Frontone
Marco Cornelio Frontone, di origine di Cirta, in Africa, visse a Roma, ove fu avvocato e retore a tal punto apprezzato da ottenere l’incarico di curare l’educazione retorica dei futuri imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero. Nel 143 fu consul suffectus, e godette di tale fama da essere considerato dai suoi contemporanei un novello Cicerone; egli fu il rappresentante del cosiddetto movimento arcaicizzante che dominò la prosa del secolo II.
Di una sua Orazione contro i Cristiani, pronunciata tra il 162 e il 166, ci fa menzione l’apologista Minucio Felice nel suo Octavius (ultimo quarto II secolo); egli definisce Frontone: “non un teste diretto che arrechi la sua testimonianza, ma solo un declamatore che volle scagliare un’ingiuria”1, a causa delle sue accuse infamanti verso i Cristiani.
L’interlocutore pagano Cecilio, rifacendosi all’orazione suddetta che è ricostruibile per lo meno a grandi linee dalle citazioni2, affermava tra l’altro:
“ Essi, raccogliendo dalla feccia più ignobile i più ignoranti e le donnicciuole, facili ad abboccare per la debolezza del loro sesso, formano una banda di empia congiura, che si raduna in congreghe notturne per celebrare le sacre vigilie o per banchetti inumani, non con lo scopo di compiere un rito, ma per scelleraggine; una razza di gente che ama nascondersi e rifugge la luce, tace in pubblico ed è garrula in segreto. Disprezzano ugualmente gli altari e le tombe, irridono gli dei, scherniscono i sacri riti; miseri, commiserano i sacerdoti (se è lecito dirlo), disprezzano le dignità e le porpore, essi che sono quasi nudi! […] Regna tra loro la licenza sfrenata, quasi come un culto, e si chiamano indistintamente fratelli e sorelle, cosicché, col manto di un nome sacro, anche la consueta impudicizia diventi incesto. […] Ho sentito dire che venerano, dopo averla consacrata, una testa d’asino, non saprei per quale futile credenza […] Altri raccontano che venerano e adorano le parti genitali del medesimo celebrante e sacerdote […] E chi ci parla di un uomo punito per un delitto con il sommo supplizio e il legno della croce, che costituiscono le lugubri sostanze della loro liturgia, attribuisce in fondo a quei malfattori rotti ad ogni vizio l’altare che più ad essi conviene […] Un bambino cosparso di farina, per ingannare gli inesperti, viene posto innanzi al neofita, […] viene ucciso. Orribile a dirsi, ne succhiano poi con avidità il sangue, se ne spartiscono a gara le membra, e con questa vittima stringono un sacro patto […] Il loro banchetto, è ben conosciuto: tutti ne parlano variamente, e lo attesta chiaramente una orazione del nostro retore di Cirta […] Si avvinghiano assieme nella complicità del buio, a sorte” (Octavius VIII,4-IX,7)3.
Graffito del colle Palatino: caricatura di un uomo crocefisso con testa d'asino.
A risposta di questo armamentario di accuse infamanti e di seconda mano (Ho sentito dire…), possono valere le parole che il cristiano Giustino rivolgeva in quegli stessi anni ad un altro accusatore del cristianesimo, il filosofo cinico Crescente: “Veramente è ingiusto ritenere per filosofo colui che, a nostro danno, rende pubblicamente testimonianza di cose che non conosce, dicendo che i Cristiani sono atei e scellerati; e dice ciò per ricavarne grazia e favore presso la folla, che resta ingannata”4.
Si noti che questo intervento raccoglie tutte assieme accuse che già circolavano dal secolo precedente, sottintese fin dalle parole di Tacito; ma se alcuni storici si prendevano la briga di verificarne la veridicità, come fece Plinio il Giovane, altri contribuivano a diffonderle.
Interessante il riferimento al culto della testa d’asino, una vecchia accusa già usata da Tacito contro gli Ebrei, dalla quale si era già difeso Giuseppe Flavio5; di essa abbiamo anche una rappresentazione figurativa, un graffito di età severiana ritrovato sul Palatino, e ora conservato nell’antiquarium, raffigurante la caricatura di un uomo crocifisso con testa d’asino, con ai suoi piedi un altro uomo in atto di adorazione, il tutto accompagnato dalla scritta: “Alessameno adora il suo Dio”6.
NOTE AL TESTO
1 Octavius XXXI, 2.
2 Il problema storico e letterario del testo è affrontato da P. FRASSINETTI, L’orazione di Frontone contro i Cristiani, in «Giornale italiano di Filologia» II (1949), pp. 238-254.
3 Qui de ultima faece collectis imperitioribus et mulieribus credulis sexus sui facilitate labentibus plebem profanae coniurationis instituunt, quae nocturnis congregationibus et ieiuniis sollemnibus et inhumanis cibis non sacro quodam, sed piaculo foederatur, latebrosa et lucifuga natio, in publicum muta, in angulis garrula, templa ut busta despiciunt, deos despuunt, rident sacra, miserentur miseri (si fas est) sacerdotum, honores et purpuras despiciunt, ipsi seminudi! […] Inter eos velut quaedam libidinum religio miscetur, ac se promisce appellant fratres et sorores, ut etiam non insolens stuprum intercessione sacri nominis fiat incestum. […] Audio eos turpissimae pecudis caput asini consecratum inepta nescio qua persuasione venerari […] Alii eos ferunt ipsius antistitis ac sacerdotis colere genitalia […] Et qui hominem summo supplicio pro facinore punitum et crucis ligna feralia eorum caerimonias fabulatur, congruentia perditis sceleratisque tribuit altaria, ut id colant quod merentur. […] Infans farre contectus, ut decipiat incautos, adponitur ei qui sacris inbuatur […] occiditur. Huius, pro nefas! sitienter sanguinem lambunt, huius certatim membra dispertiunt, hac foederantur hostia […] Et de convivio notum est; passim omnes locuntur, id etiam Cirtensis nostri testatur oratio. […] infandae cupiditatis involvunt per incertum sortis, etsi non omnes opera, conscientia tamen pariter incesti, quoniam voto universorum adpetitur quicquid accidere potest in actu singulorum. Ed. J. P. Waltzing, Louvain, 1903.
4 II Apologia VIII.
5 Historiae V, 3-4; Contra Apionem, II, 80.
6 La prima descrizione è quella di R. GARRUCCI, Un crocifisso graffito da mano pagana nella casa dei Cesari sul Palatino, Roma, 1856.
Luciano di Samosata
Il retore scettico Luciano, nato a Samosata intorno al 120 e morto dopo il 180, attivo nell’età degli Antonini, ci ha lasciato un’opera intitolata La morte di Peregrino, nella quale l’autore, un decennio dopo lo svolgimento dei fatti, narra del teatrale suicidio del fanatico Peregrino Proteo, sul rogo che si era eretto a Olimpia nel 165 o 167.
Questa singolare figura di filosofo, che per Luciano è certo un ciarlatano, era stato per un certo periodo cristiano, per poi passare alla filosofia cinica. Per mostrare il suo disprezzo per la morte, che Luciano invece definisce “amor di gloria”, egli si gettò tra le fiamme del rogo.
Durante il periodo di adesione al cristianesimo, nel quale era stato anche in carcere, veniva visitato continuamente dai suoi fratelli cristiani, che da ogni dove si affrettavano a venire per consolarlo, assisterlo, aiutarlo; secondo Luciano essi erano degli sciocchi, ingannati da quell’impostore:
“Allora Proteo venne a conoscenza della portentosa dottrina dei cristiani, frequentando in Palestina i loro sacerdoti e scribi. E che dunque? In un batter d’occhio li fece apparire tutti bambini, poiché egli tutto da solo era profeta, maestro del culto e guida delle loro adunanze, interpretava e spiegava i loro libri, e ne compose egli stesso molti, ed essi lo veneravano come un dio, se ne servivano come legislatore e lo avevano elevato a loro protettore a somiglianza di colui che essi venerano tuttora, l’uomo che fu crocifisso in Palestina per aver dato vita a questa nuova religione.
[…] Si sono persuasi infatti quei poveretti di essere affatto immortali e di vivere per l’eternità, per cui disprezzano la morte e i più si consegnano di buon grado. Inoltre il primo legislatore li ha convinti di essere tutti fratelli gli uni degli altri, dopoché abbandonarono gli dei greci, avendo trasgredito tutto in una volta, ed adorano quel medesimo sofista che era stato crocifisso e vivono secondo le sue leggi. Disprezzano dunque ogni bene indiscriminatamente e lo considerano comune, seguendo tali usanze senza alcuna precisa prova. Se dunque viene presso di loro qualche uomo ciarlatano e imbroglione, capace di sfruttare le circostanze, può subito diventare assai ricco, facendosi beffe di quegli uomini sciocchi” (De morte Per. XI-XIII)1.
Interessante il riferimento al Cristo, mai nominato perché troppo spregevole, che viene considerato un sofista (nel senso dispregiativo del termine), ed il “primo legislatore” dei Cristiani, le cui leggi sono da essi seguite (anche Giustino martire, ad esempio, chiama Gesù "legislatore"). L’unica notizia storica su Gesù è il ricordo della sua crocifissione; alcune espressioni fanno pensare ad una diretta conoscenza di certi ambienti cristiani.
NOTE AL TESTO
1“Oteper kaˆ t¾n qaumast¾n sof…an tîn Cristianîn ™xšmaqen, perˆ t¾n Palaist…nhn to‹j ƒereàsin kaˆ grammateàsin aÙtîn xuggenÒmenoj. Kaˆ t… g£r; ™n brace‹ pa‹daj aÙtoÝj ¢pšfhne, prof»thj kaˆ qias£rchj kaˆ xunagwgeÝj kaˆ p£nta mÒnoj aÙtÕj ên, kaˆ tîn b…blwn t¦j mn ™xhge‹to kaˆ dies£fei, poll¦j d aÙtÕj kaˆ sunšgrafen, kaˆ æj qeÕn aÙtÕn ™ke‹noi Ædoànto kaˆ nomoqštV ™crînto kaˆ prost£thn ™pegr£fonto, met¦ goàn ™ke‹non Ön œti sšbousi, tÕn ¥nqrwpon tÕn ™n tÍ Palaist…nV ¢naskolopisqšnta, Óti kain¾n taÚthn telet¾n e„sÁgen ™j tÕn b…on. [...] Pepe…kasi g¦r aØtoÝj oƒ kakoda…monej tÕ mn Ólon ¢q£natoi œsesqai kaˆ bièsesqai tÕn ¢eˆ crÒnon, par' Ö kaˆ katafronoàsin toà qan£tou kaˆ ˜kÒntej aØtoÝj ™pididÒasin oƒ pollo…. ”Epeita d Ð nomoqšthj Ð prîtoj œpeisen aÙtoÝj æj ¢delfoˆ p£ntej een ¢ll»lwn, ™peid¦n ¤pax parab£ntej
qeoÝj mn toÝj `EllhnikoÝj ¢parn»swntai, tÕn d ¢neskolopismšnon ™ke‹non sofist¾n aÙtÕn proskunîsin kaˆ kat¦ toÝj ™ke…nou nÒmouj biîsin. Katafronoàsin oân ¡p£ntwn ™x ‡shj kaˆ koin¦ ¹goàntai, ¥neu tinÕj ¢kriboàj p…stewj t¦ toiaàta paradex£menoi. Àn to…nun paršlqV tij e„j aÙtoÝj gÒhj kaˆ tecn…thj ¥nqrwpoj kaˆ pr£gmasin crÁsqai dun£menoj, aÙt…ka m£la ploÚsioj ™n brace‹ ™gšneto „diètaij ¢nqrèpoij ™gcanèn. Ed. A.M. Harmon, Cambridge, 1936.
Celso
Celso, ritratto.
Chiude l’elenco delle testimonianze non cristiane del II secolo quella uscita dalla penna dell’oscura figura del filosofo Celso; di lui sappiamo solamente che fu un intellettuale seguace di quel medio platonismo che a quel tempo conobbe una notevole fioritura con Plutarco, Attico, Albino, Massimo di Tiro ed altri ancora.
Tra tutti coloro che si occuparono dell’attacco verso i Cristiani (ci sono rimasti i nomi e talora alcune accuse poco significative del cinico Crescente, di Cecilio, di Frontone, dell’oratore Aristide e di Ierocle), egli è, assieme a Porfirio nel secolo successivo, l’unico veramente degno di nota.
Sappiamo che Celso scrisse un’opera dedicata interamente alla polemica contro i Cristiani, dal titolo Discorso veritiero (Alethès lógos); esso è comunemente datato tra il 177 e il 180, gli ultimi anni della correggenza di Marco Aurelio col figlio Commodo (171-180). Ma quest’opera, ignorata a quel che sembra dai contemporanei e trascurata dalle generazioni successive, ci è giunta parzialmente solo perché Origene nel 248 decise di farne una dettagliata confutazione (il Contra Celsum); per ribatterne una ad una le argomentazioni, egli riportò letteralmente gran parte dei passi.
Celso pare non voler riconoscere nulla di buono ai Cristiani: pur sdegnando le volgari calunnie che ancora circolavano al suo tempo, che in parte abbiamo già ricordato e su cui gli apologisti ci hanno lasciato numerose attestazioni (incesto e banchetti tiestei, ma anche accuse di adorare un idolo con testa d’asino, la croce, il sole, i genitali dei sacerdoti, di suscitare venti e tempeste, di invocare fame e pestilenze, di compiere sortilegi), egli rappresenta l’atteggiamento degli avversari del II secolo. Il filosofo mostra di conoscere almeno in parte la Bibbia (certamente qualcosa del vangelo di Matteo) e le sette fuoriuscite dalla “grande Chiesa”; egli accusa il cristianesimo di essere il figlio bastardo della più abbietta religione nazionale, il giudaismo. Solamente l’etica di Cristo pare talora resistere alla sua disapprovazione, ed anche la dottrina del Logos gli aggrada.
In ultima analisi, tuttavia, il Discorso veritiero è uno scritto politico e pratico: Celso è preoccupato dal fatto che i Cristiani non partecipino alle feste pagane, non prestino servizio militare, non ricoprano cariche pubbliche, collocandosi al margine della società civile (l’odio del genere umano già descritto ottant’anni prima da Tacito). Questo rifiuto di partecipare alla vita pubblica è per lui un “grido di rivolta”1. L’appello con cui si concludeva l’opera di Celso, affinché i Cristiani non si sottraggano più all’ordine civile e religioso generale, servendo così al bene dello stato già tanto debilitato e in pericolo a causa di nemici interni ed esterni, mette in luce questa preoccupazione politica che attraversa tutto il suo scritto.
Da quanto Origene ci ha conservato, possiamo trarre alcuni giudizi su Gesù Cristo:
Ad un certo punto si parla della “madre di Gesù, scacciata dall’artigiano che l’aveva maritata, accusata di adulterio, messa incinta da un certo soldato di nome Panthera” (Contra Celsum, I, 32)2.
“Spinto dalla miseria andò in Egitto a lavorare a mercede, ed avendo quindi appreso alcune di quelle discipline occulte per cui gli Egizi son celebri, tornò dai suoi tutto fiero per le arti apprese, e si proclamò da solo Dio a motivo di esse” (Ivi, I, 28)3.
“Gesù raccolse attorno a sé dieci o undici uomini sciagurati, i peggiori dei pubblicani e dei marinai, e con loro se la svignava qua e là, vergognosamente e sordidamente raccattando provviste” (Ivi, I, 62)4.
L’accusa di illegittimità e la figura del soldato Panthera sono state rinvenute anche in ambiente giudaico5: in tal senso, l’origine del nome Gesù figlio di Panthera (Jesûa‘ ben Pandera), testimoniato con piccole varianti grafiche, sarebbe una corruzione del greco parthénos (vergine), una qualifica di Maria che sarebbe stata grossolanamente mal interpretata dai Giudei, fino a farne il nome di un presunto violentatore di lei; diversamente, altri ritengono queste accuse provenienti dai Giudei come tardive rispetto alla testimonianza di Celso. Panthera allora potrebbe essere un vero nome di persona, diffuso tra le truppe romane, come anche testimoniato da alcune iscrizioni.
È interessante vedere come Origene risponde alle accuse di Celso, specie quando mostra una perfetta ignoranza dei fatti (ad esempio quando parla di dieci o undici discepoli, quando è ben noto che erano dodici). Celso mostra di dipendere da fonti anteriori, specialmente cristiane (il Vangelo di Matteo, ad esempio).
NOTE AL TESTO
1 Contra Celsum VIII, 2.
2 [...] ™n Î ¢nagšgraptai ¹ toà 'Ihsoà m»thr æj ™xwsqe‹sa ¢pÕ toà mnhsteusamšnou aÙt¾n tšktonoj, ™legcqe‹sa ™pˆ moice…v kaˆ kÚousa ¢pÒ tinoj stratiètou Panq»ra toÜnoma. Ed. M. Borret, Paris, 1967-1969.
3 Kaˆ Óti oátoj di¦ pen…an e„j A‡gupton misqarn»saj k¢ke‹ dun£meèn tinwn peiraqe…j, ™f' aŒj A„gÚptioi semnÚnontai, ™panÁlqen ™n ta‹j dun£mesi mšga fronîn, kaˆ di' aÙt¦j qeÕn aØtÕn ¢nhgÒreuse.
4 [...] dška epen À ›ndek£ tinaj ™xarths£menon tÕn 'Ihsoàn ˜autù ™pirr»touj ¢nqrèpouj, telènaj kaˆ naÚtaj toÝj ponhrot£touj, met¦ toÚtwn tÍde k¢ke‹se aÙtÕn ¢podedrakšnai, a„scrîj kaˆ gl…scrwj trof¦j sun£gonta.
5 Cfr. Hullin 2, 22-23; Aboda Zara 40d; Shabbat 14d. Cfr. M. GOLDSTEIN, Jesus in the Jewish tradition, New York, 1950, pp. 32-39.
Thallos
All’interno di una sua Cronaca in lingua greca, uno storico di nome Tallo (Thallos) ha lasciato menzione di un fatto concernente il giorno della morte di Gesù: l’oscuramento del cielo[1]. Purtroppo l'opera è andata perduta, ma la citazione del passo che riguardava Gesù era stata inserita nella Chronographia di Sesto Giulio Africano. Questo scrittore, vissuto tra la fine del secondo e il primo quarantennio del III secolo, è noto come progettista della biblioteca imperiale di Settimio Severo; anche la sua opera, però, una storia universale dalle origini ad Eliogabalo, è andata perduta. Fortunatamente alcune parti dell'opera sua sono state citate attorno all'anno 800 da un altro storico bizantino, Giorgio Sincello. La sua opera si intitola Ecloga chronographica, una storia universale che copriva gli anni dalla creazione del mondo fino al regno di Diocleziano. E così, ricordate da Sesto Giulio Africano e ricopiate da Giorgio Sincello, le parole di Tallo sono arrivate fino ai nostri giorni. Giorgio Sincello infatti asserisce di riportare un passo “tratto da Africano, riguardo agli eventi associati con la passione” di Gesù. Africano diceva, richiamando i Vangeli:
Una terribile oscurità si abbatté su tutto il mondo, le rocce furono spezzate da un terremoto e molti luoghi della Giudea e del territorio restante furono abbattuti. Tallo, nel terzo libro delle Storie, definisce questa oscurità come eclissi del sole, a mio parere irragionevolmente[2].
Africano continuava il discorso contestando l'affermazione di Tallo: un'eclissi non può verificarsi durante un plenilunio (la Pasqua ebraica), quando la Luna è diametralmente opposta al Sole; doveva quindi trattarsi di un oscuramento straordinario ed inusuale. In tal modo avevano risposto, tra gli altri, anche Origene, Girolamo e Giovanni Crisostomo, contro quegli scrittori anticristiani, soprattutto Celso, che avevano usato questa argomentazione dell'eclissi per contestare la validità del racconto evangelico.
Non ci interessa qui addentrarci nella disputa sulla natura dell'oscuramento del cielo raccontato dai Vangeli; ci preme però sottolineare che un autore pagano aveva tentato una spiegazione naturalistica di un evento evangelico che evidentemente egli conosceva. È un peccato che l'opera di Tallo sia perduta; ma l'abituale affidabilità di Giulio Africano induce a pensare che la sua citazione sia veritiera. Il contesto può essere facilmente immaginato: Tallo è a conoscenza della spiegazione soprannaturale dell'oscurità registrata dagli evangelisti al momento della morte di Gesù, e ne contesta il carattere soprannaturale, descrivendola come una semplice eclissi. A questo punto Giulio Africano critica la conclusione di Tallo, avanzando l'argomentazione del plenilunio pasquale.
Non è assolutamente dato di sapere da dove Tallo abbia tratto le informazioni sull'oscuramento del sole nel giorno della morte di Gesù; il fatto che ne parlino anche i Vangeli non significa che Tallo li abbia necessariamente conosciuti: forse si basava su altre fonti scritte che contenevano il racconto della passione, oppure poteva aver ascoltato la testimonianza orale di qualche cristiano. Certamente egli è testimone dell'esistenza di un racconto della passione di Gesù che circolava nel suo ambiente e che evidentemente egli ritiene di dover spiegare in qualche modo.
Ora, la questione da risolvere riguarda l'identità e soprattutto l’epoca in cui Tallo visse[3]. Spesso si afferma che si trattava di un Tallo samaritano (Thallos samareus) residente a Roma a metà del I secolo, il quale secondo lo storico ebreo Giuseppe Flavio avrebbe concesso un grande prestito ad Agrippa. Ma l'identificazione si basa su una congettura testuale: i manoscritti di Giuseppe infatti riportano la dicitura allos Samareus, cioè “un altro Samaritano”[4]. Poiché così la frase risulterebbe difficile, in quanto l'autore immediatamente prima non stava parlando di nessun altro Samaritano, molti filologi (a partire da Hudson nel 1720) hanno aggiunto la lettera theta davanti ad allos, dando origine a Thallos. Ecco che questo Thallos potrebbe essere il Tallo di Giulio Africano; d’altra parte Tallo era un nome ricorrente nelle liste dei funzionari della casa imperiale, che evidentemente potevano disporre di molto denaro[5]. Si tratterebbe allora del più antico riferimento non cristiano a Gesù, in quanto risalente ad un ventennio dopo la sua morte. Ma qualcuno ha rigettato la correzione, lasciando il testo inalterato[6]; se così fosse, saremmo davanti ad uno storico ampiamente citato da diverse fonti[7], vissuto certamente prima del 180 d.C. - in quanto noto a Teofilo di Antiochia - ma sconosciuto, e neppure necessariamente ebreo, anche se nella sua opera parlava di Mosè. A Roma, comunque, sono attestati altri che portavano quel nome, tra cui un segretario di Augusto[8].
Un altro problema riguarda la lunghezza dell'opera di Tallo: secondo un passo della Chronica di Eusebio di Cesarea, sopravvissuta solo in traduzione armena, si afferma che Tallo “raccoglie materiale dall'epoca della caduta di Troia fino alla 167° olimpiade” (112-109 a.C.)[9]. Ma dal nostro e da altri passi di Tallo, a noi pervenuti, si evince che la sua storia partiva da prima (la storia di Bel, Cronos, Mosè) e continuava ben oltre. Alcuni pensano ad un errore della traduzione armena, e correggono con argomentazioni paleografiche il numero 167 in 207 (anni 49-52) o 217 (89-92); in quest’ultimo caso, Tallo sarebbe vissuto alla fine del I secolo, o anche dopo. Altri invece pensano all'esistenza di una prima e di una seconda edizione ampliata della medesima opera; altri ancora ipotizzano che Eusebio conoscesse un’altra opera di Tallo, diversa da quella di cui stiamo trattando.
In definitiva, rimane in sospeso la questione dell’identità di Tallo. La datazione della sua opera agli anni ’50 del I secolo è incerta, perché basata sulla congetturale identificazione di Tallo con il samaritano citato da Flavio Giuseppe, e sull’idea che egli sia vissuto poco dopo il 52 (se si accetta una delle due correzioni del passo di Eusebio). Nell’ipotesi meno ottimistica, Tallo avrebbe potuto essere uno storico non samaritano, vissuto in un periodo indefinito tra la morte di Gesù (che egli conosce) e il 180 (quando viene citato per la prima volta da altri scrittori). La notizia di Tallo rimane importante, ma non è dimostrabile che si tratti della testimonianza extracristiana più antica, come talora si è affermato.
[1] Mc 15,33: “Giunta l'ora sesta, si fece buio su tutta la terra fino all'ora nona”; cfr. Mt 27,45; Lc 23,44.
[2] Kaq' Ólou toà kÒsmou skÒtoj ™p»geto foberètaton, seismù te aƒ pštrai dierr»gnunto
kaˆ t¦ poll¦ 'Iouda…aj kaˆ tÁj loipÁj gÁj katerr…fqh. Toàto tÕ skÒtoj œkleiyin toà ¹l…ou Q£lloj ¢pokale‹ ™n tr…tV tîn `Istoriîn, æj ™moˆ doke‹ ¢lÒgwj. Ed. K. Müller,
Fragmenta Historicorum Graecorum, Paris, 1841-1870, vol. III, 517-519, frammento 8.
[3] Su tutta la questione: F. JACOBY, Die Fragmente der griechischen Historiker, Berlin, 1922-1958, vol. IIB, p. 1157, e IID, pp. 835-836; H. RIGG, Thallus: The Samaritan?, in «Harvard Theological Review» XXXIV (1941), pp. 111-119 ; P. PRIGENT, Thallos, Phlégon et le Testimonium Flavianum témoins de Jésus?, in Paganisme, Judaïsme, Christianisme. Influences et Affrontements dans le Monde Antique, Paris, 1978, pp. 329-334; E. SCHÜRER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, Brescia, 1997, vol. III/1, pp. 699-700; R. E. VAN VOORST, Gesù nelle fonti extrabibliche, Cinisello Balsamo, 2004, pp. 33-37; E. NORELLI, La presenza di Gesù nella letteratura gentile dei primi due secoli, in A. Pitta (a cura di), Il Gesù storico nelle fonti del I-II secolo, Bologna, Dehnoniane, 2005 (Ricerche Storico Bibliche 17/2), pp. 177-182.
[4] Antiquitates iudaicae, XVIII,VI,4 § 167: “Inoltre da un altro samaritano, che era liberto di Cesare, Agrippa riuscì a ottenere un prestito di un milione di dracme, con cui estinse il debito con Antonia”.
[5] Un’iscrizione latina parla di un T. Cl. Thallus praepositus velariorum domus Augustianae (Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, p. 8649).
[6] Cfr. I. MIEVIS, À Propos de la Correction 'Thallos' dans les 'Antiquités Judaïques' de Flavius Josèphe, in «Revue Belge de Philologie et d'Histoire» XIII (1934), pp. 733-740. H. RIGG, Thallus, op. cit., intende l’allos pronominalmente, e traduce: “Da un altro, samaritano di stirpe, che era liberto di Cesare, etc.”
[7] Tallo è citato da Teofilo di Antiochia (180 circa, Ad Autolycum, 3,29), Minucio Felice (inizio III sec., Octavius, 21,4), Tertulliano (197, Apologeticum, 10; Ad nationes, 2,12), pseudo-Giustino (III sec., Cohortatio ad Graecos, 9), Lattanzio (a cavallo tra III e IV sec., Divinae institutiones, 1,23; 1,13).
[8] Svetonio, Augustus, 67; Altri Tallo sono menzionati nelle iscrizioni (Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, pp. 6987-6988)
[9] J. Karst, Die Chronik des Eusebius aus dem Armenischen übersetzt, Leipzig, 1911 (GCS 20), p. 125.
Appendice
Secondo taluni commentatori, vi sarebbero anche altre testimonianze storiche che meriterebbero di essere inserite nella presente trattazione, il cui valore però è discusso; le riporto quindi in appendice, dando conto dello stato della ricerca in proposito.
Appendice: Petronio
La volontà di Petronio di alludere al cristianesimo nei propri scritti è discussa ed è tuttora oggetto di studio.
E’ ormai ampiamente accettata la datazione dei frammenti del romanzo latino intitolato Satyricon all’età neroniana (54-68 d.C.), e l’identificazione del suo autore con Tito Petronio Negro, personaggio la cui morte per suicidio, avvenuta nel 66, è drammaticamente descritta dallo storico Tacito nei suoi Annali1. Egli ci è presentato come proconsole della Bitinia e poi console; dopo questi incarichi era stato ammesso nel circolo “dei pochi intimi di Nerone, arbitro di raffinatezza, a tal punto che quegli nulla riteneva essere dolce o voluttuoso, se non ciò che Petronio avesse approvato per lui”2. Da questo epiteto di “arbitro di raffinatezza” (arbiter elegantiae) è scaturito il nome conservatoci dalla tradizione manoscritta con il quale l’autore è universalmente conosciuto: Petronius Arbiter.
Alcune allusioni all’incendio di Roma del 64 orienterebbero la datazione del romanzo agli anni 64-653, negli anni in cui, dopo l’incendio di Roma, i cristiani subirono la loro prima persecuzione.
Protagonisti del romanzo sono due giovani, Encolpio e Gitone, cui si aggiungono successivamente Ascilto, Agamennone ed il vecchio poeta Eumolpo; tra le varie peripezie narrateci da Petronio, spicca il lungo racconto di una pantagruelica e lussuriosa cena organizzata in casa del ricchissimo liberto Trimalcione (comunemente identificato con Nerone).
Circa un secolo fa il Preuschen in uno studio che suscitò molte reazioni aveva evidenziato profonde somiglianze fra un passo del vangelo di Marco, l’unzione di Betania, ed un passo del Satyricon. In esso si narra di Trimalcione il quale, durante il banchetto da lui apprestato, procede all’unzione dei convitati con il nardo, prefigurando tramite gesti simbolici le proprie esequie; di qui, data la somiglianza di questo racconto con l’episodio evangelico, ed anche a causa dello stato degli studi sulla datazione dei vangeli del tempo, lo studioso credette poter spiegare tali somiglianze ipotizzando una imitazione di Petronio da parte dell’evangelista Marco4 . Senza entrare ora nella questione della datazione e della origine del vangelo di Marco, ci basterà notare che non è improbabile che Petronio nel momento in cui scrisse il Satyricon potesse essere a conoscenza di tale scritto, che secondo l’antica tradizione patristica fu redatto proprio a Roma.
Uno studio di Ilaria Ramelli ha ripreso in considerazione l’ipotesi del Preuschen, ribaltandola: sarebbe stato Petronio a parodiare il vangelo di Marco, e non viceversa.5
Non sarà inopportuno riprendere qui le sue osservazioni, iniziando proprio dal racconto dell’unzione.
In Petronio, durante la cena, Trimalcione si fa recare le vesti preparate per la sua sepoltura, del vino con cui saranno lavate le sue ossa e dell’unguento; aperta un’ampolla di Nardo, unge i convitati in prefigurazione della sua unzione funebre e li invita a considerare il pasto come il suo banchetto funebre.
Nel vangelo di Marco, mentre Gesù si trova a mensa, arriva una donna con un vaso di alabastro pieno di nardo genuino prezioso, lo rompe e unge Gesù sul capo. Il Cristo dice a suo riguardo che ella sta ungendo in anticipo il suo corpo per la sepoltura.
Come si può notare dalle parti in corsivo, le somiglianze sono evidenti. Ecco in sinossi i due testi, quello del Satyricon e quello del vangelo di Marco:
“Porta anche dell’unguento e un assaggio da quell’anfora, con cui voglio siano lavate le mie ossa” […] Subito aprì l’ampolla del nardo, unse tutti noi e disse “Spero che possa piacermi da morto quanto da vivo”. Poi comandò che fosse infuso del vino in una brocca e disse “Fate come se foste stati invitati ai miei funerali”6.
Essendo [Gesù] a Betania in casa di Simone il lebbroso, mentre giaceva, venne una donna che aveva un vaso di alabastro di unguento di puro nardo prezioso; rotto l’alabastro, lo versò sul capo di lui […] “Ciò che ebbe, ella lo fece: anticipò di ungere il mio corpo per la sepoltura”7.
Trimalcione afferma di aver consultato un astrologo, che gli ha predetto la morte dopo altri trent’anni, cosa della quale egli è persuaso8; poiché dunque non vi è alcuna imminenza della morte per lui, l’ipotesi della parodia del racconto evangelico non pare così azzardata9.
Un altro passo della cena pare avere reminiscenze evangeliche:
“Mentre diceva queste cose, un gallo domestico cantò. Turbato da quella voce, Trimalcione comandò che fosse versato del vino sotto la tavola e che anche la lucerna ne venisse cosparsa. Poi passò l’anello nella mano destra e disse: “Non senza ragione questo trombettiere ha dato il segnale; infatti o dovrà scoppiare un incendio, o qualcuno dei vicini dovrà morire. Lungi da noi! Per cui, chi mi porterà questo accusatore riceverà un premio”. In men che non si dica venne portato un gallo da una casa vicina, che Trimalcione ordinò venisse cotto in pentola” (Sat. LXXIV, 1-4)10.
Mentre qui il canto del gallo è visto come presagio di sciagura, nel resto della tradizione greco-romana esso è preannunzio del giorno e della vittoria, mai presagio di morte11 . Nel vangelo, il duplice canto del gallo invece è indice del tradimento di Pietro prima della morte di Gesù12.
La definizione petroniana del gallo come index, ovvero, in linguaggio giuridico, come denunziatore, accusatore, sembra ricordare la funzione che rivestì il gallo in Marco, ovvero quella di denunziare il triplice tradimento di Pietro.
Anche il noto episodio della matrona di Efeso, pare avere altri richiami evangelici:
“Una matrona di Efeso, […] avendo perso il marito, […] seguì il defunto persino nel sepolcro. […] Nello stesso tempo il governatore della provincia comandò che fossero crocifissi dei ladroni proprio accanto al sepolcro nel quale la matrona piangeva il recente cadavere. La notte seguente, quando il soldato che sorvegliava le croci affinché nessuno togliesse i corpi per seppellirli, notò un lume splendere tra le tombe e udì il gemito di qualcuno che piangeva […] volle sapere chi fosse e che cosa facesse. Scese quindi nella tomba. […] Dunque giacquero assieme non solo quella notte nella quale fu consumato il loro imene, ma anche il seguente ed il terzo giorno, tenendo certamente chiuse le porte del sepolcro. […] Ma i parenti di un crocifisso, come videro diminuita la sorveglianza, tirarono giù di notte l’appeso e gli resero l’estremo ufficio. E quando il giorno successivo il soldato […] vide una croce senza cadavere, atterrito dal supplizio raccontò alla donna quello che era successo. […] Ella disse allora di togliere il corpo del proprio marito dall’arca e di attaccarlo a quella croce che era vuota. Il soldato approfittò dell’ingegno dell’avvedutissima donna, ed il giorno dopo il popolo si meravigliava di come quel morto avesse potuto salire sulla croce” (Sat. CXI-CXII)13.
La citazione di un governatore provinciale (Pilato?), dei ladroni crocifissi, della guardia sepolcrale e dei tre giorni nel sepolcro, e infine il tema del trafugamento del cadavere, un’accusa rivolta ai cristiani già da tempo14, ci farebbero pensare ad una parodia del racconto della morte e risurrezione del Cristo.
Una volta accettata la dipendenza Marco-Petronio, molti passi si prestano a simili letture: ad esempio la presunta allusione all’eucarestia nelle parole di Eumolpo che lascia i suoi averi a chi mangerà pubblicamente le sue carni dopo la morte (CXLI, 2)15.
Recentemente Giuseppe Giovanni Gamba in una monografia che ha mosso i suoi passi da queste constatazioni16, ha creduto di poter commentare tutto il Satyricon in chiave autobiografica, partendo dal presupposto che Petronio abbia voluto fare la parodia del cristianesimo al quale, assieme anche a Nerone, avrebbe per un certo periodo aderito, per poi ripudiarlo. Di qui le identificazioni di Petronio medesimo con Encolpio, di Nerone con Ascilto, di Agrippina con la sacerdotessa Quartilla, di Seneca con Agamennone e di Trimalcione con l’apostolo Pietro che in quel periodo predicava a Roma.
Al di là di questi sviluppi assolutamente innovativi, qualora fosse anche solo provato un collegamento tra gli avvenimenti evangelici ed il romanzo di Petronio nel modo sopra esposto, saremmo di fronte alla prima velata testimonianza non cristiana di Gesù e della sua Chiesa, redatta nel tempo in cui gli apostoli Pietro e Paolo predicavano e subivano il martirio nella capitale dell’impero romano. Fino a quel momento, possiamo solo considerare questa chiave interpretativa come una interessante ipotesi che necessita di ulteriore approfondimento.
NOTE AL TESTO
1 XVI, 17-19. Una rassegna dello status quaestionis dell’attribuzione è offerta dalla voce curata da L. PEPE per il Dizionario degli scrittori greci e latini, a cura di F. DELLA CORTE, Milano, 1987, vol. III, pp. 1605-1618.
2 Inter paucos familiarium Neroni adsumptus est, elegantiae arbiter, dum nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset. Ed. A. Ernout, Paris, 1962.
3 Cfr. K. F. C. ROSE, The date and the author of the Satyricon, Leiden, 1971.
4 E. PREUSCHEN, Die Salbung Jesu in Bethanien, in «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft» III (1902), pp. 252-253, e IV (1903), p. 88.
5 I. RAMELLI, Petronio e i Cristiani: allusioni al vangelo di Marco nel Satyricon?, in «Aevum» LXX (1996), pp. 75-80. Cfr. anche: http://www.augustea.it/zucchi/Cultura/Ramelli.htm#par3.
6 Satyricon LXXVII,7; LXXVIII, 3-4: “Profer et unguentum et ex illa amphora gustum, ex qua iubeo lavari ossa mea” […] Statim ampullam nardi aperuit omnesque nos unxit et “Spero” inquit “futurum ut aeque me mortuum iuvet tamquam vivum”. Nam vinum quidem in vinarium iussit infundi et “Putate vos” ait “ad parentalia mea invitatos esse”. Ed. K. Müller, München, 1983.
7 Marco XIV, 3; XIV, 9: “Cum esset Bethaniae in domo Simonis leprosi et recumberet, venit mulier habens alabastrum unguenti nardi puri pretiosi; fracto alabastro, effudit super caput eius […] “Quod habuit, operata est: praevenit ungere corpus meum in sepulturam”. Nova Vulgata, Città del Vaticano, 1986.
8 Satyricon LXXVIII, 1.
9 Cfr. per il tema della morte nel racconto del banchetto di Trimalcione: G. GAGLIARDI, Il corteo di Trimalcione. Nota a Petronio 28, 4-5, in «Rivista di filologia e di istruzione classica» CXII (1984), pp. 285-287; Id., Il tema della morte nella cena petroniana, in «Orpheus» X (1989), pp. 13-25.
10 Haec dicente eo gallus gallinaceus cantavit. Qua voce confusus Trimalchio vinum sub mensa iussit effundi lucernamque etiam mero spargi. Immo anulum traiecit in dexteram manum et “non sine causa” inquit “hic bucinus signum dedit; nam aut incendium oportet fiat, aut aliquis in vicinia animam abiciet. Longe a nobis! Itaque quisquis hunc indicem attulerit, corollarium accipiet”. Dicto citius [de vicinia] gallus allatus est, quem Trimalchio iussit ut aeno coctus fieret.
11 Cfr. G. AMIOTTI, Il gallo animale oracolare?, in Sibille e linguaggi oracolari, mito, storia e tradizione, Convegno del 20-24 settembre 1994, Macerata, 1996.
12 Mc. XIV,30; XIV, 68; XIV, 72.
13 Matrona quaedam Ephesi […] cum virum extulisset, […] in conditorium etiam prosecuta est. […] Interim imperator provinciae latrones iussit crucibus affigi secundum illam casulam, in qua recens cadaver matrona deflebat. Proxima ergo nocte cum miles, qui cruces asservabat ne quis ad sepulturam corpus detraheret, notasset sibi [et] lumen inter monumenta clarius fulgens et gemitum lugentis audisset, […] concupiit scire quis aut quid faceret. Descendit igitur in conditorium. […] Iacuerunt ergo una non tantum illa nocte qua nuptias fecerunt, sed postero etiam ac tertio die, praeclusis videlicet conditorii foribus […] Itaque unius cruciarii parentes ut viderunt laxatam custodiam, detraxere nocte pendentem supremoque mandaverunt officio. At miles […] ut postero die vidit unam sine cadavere crucem, veritus supplicium, mulieri quid accidisset exponit. […] Iubet ex arca corpus mariti sui tolli atque illi quae vacabat cruci affigi. Usus est miles ingenio prudentissimae feminae, posteroque die populus miratus est qua ratione mortuus isset in crucem.
14 Nel vangelo di Matteo (XXVIII, 13-15) le guardie del sepolcro di Gesù, istigate dai sacerdoti, devono dire che “i suoi discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo”. […] Così questa diceria si è divulgata fra i Giudei fino ad oggi”.
15 Omnes qui in testamento meo legata habent praeter libertos meos hac condicione percipient quae dedi, si corpus meum in partes conciderint et astante populo comederint.
16 Petronio Arbitro e i Cristiani. Ipotesi per una lettura contestuale del Satyricon, Roma, 1997.
Appendice: Apuleio
Apuleio
Il retore africano Apuleio di Madaura (120-180 circa) scrisse intorno al 160 il noto romanzo Le metamorfosi (conosciuto anche come L’asino d’oro), in cui si narrano le peripezie di un certo Lucio che, trasformato in asino, subirà ogni sorta di avventure prima di essere nuovamente riportato alla propria condizione originaria.
Ad un certo punto del racconto Lucio, già in forma di asino, viene acquistato da un onesto mugnaio, maritato ad una donna dissoluta così descritta:
“Quel mugnaio, che mi aveva fatto sua proprietà pagandomi, un uomo peraltro buono e soprattutto modesto, aveva ottenuto in sorte come moglie una donna pessima, di gran lunga la peggiore di tutte le donne, e sosteneva pene estreme in casa e a letto, al punto che, per Ercole, anche io me ne doglievo in silenzio per lui. Non mancava alcun vizio a quella pessima donna, ma tutte le nefandezze erano confluite nel suo animo come in una melmosa latrina: crudele, funesta, ammaliatrice, ubriacona, ostinata, caparbia, vergognosamente avara nell’arraffare, scialacquatrice nelle spese per le sue porcherie, nemica della fede, avversaria del pudore. In quel tempo, disprezzati e calpestati i divini numi, al posto della religione stabilita fingeva sacrilegamente di credere in un Dio che proclama unico, osservando cerimonie inconsistenti e ingannando tutti gli uomini e il suo misero consorte, dandosi fin dal mattino al vizio e offrendo continuamente il suo corpo alla fornicazione” (Metam. IX, 14)1.
Alcuni critici hanno creduto di vedere, nel ritratto di questa donna, una cristiana; gli elementi a favore sono innanzitutto l’allusione alla credenza in un Dio unico e alle inconsistenti cerimonie. In secondo luogo, la terminologia usata per descrivere la sua dissolutezza, ricorda da vicino quella utilizzata ad esempio da Tacito nei confronti dei Cristiani (i flagitia), e gli aggettivi “ostinata” e “caparbia” richiamano alla mente la pertinacia e l’obstinatio dell’epistola di Plinio a Traiano.
In mancanza di ulteriori elementi, tale interpretazione rimane comunque un’ipotesi.
NOTE AL TESTO
1 Pistor ille, qui me pretio suum fecerat, bonus alioquin vir et adprime modestus, pessimam et ante cunctas mulieres longe deterrimam sortitus coniugam poenas extremas tori larisque sustinebat, ut hercules eius vicem ego quoque tacitus frequenter ingemescerem. Nec enim vel unum vitium nequissimae illi feminae deerat, sed omnia prorsus ut in quandam caenosam latrinam in eius animum flagitia confluxerant: saeva, scaeva, viriosa, ebriosa, pervicax, pertinax, in rapinis turpibus avara, in sumptibus foedis profusa, inimica fidei, hostis pudicitiae. Tunc spretis atque calcatis divinis numinibus in vicem certae religionis mentita sacrilega praesumptione dei, quem praedicaret unicum, confictis observationibus vacuis fallens omnis homines et miserum maritum decipiens matutino mero et continuo stupro corpus manciparat. Ed. Giarratano – Frassinetti, Torino, 1961.
Appendice: Testimonianze giudaiche
Ho scelto di inserire in appendice, e quindi sotto condizione, quei passi nei quali tradizionalmente molti commentatori scorgono espliciti o impliciti riferimenti a Gesù di Nazareth e ai Cristiani. Per secoli, Ebrei e Cristiani, convinti dell’impossibilità che la tradizione rabbinica avesse tralasciato di lasciare qualche testimonianza su Gesù, hanno estrapolato dagli scritti uno svariato numero di passi, e li hanno collegati al Cristianesimo nascente, sempre senza tenere sufficiente conto del contesto e della tradizione testuale.
Il risultato di questa attività è la pubblicazione di numerose raccolte di detti rabbinici su Gesù e il Cristianesimo1.
Che alcuni passi del Talmud e della Misnah, così come ci sono pervenuti, contengano passi ostili a Cristo e alla sua Chiesa, è indubbio; ma il problema sta nello stabilire il momento in cui tali passi furono introdotti nel testo, o furono modificati in senso anticristiano. In realtà, le prime testimonianze manoscritte complete risalgono all’alto medioevo, ed i frammenti o le citazioni più antiche ci mostrano una tradizione testuale molteplice, ampiamente uniformata in epoca altomedievale e ancor di più con l’avvento della stampa.
Un diverso approccio ai testi è stato inaugurato dagli studi di Johann Maier2; egli ha preso in esame tutti quei passi in cui tradizionalmente si sono viste allusioni cristiane, dimostrando come pochissimi di quei passi reggano ad un’indagine critica. “Per il giudaismo il cristianesimo fu in un primo tempo un fenomeno marginale tra altri; più tardi, il cristianesimo innalzato a religione di stato fu a tal punto visto come la prosecuzione di «Roma», che elementi specificamente cristiani non vennero nemmeno percepiti in quanto tali. Le affermazioni anticristiane contenute nei testi rabbinici riposano su interpolazioni e rielaborazioni posteriori, e sono quindi da considerarsi come fonti per la conoscenza dei rapporti tra giudaismo e cristianesimo non nell’antichità bensì nel primo medioevo”3.
Quindi, resta accertata la presenza di passi anticristiani nella letteratura rabbinica; ma è dubbio il momento storico in cui furono inseriti. A buon diritto, quindi, ho scelto si inserirne alcuni in appendice, in quanto la loro origine antica, e quindi il loro valore storico di testimonianze dei primi secoli dell’era cristiana, sono stati messi in dubbio dai succitati studi.
Il Talmud babilonese ci riporta questo racconto (tra parentesi quadre le parole contenute solo in alcuni manoscritti):
“Viene tramandato: [al venerdì] alla sera della Parasceve si appese Ješu [ha-nôserî = il cristiano]. Un araldo per quaranta giorni uscì davanti a lui: «Egli [Ješu ha-nôserî] esce per essere lapidato, perché ha praticato la magia e ha sobillato e deviato Israele. Chiunque conosca qualcosa a sua discolpa, venga e l’arrechi per lui». Ma non trovarono per lui alcuna discolpa, e lo appesero [al venerdì] alla sera della Parasceve.
Disse Ulla: «Credi tu che egli [Ješu ha-nôserî] sia stato uno per il quale si sarebbe potuto attendere una discolpa? Egli fu invece un istigatore all’idolatria, e il Misericordioso ha detto «Tu non devi avere misericordia e coprire la sua colpa!». Con Ješu fu diverso, perché egli stava vicino al regno” (Sanhedrin B, 43b)4.
La spiegazione tradizionale è la seguente5: il passo si riferisce a Gesù, del quale viene anche ricordato con precisione il giorno di esecuzione. L’accenno all’araldo che per quaranta giorni rimanda l’esecuzione di Gesù, è una risposta dell’apologetica ebraica al racconto cristiano della passione, che ci descrive invece un processo frettoloso e privo di testimoni. Il verbo “appendere” al posto di “crocifiggere” non è un problema, perché riscontrabile anche nel Nuovo Testamento (At. 10,39; Gal. 3,13) e in Giuseppe Flavio. La divergenza tra la dichiarazione “esce per essere lapidato” e la successiva morte di croce, è forse un modo per far concordare la verità della crocifissione con l’idea di un processo interamente ebraico.
L’analisi opposta, invece, preferisce riferire il passo ad un’altra persona, che solo casualmente fu prima lapidata e poi appesa alla Parasceve; egli aveva cinque discepoli (di cui si parla più avanti), tutti lapidati come lui; la frase “con Ješu fu diverso, perché egli stava vicino al regno” significa che quest’uomo era un collaborazionista romano6.
Un’altra frase del rabbi Abbahu (Palestina, III-IV sec.) è stata vista come una condanna di Cristo:
“Se qualcuno ti dice: «Io sono Dio», egli è un mentitore; «Io sono il figlio dell’uomo», alla fine dovrà pentirsene; «Io ascenderò al cielo», egli ha detto questo, ma non lo compirà” (Ta‘anit J, 2,1)7.
La frase si adatta bene a Gesù ma anche ad altri uomini che secondo la testimonianza di Celso in Fenicia e Palestina si attribuivano tali qualità divine (Origene, Contra Celsum VII,9). Invece, secondo altri, si tratta della descrizione stereotipata di un dominatore arrogante8.
Un altro passo in cui compare il nome di Gesù, è conservato nel Talmud babilonese (‘Aboda Zara 16b); ne abbiamo però altre due recensioni abbastanza differenti (Tosefta Hullin 2,24 e Midrash Qohelet Rabba 1,1.8). Si tratta di un racconto di rabbi Eli‘ezer ben Hyrkanos (I-II sec.).
Tosefta Hullin
“Mentre una volta passeggiavo lungo la strada di Sepphoris, trovai Giacomo, un uomo di Kfar Siknin, e mi disse una parola di eresia in nome di Ješûa‘ ben Pntjrj:
Midrash Qohelet Rabba
“Io, una volta, andavo lungo la strada di Sepphoris. Mi venne incontro un uomo e Giacomo da Kfar Siknaja era il suo nome. Egli mi disse una parola in nome di Ješû ben Pndr’e questa parola mi ha fatto piacere:
‘Aboda Zara
“Io, una volta, passeggiavo sulla strada superiore di Sepphoris, e trovai un uomo dei discepoli di Ješu ha-nôserî e Giacomo da Kfar Siknaja era il suo nome. Egli mi disse:
[Continuando con la sola recensione babilonese:]
«Sta scritto nella vostra Torà: Tu non devi portare il prezzo del meretricio e del cane nella casa del Signore Dio tuo [Deut. 23,19]. Si può dunque fare una latrina per il sommo sacerdote?»
Ma io gli risposi di no.
Egli mi disse: «Così mi ha insegnato Ješu ha-nôserî: Dal prezzo del meretricio è raccolto, al prezzo del meretricio deve tornare [Mic. 1,17]. Dal luogo della sporcizia sono venuti, al luogo della sporcizia devono tornare».
E la cosa mi piacque, e per questo sono stato arrestato, per eresia”9.
Per chi vi vede un passo cristiano, siamo di fronte ad un detto di Gesù riportato da una fonte rabbinica, che richiama la sua lotta all’osservanza pedissequa e letterale della legge giudaica. E la condanna del rabbi Eli‘ezer, è una condanna del pensiero cristiano. La questione dell’uso del denaro ottenuto col peccato che non può essere impiegato nel Tempio (qui chiamato “casa del Signore”) richiama alla mente la questione dei trenta denari di Giuda (Mt. 27,6-7).
Si è pensato che questo passo si riferisca certo a Gesù, ma che il suo logion sia stato inventato dai Giudei per screditarlo10; per altri, invece, il passo originariamente non aveva nulla a che fare con Gesù, ma la confusione sarebbe frutto di una maldestra interpolazione medievale. La mescolanza tra Ješûa‘ ben Pntjrj (Pantera?), Ješû ben Pndr’ (Pandera?) e Ješu ha-nôserî (il cristiano), lo studio del contesto e della trasmissione del testo, rivelerebbero un improprio accostamento a Gesù11.
Esistono numerose citazioni rabbiniche di un certo Ješûa‘ ben Pandera o Panteri/Pantera‘; il fatto che fonti non ebraiche (Celso) parlassero di un certo Gesù figlio di Panther fa pensare alla stessa persona (corruzione del greco parthénos, vergine, o nome di soldato romano?). Secondo Maier, però, tale interpretazione è errata. Ben Pandera era un mago ricordato nella tradizione palestinese, come anche Ben Stada: queste figure vennero poi confuse con Gesù, poi chiamato ha-nôserî, e i passi attribuiti erroneamente a lui. Ma in realtà, questo avvenne molto più tardi12.
Di notevole importanza un testo dello Šemônê ‘esre (le Diciotto benedizioni), che apriva la celebrazione sinagogale. Non ci è pervenuto un testo originario, ma diverse redazioni, una delle quali (quella di un frammento della Genizah del Cairo) ci conserva esplicita menzione dei cristiani (o “nazareni”) all’interno della dodicesima benedizione:
“Che per gli apostati non vi sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il dominio dell’usurpazione, e periscano in un istante i Nazarei (nôserîm) e gli eretici (minim): siano cancellati dal libro della vita e non siano iscritti con i giusti. Benedetto sei tu, Signore, che schiacci gli arroganti”13.
Che i Giudei maledicessero i Cristiani nella preghiera, è testimoniato anche da Giustino, Girolamo ed Epifanio; Giustino, in particolare, rinfaccia ai Giudei di maledire nelle sinagoghe coloro che si son fatti cristiani14. Ma non tutte le redazioni li nominano chiaramente, poiché altre a noi pervenute sono rivolte genericamente ai minim (eretici), senza altre determinazioni. Certo è che nel termine minim si possono comprendere anche i Cristiani, ma non solo. Non è detto poi che esistesse una sola redazione della preghiera, uguale per tutti; secondo la tradizione è la sua formulazione è originaria di Jamnia, tra gli anni 85 e 100 del I secolo, sotto rabbi Gamaliele II, ma facilmente si tratta di un testo già presente anteriormente, sotto diversa forma. Il testo di questa preghiera non sarà comunque mai fisso, fino ai nostri giorni.
Le fonti cristiane sembrano riferirsi ad una maledizione esplicita contro i Cristiani; d’altra parte, la ricostruzione delle varie redazioni del testo è alquanto difficile, e secondo diversi studiosi la menzione dei Nazarei non è originaria, bensì aggiunta successivamente. In conclusione, se è chiaro un intento di maledizione dei Cristiani nella preghiera giudaica, non è chiaro quando e dove in essa fu inserito esplicitamente tale nome15.
NOTE AL TESTO
1 Ad esempio: R. M. MEELFÜHRER, Jesus in Talmude, Altdorf, 1681; H. LAIBLE, Jesus Christus im Thalmud, Leipzig, 1891; R. T. HERFORD, Christianity in Talmud und Midrash, London, 1903, e molti altri.
2 In italiano la buona raccolta di Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia, 1994.
3 J. MAIER, Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Brescia, 1994, dalla presentazione in copertina.
4 In J. MAIER, op. cit, p. 204.
5 Ad esempio in R. PENNA, L’ambiente storico culturale delle origini cristiane, Bologna, 1984, pp. 244-245.
6 Cfr. J . MAIER, op. cit., pp. 202-214.
7 In J . MAIER, op. cit., p. 96.
8 Cfr. J . MAIER, op. cit., p. 96; R. PENNA, op. cit., pp. 245-246.
9 In J . MAIER, op. cit., pp. 147-149.
10 Cfr. J. JEREMIAS, Gli agrapha di Gesù, Brescia, 1965, pp. 47-49.
11 Cfr. J . MAIER, op. cit., pp. 143-169.
12 Cfr. J . MAIER, op. cit., pp. 232-243.
13 In J . MAIER, op. cit., p. 63, con altri passi paralleli; R. PENNA, op. cit., p. 248. Una trattazione di questa preghiera in E. SCHÜRER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, vol. II, Brescia, 1987, pp. 547-554, ove si trova una traduzione delle due recensioni babilonese e palestinese, ed una bibliografia esaustiva.
14 Cfr. W. HORBURY, The Benediction of the Minim and Early Jewish-Christian Controversy, in «Journal of Theological Studies» XXXIII (1982), pp. 19-61.
15 Cfr. Cfr. J . MAIER, op. cit., pp. 55-64; R. PENNA, op. cit., pp. 248-249. Sulla questione si veda ora L. VANA, La birkat ha-minim è una preghiera contro i giudeocristiani?, in G. FILORAMO - C. GIANOTTO (a cura di), Verus Israel, Brescia, 2001, pp. 147-189. In breve, S. MIMOUNI, Les Chrétiens d'origine juive dans l'antiquité, Paris, 2004, pp. 71-92
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