso come parte indispensabile della sua missione.
    1 Il valore della sofferenza come espiazione è presente anche nel pHab 8,1-2: «Dio li libererà dal Giudizio (in senso concreto, “dalla casa del giudizio”) per le loro sofferenze e per la loro fede nel Maestro di Giustizia».
    Gesù e il Patto
    Il momento culminante dei rapporti fra Gesù e i discepoli è la cena pasquale, nella quale Gesù spezzò e benedisse con loro il pane e benedisse il calice con le conturbanti parole «Questo è il mio corpo» e «Questo è il mio sangue». Gesù spiega anche il significato per cui versa il sangue: la stipulazione del Patto. In Marco non si parla di «Patto Nuovo», ma semplicemente di Patto, espressione che ha una forza che l’aggiunta di «Nuovo» le toglie, anche se la rende più piana. In tutti e tre i sinottici segue «versato per» seguito da «molti» in Marco e in Matteo, da un «voi» in Luca. La passione è in funzione del Patto e il Patto è per una massa indeterminata in Marco e Matteo, per i discepoli (presenti e futuri) in Luca. Il Patto è concetto tipicamente ebraico, come è ebraica la necessità che il Patto sia stipulato mediante il sangue. Il sangue torna ad essere essenziale nella vicenda di Gesù anche sotto questo punto di vista. Così è ebraica la specificazione di Matteo che il Patto di Gesù era in funzione della remissione dei peccati. Tutto lascia pensare che il testo matteano eis afesin amartion sia un’aggiunta alle parole effettivamente pronunciate da Gesù. L’interpretazione di Matteo è, in ogni caso, in linea con la richiesta della gente, quale è chiaramente indicata da Marco per coloro che andavano da Giovanni per ricevere il battesimo eis afesin amartion. E’ chiaro comunque che il concetto di afesis amartion dal punto di vista dell’ebreo del tempo aveva un valore molto più vasto che per noi, perché il peccato era la radice di tutti i mali. In questo caso il pensiero di Matteo è veramente più ebraico (non solo più farisaico) di quello degli altri evangelisti. Giovanni insiste che il pane di Gesù era pane di vita: è interpretazione che si incentra sul valore salvifico della Passione in funzione della vita eterna. Anche questo è vero; ma resta che il Patto deve essere qualcosa di più vasto ancora e che era necessario stipularlo per mezzo del sangue.
    Per lo storico, che cerca di rappresentare il passato quanto più possibile per mezzo delle categorie che produssero gli avvenimenti che narra, Gesù fu cosciente della sua morte, che accettò pur potendola chiaramente evitare, cioè la volle e la volle particolarmente dolorosa. Quale sia il significato di tutto ciò per il cristiano di oggi, non è compito dello storico stabilire, ma il fatto «morte di Gesù», interpretato come sacrificio in funzione del (Nuovo) Patto, non deriva solo dall’interpretazione dei contemporanei, ma dalla stessa intenzione di Gesù. Nulla vieta che questa si adeguasse alla “pienezza dei tempi”, se non altro per essere capita nelle sue valenze generali di salvezza (anche questo è concetto tipicamente ebraico), ma non è compito dello storico andare al di là dei fatti e delle idee che li produssero.







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    Il problema delle origini cristiane
    Data: Domenica, 25 dicembre 2005 @ 00:00:00 CET
    Argomento: Il Gesù della storia e i suoi seguaci

    di Paolo Sacchi
    Fra ciò che oggi chiamiamo ebraismo o giudaismo e ciò che chiamiamo cristianesimo c'è da molti secoli una differenza tale per cui l'esistenza di una frattura fra le due religioni è un dato storico assolutamente certo. Quando è nata questa frattura? E' inerente alle origini cristiane stesse, oppure si produsse in un tempo successivo alle origini? E fu il cristianesimo che si distaccò dal giudaismo, fu il contrario, o si trattò di un movimento parallelo di entrambi?



    1. Il problema della "frattura"
    Chi ha intenzione di scrivere (o riscrivere) una storia del giudaismo del Secondo Tempio, cioè una storia degli ebrei dalla fine dell'esilio fino, grosso modo, alla seconda distruzione del tempio ad opera di Tito nel 70 d.C. non può non trovarsi di fronte al problema delle origini cristiane, che è problema dai molti risvolti, tanto che finisce con l'investire gli stessi rapporti odierni fra ebrei e cristiani. A differenza di molti problemi del passato che possono essere attualizzati solo per vie mediate, il problema del rapporto storico fra cristianesimo e giudaismo investe direttamente il nostro mondo di oggi.
    Nelle nostre università, statali o religiose che siano, esistono due gruppi di discipline ben distinte, che richiedono specializzazioni diverse e quindi metodologie che nel corso del tempo sono andate differenziandosi. Da una parte stanno gli studi veterotestamentari, che richiedono essenzialmente la conoscenza dell'ebraico con una metodologia che privilegia nettamente la critica letteraria[1], dall'altra gli studi neotestamentari, dove accanto alla critica letteraria, abbiamo anche un vasto sviluppo della critica storica[2].
    Chi si occupa di Antico Testamento sa l'ebraico e tende a vedere nella Mishnah l'eventuale, logica continuazione dei suoi studi. Sa in ogni caso che la sua Bibbia si chiude nel II sec. a.C. e che la Mishnah non fu raccolta fino al 200 d.C.
    Chi studia invece il Nuovo Testamento sa il greco e ne vede la continuazione negli apologeti cristiani del II secolo e nei padri in genere. Se guarda nel mondo giudaico, lo fa in maniera frammentaria, alla ricerca di chiarimenti di singole espressioni o problemi neotestamentari, guidato soprattutto dall'opera dello Strack e Billerbeck[3], una catena rabbinica attaccata ai testi neotestamentari, che presuppone da parte del lettore una buona conoscenza della storia del pensiero giudaico e rabbinico; altrimenti si ha (come normalmente accade) un appiattimento della storia, il risultato del quale è l'arbitrarietà dell'esegesi[4].
    Differenze di formazione e di competenze linguistiche provocano una frattura fra i due campi di studio che non esiste nella realtà storica, in quanto entrambi si occupano dello stesso periodo e della stessa regione: la frattura esiste solo nelle aule universitarie.
    D'altra parte è fatto evidente che fra ciò che oggi chiamiamo ebraismo o giudaismo e ciò che chiamiamo cristianesimo c'è da molti secoli una animosità tale per cui l'esistenza di una frattura fra le due religioni è un dato storico assolutamente certo. La domanda che ci dobbiamo porre è questa: quando è nata questa frattura? E' inerente alle origini cristiane stesse, cioè è il cristianesimo che si è distaccato coscientemente dal giudaismo, in quanto si è interpretato come una religione nuova e diversa? Oppure la frattura si produsse in un tempo successivo alle origini per motivi da comprendere, ma che non possono più essere interpretati come legati a una idea insita nelle origini cristiane stesse, ma piuttosto come conseguenza di avvenimenti storici che provocarono col loro prodursi la coscienza della separazione? E resta ancora un problema: fu il cristianesimo che si distaccò dal giudaismo, fu il contrario, o si trattò di un movimento parallelo di entrambi?




    NOTE:
    [1] La critica letteraria nelle sue varie forme (Formgeschichte, Redaktionsgeschichte, etc.) usa di fatto solo il testo ebraico, magari letto in maniera diversa dalla masora (soprattutto il Dahood e la sua scuola). Se consulta le varie traduzioni e la documentazione ebraica medievale, l'operazione nasce solo per chiarire il testo dove in ebraico è corrotto o comunque di difficile comprensione. Su questo cf. recentemente BORBONE P.G., Riflessioni sulla critica del testo dell'Antico Testamento ebraico in riferimento al libro di Osea, in «Henoch» 8, 1986, 281-310. Cf. anche SACCHI P., Per un'edizione critica del testo dell'Antico Testamento, in «Oriens Antiquus» 9, 1970, 221-233; ID., Metodi e problemi di filologia veterotestamentaria, in «La Parola del Passato» 151, 1973, 237-270. Si veda anche la rassegna annuale sugli studi di storia del testo biblico, che appare in «Henoch» ad opera di B. Chiesa a partire dal vol. n. 3 del 1981.
    [2] Per quanto gli studi di critica letteraria siano nettamente più numerosi di quelli di critica storica anche nel campo del Nuovo Testamento, tuttavia vale la pena di ricordare come la critica e la storia del testo abbiano potuto far tesoro di una lunga tradizione di studi, che risale al XVII secolo. Personaggi quali il Simon (Histoire critique du texte du Nouveau Testament del 1689) e il Bengel (Novum Testamentum Graecum del 1734) hanno avuto una grande importanza anche nello sviluppo del metodo filologico classico. Anche il Lachmann si è cimentato in un'edizione del Nuovo Testamento (1831). Per un quadro di questi studi, bene inquadrati ideologicamente, cf. KüMMEL W.G., Das Neue Testament, München 1958, pp. 41 sgg.
    [3] Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud and Midrasch, 6 volt, München 1922-28.
    [4] Dato che gli ebrei erano soliti ripetere certe massime che erano diventati topoi letterari, è fenomeno comune ritrovare più volte la stessa frase con varianti talvolta minime. Ma confrontare frasi avulse dal contesto per dedurne somiglianze è illusorio, perché la stessa massima può essere impiegata per esprimere concetti anche molto diversi fra di loro. II confronto deve sempre essere fatto sul pensiero globale di un autore o almeno di una sua concezione: il piano letterario è diverso da quello concettuale. II Vermes ha dimostrato che molte massime talmudiche erano più antiche del tempo di Gesù e che il loro impiego deve essere considerato indipendente nelle varie fonti: erano patrimonio comune della spiritualità ebraica (Jewish Literature and the New Testament Exegesis: Reflexions on Methodology, in «Journal of Jewish Studies» 33, 1982, 361-378). Porto l'esempio della massima di Gesù (Marco 2,27) «il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato». Essa si ritrova anche nella letteratura rabbinica; la Mekilta a Esodo 31,13 (109b) attribuisce a R. Simon ben Menasya (fine del II secolo) una massima, se non identica, molto simile. Eppure il senso è l'opposto di quella di Gesù. In altri termini, abbiamo un'esegesi diversa di una stessa massima: il sabato è dato all'uomo (e non l'inverso), perché possa santificarsi; da qui la necessità dell'osservanza. Cf. STRACK e BILLERBECK, op. cit. alla nota precedente, II, p. 5.
    2. Le interpretazioni apologetiche
    Riportare fino alle origini teologiche del cristianesimo la frattura col resto del giudaismo è atteggiamento antico e ben radicato nella tradizione cristiana "secondo la quale il messaggio recato da Gesù nulla avrebbe a che vedere con la religiosità del mondo giudaico"[5] di quel tempo. Il cristianesimo rappresentava all'interno del giudaismo una tale rivoluzione, da poter essere definita un capovolgimento di valori, una totale e cosciente contrapposizione alla società giudaica del tempo. Già l'evangelista Giovanni interpretava la figura di Gesù in contrapposizione netta non con questa o con quella setta giudaica, ma con i "giudei" nel loro insieme.
    Questa impostazione, che è stata di tutta la cultura occidentale fino al XVIII secolo e che poi è continuata ancora in ambienti soprattutto religiosi, è un'ottima base per fare l'apologia del cristianesimo come la religione nuova che supera la vecchia, che perde di fatto ogni valore storico.
    Si veda, per esempio il Noth[6], uno dei più importanti e dei più seguiti storici dell'ebraismo dalle origini fino alla rivolta di Bar Kokhbah (135 d.C.). Gli ebrei, considerati come un'unità, almeno quelli di Gerusalemme, non fecero caso a Gesù, perché preoccupati da altre cose (p. 518): "Nella storia di Israele di quel tempo la comunità di Gerusalemme sembrava unicamente interessata a difendersi contro la permanente e minacciosa intromissione della soverchiante potenza mondiale, ad assicurare la minacciata libertà di esercizio del culto, a conservare il diritto di vivere secondo le rigorose esigenze della Legge tradizionale".
    Dunque l'ebraismo rappresentava un'unità, al massimo un po' annebbiata da qualche discussione halakica, cioè di interpretazione della Legge, ma pur sempre un'unità[7]. Che qualcuno avesse già cercato di unificare i comandamenti della Legge sotto un denominatore comune, per comprenderne meglio lo spirito e per poterla insegnare alla gente più rapidamente, questo è fatto trascurato dal Noth. Basta guardare l'elenco dei passi citati, rigidamente limitato ai testi canonici, per capire una certa impostazione di pensiero.
    Eppure il Testamento di Beniamino[8], redatto non più di cinquant'anni prima della morte di Gesù, sottolinea talmente l'importanza dell'amore per il prossimo, da farne il centro della Legge. In 3, 5 si legge: "(l'uomo buono è) aiutato dall'amore del Signore, che egli rivolge al prossimo". Anche Hillel, non molto più vecchio di Gesù, non doveva avere problemi dissimili, se la tradizione ricorda che a un pagano che gli domandava di riassumere in poche parole tutta la Legge, rispondeva: "Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te" (b.Shabbat 31a). Certo ci sono differenze fra l'interpretazione dell'amore di Gesù e quella dei due autori sopra riportati. In Hillel è caratteristica la conclusione "Ora va' e studia la Legge", cosa che mostra come in ogni caso per lui lo studio sistematico della Torah restasse fondamentale; nell'autore dei Testamenti dei Dodici Patriarchi è chiaro che l'amore va sempre inteso limitato a quelli della propria gente. Ma il problema che governa il pensiero di tutti e tre questi personaggi, autore dei Testamenti, Hillel e Gesù è sempre il medesimo sia nelle motivazioni prime (quale è il centro della Legge), sia nel primo sviluppo del pensiero (il comandamento dell'amore per il prossimo, nel caso dell'autore dei Testamenti addirittura legato a quello di Dio).
    E' un fatto che al tempo di Gesù alcuni esasperassero il problema dell'impudicizia legato a quello dell'impurità, viste come radice di ogni peccato (Testamento di Ruben 2-3) e da qui l'esigenza di vivere in uno stato di purità sempre maggiore; ma è anche vero che altri si domandavano che cosa mai fosse questa impurità. Rabbi Hanina ben Dosa[9], posteriore a Gesù di pochi anni, passeggiò tenendo in mano una carcassa di serpente, impura carcassa dell'animale più impuro anche da vivo. Niente di strano che il problema risulti affrontato anche da Gesù (Marco, 7 e passi paralleli). Ma tutte queste cose non sembrano interessare il Noth.
    Nella sua opera la figura di Gesù di Nazaret appare all'improvviso, quasi piovuta dal cielo, completamente slegata dagli avvenimenti e dalle idee del tempo. Ugualmente il Noth non parla del Battista, che predicava un battesimo e quindi un rito di purificazione e che ebbe certamente contatti con Gesù. L'unico contatto di Gesù con la storia è il suo viaggio a Gerusalemme, dove "(p. 520) andò per provocare una decisione fra la sua istanza di essere la rivelazione del Dio vivente e le tradizioni della comunità gerosolimitana". Tutto qui: un aut aut che arriva all' improvviso, a marcare il contrasto fra lui e gli ebrei.
    Per quanto possa sembrare strano, questa interpretazione non dispiacque affatto nemmeno agli ebrei e tutt'ora è viva specialmente in ambienti religiosi. Ciò che da parte cristiana era quello che era stato superato, da parte ebraica veniva presentato come il segno tangibile di una fedeltà assoluta alla più antica ed autentica tradizione ebraica. Da una parte e dall'altra si è fermi su un punto: al tempo di Gesù c'era il giudaismo che coincideva sostanzialmente col farisaismo; da questo si distaccò il cristianesimo. Come abbiamo visto già Giovanni vedeva le cose in questo modo negli anni posteriori al 70. Matteo insiste sul tema del rifiuto, ma a differenza di Giovanni, lo imputa soprattutto alle classi dominanti e non è piccola differenza.
    Con l'impostazione di Matteo i veri ebrei sono in definitiva i cristiani e per lui "cristiani" doveva voler dire "ebrei che hanno accettato il cristianesimo". Per lui cristiano non vuol dire non ebreo.
    Ma, mentre Giovanni stava scrivendo il suo vangelo certamente antigiudaico, nel senso detto sopra, anche dalla parte opposta qualcuno si dava da fare nello stesso senso: verso la fine del I sec. d.C. venne fuori la "benedizione"[10] dei cristiani e dei minim o "eretici". L'introduzione dell'uso di questa "benedizione" significava cacciare dalle sinagoghe tutti quegli ebrei che non aderivano a quella forma di giudaismo in trasformazione che era quello che stava fra l'epoca d'oro del farisaismo e le origini del rabbinismo[11]. Insomma, alcuni ebrei decisero di contarsi e il metro ne escludeva molti.





    NOTE:
    [5] Cf. PARENTE F., Il problema storico del rapporti tra essenismo e cristianesimo prima della scoperta del Rotoli del Mar Morto, in «La Parola del Passato» 86, 1962, 333-370, p. 333.
    [6] NOTH M., Storia d'Israele, Brescia 1975 (Prima edizione tedesca del 1950).
    [7] Sono ben note le dispute fra Hillel e Shammai (o più probabilmente fra la scuola dell'uno e la scuola dell'altro), per esempio, a proposito del diritto al ripudio. Secondo Hillel ogni motivo poteva essere valido, secondo Shammai solo il caso della condotta disonesta della moglie. Cf. STRACK e BILLERBECK, op. cit. alla nota 3, vol. I, pp. 312-320.
    [8] Traduzione italiana in SACCHI P., Apocrifi dell'Antico Testamento, I, Torino 1981, 727 sgg.
    [9] Circa l'episodio, cf. Baba Qamma, 7,7 e b Taanit, 25a. II problema della purità in quanto tale è già sentito dall'autore della lettera di Aristea (§§ 143 e 144): egli afferma già che in linea di principio tutte le cose sono uguali (e quindi non ha senso una distinzione fra pure e impure). D'altra parte trova un valore morale nelle norme di purità, in quanto capaci di suscitare buoni pensieri e dare un indirizzo morale alla vita. L'autore della Lettera di Aristea sta chiaramente rispondendo a problemi che gli vengono posti dall'esterno. Ben Zakkai (seconda metà del I sec. d.C.) dirà che tutto è ugualmente comando di Dio: sta rispondendo a problemi interni. Cf. testo in Tanhumah Hugat, 26; il testo è tardo, ma la notizia sembra valida, perché si inserisce bene nella problematica del I secolo. Cf. NEUSNER J., The Idea of Purity in Ancient Judaism (Studies in Judaism in Late Antiquity), Leiden 1973, pp. 105-106.
    [10] Il termine "benedizione" è un eufemismo per "maledizione". Sulla benedizione dei minim, cf. BACHER W., Die Aggada der palästinischen Amora'im, I, Strasbourg 1892 [Hildesheim 1965, 370-372]; KüHN K.G., Giljonim und sifre minim, in Festschrift J. Jeremias (herausgegeben von W. ELTESTER), Berlin 1964, 24-61; SCHÄFER P., Studien zur Geschichte und Theologie des rabbinischen Judentums, Leiden 1978; MANNS F., Essais sur le judéo-christianisme, Jérusalem 1977, 130 sgg.; ID., Pour lire la Mishna (Analecta franciscana 21) Jérusalem 1984, 83 sgg. Per quanto lo Schäfer ritenga che la benedizione dei minim non sia sufficiente per spiegare la completa separazione fra le due religioni (p. 51), tuttavia l'esistenza di una fortissima animosità fra i due gruppi è già certa fra la fine del I secolo e gli inizi del II.
    Ecco il testo della benedizione secondo la sua forma più antica (testo della genizah del Cairo), che risale alla fine del I secolo: “Che gli apostati non abbiano speranza, che il regno della sfrontatezza sia sradicato fin dai nostri giorni. Che i cristiani e i minim scompaiano in un batter d'occhio. Che siano cancellati dal libro dei viventi, che non siano iscritti fra i giusti. Che tu sia benedetto, Signore, che pieghi i superbi». «Imporre questa benedizione equivaleva a cacciare gli ebrei che si erano fatti cristiani dalla sinagoga». Testo in MANNS, Essais.., p. 131). [ cfr. anche http://www.christianismus.it/sezstorico/doc0002/pgtesgiu.html ]
    Si veda anche Giustino, che, nella Prima apologia, 31, ricorda come Bar-Kochba sottomesse agli ultimi supplizi i cristiani e solo loro e, nel Dialogo con Trifone, 16,4, ricorda la "benedizione" come l'unico mezzo degli ebrei contro i cristiani, dal momento che «non avete il potere di alzare la mano contro di noi, grazie a coloro che in questo momento ci governano, ma ogni volta che l'avete potuto, l'avete fatto» (sempre da MANNS, Essais.., p. 131).
    [11] È luogo comune affermare che il giudaismo, a differenza del cristianesimo, è sempre stato tollerante in fatto di ideologia, se non altro perché privo di credo e di un'autorità centrale paragonabile a quella del papa. Questa interpretazione ha un senso soprattutto se la si riferisce all'età successiva alla formulazione del "Credo" (IV secolo); ma è chiaro che, se i cristiani scrissero in una data epoca il Credo, ciò significa che già ne sentivano il bisogno. In nessun caso però questo bisogno di avere un Credo può essere fatto risalire alle origini. Fra gli ebrei è sempre stata possibile una maggiore libertà di opinione che fra i cristiani, specialmente se si prende come termine di confronto il cattolicesimo. Tuttavia anche gli ebrei hanno attraversato periodi di intolleranza marcatissima. Già al tempo Neemia (o Ezra) fecero considerare non ebrei tutti gli ebrei che non provenissero dalla diaspora. II problema è impostato diversamente che all'interno del cristianesimo: non si cerca tanto di allontanare coloro che "sbagliano" nell'interpretazione dei capisaldi della fede, quanto di allontanare coloro che "non sono ebrei'. Problemi del genere sono vivi anche nel giudaismo di oggi. In altri termini, ogni religione ha la sua "intolleranza": ciò che cambia è il modo con cui essa si esprime. E questo dipende dalla cultura in cui la religione vive.
    3. L'impostazione storica del problema
    Affrontando, dunque, il problema delle origini cristiane in seno al giudaismo abbiamo indicato l'esistenza del problema della frattura e della necessità di definirne il carattere, se dovuto a contingenze storiche o legato alla dottrina cristiana stessa delle origini e abbiamo visto che la coscienza della frattura si produsse dopo il 70 e fu concettualizzata diversamente da Matteo e da Giovanni. In altri termini fu il fatto a produrre l'idea e non il rovescio; perché l'idea è interpretazione variabile.
    Il problema delle origini cristiane e della "frattura" fu posto per la prima volta in maniera storica nel secolo XVIII dal Reimarus[12]. Gesù si iscriveva perfettamente nella religiosità giudaica contemporanea; parallelamente però il Reimarus insisteva con forza sulle differenze fra insegnamento di Gesù e insegnamento dei discepoli[13], fra i quali due insegnamenti trovava differenze tali da parlare appunto di frattura.
    In effetti già col Reimarus è posto il problema non solo del rapporto fra Gesù e il giudaismo, nel senso che Gesù ne fa parte a pieno titolo, ma anche quello del successivo sviluppo cristiano, che non è più visto come problema giudaico già a partire dai discepoli, ma specialmente a partire da Paolo. Gesù viene oggi avvicinato al giudaismo in maniera piuttosto robusta specialmente da studiosi ebrei, ma generalmente a prezzo di una riduzione delle notizie che ci vengono dai vangeli: viene negata la sua coscienza di essere qualcosa di più di un uomo e viene ridotta o addirittura negata anche la sua coscienza messianica[14]. Questo metodo non serve naturalmente per spiegare l'atteggiamento dei discepoli nella chiesa nascente, dove Gesù è definito normalmente Messia e Signore. La frattura si è spostata avanti nel tempo, ma è restata[15]. Il messianismo superumano di Gesù che doveva sfociare nel riconoscimento della sua divinità appare fenomeno impensabile nel mondo giudaico e da questa posizione concettuale il cristianesimo è interpretato come la religione nuova, fuori del giudaismo o almeno nettamente distinta da questo. Anche se oggi le parole e le filosofie soggiacenti sono diverse di quelle del tempo del Reimarus, tuttavia il problema storico mi sembra essere ancora quello impostato dallo studioso tedesco.
    Bisogna evitare di considerare, come aveva fatto l'interpretazione comune prima del Reimarus, giudaismo e cristianesimo come due entità contrapposte, ma bisogna anche evitare l'altra tendenza, già evidente anche in opere del secolo passato, quella di cercare di ridimensionare, anche a costo di fare qualche violenza ai testi, ciò che a torto o a ragione appare meno giudaico (nel senso di farisaico) nel cristianesimo. Il tentativo di eliminare, per esempio, il "Figlio dell'Uomo" dai Vangeli significa doverli riscrivere: il termine è troppo documentato per essere considerato un'interpolazione redazionale[16].
    Mi sembra più produttivo cercare di non distorcere il quadro che emerge dai testi neotestamentari (esigenza questa affermata anche dal Reimarus[17]), ma di cercare piuttosto di descrivere le peculiarità e novità cristiane sullo sfondo di tutto il giudaismo del tempo. Scopriremo che la predicazione di Gesù e lo stesso cristianesimo delle origini usarono sempre categorie giudaiche: le origini cristiane fanno pertanto parte del giudaismo di pienissimo diritto e di conseguenza il loro problema non può essere impostato come il problema di un confronto fra giudaismo e cristianesimo, perché questa terminologia alle origini non aveva senso. Cristianesimo, farisaismo ed essenismo sono tutti appartenenti a quella globalità che è il giudaismo. Il problema storico non è solo, come scrivevo nel 1987[18], individuare quella forza dinamica che deve spiegare la nascita e lo sviluppo del cristianesimo, ma anche capire per quali avvenimenti i cristiani finirono col sentirsi estranei al resto del giudaismo.
    Conseguenza di questa impostazione storica del problema è che bisogna rinunciare a un concetto, che trovo impiegato da molti storici: quello di ortodossia giudaica. Ci sarebbe stato un giudaismo ortodosso, più o meno coincidente col farisaismo, e uno non ortodosso rappresentato da altri gruppi, in particolare dagli esseni. Questa concezione permette alla vecchia interpretazione della storia delle origini cristiane, quale fu prima del Reimarus, di sopravvivere perfettamente. In effetti la frattura viene spostata in questo modo indietro nel tempo, a prima del cristianesimo, ma resta. Il cristianesimo rappresenterebbe sì un'evoluzione storica del giudaismo, ma di un giudaismo non ortodosso e quindi già separato dal giudaismo "vero"[19]. Ma il concetto di ortodossia è estraneo al mondo di cui ci stiamo occupando. Se qualche volta il giudaismo si è posto un problema che noi potremmo chiamare dell'ortodossia, lo ha sempre posto, fin dal tempo di Neemia nel senso di individuare chi sono i veri ebrei, non chi pensa rettamente o meno.
    Certo la dottrina dei due spiriti dell'essenismo (Regola della Comunità, 3, 15-24)[20] mostra l'esistenza di gravi contrasti di cui si aveva coscienza. Ma si trattava di contrasti multipli, fra gruppi numerosi che non riuscivano a imporsi l'uno sull'altro e che in ogni caso mantennero fra di loro una certa coscienza di unità. Si discuteva su chi avesse ragione o torto su punti della scrittura già letti secondo tradizioni interpretative diverse; ma nessuno con questo pensava di uscire dal giudaismo o di farne uscire gli avversari. Questi potevano essere "uomini della fossa " (come in Regola della Comunità 9, 22), o "pecore cieche" (come in Enoc Etiopico [Libro dei Sogni] 90, 26) destinati all'ira di Dio, come tutti gli ebrei del passato che non avevano seguito Dio per la "durezza del loro cuore" (come in Regola della Comunità, 3, 3), tuttavia restavano partecipi della medesima tradizione.
    Il tempio e Gerusalemme restavano il centro del giudaismo riconosciuto da tutti, anche se qualcuno li considerava contaminati. Anche i cristiani, a cominciare da Gesù, frequentavano il tempio. E' su questo sfondo che vanno studiate le origini cristiane: un movimento giudaico in mezzo a tanti altri. Certo doveva avere nella sua ideologia qualcosa fin dagli inizi, che ne deve spiegare la straordinaria riuscita, ma questo è problema diverso da quello della frattura.
    Attribuire il carattere di ortodosso al farisaismo di fronte a tutte le altre sette, significa attribuirgli la patente di unico e legittimo erede della tradizione giudaica anteriore, cosa che non ha senso storicamente: il farisaismo diventerà il giudaismo, ma questo avverrà solo col rabbinismo, dunque verso la fine del II secolo, con un processo cominciato circa un secolo prima. Solo allora il farisaismo scelse nella tradizione giudaica quegli elementi che meglio rispondevano ai suoi ideali e respinse tutti quegli elementi che a questi ideali non rispondevano: in particolare tutto ciò che sapeva di essenico, di apocalittico e di cristiano.
    Anche il concetto di apocalittica[21] è stato impiegato, a partire dagli inizi del secolo passato, per individuare la cerniera fra giudaismo e cristianesimo. Anche a proposito dell'apocalittica si possono ripetere le osservazioni generali già fatte per l'essenismo: se non si identifica il giudaismo con una determinata corrente di esso (il farisaismo), è impossibile confrontare l'apocalittica col giudaismo, in quanto ne fa parte.
    Nel caso dell'apocalittica il procedimento era poi reso confuso dalla difficoltà di individuare quale fosse il nucleo portante del suo pensiero[22]. Comunque un certo rapporto fra apocalittica ed essenismo è stato individuato da tempo. Qualcuno ha visto l'apocalittica come un movimento di pensiero vicino all'essenismo[23]; altri invece hanno preferito interpretare l'essenismo stesso come una forma di apocalittica[24]. Ma la nuova datazione alta delle prime opere apocalittiche permette oggi di porre in termini ben precisi il rapporto fra apocalittica ed essenismo[25].
    Probabilmente fu per evitare queste difficoltà e per confrontare Gesù col mondo giudaico "vero" che la sua figura fu studiata anche sullo sfondo del farisaismo, col risultato però di tornare a porre la frattura fra Gesù e il suo mondo. In questa prospettiva di studi nacque la grande opera dello Strack e Billerbeck[26], volta a trovare nella vasta letteratura rabbinica dei primi secoli postcristiani punti di contatto con la letteratura neotestamentaria: alla luce di questo materiale la discussione di Gesù coi farisei appare storicamente più verisimile.
    Questa linea ha ripreso vigore recentemente soprattutto ad opera di studiosi ebrei, anche se con sfumature molto diverse fra l'uno e l'altro. Gesù viene inquadrato nel suo tempo e le peculiarità del suo pensiero non si ricercano tanto nell'essenismo, quanto nelle sue origini galilaiche. Non è che delle idee galilaiche si sappia molto, ma quel poco che si sa è derivato sia da fonti occidentali sia dalla Mishnah, cioè dalla tradizione giudaica "vera", mentre del materiale qumranico ed apocrifo si fa un uso estremamente limitato. L'impressione generale che si ricava dalle ricostruzioni di questi autori è che Gesù sia veramente ebreo; su quel che seguì manca un giudizio esplicito, ma mi pare che sia facilmente ricavabile dall'impostazione generale: la frattura avvenne o subito dopo la morte di Gesù o, ritornando alla vecchia ipotesi del Reimarus, fu già tra lui e i suoi discepoli durante la sua stessa vita[27].
    Tornando di nuovo a parlare dell'ombra essenica, mi sembra particolarmente degna di nota l'impostazione del Gfrörer[28], il quale percepisce perfettamente il problema dello sviluppo storico del cristianesimo delle origini, sviluppo che egli riporta sempre all'influsso dell'essenismo che si sarebbe fatto sentire non solo sulla predicazione di Gesù, ma anche sulla formazione della prima teologia cristiana. Il vantaggio di questa prospettiva è che il cristianesimo è colto nella sua dimensione dinamica; il fatto è che mi riesce difficile concepire l'insieme del giudaismo in modo diverso: tutto è nella storia. Il Cullmann e il Käsemann che parlano di più cristianesimi delle origini mi sembrano nel giusto; basta intendere che il fenomeno della frammentazione riguardava tutto il mondo giudaico di allora[29].





    NOTE:
    [12] REIMARUS H.S., I frammenti dell'anonimo di Wolfenbüttel, pubblicati da G.E. Lessing, (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, serie testi 3) a cura di F. Parente, Napoli 1977.
    [13] REIMARUS, op. cit., p. 365: «....errore comune fra i cristiani: questi, confondendo la dottrina di Gesù con quella degli apostoli,...». Cf. anche p. 358.
    [14] Cf. per esempio VERMES G., Gesù l'ebreo, Roma 1983 (edizione inglese del 1971), p. 179 sgg. Vedi anche FLüssER D., Jesus, Hamburg 1968. Il problema però riguarda essenzialmente il tipo di messianismo che Gesù si attribuiva. Che non volle essere messia-re, è certo (cf. Giovanni 6, 15).
    [15] Il VERMES, op. cit., crea un ponte fra la storia prepasquale e quella postpasquale, che permette di far risalire la fede nella messianicità di Gesù già a prima della sua morte: i discepoli lo volevano messia, anche se egli non era d'accordo. In questo caso la frattura risale alla predicazione stessa di Gesù, in quanto non fu capito. Ma anche questa è, nella struttura generale, tutt'altro che un'idea nuova.
    [16] Cf CONZELMANN H. - LINDEMANN A., Guida allo studio del Nuovo Testamento, (Commentario storico-esegetico dell'Antico e del Nuovo Testamento - Strumenti 1), Casale 1986, 372-378. BULTMANN R., Theologie des Neuen Testaments, 31-32; OTTO R., Reich Gottes und Menschensohn, 1954 -3, 118-209.
    [17] REIMARUS, op. cit., p. 358: i vangeli concordano sostanzialmente nell'esposizione della dottrina di Gesù. Pertanto è dal loro uso in blocco che se ne può ricavare il pensiero.
    [18] Cf. SACCHI P., L'eredità giudaica nel cristianesimo, in «Augustinianum» 28, 1988, 23-50, p. 25.
    [19] Molti studiosi soprattutto del secolo passato hanno impiegato l'essenismo come corrente cerniera fra il giudaismo e il cristianesimo: ricordo il Renan e il Graetz. Cf. per un quadro approfondito Parente, art. cit. nota 5.
    [20] «Dal Dio della conoscenza viene tutto ciò che è e che sarà. Prima che gli uomini esistano, Egli ha stabilito i loro pensieri; e quando essi vengono all'esistenza, come è stato stabilito, compiono le loro azioni conformemente al pensiero della sua Gloria, senza che si possa niente cambiare. In sua mano è il giudizio su tutti ed egli provvede a tutti gli esseri secondo le loro necessità. Dio creò l'uomo perché dominasse il mondo e gli impose due spiriti coi quali procedesse fino al tempo del suo intervento. Sono gli spiriti della verità e del male. In una fonte di luce sono le generazioni della verità e da una fonte di tenebra vengono le generazioni del male. In mano al principe della luce è il governo di tutti i figli della giustizia, che procedono nelle vie della luce; in mano al principe della tenebra è tutto il governo dei figli del male, che procedono nelle vie della tenebra. A causa dell'angelo della tenebra errano tutti i figli della giustizia e tutti i loro peccati sono sotto il suo dominio, secondo il misterioso piano di Dio, finο al tempo da lui stabilito.... Tutti gli spiriti a lui assegnati hanno la funzione di perdere i figli della luce». Contrapposizione più netta è difficilmente pensabile, ma essa noi si pone in termini di esclusione o scomunica.
    [21] Per una storia della ricerca sull'apocalittica, cf. SCHMIDT J.M., Die jüdische Apokalyptik. Die Geschichte ihrer Erforschung von den Anfängen bis zu dem Textfunden von Qumran, Neukirchen 1969. Gli studiosi contemporanei preferiscono usare l'apocalittica piuttosto che l'essenismo come concetto cerniera fra il giudaismo e il cristianesimo. Cf. KÄSEMANN E., Die Anfänge der christlichen Theologie, in «Zeitsch. f. Theologie und Kirche» 57, 1960, 162-185; ID., Paulus und Frühkatholizismus, ibidem, 60, 1963, 75-89; BULTMANN R., Ist die Apokalyptik die Mutter der christlichen Theologie?, in Apophoreta, Festschrift E. Haenchen (Beihefte dei Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft 30) 1964, 64-69; DELCOR M., Studi sull'apocalittica, Brescia 1987.
    [22] II problema del rapporto fra forma e contenuto nell'apocalittica è stato posto chiaramente da CARMIGNAC J., Qu'est-ce que l'apocalyptique? Son emploi à Qumrân, in «Revue de Qumrän» 10, 1979, 333. Egli propone di usare il termine "apocalittica" solo in senso formale, evitando perciò di parlare di idee apocalittiche; idee simili in COLLINS J.J., Towards a Morphology of a Gere, in «Semeia» 14, 1979, 1-20.
    [23] L'affinità dell'apocalittica con l’essenismo è stata sostenuta nel secolo passato dallo Hilgenfeld, Die jüdische Apokalyptik, Jena 1857; KoHlER in «Jewish Encyclopedia» V, 224; RINGGREN H., in «Religion in Geschichte und Gegenwart» I, 464; CROSS F.M., Ancient Library of Qumran, New York 1961-2, p. 62, n. 16 e specialmente p. 72, n. 33; REICKE B., Official and Pietistic Elements of Jewish Apocalypticism, in «Journal of Biblical Literature» 79, 1960, 137-150.
    [24] Α. Di Nola rovescia invece l'impostazione comune e finisce col comprendere l'essenismo all'interno dell'apocalittica: cf. «Enciclopedia delle Religioni» I, 1959; cf. anche RUSSELL D. S., The Method and Message of Jewish Apocalyptic, Philadelphia 1964, 1, 1974, 6, p. 27.
    [25] Per un rapporto storico fra essenismo e apocalittica, cf. SACCHI P., Riflessioni sull'essenza dell'apocalittica: peccato d'origine e libertà dell'uomo, in «Henoch» 5, 1983, 31-62, p. 55; GARCIA MARTINEZ F., Origenes apocálipticos del movimiento esenio y origenes de la secta qumránica, in «Communio» 12, 1985, 354-368.
    [26] Op. cit. alla nota 3.
    [27] VERMES G., Gesù l’ebreo, Roma 1983, (edizione inglese del 1971), pp. 179 sgg. Cf. anche FLÜSSER D., Jesus, Hamburg 1968.
    [28] GFRÖRER A.F., Kritische Geschichte des Urchristentums, Stuttgart, I, 1831, II, 1838.
    [29] Cf. KÄSEMANN E., Zum johannischen Verfasserproblem, in «Zeltschrift für Theologie und Kirche» 1951, 302; ID., L'enigma del Quarto Vangelo, Torino 1977, edizione originale 1971; CULLMANN O., Origine e ambiente dell'Evangelo secondo Giovanni, Casale Monferrato 1976, edizione originale 1975.
    4. Le applicazioni del nuovo metodo
    Il nuovo metodo per affrontare lo studio del I secolo giudaico è stato favorito nella sua formazione dall'aumento dei dati a nostra disposizione. La scoperta dei Rotoli del Mar Morto ci ha portato una grande quantità di materiale diretto relativo al periodo in questione. Degli esseni non abbiamo più le notizie indirette derivate da autori antichi, delle quali dovevano contentarsi gli studiosi del secolo passato e della prima metà di questo, ma abbiamo molti documenti originari. L'acquisizione poi di questo materiale ha avuto un effetto sorprendente: in un certo senso ha prodotto anche la scoperta degli apocrifi. Non che questi in passato fossero ignorati, ma la scoperta dei Rotoli del Mar Morto ne ha permesso una comprensione prima impossibile. E' conferma di questo fatto il rinnovato interesse per questo tipo di documenti, dei quali si vanno curando edizioni-traduzioni un po' in tutte le lingue moderne, italiano compreso.
    Se queste sono le "cose" che hanno favorito il nuovo corso di studi, bisogna anche segnalare nuove impostazioni. Mi permetto di ricordare in questo senso la mia Storia del mondo giudaico (Torino 1976, ora esaurita), dove non è fatta alcuna distinzione fra testi canonici e non canonici, fra testi a noi giunti in lingue originali (ebraico o aramaico) e testi a noi giunti in traduzioni varie (apocrifi), per delineare la storia del giudaismo del Secondo tempio. Questa impostazione mi ha permesso una ricostruzione globale del pensiero giudaico, forse sbagliata in molti particolari, ma certamente desiderosa di coglierlo in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue esigenze.
    Devo poi ricordare l'opera del Neusner, infinitamente più vasta della mia. Il Neusner, a differenza del sottoscritto, non parte dalla costruzione del Secondo tempio scendendo poi nel tempo, ma parte dalla redazione della Mishnah e si spinge a ritroso nel tempo alla ricerca delle origini di questa. Il periodo che io vedo alla fine dei miei interessi di storico, per il Neusner rappresenta gli inizi. Ciò che distingue a prima vista il modo di vedere le cose del Neusner dal mio nello studio del I secolo è soprattutto la terminologia: mentre io parlo sempre di "correnti all'interno del giudaismo", il Neusner preferisce usare il termine giudaismo al plurale. Non ci fu un giudaismo, ma tutta una serie di giudaismi, che continuano ancora oggi.
    L'opera del Neusner merita di essere ricordata per più motivi: intanto è il primo che ha sottoposto il testo mishnico ad un'analisi analoga a quella cui sono stati sottoposti i testi vetero e neotestamentari. Ha cioè applicato al testo mishnico i criteri della Formgeschichte. Anche in questo caso qualche singolo risultato è discutibile[30], ma nell'insieme la metodologia è valida. Adesso abbiamo uno studio che enuclea le parti della Mishnah più antiche del 70[31]. Il confronto fra Nuovo Testamento e Mishnah non sarà più fatto alla Strack e Billerbeck, ma sarà fatto tenendo conto della stratificazione della Mishnah. E' un passo da gigante sia nella metodologia sia nelle prospettive dell'indagine storica relativa al I secolo[32].
    Voglio in fine menzionare un problema, del quale mi sono occupato più volte[33], quello delle norme di purità. Esse non valevano solo per il tempio, ma riguardavano tutta la vita dell'ebreo. Inoltre esse servivano in qualche modo a marcare i limiti di ogni comunità, in quanto ogni comunità le imponeva ai suoi membri, che accettava solo in quanto puri. D'altra parte le norme di purità variavano da comunità a comunità, da setta a setta. Questo fenomeno, che teoricamente dovrebbe essere stato superato dal cristianesimo dato l'insegnamento di Gesù (Marco, 7), in realtà si protrasse anche all'interno della chiesa probabilmente per secoli[34] e forse, per qualche aspetto, dura ancora[35].
    Uno studio sistematico del problema all'interno della letteratura cristiana antica, credo che sia più indispensabile che utile per capire certe fratture all'interno del cristianesimo stesso e forse potrebbero gettare luce anche su qualche aspetto della grande frattura fra cristianesimo e giudaismo. Concludo questa lunga parte introduttiva dicendo che bisogna evitare di considerare il giudaismo come un monolito. Teologie diverse e opposte circolavano nel giudaismo e la discussione era aperta; l'osmosi e la radicalizzazione sono due fenomeni opposti che possono entrambi essere stati generati da questa situazione. Ma discussione e sviluppo possono avvenire anche all'interno di uno stesso gruppo, come attestano le fonti rabbiniche, quelle esseniche e quelle apocalittiche. Difficilmente il cristianesimo può considerarsi estraneo a questo mondo e alla sua logica; e l'uno e l'altra saranno ricostruiti tanto meglio, quanto maggiore sarà il numero delle fonti di cui si terrà conto. Qualunque selezione arbitraria non può che deformare il quadro d'insieme, come ogni nuova scoperta di testi certamente modificherà il quadro.
    Può darsi che fino a questo momento il mio discorso appaia alquanto teorico e lontano dai testi. Vorrei quindi rivolgermi allo studio di un caso particolare. Non è la prima volta che applico questo metodo volto a dimostrare che il pensiero cristiano delle origini si spiega soltanto sullo sfondo delle idee che circolavano nel giudaismo del tempo. Ad alcuni di questi ho fatto riferimento sopra: essi sono il problema dell'unificazione dei comandamenti alla ricerca di un punto centrale della Legge; il problema della purità; il problema del giudizio e della giustificazione; il problema dell'origine del male che vede Paolo vicino all'apocrifo Quarto Libro di Ezra (Peccato d'origine = peccato di Adamo) e Giovanni dell'Apocalisse vicino alle tradizioni enochiche (Peccato d'origine = peccato angelico). Il cristianesimo si inserisce perfettamente nello sviluppo delle idee messianiche del giudaismo e in quelle dell'apocalittica giudaica relative all'origine del male.
    Vorrei ora affrontare in quest'ottica un problema paolino. Se infatti può essere accettato che Gesù era un ebreo, di fronte al pensiero di Paolo, le resistenze sono più forti: la frattura fra giudaismo e cristianesimo potrebbe proprio essere dovuta all'impronta che Paolo dette al cristianesimo. Prenderemo in considerazione un testo paolino, per delineare un problema che fu certamente interno del cristianesimo, ma che fu affrontato secondo una linea di pensiero assolutamente ebraica. Pertanto se ci fu innovazione (e come sempre quando si risolve un problema l'innovazione ci fu), questa avvenne ancora all'interno del giudaismo. Era ebraico il modo di porsi il problema ed ebraiche furono le categorie per cercare di risolverlo.





    NOTE:
    [30] Per esempio, sono perplesso circa la difficoltà che ha il Neusner ad attribuire a Ben Zakkai il concetto che «né il cadavere contamina, né l'acqua purifica, ma Dio ha ordinato di fare così» (testo riassunto). Cf. NEUSNER J., The Idea of Purity in Ancient Judaism, Leiden 1973, p. 105. D'accordo che la tradizione è tarda, ma è anche vero che è molteplice. Inoltre il problema della purità era particolarmente sentito proprio nel I secolo. Il fatto che la tradizione successiva abbia ignorato questa massima di Ben Zakkai può spiegarsi col fatto che l'interesse per l'essenza dell'impuro fosse in seguito minore. Del resto il Neusner stesso non ha difficoltà ad ammettere che qualcosa di questa tradizione possa risalire a Ben Zakkai stesso.
    [31] Cf. recentemente NEUSNER J., The Mishnah Before 70 (Brown Judaic Studies 51), Atlanta 1987. Anche nel campo degli apocrifi si sta svolgendo un buon lavoro, ma la massa del testi è impressionante rispetto alle forze che possono occuparsene.
    [32] Per metodi di datazione più tradizionali, cf. MANNS F., Pour lire la Mishna, Jérusalem 1984, pp. 146-154.
    [33] Storia del mondo giudaico, Torino 1976, pp. 229-258; Il puro e l'impuro nella Bibbia: Antropologia e storia, in «Henoch» 6, 1984, 650; Omnia munda mundis: Tito 1,15; il puro e l'impuro nel pensiero ebraico, in AA.VV., II pensiero di Paolo nel cristianesimo antico, Genova 1984, 29-55.
    [34] SMITH M. (The Dead Sea Sect in Relation to the Ancient Judaism, in «New Testament Studies» 7, 1960, 347-360) indicava nelle norme di purità una delle cause che produssero la separazione fra cristianesimo e giudaismo e la frammentazione dello stesso cristianesimo delle origini, in quanto le norme di purità ponevano problemi per la partecipazione ad una stessa mensa. Cf. recentemente GARCIA MARTINEZ F., Les limites de la communauté: pureté et impureté à Qumrán et dans le Nouveau Testament, in Text and Testimony, Essays on New Testament and Apocryphal Literature in Honour of A.F.J. Klijn, Kampen 1988, 111-122. L'autore insiste che il problema della purità era stato risolto nel Nuovo Testamento solo a livello teorico. Di fatto esiste la persistenza del fenomeno e una certa contraddittorietà di manifestazioni, che risale al tempo stesso di Gesù, perché già allora il giudaismo aveva idee divergenti sulla purità. Sull'evoluzione delle norme di purità, cf. LUPIERI E., La purità impura. Giuseppe Flavio e le purificazioni degli esseni, in «Henoch» 7, 1985, 1544.
    [35] Cf. le ultime pagine del mio articolo Omnia munda mundis..., cit. alla nota 33 e la mia recensione a NEWTON M., The Concept of Purity at Qumran and in the Letters of Paul (Society for New Testament Studies, Monographs Series, 53) Cambridge 1985 e a BOOTH R.P., Jesus and the Laws of Purity; Tradition History and Legal History in Mark 7, in «Journal of the Study of the New Testament», Suppl. Series 13, Sheffield 1986 e la mia recensione in «Journal for the Study of Judaism» 18, 1987, 94-98.
    5. Paolo e il fondamento della morale cristiana
    In passato ho sempre lavorato cercando presso vari autori giudaici (quindi anche cristiani) temi comuni. Questa volta vorrei provare a mostrare come può essere nato in Paolo un problema e come cercò di risolverlo: il discorso risulterà più complesso, perché non si fonda su uguaglianze statiche, ma sulla ricerca di una dinamica, che faccia risaltare il problema adducendo vari referenti mentali che aiutarono Paolo a risolverlo.
    Si legge nel vangelo di Marco che Gesù, in quanto Figlio dell'Uomo, cioè giudice supremo in luogo di Dio e in funzione della sua giustizia, aveva anche il potere di perdonare, evidentemente proprio perché giudice assoluto. E' l'episodio della guarigione del paralitico che si trova nella prima parte del vangelo (Marco, 2, 1-12). Il fatto è noto: Gesù, vedendo la pistis (fede, come è tradotto normalmente, o meglio, in questo caso, fiducia) di coloro che gli hanno portato il paralitico e forse anche del paralitico stesso, dice rivolto al paralitico: "Sono rimessi i tuoi peccati". Il perdono non dipende da una richiesta, nemmeno implicita, che presupporrebbe il pentimento. E' atto assolutamente gratuito.
    A Paolo un comportamento di Gesù di questo genere creò problemi, o meglio, li creò negli animi dei suoi ascoltatori ebrei, che non poterono non porli a Paolo, la cui risposta fu complessa, segno che il problema era difficile a risolversi in termini razionali anche da parte sua. Ciò è documentabile non agli inizi della sua predicazione, ma fra gli anni 54 e 57, anni probabili della composizione delle Epistole ai Corinzi e di quella ai Romani. Non è tanto la parola pistis, che egli intende ormai come fede, che fa difficoltà a Paolo e ai suoi ascoltatori, ma il rapporto, anomalo per la maggior parte degli ebrei, che si viene ad instaurare fra comportamento umano e retribuzione divina. Paolo deve reinterpretare le scritture e la loro tradizione interpretativa, per potervi iscrivere anche il comportamento e il pensiero di Gesù. Per trovare il senso del presente, deve rifarsi al passato scritturistico: niente di più ebraico. Scrive Paolo in Romani, 3, 21 sgg.: "Ora, dunque, indipendentemente dalla Legge si è manifestata la giustizia di Dio, cui la Legge stessa e i profeti (cioè la scrittura nel suo insieme, intesa come testo profetico) rendono testimonianza: giustizia di Dio che si ottiene mediante la fede in Gesù Cristo, a disposizione di tutti coloro che credono - senza distinzione (cioè fra ebrei e pagani), perché tutti (lo ha già detto prima, al v. 12 ed ora riprende le conclusioni già enucleate) hanno peccato, cosicché tutti sono privi della gloria di Dio, ma giustificati gratuitamente dalla grazia di lui, per mezzo della redenzione che avviene per mezzo di Gesù Cristo".
    Ho insistito più volte che il concetto di giustificazione è in quest'epoca pangiudaico, perché è ormai coscienza comune che il giusto oggetto delle cure di Dio, di cui spesso parlano le scritture, né esiste, né può esistere. Anche gli esseni credevano in una giustificazione più o meno per fede, i farisei in una giustificazione per mezzo delle opere (cioè, detto semplicemente, una certa quantità di opere buone cancellava una certa quantità di opere cattive[36]). Nel I secolo pertanto il problema non era "chi è il giusto che si salva", ma "chi può essere considerato giusto da Dio, così da essere salvato".
    Il problema, dunque, di Paolo non era la giustificazione in quanto tale, né le sue condizioni. Anche su questo punto non aveva dubbi: era la fede nel Cristo. Il problema di Paolo era un altro. Come è possibile predicare una morale di vita (e Paolo certamente la predicava) e dichiarare contemporaneamente che questa era indifferente rispetto alla salvezza? Qualcuno, infatti, che aveva ascoltato la predicazione di Paolo, lo aveva interpretato nel senso che egli avesse abolito ogni morale, se non addirittura che avesse consigliato di compiere quanto più male possibile. Lo racconta egli stesso in Romani, 3, 8: "Perché non dovremmo fare il male, affinché venga il bene, come alcuni...ci calunniano, dicendo che lo affermiamo?".
    Predicare una vita attiva nel bene e contemporaneamente dichiarare inutili alla salvezza le opere doveva produrre un certo smarrimento in mezzo ai credenti, specie se provenienti dalle file del farisaismo. Ma non doveva essere migliore nemmeno la condizione spirituale di coloro che venivano dall'essenismo. Sapevano che la salvezza era per fede, ma nel loro predeterminismo, consideravano la Legge come lo specchio voluto da Dio in cui l'uomo poteva cogliere, diciamo così nel suo esame di coscienza, il suo procedere sulla via della salvezza[37]. La Legge era valida, perché voluta da Dio e i suoi eletti non potevano che praticarla. Ma Paolo era radicale nell'annunciare il superamento della Legge stessa, il cui valore era duplice: storicamente era il pedagogo che ci aveva condotti al Cristo; filosoficamente era il mezzo attraverso il quale il male che è tale già prima della legge e, quindi, indipendentemente da questa, diventa trasgressione (Romani, 7, 13). E' per questo, come è noto, che la Legge, per Paolo, non può portare alla salvezza.
    Di questa difficoltà derivante dai contorni nettissimi della teologia paolina della salvezza per fede c'è eco anche in Pietro. Dovevano essere situazioni spirituali come quelle descritte sopra che fecero sospirare il buon Pietro con queste parole (Seconda epistola di Pietro, 3, 16): "Le sue (di Paolo) lettere contengono passi difficili a comprendersi, il significato dei quali...viene sconvolto dagli ignoranti e dai deboli, a loro perdizione". Questa menzione dei "deboli" sembra proprio alludere al problema morale.
    Paolo avverte la necessità di legare la vita attiva dell'uomo cristiano a quella unità che è l'uomo destinato alla salvezza o alla perdizione. E il problema gli nasce certamente dall'esperienza della predicazione, dai contatti umani che ne seguivano. In 6, 12 della Prima epistola ai Corinzi c'è una frase che ha sempre fatto difficoltà ai commentatori e che talora viene stampata fra virgolette, come pensiero di Paolo travisato, sia pure appartenente alla sua predicazione o addirittura come pensiero di qualche avversario[38]. In definitiva, non sarebbe pensiero di Paolo, o almeno non pensiero di Paolo da porre in questo contesto. Credo invece che si tratti non solo di pensiero paolino, ma di pensiero paolino che sviluppa il discorso in cui è inserito. Solo che per capirlo va calato nei referenti mentali degli ebrei del tempo. Si legge, dunque, in questo versetto: "Tutto mi è permesso, ma non tutto giova".
    Conseguenza del superamento della Legge (il pedagogo che ci ha portati al Cristo) è proprio il fatto che non ha più un senso parlare di "è lecito" e di "non è lecito" ed è da frasi come questa che può essere nata la diceria che Paolo aveva abolito la morale. Ma anche Paolo si accorgeva col passare degli anni che alla sua predicazione morale mancava una base unitaria, ché per gli ebrei, per tutti gli ebrei, l'unico fondamento della morale era la Legge. E' vero che Paolo, e prima di lui l'autore del Documento di Damasco, avevano scoperto quel concetto che, in termini moderni, potrebbe essere definito della "morale naturale"[39]. Ma nella Prima Epistola ai Corinzi Paolo non si mette su questa strada, cerca qualcosa di più concreto, di più comprensibile ai suoi connazionali.
    Se è vero che, superata la Legge, tutto diventa lecito, resta tuttavia il fatto che non tutto giova. Cerchiamo ora di individuare i referenti mentali di Paolo e degli ebrei dell'epoca che possono chiarire questo punto. Ma prima guardiamo come si sviluppa il discorso di Paolo fino al punto in cui ha inserito la frase discussa "Tutto mi è lecito...". Paolo stava facendo un'aspra rampogna contro chi commetteva ingiustizia. Non si facciano illusioni i cristiani (dunque, qualcuno se le faceva) : fornicatori, idolatri, adulteri,..., ladri, avari, ubriaconi, maldicenti, rapinatori non erediteranno il regno di Dio. Paolo prosegue ricordando che il cristiano è un giustificato. E' a questo punto che viene fuori la frase "Tutto mi è permesso". E' come se dicesse: E' vero che la giustificazione è indipendente dalle opere, ma non per questo siete liberi di commettere il male, perché il male è fra le cose che non giovano.
    Quest'affermazione piuttosto oscura per chi ha letto Machiavelli e non solo per quello, era invece chiarissima per un ebreo del tempo. Una categoria del giudaismo (spesso discussa, ma generalmente accettata da tutti gli ebrei di tutti i tempi) è quella del puro/impuro. Senza volerne qui ripercorrere la storia fin dalle origini, possiamo dire che il concetto di impuro al tempo di Gesù era quanto mai vasto. L'impurità era una realtà (una cosa) negativa per l'uomo che era legata sia ad alcune cose (come il sangue, gli animali che strisciano, il cadavere) sia alla vita sessuale (l'atto sessuale contamina sempre indipendentemente dalla sua liceità), sia o ciò che oggi chiamiamo vita morale, perché anche il peccato contamina, cioè depotenzia e, in definitiva, distrugge l'uomo[40]. Il sesso era considerato una fonte di impurità molto grave. Si noti come Paolo nell'elenco delle colpe che i cristiani devono evitare cominci proprio dalla fornicazione. Era un modo comune di ragionare di allora. Già i Settanta avevano invertito l'ordine del quinto e del sesto comandamento. La logica classica era "Non togliere la vita, non rubare la donna, non rubare le cose". Adesso la logica è "Non contaminare (il sesto comandamento ha così allargato e cambiato il suo valore originario), non uccidere, non rubare". Norme di purità particolarmente severe riguardavano soprattutto coloro che erano addetti al culto nel tempio.
    Ed ecco come prosegue il discorso di Paolo. "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?" E ancora e più chiaramente: "Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?". In questo passo Paolo fa il tentativo di fondare la morale cristiana sul modo con cui ci si deve comportare al tempio, in quanto il cristiano, in un certo senso, è sempre nel tempio. L'affermazione è tutt'altro che audace per un ebreo del I secolo: anche gli esseni da tempo consideravano la loro comunità sostitutiva del tempio; ogni esseno era una pietra del tempio puro, che sostituiva quello contaminato di Gerusalemme[41]. Come si vede, motivi per opporsi gli uni agli altri agli ebrei non mancavano, ma si trattava di scontri che presupponevano sempre idee e problemi ebraici. Paolo non fa eccezione a questa regola.
    Paolo si deve bene essere reso conto che questa via non risolveva il problema, perché i contenuti della purità erano stati modificati da Gesù. Così Paolo, quando riprese la metafora del tempio nella Seconda Lettera ai Corinzi (cap. 6, 16) per indicare l'insieme di coloro che credono nel Cristo ("Noi siamo il tempio del Dio vivente") allargò il discorso ad una forma di ascesi, per cui il cristiano è chiamato "a purificarsi da ogni macchia della carne e dello spirito" (7, 1). La vita cristiana deve procedere come vita di separazione dai pagani o almeno dai loro vizi, ma il versetto biblico citato da Paolo a conferma della sua tesi è quello che è: (6, 17) "Uscite di mezzo a quelli e separatevene e non toccate nulla di impuro" (Isaia, 52, 11, riadattato da Paolo)[42].
    Ma se questa via di ascesi è essenzialmente negativa (separazione dai vizi dei pagani, con l'espressione equivalente e quanto mai significativa "non toccate nulla di impuro"), Paolo cerca di battere anche un'altra via con motivazioni opposte, positive e non negative. Penso al famoso cap. 13 della Prima Epistola ai Corinzi, che è tutto un inno all'Amore. Quest' Amore (con la A maiuscola) di cui parla Paolo non va confuso con l'amore per il prossimo, perché anche se un uomo desse tutti i suoi beni ai poveri, non ne trarrebbe alcun giovamento: è la stessa logica che ha guidato il ragionamento di Paolo della Seconda ai Corinzi: è vero che tutto è lecito, ma è altrettanto vero che non tutto giova: sia chiaro, nemmeno dare il suo ai poveri giova: dunque, non è un problema semplicemente di amore per il prossimo. E Paolo sta cercando di indicare che cosa sia quello che giova. Lo sfondo concettuale, l'insieme dei referenti mentali che giustificano le conclusioni vanno ricostruiti dal discorso stesso, perché Paolo non li indica mai chiaramente: forse non era in grado egli stesso di verbalizzarli.
    Quest'Amore che Paolo ha in mente è affine alle virtù umane e a quelle caratteristiche cristiane quali la fede e la speranza, ma si distingue da queste per un motivo fondamentale: mentre tutte le virtù sono destinate a scomparire, legate come sono a questa vita effimera nel corpo, l'Amore non può scomparire mai (13, 8): in altri termini, è eterno. L'Amore, perciò, è qualcosa che appartiene già alla sfera del divino. Chi vive nell'Amore è talmente legato a Dio, che non può agire se non secondo la Sua volontà.
    Quest'idea che sembra così paolina (anche se qualcuno ne ha messa in dubbio l'autenticità) e così nuova, è nuova solo nel senso che in Paolo si radica nella fede nel Cristo e non altrimenti, ma qualcosa di molto simile si può ritrovare anche presso gli esseni. Vorrei avvicinare al passo paolino uno tratto dalla Regola della Comunità, 4, 3, passo che appartiene secondo recenti studi alla fase più tarda dell'essenismo[43]: siamo pertanto in un'epoca non molto anteriore a quella in cui visse Paolo.
    "(Lo spirito del bene o di verità) illumina il cuore dell'uomo e stende davanti a lui tutte le vie della giustizia vera, fa sì che il suo cuore tema i giudizi di Dio; (e questa via di vera giustizia è costituita da) umiltà (ruah `anawah), pazienza ('orek 'appaym), amore abbondante (rob rahamim), Bene eterno o cosmico (tob `olamim), intelletto (sekel), intelligenza (binah), somma sapienza (hokmat geburah)."
    In questo elenco abbiamo tre virtù pratiche e tre dianoetiche, disposte in climax ascendente: umiltà, pazienza, amore e intelletto, intelligenza, sapienza somma. Cerniera fra le due serie di virtù umane è il tob `olamim, che le trascende: non è più umano, ma cosmico o eterno. Il primo gradino umano è formato da umiltà e intelletto, il secondo da pazienza e intelligenza, il terzo da amore e somma sapienza. La linea di una ascesi è tracciata con la massima chiarezza.
    Chi è salito fino al terzo gradino raggiunge il tob `olamim, che in qualche modo lo eterna. E' la sfera del divino che penetra nell'uomo. Nell'apocalittica del Libro dei Vigilanti l'uomo portava in sé un'anima immortale destinata a vivere nelle caverne dei beati o in quelle dei dannati, ma anima e corpo sono come separati fra di loro: l'uomo giusto, o comunque degno della salvezza, attende di penetrare nel mondo dello spirito. Nell'essenismo avviene il rovescio: la sfera dello spirito e del divino penetra nell'uomo già in questa vita. Non fa stupore pertanto che nei testi essenici non si parli mai in maniera esplicita dell'immortalità dell'anima, che sarebbe problema destinato a restare sub iudice, se non avessimo l'affermazione esplicita di Giuseppe Flavio[44]. In realtà, l'esseno raggiunge l'eterno e se ne lascia compenetrare già in questa vita.
    Vengono adesso pubblicati alcuni frammenti di un'opera intitolata dagli editori Regola della liturgia dell'olocausto del sabato, che doveva contenere tredici inni da recitarsi in occasione dei tredici sabati della prima stagione dell'anno. Si tratta di una liturgia degli angeli alla quale partecipano anche gli esseni[45]. L'esseno vive già in questa vita nel tempio eterno degli angeli e di Dio.
    Questo che abbiamo detto adesso è essenismo e non cristianesimo, ma un rapporto fra il pensiero di Paolo e quello di Qumran esiste ed è ben marcato.
    Ritornando a Paolo, è chiaro che una volta che l'uomo ha raggiunto l'Amore si trova in una situazione simile a quella di chi ha raggiunto il Bene eterno. L'espressione essenica è più oggettiva di quella di Paolo. Paolo sembra far coincidere nell'Amore ciò che gli esseni tenevano separato come amore e come Bene eterno, dove il primo è passo obbligato per raggiungere il secondo. In Paolo l'Amore riassume in sé, per sua natura, anche l'amore con la a minuscola, ma l'Amore di Paolo ha lo stesso carattere di eternità del Bene eterno essenico.
    A questo punto il problema del "lecito" e del "non lecito" è manifestamente superato: Dio è nello stesso tempo fonte dell'essere e del comportamento dell'individuo. Non c'è più frattura fra ciò che noi chiamiamo l'essere e il dover essere.
    Non vorrei che col discorso che ho fatto fin qui qualcuno pensasse che voglia ricalcare le orme del Renan, per il quale il cristianesimo non era altro che una forma di essenismo, che ha avuto fortuna nella storia. Ripeto: il cristianesimo è una corrente giudaica, anche se più vicino all'essenismo e all'apocalittica che al farisaismo.
    Guardiamo un caso di novità in Paolo, in cui si coglie bene sia il suo distacco dall'essenismo, sia la sua innegabile maggiore vicinanza al pensiero essenico che a quello farisaico. Esiste una lunga tradizione di pensiero che è partita dalla prima apocalittica, secondo la quale la natura del mondo e dell'uomo è stata sciupata da un peccato commesso fuori di essa: il peccato angelico. L'essenismo riprese l'idea modificandola nel senso che il peccato angelico non fu peccato libero, in quanto Satana fu creato tale da Dio, per "odiarlo", come dice la Regola della Comunità (4, 1); ma l'idea che la natura sia stata sciupata da questo fatto, sia pure diversamente valutato, fu anche essenica. Anzi l'essenismo la radicalizzò vedendo nell'uomo solo una struttura di peccato[46], peccatore in questo senso fino dal seno materno[47]. L'assenza di questa concezione della natura sciupata nel farisaismo crea uno scarto robustissimo fra le due correnti, o meglio: fra farisaismo e sadduceismo da un lato, e tutte le altre correnti dall'altro.
    Ora noi vediamo che Paolo non conosce il peccato angelico, pur conoscendo Satana, con funzioni di tentatore, ma non molto marcate, perché del diavolo Paolo parla poco, almeno il Paolo autentico (cfr. Prima Lettera ai Corinzi, 7, 5). Per Paolo la natura umana è sì sciupata, ma a causa del peccato di Adamo e la differenza non è piccola, anche se la categoria paolina si iscrive perfettamente nel pensiero ebraico e solo in quello. E' chiaro che il peccato di Adamo ha la stessa funzione, nel pensiero di Paolo, che nell'apocalittica e nell'essenismo aveva il peccato angelico, ma il fatto di aver scelto un mito diverso per spiegare la stessa cosa ha la sua importanza: il peccato ha la sua origine nella sfera umana. "Per colpa di uno la condanna si è riversata su tutti" (Romani, 5, 18).
    Ed è interessante notare che la concezione paolina fu ripresa anche in ambienti apocalittici, se il Quarto Libro di Ezra (inizi del II sec. d.C.) l'accoglie, la sviluppa e la radicalizza, fino ad arrivare ad una concezione molto pessimistica del destino umano: l'uomo è libero e quindi pienamente responsabile delle sue azioni, ma è anche sottoposto alla legge (3, 19-20; 9, 31-32), che finisce sempre col tradire; il suo destino non può essere che la dannazione eterna. Sarebbe stato meglio che la terra non avesse mai prodotto Adamo.
    Se l'esigenza di unificare la Legge o comunque di trovarne il denominatore comune è tipica del cristianesimo e si ritrova in qualche testo apocalittico, come già abbiamo visto, non fu estranea nemmeno al farisaismo, anche se questa esigenza ebbe nel farisaismo e nel cristianesimo due esiti completamente diversi. Nel cristianesimo prevalse la tendenza a unificare la Legge sotto l'indice del comandamento supremo ("Chi ama il prossimo, adempie alla Legge [Romani, 13, 8]); nel farisaismo posteriore al 70 d.C. (nel Formative Judaism e poi alle origini del rabbinismo vero e proprio) prevalse una tendenza speculativa. La Legge venne identificata con la Sapienza che era stata creata prima delle cose (cfr. Proverbi, 8, 22). La Legge, dunque, fu creata prima delle cose (cfr. Targum frammentario di Genesi, 1, 1; Bereshit Rabba 1, 4 e 24, 4). Essa rappresenta pertanto il piano di Dio creatore ed è di fatto la struttura portante dell'universo, che può sussistere solo in quanto è un ordine e, in definitiva, la proiezione fisica della Legge. Penetrare i significati della Legge significa penetrare i segreti del cosmo. Come il cosmo si presenta, pur nella sua unità, sotto numerosi aspetti, così la Legge ha una sua unità intrinseca che si rifrange nella molteplicità dei comandamenti.
    Dunque, il problema della libertà di scelta, che è legato alla concezione della natura umana, se integra o in qualche modo sciupata, divise il farisaismo e il sadduceismo dal cristianesimo e dall'essenismo. La libertà di scelta per il fariseo era assoluta e tale fu ribadita anche nel giudaismo della Mishnah. Al contrario essa era assente o molto ridotta nell'essenismo e in ogni caso sentita come condizionata dal cristianesimo. In questo campo il cristianesimo sembra soprattutto erede dell'apocalittica che affermava contemporaneamente la corruzione della natura umana e la libertà di scelta assoluta, stando almeno all'Epistola di Enoc (I sec. a.C.; cfr. Enoc Etiopico 98, 4) e al Quarto Libro di Ezra (inizi del II sec. d.C.). Non bisogna però dimenticare che è in un testo appartenente alla prima apocalittica che si trova la più esplicita e recisa negazione di questa libertà di scelta. Evidentemente anche all' interno delle singole sette potevano esistere differenze di pensiero anche robuste.
    Penso che Giuseppe Flavio, il quale ci ha lasciato un quadro delle principali sette religiose del suo tempo avesse sostanzialmente ragione ad assumere come criterio fondamentale di distinzione il modo con cui si ponevano davanti al problema della libertà di scelta. Certo, Giuseppe Flavio parla solo di farisei, sadducei ed esseni. Non parla né dell'apocalittica, né del cristianesimo, ma non è difficile inserire anche questi movimenti in questo schema. Si veda il riassunto che Giuseppe Flavio fa in Antiquitates Iudaicae, 13, 171-173 della più ampia esposizione già fatta nel Bellum Iudaicum, 2, 119-166.
    Questa carrellata finale ha voluto aggiungere qualche altro elemento al quadro del tempo delle origini cristiane allo scopo di rafforzare la mia tesi di fondo che il cristianesimo fu, alle sue origini, un movimento giudaico in mezzo agli altri numerosi.





    NOTE:
    [36] La formulazione del principio è chiara in R. Aqiba (inizi del II sec. d.C.), ma il principio preesisteva, altrimenti né la polemica di Paolo avrebbe avuto un senso, né Hillel e Shammai (o le loro scuole) avrebbero avuto di che discutere sul destino dell’ “uomo di mezzo”, cioè colui che ha compiuto durante la vita un egual numero di opere buone e cattive (cf. BACHER W., Die Agada der Tannaiten, I, Strasbourg 1903, pp. 15-16). Ecco il testo di R. Aqiba tratto da Pirqe Abot 3, 15: «Tutto è previsto. La libertà di scelta è concessa. Il mondo viene giudicato con bontà. Tutto avviene secondo la quantità dell'azione». Viene così ribadito che la preveggenza di Dio non va confusa col predeterminismo, che l'uomo è responsabile, perché è libero di scegliere, che il giudizio è comunque fatto con bontà, perché è per grazia che Dio ammette che le opere buone servano per cancellare quelle cattive. In altri termini, non è il giusto che si salva, ma l'uomo che ha compiuto più opere buone che cattive permette a Dio di giustificarlo.
    [37] Cf. SACCHI P., Appunti per una storia della crisi della Legge nel giudaismo del tempo di Gesù, in «Bibbia e Oriente» 12, 1970, 199-211, in fine.
    [38] Cf. per esempio, ROBERTSON A. e PLUMMER A., I Corinthians, in International Critical Commentary, Edinburgh 1914,2; SPICQ C., Première Epitre aux Corinthiens, in La Sainte Bible, Paris 1951; ROSSANO P., Lettere ai Corinzi, Roma 1973; ORR W.F. e WALTHER J.A., I Corinthians in Anchor Bible, Garden City - New York 1977 (evita sostanzialmente il problema).
    [39] Cf. Rm 1,18-23, ben sintetizzato nella frase di 2,12: «Tutti coloro che hanno peccato senza la Legge, senza la Legge periranno; tutti quelli che hanno peccato conoscendo la Legge, secondo la Legge saranno giudicati». Nel Documento di Damasco si legge a proposito di David, che non poteva conoscere la Legge, perché a quel tempo era nascosta, che Dio per questo non gli imputò molte colpe, ma "il sangue di Uria" sì. Quindi almeno la legge riguardante l'omicidio deve essere conosciuta dagli uomini indipendentemente dalla Legge scritta (5,1-6).
    [40] L'idea è chiaramente affermata, oltre che in Gesù (Marco 7), anche nella Regola della Comunità (col. 3): chi non entra nella comunità non viene giustificato e resta completamente impuro. La sostanziale coincidenza di peccato e di impurità è tipica dell'essenismo. Gesù ne accetta l'impostazione di fondo, ma limita fortemente i casi di impurità a ciò che noi oggi chiamiamo "trasgressione morale", ma questa categoria era ignota agli ebrei del tempo e la cosa rappresenta un grosso problema: in base a quali categorie o principi generali Gesù individuò quel tipo di norme che oggi chiamiamo morali?
    [41] Cf. Regola della Comunità 8,4 sgg. II testo è difficile e contiene varianti, ma il senso nell'insieme è chiaro. Ne do la traduzione secondo il Moraldi (I manoscritti di Qumran, Torino 1986,2): «Quando in Israele si realizzerà questo, alloga il consiglio della comunità sarà ben stabilito nella verità quale pianta eterna, casa santa per Israele e convegno del santo dei santi per Aronne: ... Questo è il muro provato, la pietra d'angolo inestimabile! Non vacilleranno le sue fondamenta, né saranno mosse dal loro posto. È un'abitazione del santo dei santi per Aronne... per offrire un profumo gradevole, e una casa di perfezione e di verità ... Saranno graditi per compiere l'espiazione della tura e per accelerare il giudizio sull'empietà, affinché non vi sia più alcuna ingiustizia». Cf. anche GERTNER B., The Temple and the Community in Qumran and the New Testament, Cambridge 1965.
    [42] Secondo NEWTON, op. cit. alla nota 35, Paolo fonda veramente la sua morale su quella del tempio e sulle norme di purità che ne regolavano la liturgia. Ho l'impressione che si sia trattato solo di un tentativo, come ho cercato di dimostrare in queste pagine, cf. anche la mia recensione in «Journal for the Study of Judaism» 18, 1987, 94-98.
    [43] Cf. MURPHY O'CONNOR J., La genèse littéraire de la Règle de la Communauté, in «Revue Biblique» 76, 1969, 528-549, POUILLY J., La Règle de la Communauté de Qumrân, in «Cahiers de la Revue Biblique» 17, Paris 1976; ARATA MANTOVANI P., La stratificazione letteraria della Regola della Comunità, in «Henoch» 5, 1983, 69-91.
    [44] Cf. Bellum Iudaicum, 2, 154 sgg.
    [45] Alcuni passi sono stati pubblicati in traduzione francese da GARCIA MARTINEZ F. in KAPPLER C., Apocalypses et voyages dans l'au-delà, Paris 1987, pp. 223 sgg. Cf. anche del medesimo Les limites de la communauté..., art. cit. in nota 34, pp. 119-120.
    [46] «lo sono una creatura d'argilla, un essere impastato con acqua, un insieme di vergogna, una fonte di sozzura, un crogiuolo di iniquità, una struttura di peccato, uno spirito di errore, e di perversione, incapace di conoscenza...» (Hodayot, 1, 22 sgg.).
    6. Conclusioni
    1) I segmenti del pensiero cristiano, se presi uno per uno, sono tutti rintracciabili più o meno simili, quando non addirittura uguali, nelle varie sette giudaiche del tempo. Uguaglianza di segmenti non significa però uguaglianza di strutture; il che è ovvio e non riguarda solo il cristianesimo.
    2) Se non può essere considerata una novità l'esistenza di figure superumane, è invece novità di vasta portata l'autoidentificazione di un uomo con una di queste: Gesù che si identifica col Figlio dell'Uomo.
    3) La frattura non sembra essere avvenuta solo fra il cristianesimo e il resto del giudaismo, ma anche tra il farisaismo e il resto delle sette giudaiche del tempo. La benedizione dei minim non riguarda solo i cristiani, che hanno solo il privilegio di essere nominati per primi. Se dopo il 70 il farisaismo pretese di essere il giudaismo, di fatto metteva fuori di questo tutte le altre correnti. Resta da spiegare perché i cristiani non abbiano replicato affermando di essere loro i veri cristiani (Vangelo di Giovanni), ma abbiano accettato la contrapposizione Gesù - Giudei, che apriva le porte all'interpretazione classica del cristianesimo come religione nuova e distaccata, fin dalla predicazione di Gesù, dal giudaismo.
    4) L'Epistola agli Ebrei e il libro di Enoc Slavo[48] (entrambi della fine del I secolo) mostrano la sopravvivenza di un movimento sacerdotale all'interno del giudaismo anche oltre il 70. La sua scomparsa successiva può essere spiegata in più modi, ma non abbiamo documenti su questo fatto. E' stata avanzata l'ipotesi che il movimento caraita dell'VIII secolo sia una derivazione dell'essenismo[49]. Potrebbe anche darsi che la maggior parte delle frange essenico-apocalittiche sia stato assorbito dal cristianesimo o sia finita nello gnosticismo. Inoltre le tre ipotesi non si escludono fra di loro.
    5) La causa della riduzione delle correnti giudaiche da numerose a sostanzialmente due può avere cause molteplici, che possono essere di ordine evenemenziale come di ordine teoretico. Più probabilmente i due ordini di fattori si sono sommati fra di loro. Certamente deve avere influito la distruzione del tempio e di Gerusalemme, che può essere stata valutata diversamente dai farisei e dagli altri. Il fatto che la distruzione del tempio contaminato fosse stata profetizzata già nel II sec. a.C. (Libro dei Sogni = Enoc Etiopico) significa che non tutti devono aver pianto allo stesso modo sulla tragedia del 70. Si aggiungano le divergenze teoretiche sul problema della natura umana e della libertà di scelta dell'uomo e sulla natura del messia, e l'accaduto può trovare una spiegazione soddisfacente. Mi auguro che presto siano fatti studi sul modo con cui fu recepita dagli ebrei la caduta di Gerusalemme.
    In ogni caso, il perdurare di correnti cosiddette giudeo-cristiane mostra un risvolto del problema di fondo che non può essere ignorato. Alcuni proseguivano a sentirsi e ad essere contemporaneamente ebrei e cristiani, cioè ebrei cristiani, secondo lo sfondo culturale che sembra emergere dal vangelo di Matteo. Questi finirono con l'essere considerati minim da una parte e ed eretici dall'altra.
    6) Resta aperto il problema della facilità con cui il cristianesimo si diffuse all'interno dell'impero romano. Anche questo fattore deve avere influito sulla diversificazione dei due destini, di coloro che ormai si possono dire cristiani e di coloro che si possono ormai dire ebrei.





    NOTE:
    [47] «L'uomo è nel peccato fin da quando è nell'utero e fino alla vecchiaia si trova in uno stato di ribellione colpevole...» (Hodayot, 4, 29-30).
    [48] Traduzione italiana in SACCHI P. (curatore), Apocrifi dell'AnticoTestamento, II, Torino 1989.
    [49] Sul caraismo medievale, cf. CHIESA B., Il giudaismo camita, in Atti del V Congresso Internazionale dell'AISG - S. Miniato, 12-15 novembre 1984, Roma 1987, 151-174; MILIT J.T., Abba Zosima et le thème des tribus perdues, in «Bulletin des Etudes Karaïtes» 1, 1983, 7-18. Una storiia generale del carsismo è stata scritta da SZYSZMAN S., Le karaisme, ses doctrines et son histoire (L'âge de l'homme), Lausanne 1980. Per il problema del rapporto con l'essenismo, cfr. WIEDER N., The Judean Scrolls and Karaism, London 1962. Circa alcune comunità caraite odierne di Israele e d'Egitto, cf. TREVISAN SEMI E., Gli ebrei caraiti tra etnia e religione, Roma 1984.









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    Ancora sul cosiddetto Testimonium Flavianum
    Data: Domenica, 11 febbraio 2007 @ 23:00:00 CET
    Argomento: Il Gesù della storia e i suoi seguaci

    di Lucio Troiani
    Una rilettura del famoso passo di Flavio Giuseppe, così come ci è pervenuto.



    Considerazioni sul Testimonium Flavianum
    [È consigliabile la previa lettura della pagina del sito dedicata al Testimonium Flavianum di cui questo articolo costituisce un approfondimento].
    La testimonianza relativa a Gesù, contenuta nel libro XVIII delle Antichità Giudaiche di Giuseppe, non è che una delle tante vexatae quaestiones che sono specifiche degli studi antichistici. Date la gran mole di indagini, la sterminata e millenaria bibliografia, la complessità interdisciplinare degli approcci, è necessario anzitutto delimitare il campo dell’indagine per evitare equivoci. L’analisi si concentrerà esclusivamente sul cosiddetto Testimonium Flavianum ed eviterà qualsivoglia genere di esame di edizioni e rifacimenti successivi, concernenti il brano tratto dall’opera di Giuseppe; si soffermerà sul testo così com’è costituito nell’edizione di B. Niese e prescinderà dal problema dell’interpolatore e eventuali inserzioni o censure dell’anonimo scriba (o scribi).
    È questa infatti questione che dovrebbe essere valutata in subordine all’analisi diretta del testo la quale è lo scopo fondamentale della mia nota. D’altra parte, il compito primario di chiunque analizzi un testo antico è quello di spiegarlo così com’è pervenuto dalla tradizione manoscritta e di compararlo con testi contigui nel tempo e nello spazio. Partire pregiudizialmente dall’interpolazione significa orientare l’indagine in termini, in definitiva, aprioristici e preconcetti. Non è questione di particolare credulità o ottimismo candido, perché isolare e identificare i passi genuini da quelli spuri, con una paziente opera di cesellatura, presuppone un approccio più ottimista di chi studia il testo così come si presenta, anche se un tale approccio è mascherato da spirito critico. Chiunque legga la bibliografia sul Testimonium Flavianum, contenuta ad esempio nel volume di H. Schreckenberg[1], è colpito dalla frequenza e continuità, nei secoli, di un esame del testo centrato quasi esclusivamente sulla sua autenticità o contaminazione e, nello stesso tempo, può misurare il livello della mia imprudenza per essere entrato in un sentiero tanto battuto, tanto ingarbugliato e spesso rinchiuso nelle gabbie delle teorie precostituite.
    È forse superfluo aggiungere che le mie osservazioni, dato il tormentato status quaestionis e l’imponente messe di studi, non vogliono avere nulla di univoco, tanto meno risolutivo e non pretendono neppure di trattare e discutere in modo esaustivo la bibliografia precedente (questo progetto, da solo, richiederebbe uno o più volumi di grande ampiezza). Vogliono più semplicemente introdurre alcuni spunti ed elementi di giudizio e stimolare (se possibile) ulteriori approfondimenti.


    [1] H. Schreckenberg, Bibliographie zu Flavius Josephus, Leiden 1968. Cfr. i recenti studi di P. A. Gramaglia, Il Testimonium Flavianum. - Analisi linguistica, «Henoch» 20 (1998), pp. 153-177. J. Carleton Paget, Some Observations on Josephus and Christianity, «Journal of Theological Studies» 52 (2001), pp. 539-624 e di S. Bardet, Le Testimonium Flavianum. Examen historique, considérations historiographiques, Paris 2002. Sull’uso di Giuseppe nella tradizione ecclesiastica e per una riaffermazione della tesi dell’interpolazione totale, F. Parente, Sulla doppia trasmissione, filologica ed ecclesiastica, del testo di Flavio Giuseppe: un contributo alla storia della ricezione della sua opera nel mondo cristiano, in «Rivista di Storia e Letteratura religiosa» 36 (2000), pp. 9-25. Discussione della sterminata bibliografia e osservazioni dotte e puntuali si trovano in G. Jossa, Jews, Romans and Christians: From the Bellum Judaicum to the Antiquities, in J. Sievers – G. Lembi (edd.), Josephus and Jewish History in Flavian Rome and Beyond, Leiden-Boston 2005, pp. 331-342. [Per ulteriore bibliografia, si veda la pagina del sito dedicata al Testimonium Flavianum ]
    Cornice storica e contesto del passo
    Per prima cosa, qualche cenno sulla cornice storica e sul contesto del passo.
    Il brano su Gesù, pur nella sua concisione, sembra avere un ruolo definito nell’economia degli avvenimenti narrati nella prima parte del XVIII libro e si lega esplicitamente a quello successivo. Giuseppe sta elencando e selezionando una serie di fatti che, sviluppatisi a partire dalla riduzione della Giudea a provincia equestre nel 6 d.C., avrebbe contribuito ad avviare quel deterioramento dei rapporti fra governatore di Cesare e ethnos, che avrebbe portato, nella sua rappresentazione storica, alla guerra del 66 d.C. Questa guerra è (secondo il modello della storiografia determinista di Polibio) intesa dallo storico come esito ineluttabile di una lunga e perniciosa catena di conflitti e di incomprensioni fra nazione giudaica e autorità romana. In particolare, dai giorni di Giuda il Galileo, fondatore della «quarta filosofia», la Giudea sarebbe caduta in balia di convulsioni estremistiche e di un radicalismo fanatico e intollerante.
    La mancanza di un sovrano nazionale, che facesse da intermediario tra la nazione e le necessità della nuova amministrazione provinciale, avrebbe segnato l’inizio della rovina[2]. Da un lato, il governo diretto dei procuratori, tendenzialmente insensibile alle peculiarità religiose e culturali della nazione; dall’altro, malcontento e malessere diffusi che serpeggiano e coinvolgono settori della pubblica opinione. Giuseppe nota in particolare un peggioramento dei rapporti con Roma durante il principato di Caligola (37-41 d.C.): addirittura, sotto il suo impero, la nazione intera avrebbe corso il rischio di scomparire del tutto[3]. Collocata nell’immediata vigilia dell’infausto principato, l’amministrazione di Ponzio Pilato è inserita dal nostro storico come un tassello del mosaico che delinea irreversibilmente la catastrofe. La sua valutazione dell’operato di Pilato come pernicioso per la nazione è d’altra parte congruente con il quadro offerto da un intellettuale ebreo, a differenza del nostro Giuseppe, contemporaneo degli avvenimenti e integrato nella realtà politica e istituzionale dell’impero, Filone alessandrino[4]. La presunta politica provocatoria del prefetto di Giudea è esposta e motivata da Giuseppe con due episodi: il tentativo (giudicato illegittimo) di requisire parte del tesoro del tempio per finanziare la costruzione di un acquedotto a Gerusalemme e l’immissione clandestina, nottetempo, nella città santa delle insegne imperiali; veri e propri oggetti di culto, che nessun prefetto aveva mai introdotto in ossequio alle tradizioni religiose locali.
    Nell’economia del racconto delle Antichità Giudaiche, la storia di Gesù sembra dunque collocarsi come nuovo apporto al deteriorarsi della situazione; tale storia è situata, infatti, a mezzo fra le provocazioni di Pilato e l’episodio di Paolina che concorre, accanto a quello di un avventuriero ebreo riportato immediatamente dopo, ad accrescere le incomprensioni e il disagio dell’autorità romana nei confronti delle culture orientali e quella ebraica, in particolare. È un fatto che l’episodio di Paolina e Decio Mundo, riferito subito dopo la storia di Gesù, è introdotto nel tessuto narrativo e definito preliminarmente come eteron ti deinon «che provocava tumulto tra i Giudei». Il lettore è autorizzato dall’espressione a supporre che il nostro autore abbia ritenuto un deinon, da affiancare all’episodio di Paolina, la storia di Gesù oltre naturalmente all’amministrazione di Pilato, descritta e caratterizzata, però, in precedenza. Inoltre tutta questa parte del libro enfatizza i tumulti in Giudea o in Samaria: «Neppure la nazione samaritana era esente dal tumulto» (XVIII,85). Ci si può dunque legittimamente domandare: Giuseppe ha annoverato l’attività del Nazareno tra quei fattori che portarono a un progressivo e permanente stato di tumultus in Giudea (e non solo in Giudea)? Questa ipotesi trova una conferma significativa nelle parole di Tertullo, incaricato dal sommo sacerdote Anania e dagli anziani, secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, di formulare davanti al tribunale del procuratore Felice a Cesarea l’atto di accusa contro Paolo: «quest’uomo suscita disordini (staseis) tra tutti i Giudei dell’ecumene» (At. 24,5).


    [2] Antichità Giudaiche XVII,277. E. Schürer, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, vol. I, edizione diretta e riveduta da G. Vermes, F. Millar, M. Black, Edizione italiana a cura di O. Soffritti, Brescia 1985, p. 418 e ss. Sul Testimonium, pp. 524-540. G. Jossa, I gruppi giudaici ai tempi di Gesù, Brescia 2001. L. Troiani, Osservazioni sopra il quadro storico-politico del Giudaismo del I secolo d.C. in Il Giudaismo palestinese dal 1 secolo a.C. al 1 secolo d.C. (Atti dell’VIII congresso internazionale dell’AISG, San Miniato 5-6-7 novembre 1990), a cura di P. Sacchi, Bologna 1993, pp. 231-244.
    [3] Antichità Giudaiche XIX,15. Cfr. Filone Alessandrino, Ambasceria a Gaio § 194 specialmente (edizione e commento di E.M. Smallwood, Philonis Alexandrini Legatio ad Gaium, Leiden 1970). P.A. Brunt, Charges of Provincial Maladministration under the Early Principate, «Historia» 10 (1961), pp. 189-227. E.M. Smallwood, The Jews under Roman Rule, Leiden 1976, pp. 256-257.
    [4] Ambasceria a Gaio §§ 299-305.
    Il testo
    Ecco il testo del Testimonium Flavianum nella traduzione da me proposta:
    Vive in questo periodo Gesù, uomo preparato, sempre che si debba definirlo uomo adulto. Fu infatti autore di azioni contrarie all’opinione comune, maestro di quegli uomini che accolgono le cose vere con piacere; e attirò molti Giudei, molti anche della grecità. Questi era Cristo. Avendogli Pilato inflitto, come pena, la croce mediante azione legale avviata dai primi tra di noi, quelli che sulle prime lo amarono non cessarono. Apparve loro infatti il terzo giorno di nuovo in vita, i profeti divini avendo detto questi e infiniti altri prodigi su di lui. Fino ad ora e attualmente il gruppo dei cristiani, che da lui ha preso il nome, non è scomparso.
    La prima caratteristica, notata dal lettore, è che il movimento cristiano non è inteso come gruppo ideologico alla stregua delle tre «scuole filosofiche» con la cui descrizione Giuseppe esordisce nel libro XVIII: si tratta di un’associazione che non si è ancora fatta un nome per le sue teorie sull’anima, sulla provvidenza, sul caso e sulle grandi questioni esistenziali in generale come, ad esempio, la scuola dei farisei, dei sadducei e degli esseni. Non possiede apparentemente una propria tradizione dottrinale ed è fondato sull’agapē che i seguaci, in un primo tempo, avrebbero nutrito nei confronti della persona di Gesù. Nessun cenno al genere di vita da essi introdotto; nessuna parola sulla loro posizione nei confronti dell’autorità straniera. Gesù è definito sophos, che è termine ambiguo e denota, fra l’altro, la persona preparata, padrona di un’arte, ma anche nascosta, sofisticata, contorta, dai modi e dal contegno complicati e reconditi. Com’è stato notato recentemente, Giuseppe usa qualche volta il termine in senso ironico[5].
    Gesù non è rappresentato come teorico di una dottrina; per Giuseppe, il suo lascito sta negli atti. Il fatto, inoltre, che Giuseppe aggiunga «sempre che si debba definirlo un uomo adulto» non è obbligatoriamente un cenno alla sua natura divina. Lo storico gerosolimitano non usa anthrōpos che di norma caratterizza status e specificità della natura umana nei confronti di quella divina (anēr indica una qualità più che la condizione dell’uomo). Nel greco dell’anonimo autore di I Maccabei, anēr è l’uomo cresciuto, maturo, che corrisponde alle aspettative e incombenze affidategli (13,53; 16,6). Perché, per il nostro storico, sono i comportamenti, le azioni a rendere Gesù personaggio stravagante ed eccentrico. Non è definito un teorico né un predicatore; è piuttosto «autore di atti contrari all’opinione comune». Alla lettera, «paradossali». Questa espressione non può essere collegata unicamente ai miracoli di Gesù. Qualche volta, il nostro autore, per indicare atteggiamenti o procedimenti fuori dell’uso e del buon senso in generale, se non assurdi, impiega il termine. «Paradossali», ad esempio, sono definite le accuse rivolte alla sua persona e alla sua opera da parte di avversari che usano i suoi scritti come esercitazione scolastica di denigrazione. «Certi uomini dappoco hanno intrapreso a screditare la mia storia, pensando di proporla, alla maniera di quanto si fa nella scuola dei ragazzi, come esercizio di accusa assurda e di calunnia» (Contro Apione I,54). Un autore orientale, che vive sotto Adriano Cesare, scrive tre libri di Storia Paradossale, nella quale si oppone, con risolutezza e spirito polemico, ai luoghi comuni e pregiudizi imperanti nel mondo della cultura ellenica contemporanea. Egli intende specialmente restituire alla verità i fatti più antichi, a suo giudizio, oscurati e standardizzati ad opera di certa cultura conformista. La Storia Paradossale aveva il compito di dire verità scomode rispetto ad un sapere tanto diffuso quanto accolto acriticamente da tutti e orientava l’indagine sull’antichità più remota in un senso contrario a quello comune, vale a dire, scartava a priori tutto il sapere greco.
    Opporsi all’ellenocentrismo della preistoria significava sfidare il senso comune[6]. Lo storico gerosolimitano potrebbe avere di mira taluni atti di Gesù che hanno suscitato sconcerto e sbigottimento tra i contemporanei, così come sono sintetizzati nell’interrogazione che i ‘giudei’ del Vangelo di Giovanni gli rivolgono: «Per quanto tempo ancora tieni in pugno la nostra anima?» (10,24). L’ipotesi, secondo la quale Giuseppe avrebbe in sostanza accomunato Gesù a taumaturghi come Teuda o il cosiddetto «Egiziano» di cui si parla nel libro XX delle Antichità Giudaiche, non trova appoggi lessicali[7]. Egli non sostiene che Gesù ha compiuto terata kai sēmeia. Il Nazzareno farebbe proprie azioni paradossali in quanto contrarie alla mentalità e agli usi correnti. In questa prospettiva ripensiamo alcuni brani dei Vangeli, che suggeriscono modelli di comportamento che dovremmo sforzarci di leggere e comprendere non dall’alto di duemila anni di storia: «Io vi dico di non opporvi al malvagio; ma a chi ti colpisce alla guancia destra, offrigli anche l’altra; e a chi vuole venire a giudizio con te e prendere la tua tunica, lasciagli anche il mantello; e chiunque ti obblighi a percorrere un miglio, vai con lui per due»; «Io vi dico, amate i vostri nemici; pregate per chi vi perseguita»[8].
    L’accento sull’incomprensione dei discepoli (ad esempio Mc. 4,41; 6,52; 8,17) potrebbe allora rappresentare un’eco dello stupore che certi suoi comportamenti suscitano. La censura dell’esibizionismo dei più mentre pregano in piedi nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, la polemica contro quanti, seguendo un sentire diffuso, si affannano a custodire e a incrementare il patrimonio per il futuro presuppongono verosimilmente atti e comportamenti visti come bizzarri, se non astrusi, dalla mentalità comune (Mt. 6,5; 19-21). «Ora, abbiamo capito che tu hai il demonio» (Gv. 8,52). «Forse tu sei più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi ti fai?» (8,53). Stupore e meraviglia sono sottintesi nell’espressione giovannea: «Gesù rispose e disse loro: ho fatto una sola azione e tutti vi stupite» (Gv. 7,21). Forse nulla meglio di questo versetto illumina la paradossalità dei comportamenti di Gesù accennati nel Testimonium. Reminiscenza di comportamenti giudicati strambi potrebbe essere il dettaglio di Gesù, chino per terra a tracciare disegni, nell’episodio dell’adultera (Gv. 8,6). Pensiamo ancora all’episodio, narrato in Mc. 3,31-35, in cui Gesù, all’indicazione che la madre e i fratelli lo stanno cercando, «guardando intorno gli astanti seduti intorno a sé replica: Ecco mia madre e i miei fratelli». La guarigione del paralitico, cui «sono rimessi i peccati», è seguita dalla protesta di «certuni degli scribi» che trovano scandaloso tale comportamento (Mt. 9,3).
    Altro comportamento ‘irregolare’ è notato dai farisei che si stupiscono e si scandalizzano che Gesù mangi «con pubblicani e peccatori» (Mc. 2,15-16). Egli si pone in collisione con i discepoli di Giovanni, i quali, come i farisei, praticano il digiuno (Mt. 9,14). I suoi discepoli, invece, strappano e mangiano le spighe, attirandosi la deplorazione dei farisei. Notiamo la replica del sophos, che si richiama al precedente di David (1 Sam. 21,1-6) e alla prescrizione di Nm. 28,9-10, indirizzata ai sacerdoti, di ‘violare’ di fatto il sabato nel tempio (Mt. 12,1-5). Frequenti sono le sue guarigioni, il giorno di sabato. I «farisei e gli scribi di Gerusalemme» lamentano che i suoi seguaci trasgrediscano «la tradizione degli anziani» (Mt. 15,1-2). A Cafarnao, gli incaricati di riscuotere il didramma obiettano ai discepoli che il maestro non paga il tributo. Gesù non vuole scandalizzare e dà ordine a Pietro di gettare l’amo sul lago, di aprire la bocca del primo pesce che morde l'esca e di estrarre di lì uno statere. Questo episodio, riportato da Matteo, è un’eco eloquente delle ripercussioni che i suoi atti paradossali suscitano presso la pubblica opinione (Mt. 17,24-27). In sostanza, l’espressione di Giuseppe, «atti paradossali», può essere una delle numerose ricadute che episodi di questo genere hanno avuto presso la collettività. In generale, è noto il ripetuto invito di Gesù a opporsi ai comportamenti e agli atti delle élites. Nel mirino è investita la classe dirigente nella sua totalità. Questo è un ulteriore aspetto caratteristico della sua condotta contro corrente, anche se le sue potenzialità sovversive non saranno state ancora pienamente realizzate. In ogni caso, questa peculiarità incontra disapprovazione presso l’establishment contemporaneo, com’è testimoniato dai racconti evangelici.
    Giuseppe, che vi appartiene, avrà potuto registrare questo umore che ancora si sarà trasmesso nelle generazioni successive, in particolare la sua. D’altra parte, la sua sinteticità sarà da addebitare più alla sua personale, scarsa rilevanza data al fenomeno cristiano (verosimile in un sacerdote gerosolimitano attivo negli anni 70-90 d.C.) che all’inserzione o censura di un copista. La sua generazione ha sentito dire dalla precedente della stranezza di comportamenti e della bizzarria delle sentenze di Gesù, ma forse il corso degli eventi, fino a quel momento, e la fisionomia esterna del movimento non avranno indotto eccessive preoccupazioni.
    Come vedremo, il Testimonium Flavianum si chiude con la constatazione che il movimento di Gesù ancora non è scomparso. Solo nell’età di Celso un giudeo anonimo riporta diffusamente e sistematicamente argomenti in favore della teoria secondo la quale il movimento cristiano sarebbe un gruppo sovversivo, diretto contro l’autorità costituita di Gerusalemme[9]. Forse, l’opinione pubblica contemporanea alla generazione di Giuseppe non ha avuto il tempo di maturare una connotazione così perentoria e univoca del cristianesimo. Nella predicazione di Gesù non si salvano gli Erodiani, i Sadducei, i Farisei, gli Scribi. Il capitolo 23 del Vangelo di Matteo contiene una requisitoria inflessibile contro tutta la classe dirigente a causa dei suoi comportamenti che Gesù giudica ipocriti e falsi (comportamenti suggeriti dalla prassi consueta: esibizione formale dei propri titoli a guidare la nazione, primi posti nei banchetti e nelle sinagoghe, piacere di essere salutati con rispetto). È difficile trovare nella tradizione antica un atto di accusa così sistematico e senza riserva contro l’autorità costituita quale è quello contenuto nel capitolo di Matteo.
    In Giuseppe, però, la paradossalità delle azioni di Gesù non è legata ai possibili risvolti rivoluzionari, ma ad atteggiamenti e mentalità fuori dell’opinione e sentire più diffusi. Siamo forse nella linea di pensiero che sarà poi ripresa da rabbi Trifone, che definirà «paradossale» il perdono cristiano. Il termine sta qui a designare non un miracolo, ma una mentalità anomala, utopica, che non appartiene al mondo reale[10]. Aggiungiamo alla lista un’altra azione di Gesù, tramandata dal Nuovo Testamento, che poteva essere giudicata «paradossale» da uomini dell’establishment: il Nazzareno entra nel tempio, caccia tutti i venditori e i compratori; rovescia i banchi dei cambiavalute e le tavole di coloro che vendevano le colombe[11]. Ancora contro una mentalità e un uso diffusi, che gli stessi discepoli sembrano condividere, Gesù accoglie con piacere fanciulli che gli sono fatti avvicinare e rimprovera i discepoli che si oppongono all’iniziativa (Mt. 19,13; Mc. 10,13; Lc. 18,15). Un altro esempio potrebbe essere costituito da Zaccheo, capo dei pubblicani e personaggio di fama sinistra: la visita di Gesù nella sua casa suscita sconcerto e irritazione[12]. Altro atto che può essere giudicato paradossale dall’ottica di un gerosolimitano: l’ingresso in Gerusalemme, accompagnato dalle lodi entusiastiche dei discepoli, che suscita l’irritazione di certi farisei: «maestro, rimprovera i tuoi discepoli!» (Lc. 19,39).
    Come concordano il Testimonium e il Vangelo di Luca (19,47-48), i primi della nazione bollano e stigmatizzano le azioni di Gesù. «I primi del popolo» cercano il modo di farlo morire. Ora è un fatto che è il suo operato ad essere censurato dai sommi sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani: «Dicci: con quale autorità fai queste cose o chi è che ti dà questa autorità?» (Mt. 21,23; Mc. 11,28; Lc. 20,2; cfr. Gv. 2,18). I suoi comportamenti sono giudicati sconcertanti se non addirittura potenzialmente sovversivi: egli scuote e getta lo scompiglio in mezzo al popolo (Lc. 23,5). Nel Vangelo di Giovanni, i notabili esprimono la preoccupazione che il crescente favore popolare riscosso da Gesù, che comincia ora a coinvolgere i “giudei”, spinga i Romani ad intervenire e ad annientare la nazione e il «luogo»[13]. Come abbiamo notato sopra, nessuna meraviglia dunque che Giuseppe abbia definito la storia di Gesù l’ennesimo deinon sopravvenuto alla nazione in quegli anni sfortunati e drammatici. Il sinedrio giovanneo, convocato dai sommi sacerdoti e dai Farisei, esprime il medesimo timore del Testimonium, timore che può giustificare l’inserzione, nel libro XVIII delle Antichità Giudaiche, della storia del Nazzareno fra gli episodi che accrebbero il disordine.


    [5] P. A. Gramaglia, art. cit., pp. 154-155. Cfr. A Greek-English Lexicon by Liddell-Scott, s.v. (I.3).
    [6] FGrHist 790. F 12=Eusebio, Praeparatio Evangelica I,9,28. E.J. Bickerman, Origines Gentium, in Religions and Politics in the Hellenistic and Roman Periods, Edited by E. Gabba and M. Smith, Como 1985, pp. 399-417.
    [7] Antichità Giudaiche XX,97-98; 167-171
    [8] Mt. 5,38-44 e Lc. 6,27-29 ad esempio. Sulla tematica, Le parole dimenticate di Gesù, a cura di M. Pesce, Milano 2004.
    [9] L. Troiani, Il giudeo di Celso, «Atti del Convegno del Gruppo Italiano di Ricerca su “Origene e la tradizione alessandrina”», Roma 1998, pp. 115-131.
    [10] L. Troiani, Spunti per un’origine del perdono cristiano, in Studi sul Vicino Oriente Antico dedicati alla memoria di Luigi Cagni (a cura di S. Graziani), Napoli 2000, pp. 2219-2236.
    [11] Mt. 21,12-17; Mc. 11,15-19; Lc. 19,45-46; Gv. 2,13-17. M. Hengel, Gli Zeloti. Ricerche sul movimento di liberazione giudaico dai tempi di Erode I al 70 d.C., Edizione italiana a cura di G. Firpo, Brescia 1996, pp. 253-254.
    [12] Lc. 19,1-7. M.R. Cimma, Ricerche sulle società di pubblicani, Milano 1981.
    [13] Gv. 11,47-48. M. Hengel, op. cit., p. 231-2 e nota 5.
    L’indicazione successiva («maestro di uomini che accolgono le cose vere con piacere»), abbinando due concetti di norma inconciliabili nella terminologia impiegata dal nostro storico (per lui, in sostanza, il piacere, inteso come diletto fisico, è in opposizione metodica alla verità; ad esempio, lo storico serio dice cose vere e dunque non procura piacere), può sottolineare ulteriormente l’anticonformismo e la stranezza dei seguaci di Gesù[14]. Pensiamo al celeberrimo discorso sulla montagna e al modo con cui un notabile gerosolimitano, alieno da suggestioni apocalittiche, abbia potuto interpretarlo. La punizione delle «azioni paradossali» di Gesù con il supplizio della croce è presentata come reazione naturale; il sacerdote gerosolimitano non ha parole di biasimo per la condanna inflitta[15].
    Giuseppe, però, evita di calcare la mano. Com’è noto, il nostro storico non nutre simpatia per una classe dirigente che a suo avviso (a partire dalla generazione precedente a quella di Gesù) avrebbe fatto sprofondare la nazione nel caos, con la complicità del malgoverno di molti governatori romani. D’altra parte, gli accenni biblici di Gesù a Giona, ai Niniviti, alla vedova di Sarepta e a Naiman il siro, contengono parziale assonanza di spirito col discorso del nostro storico tenuto davanti agli assediati di Gerusalemme e, in generale, con tutta la filosofia della storia proposta nella Guerra Giudaica e nelle Antichità Giudaiche a partire dagli anni dell’occupazione romana: «Io penso che il Divino sia fuggito dai luoghi santi e stia dalla parte di coloro che ora combattete»[16].
    Rilevante, sotto il nostro punto di vista, sembra anche l’informazione del Testimonium su Gesù che attirò a sé molti Giudei e molti anche della grecità. Come testimoniano gli evangelisti (Mt. 7,29; Mc. 1,22) e un anonimo giudeo, la gente pendeva dalle sue labbra. “Che cosa mai di terribile avere patito, connazionali, così da abbandonare la legge dei vostri padri, ed allettati da quell’uomo, cui or ora abbiamo rivolto il discorso, vi lasciaste ingannare in modo veramente ridicolo, ed avete disertato da noi per un altro nome ed un’altra vita?” (Origene, Contro Celso II,1). È inoltre naturale che Giuseppe, il quale conosce il mondo frastagliato e variegato della diaspora, che si estende dall’Elam alla Spagna, segnali come il suo fascino sia penetrato fuori della Giudea. Giuseppe pensa al mondo greco e quindi, anche, alle comunità trapiantate da generazioni in terra greca. Il lettore delle Lettere di Paolo trova singolare riscontro e conferma a questa affermazione del Testimonium Flavianum e può toccare con mano quanto il processo di diffusione sia stato rapido e acquisito nell’epoca della stesura delle Antichità Giudaiche. A Roma, Corinto, a Efeso, a Filippi, a Colosse, ad esempio, Paolo dispone di una rete di amicizie già stabile. Al nostro storico può non essere passato inosservato che la fede in Gesù si sia affermata anche presso persone provenienti «dalla casa di Cesare»[17]. Forse, dalla sua prospettiva, il coinvolgimento della nazione ellenica ha accresciuto il pericolo di contrasti e lacerazioni (tumultus). Da At. 28,21, per esempio, apprendiamo come le autorità delle singole comunità comunicassero, per lettera o inviati, con la Giudea. Come poteva l’insegnamento di Gesù non avere ripercussioni sulla diaspora? Cleofa, sulla via per Emmaus, così risponde a Gesù (che egli non riconosce), il quale gli chiede il motivo di tanta parlare concitato con il compagno di viaggio: «Tu sei l’unico a soggiornare a Gerusalemme e non hai saputo quello che è avvenuto in questi giorni?» (Lc. 24,18). Osserviamo ancora come tutte le Lettere di Paolo presentino una caratteristica comune: danno per universalmente nota la sua storia. Quando l’apostolo scrive, non è necessario inserire il minimo dettaglio (questo a prescindere dal fatto che la persona di Gesù, nella sua teologia, è l’ultimo anello del piano divino e la sua storia personale perde ogni consistenza). La diffusione del cristianesimo in seno alla comunità ebraica di Roma, come pure in altre città greche, suscita disordini e appelli all’autorità. Pensiamo ai notabili di tutte le comunità della provincia di Acaia, che a Corinto deferiscono Paolo al tribunale del proconsole Gallione; anche se giudicata questione dottrinale e di interpretazione di termini, il coinvolgimento del governatore implica che l’affare stava toccando l’ordine pubblico. Pensiamo al presunto ordine di espulsione dei Giudei da Roma, Giudei «che continuamente tumultuavano impulsore Chresto». Pensiamo ai disordini di Efeso e al consiglio, dato a Paolo da alcuni amici asiarchi, di non intervenire di persona nel teatro per partecipare all’assemblea straordinaria, convocata dallo stratega[18].


    [14] Cfr. A Complete Concordance to Flavius Josephus (K.H. Rengstorf Editor) per i termini ta alēthē e ēdonē. La traduzione «cose fuori del comune» nasce da una congettura, avanzata nel 1749 e successivamente ripresa, che ipotizza TAALHQHcome errore di lettura al posto di TAAHQH.Lo scriba avrebbe inserito per errore un lamda. Anche se lasciamo la lezione tràdita, il testo potrebbe suonare ugualmente come riprova della stravaganza del gruppo, dato che in Giuseppe il piacere fisico è di norma antitetico alle «cose vere», cfr. E. Schürer, Storia del popolo giudaico, cit., vol. I, pp. 534-535 e nota 20. La correzione è ritenuta arbitraria da P.A. Gramaglia, art. cit., p. 158.
    [15] M. Hengel, Mors turpissima crucis. Die Kreuzigung in der antiken Welt und die „Torheit“ des „Wortes vom Kreuz“, in: J. FRIEDRICH et al. (Hrsg.), FS E. KÄSEMANN, Tübingen, Göttingen 1976, pp. 125-184.
    [16] Mt. 12,39-41; Lc. 4,24-30; Guerra Giudaica V,412. W.C. van Unnik, Der Jüdischer Historiker Flavius Josephus, Heidelberg 1978.
    [17] Rom. 16,1-15. Non può essere escluso aprioristicamente che nelle Lettere paoline sia presupposto un uditorio di origine ebraica. Nella Lettera ai Romani, Paolo si rivolge, tra gli altri, «a chi conosce la legge» (7,1). 1 Cor. 16,10-20. Nella Lettera, la casistica flessibile circa l’assunzione di cibo indica un uditorio di origine e sensibilità ebraica (10,23-29). 1 Eph. 6,20-24. Qui i destinatari sono definiti «persone che sono divenute estranee alla cittadinanza d’Israele» (2,12). Ph. 4,18-22. Col. 4,7-17. W.A. Meeks, The First Urban Christians. The Social World of the Apostle Paul, New Haven and London 1983. Ma specialmente M. Del Verme, Didache and Judaism. Jewish Roots of an ancient Christian-Jewish Work, New York 2004.
    [18] L. Troiani, Lucio Giunio Gallione e le comunità ebraiche, «Materia Giudaica» 7 (2002), pp. 47-54.Id., Gli Atti degli Apostoli e il mondo ebraico ellenistico, «Ricerche Storico Bibliche» 2001, pp. 15-24. Atti 19,31.
    Il fatto che Giuseppe aggiunga che Gesù «era» (non «è») Cristo non obbliga il lettore a postulare la sua appartenenza alla nuova fede né la presenza di un interpolatore cristiano. Il nostro storico può ritenere che il nome di Gesù non sia familiare a lettori di lingua greca; mentre potrebbe esserlo quello di Cristo. Una costruzione parzialmente affine si trova in un altro testo greco di origine e impronta ebraica. “E Simone era a ispezionare le città nel paese e a pensare alla loro amministrazione e scesero a Gerico lui, Mattatia e Giuda, i suoi figli, l’anno 177 nel mese undecimo; questo è il mese di Sabat” (outos o mēn Sabat).[19] In ogni caso, l’identificazione di Gesù con Cristo non significa adesione alla fede cristiana. Altrimenti dovremmo concludere che, poiché Tacito o Plinio il Giovane lo chiamano Cristo, essi siano passati alla fede cristiana[20]. I più antichi autori pagani usano Cristo esclusivamente come nome proprio. Nomi non greci trovano scarsa ricezione. Giuseppe stesso preciserà più oltre che Cristo doveva essere l’appellativo più comune: Ananos trascina in giudizio Giacomo, fratello di Gesù, quello detto Cristo[21]. Altro argomento da non sottovalutare: specificare che Gesù era Cristo è un modo per distinguerlo e identificarlo fra i tanti Gesù della storia narrata nelle Antichità Giudaiche (Giuseppe, nell’opera, menziona 19 personaggi con questo nome).
    Degno di nota il dettaglio che i primi della nazione avrebbero esercitato contro Gesù un’azione legale (endeixis), nota dal diritto attico, che consiste nella richiesta all’autorità competente di procedere all’arresto e all’eventuale condanna di chi, interdetto da certe attività o luoghi, avesse violato la disposizione. L’ œndeixizpoteva colpire quanti, banditi dalle autorità dal territorio, vi fossero rientrato illegalmente. Questa è la definizione del termine contenuta nel lessico del grammatico e retore alessandrino Arpocrazione (II secolo d.C. probabilmente): edoj d…khj dhmos…aj, Øf' ¿n toÝj ™k tîn nÒmwn e„rgomšnouj tinîn À tÒpwn À pr£xewn, e„ m¾ ¢pšcointo aÙtîn, ØpÁgon.A questo riguardo, risulta interessante un’annotazione al lessico, riportata nell’edizione Dindorf: «scholium ad illa Iosephi de Christo: kaˆ aÙtÕn ™nde…xei tîn prætwn, sic habet: Ôti œndeiz…j ™sti kathgor…aj Ônoma kat¦ pleiÒnwn men lambanomšnhj m£lista kat¦ tîn ÑfeilÒntwn tî dhmos…w kaˆ politeÚesqai mellÒntwn». L’anonimo scoliasta ha collegato il termine del Testimonium Flavianum con la procedura indicata. Nel Vangelo di Giovanni è fatta allusione alla clandestinità di Gesù, come è stato messo in rilievo da un articolo di Elias Bickerman[22]. Si pensi soprattutto a Gv. 7,10: «Quando i suoi fratelli salirono per la festa, allora salì anche lui di persona; non pubblicamente, però, ma come di nascosto». Quando Gesù si ritira nel deserto prima dell’ultima Pasqua, egli cerca di eludere l’arresto (Gv. 11,54). Per questo, nel suo Vangelo, Gesù, in quanto considerato ricercato, una volta catturato, è direttamente arrestato e di conseguenza «legato». Nessuna ricerca di eventuali capi di imputazione, come avviene invece nel Vangelo di Marco. Alla dichiarazione di status di ricercato poteva seguire la richiesta all’autorità competente di procedere all’arresto e alla condanna. Le autorità della nazione hanno avviato un’azione legale contro Gesù, collegata al suo status di proscritto. «I sommi sacerdoti e i farisei avevano dato disposizioni affinché, se qualcuno avesse saputo dove fosse, lo denunciasse per catturarlo» (Gv. 11,57).
    Giuseppe aggiunge che Gesù apparve ai discepoli «di nuovo in vita» il terzo giorno. L’espressione non significa che egli creda a questo evento; semmai, il nostro storico suggerisce che l’apparizione sarebbe stata sollecitata dall’amore dei discepoli. L’accenno generico alle infinite cose mirabili contenute nei divini profeti è congruente con l’atteggiamento disincantato del nostro storico sulle profezie in generale. Le infinite cose mirabili, contenute nelle Scritture cui qui si accenna, avranno riscosso il suo personale assenso ed adesione tanto quanto quella antica profezia, presente nelle Scritture, che sarebbe stata all’origine della guerra del 66 d.C. Questa genericità è in sintonia con il razionalismo, se non agnosticismo, in materia del nostro autore. Sono rilevanti i suoi ripetuti interventi, in materia di fatti miracolosi che non si limitano alla Scrittura, sulla libertà e legittimità dell’opinione personale. Come sottolineato esplicitamente nella parafrasi del libro di Daniele, il sacerdote gerosolimitano esclude la profezia dall’ambito della sua opera e dei suoi interessi[23].


    [19] I Maccabei 16,14 con il commento di P.-M. Abel, Les Livres des Maccabées, Paris 1949, p. 281.
    [20] Tacito, Annales XV,44,3; Plinio il Giovane, Epistulae X,96,5-7.
    [21] Contro l’interpretazione proposta, cfr. P.A. Gramaglia, art. cit., pp. 158-159: «Dal punto di vista grammaticale tale frase non si può intendere nel senso di: “costui si chiamava Cristo”. Infatti «Cristo» con l’articolo non è in questo caso un nome proprio come Pietro o Giacomo; indica con evidenza il Messia, in quanto specifico titolo religioso. Nella frase in questione il soggetto può essere solo il pronome «questi» e Cristo svolge la chiara funzione di un predicato nominale anaforico, evidenziato sia dalla sua posizione davanti alla copula verbale sia dall’articolo individuante. Infatti per esprimere un nome proprio Giuseppe Flavio usa sempre ben altri sintagmi; se tale fosse stata la sua intenzione, egli avrebbe certamente scritto Christos to omoma oppure Christos omoma oppure onomati Christos comunque sempre con Christos senza articolo». Cfr. Antichità Giudaiche XX,200. Tacito, Annali XV,44,3; Svetonio, Claudio 25,4; Plinio, Epistole X,96,7.
    [22] J.J. Keaney, Harpocrationis Lexeis of the Ten Orators, Amsterdam 1991, p. 93; Harpocrationis Lexicon in decem oratores atticos (ed. Dindorf), Oxford 1953, vol. II, p. 221. E. J. Bickerman, Utilitas crucis. Observations sur les récits du procès de Jésus dans les Evangiles canoniques, in Studies in Jewish and Christian History, vol. III, Leiden 1986, pp. 113-138. Thalheim in RE V (1903), s.v. endeixis.
    [23] Guerra Giudaica VI,312; VII,432. Svetonio, Vespasiano 4,5 con il commento di M. Stern, Greek and Latin Authors on Jews and Judaism, vol. II, Jerusalem 1980, No. 312 (pp. 120-121) e No. 281 (pp. 60-62). Antichità Giudaiche X,210 e 281; XVII,354.
    Conclusioni
    La prospettiva da cui leggiamo queste righe è profondamente diversa da quella del suo autore. Grandi sono le aspettative e i conseguenti sospetti sul Testimonium Flavianum, perché finiamo sempre per ragionare su questo testo dall’alto di duemila anni di storia. Ma è solo con Costantino che tale testimonianza avrà imposto la sua rilevanza. Giuseppe, però, non poteva sapere che quanto sulle prime quelli del seguito nutrirono per lui, sarebbe durato per millenni: egli termina l’excursus su Gesù con l’osservazione che il gruppo dei cristiani «fino ad ora e attualmente non è venuto meno».
    Il Gesù di Giuseppe, che egli sa avere il nome più comune di Cristo, è un eccentrico e un anticonformista. Il quale, con comportamenti fuori delle norme - se non assurdi - si è attirato l’ostilità dell’establishment. Establishment, d’altra parte, che egli rappresenta sempre più sospinto in un radicalismo diffuso e tentato da un bellicismo militante. Che non guarda ai suoi errori. Per Giuseppe, la storia di Gesù finisce per essere uno dei tanti tasselli, per di più neppure di rilievo, che andarono a formare il sentiero di spine della guerra del 66 d.C. I suoi atti, fuori degli schemi precostituiti e della mentalità corrente, e l’amore che lo ha circondato sono stati un ulteriore contributo al deteriorarsi della situazione. «L’autore di opere paradossali» avrebbe contribuito a consolidare quella atmosfera di scompiglio e tumulto interno all’ebraismo che Giuseppe vede come causa scatenante del conflitto e che rappresenta il leit-motiv di questa parte del libro XVIII.









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    Le origini della festa di Natale
    Data: Mercoledì, 01 gennaio 2003 @ 12:00:00 CET
    Argomento: Il Gesù della storia e i suoi seguaci

    di Andrea Nicolotti
    È possibile sapere in che giorno dell'anno nacque Gesù di Nazaret? Perché il Natale è festeggiato il 25 Dicembre? Si tratta di una data storicamente attendibile, o di una convenzione?



    Testimonianze e documenti
    Prima parte tratta da Mario Righetti1, Storia liturgica, vol. II, Milano, Ancora, 19693, pp. 65-70. Revisione e postilla di Andrea Nicolotti. Sottotitoli aggiunti.
    Una questione preliminare trattando delle origini della festa di Natale, riguarda la data della nascita del Salvatore. In quale giorno nacque Gesù? I Vangeli ne tacciono completamente, e gli scrittori più antichi non ci hanno lasciato nulla di certo in proposito. Secondo Clemente Alessandrino (+ c. 215), in Oriente alcuni fissavano la nascita il 20 di Maggio2, altri il 20 di Aprile, altri ancora il 18 di Novembre; ed egli, non senza ironia, appunta coloro "che non si contentano di sapere in che anno è nato il Signore, ma con curiosità troppo spinta vanno a cercarne anche il giorno"3. In Occidente S. Ippolito (+ 235), nel Commentario su Daniele, ha per il primo un accenno alla data del 25 Dicembre4. Nel 243, l'anonimo autore del De Pascha computus fa nascere Gesù, Sol iustitiae, il 28 di Marzo, per il semplice motivo che in quel giorno, quarto della creazione, Dio creò il sole5. Nell’opuscolo De solstitiis et aequinoctiis (fine del III sec. o metà del IV), si dice: “Nostro Signore fu concepito il 28 Marzo, che è giorno della Pasqua, della Passione del Signore e del suo concepimento”, e “Il Signore nacque nel mese di Dicembre, di inverno, il 25”6. Similmente si legge in Tertulliano Adversus Judaeos7 e in S. Agostino, De Trinitate8. Questa strana varietà di opinioni, dimostra che in quei primi secoli, non solo non esisteva una tradizione intorno alla data del Natale, ma che la Chiesa non ne celebrava punto la festa, altrimenti, fra tanta diversità di pareri, se ne sarebbe fatto questione viva, come avvenne per determinare la solennità della Pasqua. Del resto, non era tanto la data della nascita di Gesù che interessava la Chiesa, quanto il fatto che si realizzava con la venuta di lui sulla terra, l'inizio del mistero della redenzione9.
    Sennonché, nella prima metà del IV sec., noi incontriamo un documento autentico romano che attesta indiscutibilmente l'esistenza della festa di Natale a Roma il 25 Dicembre10. È la Depositio Martyrum filocaliana, un abbozzo di calendario liturgico che rimonta all'anno 354, e nel quale si legge in primo luogo11:
    VIII Kal. Ianuarii natus Christus in Betleem Iudeae
    seguita da un breve elenco di martiri venerati a Roma.
    Quale fosse il carattere di questa prima commemorazione natalizia, non sappiamo; probabilmente doveva essere una Memoria, privilegiata senza dubbio, ma non dissimile dalle consuete Memoriae martyrum celebrate nei loro anniversari; la festa infatti restò sempre ancorata fra quelle del Santorale12. Possiamo invece chiederci se la Chiesa romana, introducendola nel suo calendario, conoscesse quella analoga dell'Epifania, che si celebrava in Oriente il 6 gennaio. La risposta negativa, a nostro avviso, sembra la più sicura, almeno fino a qualche decennio dalla sua istituzione.
    Un altro documento che, secondo taluni, conferma i dati del Filocaliano, è il discorso tenuto da Papa Liberio in S. Pietro nel 353, in occasione della velatio di S. Marcellina, sorella di S. Ambrogio. Il tenore del discorso, più di Ambrogio che di Liberio, ci è conosciuto nella rievocazione fattane dal santo vescovo nel suo De Virginibus, scritto 23 anni dopo. In esso si parla della festa che si celebrava a Roma in quel giorno, il Natale del Salvatore; ma poiché nello stesso giorno si ricordava dalla liturgia il miracolo di Cana, e la moltiplicazione dei pani, ed era pure consuetudine compiere la consacrazione delle vergini13, tale celebrazione natalizia non può che riferirsi a quella dell'Epifania14. Questa infatti a Roma, nel 376 doveva già coesistere con la festa del 25 dicembre15.
    1 Il Prof. Mario Righetti (docente di Liturgia a Genova, Accademico pontificio, consultore della Congregazione dei Riti e perito conciliare al Vaticano II) fu l’autore della più voluminosa storia della liturgia latina del XX secolo; presentazione in B. BAROFFIO, Mons. Mario Righetti (1882-1975). Un'esimia figura del clero e della cultura italiana, in "Rivista Liturgica" LXII (1975), pp. 597-606.
    2 Clemente però, che riporta una notizia probabilmente derivata dai seguaci dello gnostico Basilide, parla di genesis, intendendo probabilmente la concezione di Gesù, e non la nascita. Infati i basilidiani celebravano il battesimo di Gesù a Gennaio, e non a Maggio.
    3 Stromata, I,21,146.
    4 IV,23,3: "La prima venuta di nostro Signore, quella nella carne, nella quale egli nacque a Betlemme, ebbe luogo otto giorni prima delle calende di Gennaio, di mercoledì, nel quarantaduesimo anno del regno di Augusto". Questo passo è stato considerato da alcuni interpolato (Cfr. B. ALTANER, Patrologia, Casale, 1977, p. 169, che segue il parere di O. Bardenhewer e F. X. Funk). Altri lo vedono come autentico (W. Bauer, A. Harnack), come anche l'editore del testo critico M. Lefèvre (Paris, 1947). Si tratta di un’opera composta probabilmente intorno al 203-204.
    5 De pascha computus 19: “O quam praeclara et divina Domini providentia, ut in illo die quo factus est sol in ipso die nasceretur Christus V kl. Apr. feria IIII. et ideo de ipso merito ad plebem, dicebat Malachias propheta: orietur vobis sol iustitiae, et curatio est in pennis”; Ed. Hartel, CSEL 3.3, 266. L’opera era attribuita a Cipriano.
    6 “Conceptus est ergo Dominus noster octavo calendas aprilis mense Martio, qui est dies Paschae, passionis Domini et conceptionis eius”; “Sed et Dominus nascitur mense Decembri hiemis tempore octavo kalendas ianuarias”. L'opuscolo fu composto in oriente, secondo la sentenza di B. BOTTE che ha dato un'edizione critica nell'opera Noel, Epiphanie: retour du Christ, Paris, 1966, p. 99. Esso è pervenuto tra le opere falsamente attribuite a San Giovanni Crisostomo.
    7 8,18: “La passione di Cristo fu compiuta nel tempo delle settanta settimane sotto Tiberio Cesare e i consoli Rubellio Gemino e Rufio Gemino, nel mese di marzo, nel periodo della Pasqua, l’ottavo giorno prima delle calende di Aprile, nel primo giorno degli azzimi”.
    8 4,5: “Secondo la tradizione nacque il 25 dicembre”.
    9 O. CULLMANN, Weihnachten in der alten Kirche, Basel, 1947, p. 9.
    10 Lasciamo naturalmente da parte la testimonianza del Liber Pontificalis che attribuisce a Papa Telesforo (125-136?) l'istituzione della messa natalizia di mezzanotte: “Hic instituit ut... et Natalem Domini noctu missas celebrantur”; ed. DUCHESNE, t. I, p. 129. Ormai nessuno ammette l'autenticità di questa attribuzione arbitraria fatta nel VI secolo.
    11 La Depositio Martyrum fa parte del Calendario filocaliano, ma è preceduta dalla Depositio episcoporum di Roma, l'ultimo dei quali è Papa Silvestro (+ 335). È certo perciò che il Calendario rimonti almeno al 336. Il testo è in Monumenta Germaniae Historica. Auctores Antiquissimi, IX (parte I; 1892) pp. 13-196. Riprodotto in C. KIRCH, Enchiridion fontium historiae ecclesiasticae antiquae, Friburgi, 1965, *544.
    12 Il Santorale è quella parte del Messale o del Breviario, chiamata anche Proprio dei Santi, che contiene i formulari liturgici propri di alcune feste disseminate lungo l’anno e non presenti nel Temporale.
    13 De virginitate, III,1. La velatio virginum al IV sec. sia a Milano che a Roma si faceva di regola nel giorno dell'Epifania, o nella seconda festa di Pasqua, o nelle feste degli Apostoli.
    14 H. FRANK, Zur Geschichte von Weihnachten und Epiphania, in Jahrbuch für Liturgiewissenschaft (1933), p. 10 opina invece per il Natale. Comunque si interpreti il testo ambrosiano, è un fatto che il s. Vescovo compose per il Natale l'inno Intende qui regis Israël. BORELLA. Il rito ambrosiano, Brescia, 1964, p. 56.
    15 Il COEBERGH, basandosi sopra un rescritto dell'imperatore Onorio indirizzato a Simmaco di Roma nel 419, ritiene che a quell'epoca l'Epifania vi era già celebrata come dies solemnis. Cfr. Revue Bénédectine (1965), p. 304.
    Le ipotesi
    Come si è giunti a fissare una tale data? I liturgisti hanno proposto due ipotesi.
    Sostituzione di una festa pagana
    La prima ipotesi, enunciata già da un antico scrittore siriaco sconosciuto1, ripresa da H. Usener2 e da B. Botte3, suppone che la Chiesa di Roma, dopo la pace, allo scopo di avviare più facilmente alla fede la massa dei pagani, trovò opportuno istituire al 25 dicembre la festa della nascita temporale di Cristo per distoglierli dalla festa pagana, celebrata in quello stesso giorno in onore del "Sole invitto", Mitra, il vincitore delle tenebre. Il culto del sole a quest'epoca era in auge presso i Romani, e non poteva non richiamare all'autorità ecclesiastica la nota immagine profetica del Sol justitiae di Malachia, che la tradizione cristiana applicava a Cristo4. Una decorazione musiva della prima metà del III sec. lo rappresenta appunto, frammisto a simboli cristiani, nella figura di Helios, trionfante sopra un carro trascinato da cavalli bianchi5. Nel 274, Aureliano aveva innalzato a Mitra un sontuoso tempio, la cui inaugurazione era avvenuta il 25 Dicembre: N(atalis) Invicti CM. XXX, annota pure il calendario civile Filocaliano con l'indicazìone dei ludi circensi da effettuarsi in suo onore6. L'ipotesi pertanto prospettata dai critici circa l'origine della festa natalizia si presenta senza dubbio seducente; ma, dobbiamo riconoscere che, a parte l'analogia delle due date e delle due feste, mancano prove positive di una reale sostituzione dell'una all'altra.
    Intanto è assai strano che una novità di questo genere, introdotta a principio del IV sec., sia taciuta completamente dai Padri e dagli scrittori ecclesiastici dell'epoca. Si citano bensì alcuni testi di S. Ambrogio7, S. Massimo di Torino, S. Zenone di Verona, S. Agostino, S. Gerolamo, i quali si dilettano a mettere in relazione Cristo con il sole e il natale di quello col natale di questo; ma essi ne parlavano sviluppando semplicemente l'immagine di Malachia: Orietur vobis sol justitiae (14,2) e ricordando, non già il natale del sole pagano, Mitra, ma il natale del sole visibile, il Sol novus, che nasce con il solstizio d'inverno (25 Dicembre), quando jam incipiunt dies crescere, come nota S. Agostino8. Un passo di S. Leone, che sembra in apparenza dire qualche cosa di più, ha in realtà tutt'altro significato9. Con tutto ciò, non siamo alieni dall'ammettere come la prima ipotesi sia consona allo stile della Chiesa romana; la quale talvolta si compiacque di introdurre le sue feste, non tanto per commemorare un mistero, o per mettere in rilievo una ragione simbolica, quanto piuttosto per tramandare un fatto avvenuto nell'Urbe, quale la depositio di un martire, la traslazione delle sue reliquie, la dedicazione di una basilica od anche, come forse in questo caso, per combattere una festa pagana dandole un contenuto e un significato cristiano. Più tardi, era l'idea proposta da S. Gregorio Magno ad Agostino per agevolare la conversione degli inglesi.
    Data calcolata su basi cristiane
    La seconda ipotesi, suggerita da L. Duchesne10, fa derivare la data della nascita di Cristo da quella presunta della sua morte. Infatti, come abbiamo già accennato, era opinione molto diffusa a principio del III sec. che il Redentore fosse morto il 25 di Marzo. S. Ippolito (+ 235), nella sua Tavola pasquale, lo afferma decisamente11; e il suo computo è importante, perché sta alla base di una tradizione cronologico-liturgica, che possiamo ritenere romana od occidentale12. La data, storicamente insostenibile13, era dovuta a semplici considerazioni astronomico-allegoriche, cioè, che in quel giorno, cadendo l'equinozio di primavera, fosse stato creato il mondo. Ciò posto, era facile il passaggio ad un'altra coincidenza. Cristo non poteva aver trascorso su questa terra che un numero intiero di anni; le frazioni sono imperfezioni che non si confanno con il simbolismo dei numeri e si è quindi portati ad eliminarle il più che si può. L'Incarnazione perciò dovette avvenire, come la Passione, il 25 Marzo; e coincidendo questa con il primo istante della gravidanza di Maria, la nascita di Cristo s'aveva da computare necessariamente al 25 Dicembre. Tale infatti è la conclusione di Ippolito14. Questa ipotesi trova conferma in un uso attestatoci dallo storico Sozomeno, e che spiega analogamente perché gli orientali festeggiassero il Natale il 6 Gennaio. “Sozomeno - osserva Duchesne - parla di una setta di Montanisti, che celebravano la Pasqua il 6 Aprile al posto del 25 Marzo in virtù del fatto che il mondo sarebbe stato creato all’equinozio, cioè, secondo essi, il 24 Marzo, la prima luna piena del primo mese doveva essere caduta quattordici giorni più tardi, vale a dire il 6 Aprile. Ora, tra il 6 Aprile e il 6 Gennaio, v'è giusto nove mesi, come tra il 25 Marzo e il 25 Dicembre. La data greca della natività, il 6 Gennaio, si collega così con un computo pasquale basato su considerazioni simboliche e astronomiche del tutto analoghe a quelle che avrebbero dato origine alla festa del 25 Dicembre”15. L'ipotesi del Duchesne non manca di qualche probabilità, come ne possiede anche, e forse maggiori, l'altra sopra riferita, la quale infatti sembra riscuotere le preferenze dei liturgisti moderni.
    Le due ipotesi possono coesistere
    A ben riflettere però, le due teorie potrebbero completarsi a vicenda. Le autorità ecclesiastiche, desiderose di sostituire una festa cristiana alla festa solare del 25 Dicembre, trovarono nel sincronismo delle due date (25 Marzo - 25 Dicembre) un motivo di più per mettervi la commemorazione del Natale di Cristo. S. Agostino lo mette più volte in rilievo16.
    1 In una nota di commento alla Expositio in Evangelia di BAR SALIBI (+ 1171); ASSEMANI, Bibliotheca Orientalis, tomo II, p. 162.
    2 Das Weihnachtsfest, Bonn, 19693.
    3 Les origines de la Noël et de l'Epiphanie, Louvain, 1963.
    4 Tertulliano difende i cristiani dall'accusa dei pagani di essere "adoratori del sole": “Se il giorno del sole concediamo alla gioia, lo facciamo per un ben altro motivo che per il culto del sole”. Apologeticum, 16,10. Sullo stesso argomento ritorna anche in Ad Nationes, I, 13.
    5 P. TESTINI, Archeologia cristiana, Roma, 1958, p. 167. L'affresco fu scoperto negli scavi intorno al sepolcro di S. Pietro.
    6 Le sigle CM XXX significano Circenses Missus triginta. L'espressione missus nei ludi circensi designava il lancio di un gruppo di bighe o quadriglie nel circo, le quali dovevano compiere cinque o sette giri secondo gli accordi. Dopo di esse seguiva un altro gruppo (missus II) e così via. Il numero variava secondo la solennità del giorno; per lo più era di XXIV. M. R., Il Natale di Mitra e il Natale di Gesù, Torino, 1908, emise l'opinione che la nota Natalis Invicti si debba riferire a Costanzo, vincitore di Massenzio nella battaglia di Mursa (Dicembre 351), ma non fu accettata da alcuno.
    7 Il FRANK (in Archiv für Liturgiewissenschaft (1952), p. 24) ne vede un riflesso nell'inno Intende qui regis Israël, dove dice: Praesepe iam fulget duum, lumenque nox spirat novum, quod nulla non interpolet fideque iugi luceat. Per gli altri Padri, vedi G. BONACCORSI, Il Natale. Appunti d'esegesi e di storia, Roma, 1903, p. 51, ove son riportati i passi relativi.
    8 Il quale in questo passo mostra di credere che proprio N. Signore fosse nato il 25 Dicembre: “Anche infatti Giovanni, a quanto ha tramandato la Chiesa, è nato il 24 giugno, quando ormai i giorni cominciano ad accorciarsi; quindi il Signore è nato il 25 dicembre, quando i giorni cominciano già ad allungarsi”. Ennarationes in Psalmos, 132,15. Cfr. De Trinitate, IV,5. Anche S. Gerolamo ripete questi concetti. Dal solstizio d'inverno "cresce la luce e decrescono le tenebre, cresce il giorno e decresce l'errore, la verità si avvicina. Oggi nasce per noi il sole della giustizia" (Homilia de nativitate Domini, 155-156). Il calendario dell'astrologo Antiochus segna al 25 Dicembre: “Nascita del sole: cresce il giorno”; citato dal CUMONT, Textes et Monuments relatifs aux mystères de Mithra, I, 342, nota. È interessante pure rilevare da S. Agostino come Fausto manicheo obiettasse ai cristiani: “Celebrate i giorni solenni dei pagani assieme a loro, come le calende ed i solstizi”; Contra Faustum, 20,4.
    9 Egli vuol premunire i fedeli Egli vuol premunire i fedeli dal non festeggiare quel giorno come se fosse una festa della nuova nascita del sole (de novi, ut dicunt, solis ortu). Tractatus septem et nonaginta, 22. Ai tempi di S. Leone (440-461) gli adoratori di Mitra erano forse del tutto scomparsi. Egli in questo passo allude ai Manichei, i quali veneravano il sole tutti i giorni, ma particolarmente nel dì natalizio di Gesù, essendo solis dies natalis. M. R., op. cit., n. 54.
    10 L. DUCHESNE, Origines du culte chrétien. Étude sur la liturgie latine avant Charlemagne, Paris, 1925, pp. 271-281. Cfr. H. ENGBERDING, Der 25 Dezember als Tag der Feier der Geburt des Herrn, in Archiv für Liturgiewissenschaft (1952), p. 25 sg. che ne riprende la tesi.
    11 Cfr. V. GRUMEL, Traité d'études byzantines; I La Chronologie, Paris, 1958, cap. II. Della Tavola o Canone pasquale il residuo più importante sarebbe il computo inciso sulla cosiddetta statua di Ippolito a Roma; cfr. EUSEBIUS, Historia Ecclesiastica, VI,22.
    12 Cfr. TERTULLIANUS, Adversus Judaeos, 8,18, già citato. Lo stesso affermano il Catalogo Filocaliano dei papi e gli Atti di Pilato, scrittura apocrifa assai diffusa in Oriente a principio del sec. IV e forse prima.
    13 Perché nessun venerdì, 25 marzo, cade, tra gli anni che possono essere presi in discussione, nel plenilunio o nel giorno susseguente alla Pasqua giudaica.
    14 Commentario su Daniele, IV,23. Cfr. M. HANSSENS, La liturgie d'Hippolyte, Rome, 1960, p. 273. Un'altra conferma la troviamo nel già citato passo (IV,5) del De Trinitate di S. Agostino, composto intorno al 400, dove si dice che Cristo “secondo la tradizione nacque il 25 dicembre”.
    15 Origines du culte chrétien, pp. 278-279.
    16 De diversis quaestionibus octoginta tribus liber unus, 56: “Moltiplicati per sei, che è il numero iniziale di questa serie, si ottiene duecentosettantasei, cioè nove mesi e sei giorni, che vengono computati dall’ottavo giorno prima delle calende di aprile [25 marzo], giorno in cui si crede che il Signore sia stato concepito ed è lo stesso giorno della sua passione, sino all’ottavo giorno prima delle calende di gennaio [25 dicembre], in cui è nato”.
    Postilla: studi e novità recenti
    [L’articolo originale di Mario Righetti precedentemente riportato risale al 1969. Viene qui corredato di una postilla di aggiornamento, a cura di Andrea Nicolotti, che rende ragione di alcuni progressi recenti.]
    Gli studi di Thomas Talley sul Natale e sulla diffusione del culto del Dies natalis solis invicti, hanno ridimensionato la predominanza della teoria legata alla sostituzione della festa pagana. Talley sulla base di alcune indicazioni di Agostino e del citato De solstitiis et aequinoctiis, opera anonima di origine africana, ha suggerito la possibilità che il Natale abbia fatto la sua prima apparizione nell’Africa donatista piuttosto che a Roma, forse tra il 243 e il 3111.
    Nuove ed interessanti prospettive sono state aperte dagli studi calendariali. Occorre notare che la liturgia pone al 25 marzo la festività dell'annunciazione dell'angelo a Maria, nove mesi prima della nascita di Gesù festeggiata il 25 dicembre; infatti l’angelo, secondo il Vangelo di Luca, apparve a Maria quando Elisabetta, futura madre di Giovanni Battista, era al sesto mese di gravidanza2; di conseguenza la festa della nascita di Giovanni Battista è collocata al 24 giugno, tre mesi dopo l’annunciazione e sei prima del Natale di Gesù. L’Oriente bizantino celebra il 23 settembre l’annuncio a Zaccaria, nove mesi prima della nascita del Battista in giugno.
    Un tentativo di giustificazione storica di queste date la si ritrova nel famoso sermone In diem Natalem di Giovanni Crisostomo: egli riteneva - scorrettamente - che Zaccaria, il padre di Giovanni Battista, fosse sommo sacerdote, sulla scia di una tradizione già attestata nel protoevangelo di Giacomo. Egli riteneva altresì che l'offerta dell'incenso di cui parla l'evangelista Luca fosse l'offerta del sommo sacerdote nel giorno dell'espiazione. Poiché il giorno dell'espiazione cadeva il 10 di Tishri (il mese che corrisponde al nostro settembre-ottobre), ecco che la natività di Giovanni veniva a cadere a giugno. Si tratta di una spiegazione che il Crisostomo elabora per giustificare la data del 25 dicembre, o si trattava di un'interpretazione altrimenti diffusa?
    Questi rapporti di date convergenti solitamente vengono spiegati come frutto di un calcolo basato sulla data - ritenuta già stabilita - del 25 dicembre; manca d’altra parte un chiaro riscontro nel testo evangelico che possa confermare anche solo una di queste date. Esiste però l’indicazione di Luca 1,5-8, il quale parlando di Zaccaria padre di Giovanni ci informa che egli apparteneva alla classe sacerdotale di Abia (ex efêmerias Abia), e che quando gli apparve Gabriele per annunciare lo stato di gravidanza della moglie egli “esercitava sacerdotalmente nel turno del suo ordine” (en tôi hierateuein auton en têi taxei tês efêmerias autou). A. Ammassari ritiene che l’indicazione del turno di Abia risalga ad una antica tradizione giudaico-cristiana registrata da Luca3; così il rito bizantino, che il 23 settembre fa memoria dell’annuncio a Zaccaria, avrebbe conservato una data storica abbastanza precisa.
    È noto che nel santuario di Gerusalemme Davide stesso aveva disposto che i sacerdoti ebrei fossero distinti in 24 tàxeis, ebraico sebaot (1 Cr 24, 1-19); queste classi, avvicendandosi l’una all’altra, dovevano prestare servizio liturgico per una settimana ciascuna, “da sabato a sabato”, per due volte l’anno4. Purtroppo l'evangelista ci informa riguardo al turno al quale apparteneva Zaccaria, ma non ci dice in che periodo dell’anno questo turno prestava servizio al Tempio.
    Il progresso nello studio dei calendari in uso presso gli Ebrei5 ha portato ad alcuni tentativi di ricostruire l'ordine di successione di queste classi sacerdotali. La difficoltà più grande, è capire in che modo avvenissero gli avvicendamenti delle classi. Esse, infatti, prestavano servizio per sette giorni ciascuna, e conseguentemente un ciclo completo delle 24 classi ricopriva 168 giorni. Ci si domanda quindi se la successione delle classi fosse ininterrotta, indipendentemente dal sopraggiungere dell’anno nuovo, provocando un continuo sfasamento rispetto all’anno precedente, o se ogni anno, ad un determinato punto, l’ordine delle classi sacerdotali ripartisse dal principio, con la prima classe (Jehoiarib); le testimonianze talmudiche in proposito non sono univoche.
    Già nel XIX secolo Henry Browne e Thomas Lewin, assumendo come valida l’ipotesi della successione ininterrotta, avevano tentato di stabilire la data della nascita di Gesù sulla base dei turni sacerdotali. Il punto di partenza dei loro calcoli fu il dato accertato che il secondo Tempio di Gerusalemme fu distrutto tra il 5 e il 6 agosto del 70, e che il 4 agosto era iniziato il corso sacerdotale di Jehoiarib6. Andando a ritroso con la successione delle classi che precedevano, se Gesù fosse nato il 7 a.C. (come essi ritenevano), il turno di Zaccaria in quell’anno sarebbe caduto il 16 maggio, e la nascita di Gesù sarebbe conseguentemente da collocare in agosto7. È ovvio che, a seconda dell’anno prescelto per la nascita di Gesù, il turno di Abia viene a cadere in un momento diverso, il che rende questo sistema poco affidabile. Recentemente, Roger T. Beckwith8 si è decisamente orientato per la soluzione dei cicli sacerdotali annualmente interrotti; egli ritiene che l’arrivo del mese di Tishri fosse il momento in cui si dava inizio ogni anno al ciclo, come era già avvenuto dopo la ricostruzione dell’altare del Tempio dopo l’esilio9. Ciò sembra essere confermato anche dai calendari rinvenuti a Qumran10, dove si seguiva un calendario solare (ideale?) di 364 giorni con un giorno intercalare ogni terzo mese. Qui era previsto un ciclo di avvicendamenti dei turni sacerdotali che durava sei anni, in modo che, allo scadere di ogni ciclo, nella prima settimana del primo anno fosse di servizio il medesimo sacerdote11. Ha destato interesse il fatto che secondo questo calendario il turno di Abia, prescritto per due volte l’anno, nel primo dei sei anni ricorre la prima volta dall’8 al 14 del terzo mese del calendario, e la seconda volta dal 24 al 30 dell’ottavo mese del calendario. Ora, questa seconda volta corrisponde all’incirca all’ultima decade di Settembre; ciò permetterebbe di pensare che Zaccaria una volta ogni sei anni avesse il suo turno di servizio in questo periodo di tempo, che è del tutto compatibile con la tradizionale data delle natività di Giovanni Battista e di Gesù. Certo è che non è così facile pensare che nel Tempio di Gerusalemme fosse applicato un calendario solare, a meno che non si pensi che Zaccaria non seguisse il calendario ufficiale.
    Ritornando invece al calendario lunare farisaico, sulla base della notizia che il Tempio fu distrutto il 5-6 agosto (9-10 di Ab) durante il turno di Jehoiarib, possiamo vedere quale sarebbe stata la successione nelle settimane successive, se il servizio avesse potuto continuare normalmente. Jehoiarib sarebbe stato seguito da Jedaiah, Harim, Seorim, Malchijah e Mijamin, ed Hakkoz avrebbe iniziato il proprio turno il 21 Elul (15 settembre). Se arrivati a questo punto, in vista dell’inizio di Tishri, la successione sacerdotale fosse ricominciata da principio, ecco che Jehoiarib avrebbe ricominciato il ciclo dal 28 di Elul (22 settembre), e l’ottavo turno di Abijah (quello di Zaccaria) sarebbe cominciato il 17 Heshvan (10 novembre). Se invece si fosse proseguito senza curarsi dell’inizio dell’anno, dopo Hakkoz sarebbe toccato subito ad Abijah, dal 28 di Elul (22 settembre) al 4 di Tishri (29 settembre).
    Si assuma che il sistema dei turni sacerdotali del 70 d.C. fosse il medesimo utilizzato al tempo di Gesù: nel caso di turni in continua successione, sarebbe assai difficile risalire al periodo ricoperto da Abijah in quell’epoca, non conoscendo né l’anno preciso della nascita di Gesù, né quando vennero fatti cadere gli anni embolismali, ossia gli anni in cui veniva aggiunto un mese in più (un secondo mese di Adar) per riallineare il calendario. Invece, ammesso che il servizio ricominciasse ogni anno, risulterebbe che Zaccaria ha sempre esercitato il suo turno intorno alla seconda decade di novembre. Collocando la nascita di Gesù dopo 15 mesi, si ricavano queste possibilità: in caso di anno ordinario, Gesù sarebbe nato a gennaio-febbraio; in caso di anno con mese embolismale (con il II di Adar), la Natività andrebbe spostata a dicembre-gennaio12. Naturalmente occorre tener conto del fatto che le indicazioni evangeliche non sono matematiche: una indicazione come “al sesto mese di gravidanza” si riferisce ad un tempo generico, con un margine di una trentina di giorni. Allo stesso modo, i calcoli si basano sul presupposto - inverificato - che Gesù e Giovanni siano nati dopo nove mesi precisi di gravidanza. Qualora si volesse considerare seriamente la possibilità di un tal genere di difficile ricostruzione cronologica, occorrerebbe pertanto considerare i dati con una certa elasticità, senza pretendere di ricavarne delle date assolutamente precise. Jack Finegan, ad esempio, ritiene che Gesù sia nato in inverno, ma rinuncia ad ogni collocazione eccessivamente puntuale13.
    Riassumendo, la nascita di Gesù alla fine di dicembre (o all’inizio di gennaio, come è festeggiata in Oriente), potrebbe essere una data ricavata sulla base di una serie di calcoli congiunti, quindici mesi dopo l’annuncio a Zaccaria, nove mesi dopo l’annunciazione a Maria, sei mesi dopo la nascita di Giovanni il Battista. Un calcolo basato sui turni sacerdotali al Tempio, pur con tutti i suoi limiti, pare non opporsi alla cronologia tradizionale. Il fatto che vi fossero dei pastori con le loro greggi all'aperto nella notte in cui nacque Gesù14 non è un motivo per escludere che fosse inverno; ancor oggi a Betlemme è possibile vedere ovini al pascolo nei freddi giorni natalizi15. Certamente queste argomentazioni, in mancanza di documenti più precisi, non hanno un valore assoluto.
    In conclusione, manca ancora una soluzione definitiva per il problema della data del Natale, ma gli studi degli ultimi decenni hanno aperto nuove prospettive finora trascurate. Certamente la volontà di cristianizzare una festa pagana ha rivestito una certa importanza; ma non è escluso che la collocazione di questa festività al 25 dicembre abbia seguito un proprio percorso, indipendente dalla festa del sole, facendo invece riferimento alla data dell’annunciazione. Non è nemmeno da escludersi che la nascita di Gesù in dicembre sia frutto di una tradizione che si propose di richiamare da vicino i racconti evangelici.
    1Le origini dell'anno liturgico, Brescia, 1991, pp. 93-101.
    2 Luca 1,26-27: “Nel sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria”.
    3 Alle origini del calendario natalizio, in «Euntes Docete» XLV (1992), pp. 11-16.
    4 Cfr. Giuseppe Flavio, Antiquitates, VII,365.
    5 Per una presentazione generale della questione calendariale con bibliografia si rimanda a: "Il calendario giudaico: la misura del tempo nell'ebraismo" in www.christianismus.it.
    6 Ad esempio, Flavio Giuseppe, Bellum iudaicum, VI,220-270.
    7 H. BROWNE, Ordo saeclorum, London, 1844; T. LEWIN, Fasti sacri, London, 1865.
    8 The Date of Christmas and the Courses of the Priests, in Id., Calendar & Chronology, Jewish and Christian, Leiden, 1996, pp. 79-92.
    9 Esdra 3,2-6: “Giosuè figlio di Iozadàk con i fratelli, i sacerdoti, e Zorobabele figlio di Sealtiel con i suoi fratelli, si misero al lavoro per ricostruire l'altare del Dio d'Israele, per offrirvi olocausti, come è scritto nella legge di Mosè uomo di Dio [...] Cominciarono a offrire olocausti al Signore dal primo giorno del mese settimo, benché del suo tempio non fossero ancora poste le fondamenta”
    10 I testi calendariali sono editi e raccolti in TALMON DJD XXI
    11 Per un commento di questi testi (principalmente 4Q320-321), cfr. S. TALMON, The Calendar Reckoning of the Sect from the Judæan Desert, in «Scripta Hierosolyminitana» IV (1958), pp. 162-199; C. MARTONE, Un calendario proveniente da Qumran recentemente pubblicato, in «Henoch» XVI (1994), pp. 49-76; Id., Calendari e turni sacerdotali a Qumràn, in F. ISRAEL - A. M. RABELLO - A. M. SOMEKH (a cura di), Hebraica. Miscellanea di studi in onore di Sergio J. Sierra per il suo 75° compleanno, Torino, 1998, pp. 325-356; J. FINEGAN, Handbook of Biblical Chronology, Peabody, 19982, pp. 275-278. Sui difficili problemi di intercalazione del calendario qumranico, che comunque risultava imperfetto, R. T. BECKWITH, The Perpetual Calendar of the Dead Sea Scrolls, in Id., Calendar & Chronology, Jewish and Christian, Leiden, 1996, pp. 120-140; U. GLESSMER, Calendars in the Qumran Scrolls, in P. W. FLINT - J. C. VANDERKAM (a cura di), The Dead Sea Scrolls After Fifty Years, Leiden, 1999, pp. 376-395.
    12 Per le tabelle e i calcoli basati su diversi computi calendariali, cfr. J. FINEGAN, Handbook of Biblical Chronology, Peabody, 19982, pp. 275-278.
    13 Handbook of Biblical Chronology, pp. 278-279.
    14 Lc 2,8: “C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge”.
    15 È quanto testimoniato ad esempio dal biblista Harry Mulder, che passò il Natale del 1967 a Betlemme e prestò attenzione a questo particolare, registrando la presenza di pecore ed agnelli nel villaggio, e concludendo con queste parole: “Non è impossibile che il Signore Gesù sia nato a Dicembre”. Lo scritto di Mulder è anche riportato nel commentario del Vangelo di Matteo di W. HENDRIKSEN, Exposition of the Gospel according to Matthew. New Testament Commentary, Baker Book House, 1973, vol. I, p. 182.
    Bibliografia
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    O. CULLMANN, Weihnachten in der alten Kirche, Basel, 1947.
    O. CULLMANN, Der Ursprung des Weihnachtsfestes, Zürich, 1960.
    T. TALLEY, Le origini dell'anno liturgico, Brescia, 1991, pp. 93-101 (nell’originale inglese all’indirizzo:
    http://www.jbburnett.com/mods/talley-xmas.html).
    A. AMMASSARI, Alle origini del calendario natalizio, in «Euntes Docete», 45 (1992), pp. 11-16
    S. ROLL, Botte Revisited. A Turning Point in the Research on the Origins of Christmas and Epiphany, in «Questions Liturgiques» 74 (1993), pp. 153-170.
    S. ROLL, Toward the Origins of Christmas, Kampen, Kok Pharos Publishing House, 1995.
    T. FEDERICI, 24 giugno, 23 settembre, 25 dicembre: date storiche, alla pagina:
    http://www3.chiesacattolica.it/diocesi/roma_altre_aree/settoreovest/25_dicembre.htm
    R. T. BECKWITH, The Date of Christmas and the Courses of the Priests, in Id., Calendar & Chronology, Jewish and Christian, Leiden, 1996, pp. 71-92.
    J. FINEGAN, Handbook of Biblical Chronology, Peabody, 19982, pp. 275-278; 321-328.







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