da http://www.ateismodigiannigrana.it/p...ipelagiani.htm
L’aspra controversia con l’asceta Pelagio e i “pelagiani”: il conflitto insanabile
fra “libero arbitrio” e “grazia di dio”
Su Pelagio e i suoi seguaci si fa riferimento in Italia alla già citata monografia del cattolico S.Prete, Pelagio e il pelagianesimo edito con imprimatur dalla cattolica Morcelliana nel 1961, che ha in questo il suo limite avvertibile con fastidio crescente, da Pelagio a Giuliano. Mi riferisco a ciò che più m’interessa, l’esposizione dottrinale, desunta perlopiù al solito modo, dai frammenti dei confutatori, suttutti Agostino. La dottrina è vista da Prete più o meno positivamente (pp.32ss., 64ss.), finché si tratta del promotore ascetico Pelagio, esempio certo di “virtù cristiane”, e della sua dottrina essenzialmente morale perché così concepiva il cristianesimo, secondo suoi ideali ascetici, come un imponente monastero cattolico, dove si praticano strenuamente le cosiddette virtutes christianae. E’ fra l’altro riportata largamente l’ammi-rata “Lettera a Demetriade”, in cui campeggia l’affermazione della libertà di scelta del bene o del male, quindi la volontà di peccare, o di astenersene e di praticare la virtù, che è privilegio dell’uomo razionale, e senza cui non vi sarebbe merito né quindi moralità: sicché può dirsi che l’esistenza o possibilità del male è necessaria all’impegno di conseguire il bene.
Da monaco libero, Pelagio valorizzava così le autonome energie individuali e le capacità interiori dell’uomo, con espressioni seducenti come: “tutto questo è in tuo po-tere e appartiene proprio a te, poiché non è che ti possa venire dal di fuori, ma germina e sorge nel tuo cuore” (cit. p.34). Che contrastava con la dottrina ortodossa di Agostino, con la sua concezione ecclesiastica di origine paolina, ma non per questo meno barbara del peccato, che marchia all’origine la natura malefica dell’uomo dominato dalla terribile concupiscenza, della irrinunziabile “grazia” predestinata dal Dio benefattore ecc. Proprio su questo terreno della colpa che, secondo la dottrina agostiniana, “era come l’ombra stessa della natura umana decaduta, ineliminabile al di fuori della economia della grazia, Pelagio sentiva di non potere rinunciare ad una ragionevole concezione morale umana, che riconoscesse all’uomo il potere di respingere la colpa. Diversamente che assurdo era il peccato!” (p.37). Anche Pelagio predicava con la rinunzia alla ricchezza la “bellezza” della castità, ma senza alcuna ossessione psicotica, quasi illuso di poterla pretendere o convincerne tutti i cristiani, come fosse normale seppure essenziale virtù cristiana. Per il resto, Pelagio era un “autentico cristiano”, un fedele di Cristo osservante i dogmi trinitari e sacramentali, semmai oltremodo più esigente e rigoroso, nella sua scelta ascetica libera.
Altre preclusioni cattoliche si riscontrano nel libro di Prete, quando affronta una personalità benpiù energica e audace come il vescovo irpino di Eclano, a cominciare dalla rimozione del nome nel titolo di un capitolo che gli è interamente dedicato, e sostituito da un assai generico e mentito “pelagianesimo”. I pelagiani – anche Celestio – ragionevolmente si opponevano alla risibile dottrina cattolica, per cui il battesimo rimetterebbe i peccati anche dei neonati, secondo il concetto palesemente assurdo della colpa ereditaria, trasmessa prima ancora che il bimbo abbia possibilità di peccare. Insomma, su tutta la linea delle aberrazioni teologiche agostiniane, Pelagio e con più chiarezza e determinazione Giuliano erano razionalmente su posizioni umanistiche progressive, che i molti anni spesi dal vescovo africano a confutarle non valse minimamente a scalfire, e perciò meritarono persecuzioni e condanne. Un esempio fra tanti: i pelagiani, stando al gioco, separavano la “salvezza eterna”, riservata ai bambini non battezzati e ai giusti e saggi antichi, e il glorioso “regno dei cieli” dovuto ai battezzati, praticanti virtù eroiche. Distinzione ridicola solo in quanto assume come vera la “storia della salvezza” (salvare da che e perché?), ma serissima nel tentativo di non condannare, di “salvare” degli incolpevoli dalla pazzesca condanna agostiniana dei non battezzati alla “pena eterna”: il che fra l’altro sottintenderebbe che il “regno dei cieli” sarebbe nelle mani del prete battezzante!
Ebbene, la ragionevole dottrina pelagiana fu condannata con anatema nel concilio di Cartagine del 418: “il canone dell’anatema fu ovviamente preparato, caldeggiato e forse formulato da S.Agostino, di cui riflette e sancisce la dottrina” (p.146). Così i più autorevoli vescovi cristiani garantivano al mondo il loro possesso legittimo delle “verità” divine da loro medesimi fabbricate! Si aggiunga la dottrina della predestinazione attinta ugualmente da Paolo – quanto conformismo scritturale pure nell’arci-dotto Agostino –, cioè la “grazia” totalmente gratuita della salvezza e del regno dei cieli, che il suo iniquo Dio giudaico-cristiano largirebbe solo a popoli e anime eletti, condannando invece tutto il resto dell’umanità: follia che non essendo spiegabile viene acclamata come “mistero”. Ovviamente Pelagio e i pelagiani vi si opposero, riducendo la predestinazione a mera prescienza divina, giacché quella idea urtava con l’etica volontaristica che vede impegnato moralmente l’uomo contro il male: “non era Dio che determinava in precedenza i buoni e i malvagi, e la salvezza o il castigo, ma il cristiano che decideva in un senso o nell’altro e doveva conquistarsi il premio o il castigo”, secondo la parafrasi di Prete (p.149).
Al solito Pelagio e Giuliano erano preoccupati di valorizzare l’uomo e le sue capacità morali, mentre Agostino fanaticamente non esitava a sopprimerle, con ogni mezzo e strumento di potere, a reprimerle con anatemi terroristici. Harnack nel vol.V del suo Manuale di storia del dogma, dedicato in molta parte a Agostino, liquidava il “sistema” pelagiano identificato in quello di Giuliano, come “passabil-mente indifferente” nella storia del dogma (p.125). Infatti non vi lasciò alcuna traccia, come tutte le dottrine ragionevoli, colpite come eretiche, distrutti i testi, dispersi gli stessi protagonisti, nella benefica azione distruttiva della chiesa cattolica.
Non deve sfuggire che il vol.XVII/2 delle Opere di Agostino, tradotte con testo a fronte nell’edizione colossale in 34 volumi della Città Nuova, sotto il titolo Natura e grazia condiviso col precedente vol.XVII/1, raccoglie pure Gli atti di Pelagio, La grazia di Cristo e il peccato originale e L’anima e la sua origine. In appendice sono stati cioè aggiunti dalla magnanimità dei curatori “Frammenti riuniti di opere pelagiane”, tratti appunto dalle tre opere agostiniane, dove colpisce sùbito l’enorme sproporzione testuale fra tali opere e quei frammenti di riporto, tendenziosi e censori. Frammenti che dovrebbero rappresentare concettualmente opere rilevanti di contrasto come La natura di Pelagio e le Definizioni di Celestio. Ora i frammenti di Pelagio sommano 9 grandi pagine in c.10, che possono tradursi in 18-20 pp. in c.11; quelli di Celestio 4/8 pp.! Seguono gli “Atti ecclesiastici del sinodo palestinese”, tratti dal De gestis Pelagii di Agostino, e altre 4/8 pp. A Pietro di Vincenzo Vittore pelagiano: totale 17/35, contro le 208 grandi pagine agostiniane. Questa nell’eserci-zio inquisitorio e confutatorio di Agostino vescovo era all’origine la giusta proporzione spaziale fra il dire del difensore dell’ortodossia ecclesiastica e quella inibita dei suoi diabolici contraddittori degni di anatemi.
Se poi si leggono gli Atti agostiniani, si assiste a uno scenario inquisitorio impressionante, in cui la parola auto-difensiva di Pelagio si fa luce penosamente, sottoposta prima al giudizio sinodale di cui Agostino ha appunto gli Atti, e poi al supergiudizio di Agostino, che analizza, ritorce, viviseziona. La situazione che precede vede infatti Pelagio, già condannato a Cartagine, e poi dichiarato “cattolico” in Palestina: su questo interviene Agostino eresiologo, il quale sostiene che se Pelagio in Palestina è stato assolto, il pelagianesimo vi è stato condannato da Pelagio stesso (pressato e intimidito), con un suo anatema sollecitato (cioè estorto)dal sinodo, e per Agostino pronunciato insinceramente. Tutto ciò potrebbe essere detto e discusso fra eguali, ma lui santo Agostino è l’autorità ecclesiastica garante dell’ortodossia dogmatica, e la sua parola ha valore superiore e intonazione autoritaria.
Già nel sinodo, a opera di personaggi squalificati come i citati vescovi galli in esilio Eros e Lazzaro, che sostenevano l’accusa (“i nostri santi fratelli”, per l’unguento di Agostino), si ponevano a Pelagio accuse come quelle di avere scritto in un suo libro frasi altamente esplosive. Riferisce così Agostino una frase incriminata e l’interroga-torio relativo: “‘Non può esser senza peccato se non chi ha la conoscenza della legge’. Dopo la lettura di essa il Sinodo chiese: ‘Hai scritto così, Pelagio?’. Ed egli rispose: ‘L’ho scritto senza dubbio, ma non nel senso inteso da costoro. Di chi ha la conoscenza della legge non ho detto che non può peccare, ma che dalla stessa conoscenza della legge viene aiutato a non peccare, come è scritto: Egli ha dato la legge in loro aiuto. A questa risposta il Sinodo disse: ‘Non sono contrarie alla Chiesa le affermazioni di Pelagio’”. E qui Agostino commenta come se fosse presente: “Cer-tamente non sono contrarie le risposte date da lui, ma altro è il senso di quello che fu allegato dal suo libro. I vescovi però, che erano persone di lingua greca e ascol-tavano le parole di Pelagio attraverso un interprete, non si curarono d’esaminare tale differenza, guardando solamente a quello che l’interrogato diceva di avere ritenuto e non con quali parole si diceva essere stata scritta la medesima sentenza nel suo libro” (1,3, p.25). Ora il quadretto è già uno scorcio eloquente del sinodo tribunalizio, sia pure disposto all’equità, contestata invece dal vescovo censore, ma è solo la premessa della requisitoria correttiva di Agostino, che non poteva in alcun modo consentire un equivoco così radicale, fra due asserti, l’uno certificato da un testo scritto, l’altro estorto in un interrogatorio.
La già spaventosa concezione ecclesiastica, per cui sono asseribili da ogni cristiano solo “verità” assolute, formulate dall’autorità della chiesa docente e onnisciente, legittimava l’intervento censorio del “santo”, su ogni altra formulazione teologica che se ne discostasse: punita con anatemi, esìli ecc. Il monaco libero Pelagio non poteva asserire, senza empietà e senza condanna, per sua convinzione autonoma discutibile o meno, che solo chi ha la conoscenza della legge è senza peccato, perché la chiesa cattolica della cui gerarchia non fa parte lo vieta e lo impedisce con ogni mezzo. Agostino continua a sceneggiare il sinodo, o comunque a trascriverne gli Atti: “ Il Sinodo episcopale continuò dicendo: ‘Si legga un’altra imputazione’. E si lesse che Pelagio aveva scritto nel suo medesimo libro: ‘Tutti sono governati dalla propria volontà’. Terminata la lettura, Pelagio rispose: ‘Questo l’ho detto per il libero arbitrio, al quale Dio presta il suo aiuto nello scegliere il bene. Quando invece l’uomo pecca, sua è la colpa, dotato com’è di libero arbitrio’. Ciò udito, i vescovi dissero: ‘Nemmeno questo è contrario alla dottrina della Chiesa’. Chi infatti condannerebbe o negherebbe il libero arbitrio, se insieme ad esso si sostiene l’aiuto di Dio?” (3,5, pp.29-31).
Ma più intollerabile era per Agostino la scandalosa affermazione, nel suo libro, che “tutti sono governati dalla propria volontà”, vogliamo scherzare? vogliamo esautorare Dio e cioè la chiesa che lo rappresenta? Agostino non diceva che una libertà e capacità di volere così estesa può minacciare nongià l’onnipotenza di Dio, che mai potrebbe esserne scalfita, ma solo la sovranità totalitaria della chiesa cattolica, la sua sacra autorità che sempre si esalta nella celebrazione teocratica. Questa verità era invece mascherata da Agostino nella grande sollecitudine pastorale dell’episcopato monarchico, predestinato alla grazia del comando: “Se gli uomini fossero governati dalla propria volontà senza Dio [la chiesa], rimarrebbero come pecore prive di pastore: e ciò non sia mai vero per noi” (ivi), non sia mai! E’ proprio la concezione pecorile, gregario e quindi pastorale e gerarchica, che la “rivoluzione cristiana” ha realizzato nella chiesa cattolica, e con la conquista del potere politico ha sovra-imposto nell’Occidente alle conquiste morali e civili della libera cultura antica.
Disputando con teologi di questioni assurde, prive di alcuna riferibilità concreta e possibilità di verificarla, Pelagio sentiva di scrivere che “nel giorno del giudizio non ci dovrà essere perdono per gli iniqui e i peccatori, ma dovranno essere bruciati dai fuochi eterni”. Lui stesso poi aveva aggiunto una postilla: “Se qualcuno crede diversamente è origenista” (3,9-10, pp.35-37). Sapeva dunque di evocare un’altra tremenda eresia, quella del grande Origene, secondo cui anche i diavoli e i dannati, dopo un periodo di supplizi, si salveranno unendosi ai santi: un’opinione fra le altre là dove tutto è opinabile e arbitrario. Ma no, la chiesa – cioè Agostino e altri “teologi” come lui, prima di lui – rigettava tale orrenda ipotesi, in forza della clemente umanissima sentenza evangelica, che danna i peccatori alle pene eterne, e senza sconti possibili. Là dove ogni asserto è gratuito, contestabile con altri asserti gratuiti, col sostegno di “scritture sante”, di invenzioni non meno arbitrarie, non è permesso dall’autorità – e bisogna giustificarsene - scrivere frasi generiche come quelle qui censurate: “Il male non viene nemmeno nel pensiero” (4,12); “Il regno dei cieli è stato promesso pure nell’A.T.” (5,13).
Siccome la dottrina pelagiana, esaltando la capacità volitiva dell’uomo, sosteneva che “l’uomo se vuole può essere senza peccato” (6,16), nel sinodo vescovile Pelagio veniva chiamato a precisare e distinguere, a sostenere che la volontà umana può solo “con l’aiuto e la grazia di Dio”, fino a indurlo a negare di avere scritto frasi che si leggono nei suoi libri, e perfino a ri-anatemizzare lui stesso questi “errori”, pure con la precisazione “come stolti e non come eretici, perché non è un dogma”. Una scenetta autodifensiva confusionale, di coazione diminutiva della dignità umana, ma su cui Agostino vorrebbe inquisire ulteriormente, portare documenti e testimoni ecc. (6,17), a vergogna maggiore del malcapitato, sospetto di menzogna elusiva, da dimostrare ricercando e quasi frugando tra le righe dei suoi scritti. Quanta “grazia di Dio” si prodiga all’uomo: la grazia naturale originaria della volontà, del libero arbitrio, come diceva Pelagio, o la “grazia attuale” necessaria aldilà dei meriti, di cui ogni gesto dell’uomo sarebbe tributario, quasi fosse impotente se non dipende dall’arbitrio delle “grazie” non richieste di questo Dio-prelato dalla prodigalità ossessiva, solo per sua “necessità” e brama di controllo e possesso sacramentale del-l’uomo.
Infatti quanta più grazia si pretende che piova sull’uomo, tanto più ne è diminuita la sua autonomia del volere: Agostino segugio del suo Dio temeva perfino “qualche tranello” di Pelagio (10,22). Temeva finanche quello che Pelagio potrebbe svelare ai discepoli sul suo vero pensiero: “Non lo voglio accusare d’aver mentito adesso, perché non venga fuori a dire di aver dimenticato quello che aveva scritto nel libro” (10,22, p.57). Siamo a livelli eccelsi di “grazia di Dio” e di rispetto dell’uomo, che giustificano la convinzione di Deschner, il quale vede in Agostino il prototipo dei persecutori medievali degli eretici (La fede falsificata cit., p.27). Agostino dunque sosteneva che Pelagio in quel sinodo si salvò dalla condanna perché rigettò, anatemizzandole, le ancora più esplicite tesi pelagiane di Celestio, già condannato a Cartagine, formulazioni criminali, “errori perniciosissimi di grave eresia” come i seguenti: “Adamo fu creato mortale (…) Egli sarebbe morto, sia che peccasse, sia che non peccasse. Il peccato di Adamo danneggiò lui soltanto e non il genere umano. La Legge conduce al regno nella stessa maniera del Vangelo. I neonati si trovano nel medesimo stato in cui era Adamo prima della sua prevaricazione. Né per la morte, né per la prevaricazione di Adamo muore tutto il genere umano; né per la resurre- zione del Cristo risorge tutto il genere umano. I bambini, anche se non sono battezzati, hanno la vita eterna”. E Agostino precisa: “tutti questi errori risultano condannati da quel tribunale ecclesiastico per l’anatema di Pelagio e per gli interventi verbali dei vescovi” (11,24, p.61).
Tali erano le questioni ardue, le “asserzioni litigiosissime”, che “oramai avevano portato la febbre dappertutto”, al dire del grande vescovo (11,25), che scambiava le assise vescovili per l’universo, conturbando l’intera cristianità nella “grande chiesa” del Cristo, sempre più graziata dal suo Dio, di poteri mondani non di luce razionale: e come lo potrebbe un Dio concepito solo d’irragione utile al dominio sull’uomo? Erano queste le grandi crociate per la fede combattute da Agostino che qui, avendo distrutto la buonafede e veracità dell’accusato, oltre a chiederne una nuova condanna, alla fine sparge accuse infamanti, basate su dicerie (“si racconta”), di gravi crimini attribuiti a “non so quale crocchio di uomini sfrenati, che si fanno passare per i partigiani di Pelagio e lo spalleggiano in maniera assai perversa” (35,66, p.121). Si parla di incendi e vittime in Palestina, assai opportuni per i cacciatori di eresie, che dall’indeterminato “crocchio” di violenti ricadono tutti sull’asceta Pelagio: “Certamente gli empi dogmi di uomini di tal sorta devono essere riprovati da tutti i cattolici, anche se stanno molto lontani da quelle terre, perché non possano nuocere dove possono arrivare” (ivi).
Lo stesso Agostino seguiterà a iterare i suoi assalti a Pelagio nell’opera La grazia di Cristo e il peccato originale, giacché Pelagio non ha più scampo: condannato, poi assolto dai vescovi con assoluzione che Agostino destituiva di valore, ora subiva pressioni perché formuli una condanna scritta di “tutti gli errori di cui è accusato”, quanto dire rinnegare tutta la propria dottrina. Agostino qui esamina capillarmente l’intera opera di Pelagio, denunciandone l’ambiguità, per il senso diverso in cui si valeva dei medesimi termini (grazia, peccato ecc.), non coincidente cioè con quelli di Agostino, mostrando di credere ancora, ovviamente, a ciò che sembrava avere condannato a parole (3,3): si può infatti coartare più la parola che il libero pensiero. Dopo le vicende sinodali, Pelagio scriveva un’opera In difesa del libero arbitrio, che a quanto pare eminentemente giustificativa, e dove s’illudeva che gli altri “ricono-sceranno quanto ingiustamente si siano adoperati ad infamarci di negare la grazia, mentre in quasi tutto il testo di quest’opera confessiamo perfettamente e integralmente tanto il libero arbitrio, quanto la grazia” (cit. 41,45, p.191).
In realtà questa stessa affermazione è contraddittoria. o compromissoria, e Agostino implacabile faceva rilevare come Pelagio non si scosti nemmeno qui dalla sua ambiguità verbale indotta dai persecutori. E nel libro II metteva a confronto gli asserti di Celestio, mostrando come il discepolo sostenesse apertamente senza timore quello che Pelagio nascondeva (II 6,6). E il feroce Agostino, in stile persecutorio, lo ritraeva “trasportato, quasi fosse impazzito, da tanta presunzione verso il precipizio” (II 6,7, p.211), chiedendo l’estensione della condanna a Pelagio, uomo ingannevole. Quasi a titolo esemplare, alla fine di questo libro su La grazia di Cristo e il peccato originale, Agostino torna lodare le sante nozze baciate dalla grazia, di cui fissa tre “elementi” essenziali per renderle godibili ai cristiani: “l’intenzione di generare, la casta fedeltà, il carattere sacramentale del connubio” (II 34,39), tutto per la santa coazione ecclesiastica. Per cui Agostino reprimeva la sconcia spontaneità dell’eros nel matrimonio, ponendogli come fine esclusivo la procreazione, la castità fuori di essa, e l’adempimento degli atti come gesti rituali di chiesa, nel connubio sacramentale: così la libidine governata è costretta unicamente al “bene” della moltiplicazione seminale, puramente animale, in gloria del Dio Cristo! E questa sarebbe per Agostino “la dignità del matrimonio”, secondo il sacramento cristiano!
Si pone conclusivamente il problema: questa dottrina della “grazia” permanente, in certo senso della permanente autorizzazione di Dio (della chiesa) a volere o non volere, fare o non fare, che Agostino opponeva a Pelagio giudizialmente, quasi fosse l’unica “verità” (soprannaturale) affermabile, era la “dottrina della chiesa” sancita da concili e diventata “legge”, o solo la dottrina elaborata e imposta dall’autorevole vescovo Agostino? La risposta è la più facile, perché prima di Pelagio e Agostino non esisteva una dottrina della grazia, su cui vi era libertà di opinione, nel senso che il tema era indiscusso. Dunque fu lui solo Agostino a comporre, sulla scìa di Paolo ispiratore, una dottrina della grazia e della predestinazione, sostenuta col suo personale accanito opporsi a Pelagio e ai pelagiani, che occupò gli ultimi decenni della sua vita. Agostino difese e in parte andò elaborando una propria dottrina, non difese una esistente “dottrina ufficiale” della chiesa, ma con protervia e violenza ecclesiastica la espresse con anatemi per molti anni e pretese, esìli ecc., inflitti al dissenziente Pelagio, monaco libero non prete gerarchizzato, nemmeno conscio della natura “eretica” delle proprie convinzioni.
Dunque Agostino, vescovo autoritario e implacabile censore, impose il proprio esclusivo punto di vista dottrinale, come “verità” assoluta della sua chiesa. La dottrina della grazia come auxilium Dei è una dottrina centrale del-l’agostinismo, cioè non solo del pensiero agostiniano, ma della sua tradizione, accolta e integrata dalla scolastica, e restituita all’origine dalla Riforma luterana. Chi conferiva al vescovo africano nel IV secolo tale e tanta autorità ecclesiastica, da consentirgli di imporsi come parametro e àrbitro di giudizio senza appello del pensiero altrui?
SCONTRO INFINITO COL VESCOVO GIULIANO ARDENTE OPPOSITORE:
Gli storici cattolici citati, generalmente patiti di Agostino fino all’apologesi, liquidano gli argomenti sostanziosi di Giuliano vescovo di Eclano, il più intelligente e vigoroso antagonista pelagiano, e la stessa energia polemica che li impronta, per ridurre i suoi interventi a incomposta virulenza, con ritorsione elusiva tipica. Altra valorizzazione Giuliano ha invece nell’Agostino di Brown, che gli dedica un capitolo esclusivo, qualificandolo sùbito come “il critico più devastatore di Agostino”, e auspicandone “una più penetrante interpretazione” (op.cit., p.401 n.1). Infatti la meridionale veemenza polemica di Giuliano, la sua totale irreverenza per il vecchio vescovo africano, “punico” come diceva lui, finanche ingiuriato come “difensore degli asini”, nel quale non a torto scorgeva l’odioso nemico soperchiatore, da combattere con ogni risorsa retorica, non può nasconderne le serissime ragioni, esplicitate e in certa misura estremizzate, con più vigore di ogni altro pelagiano. Come quando lo accusa di manicheismo per la sua ossessione del male, per il suo “‘urlare rabbiosamente’ la dottrina del peccato originale in tutte le sue fantastiche e ripugnanti ramificazioni” (p.389).
Agostino non fu da meno e semmai, nel suo concedere reiteratamente la penna per confutare e combattere un degno avversario, sorprende che il dotto e vecchio vescovo rovesci sul giovane avversario l’accusa di intellettualismo colto, suscitandogli o-stilità degli strati medio-popolari, non senza demagogici appelli emotivi, per es. per la pratica popolare del battesimo infantile. E’ la risorsa facile dei “pastori” ecclesiastici, che comunque affermano concretamente i loro insani princìpi dogmatici, nella diffusione prima imposta e poi abitudinaria, e subìta passivamente, delle pratiche rituali. Ecco una motivata ragionevole movenza confutatoria di Giuliano (Opus imperfectum, III, 67ss.):
“Mi chiedete perché io non consenta all’idea che c’è un peccato inerente alla natura umana? Io rispondo: è improbabile, è falso; è ingiusto ed empio; fa apparire che è il diavolo quasi il creatore dell’uomo. Ciò viola e distrugge la libertà della volontà… col dire che gli uomini sono tanto incapaci di virtù, che nello stesso utero materno sono colmati di peccati trascorsi. Voi attribuite una tale efficacia a questo peccato, che non soltanto esso riesce a cancellare l’innocenza appena generata della natura, ma sarà un permanente incitamento, che indurrà l’individuo per tutta la vita a compiere ogni sorta di vizi (…) E ciò che è disgustoso non meno che blasfemo, questa teoria si appiglia, come alla sua prova più concludente, al diffuso sentimento di pudore che fa sì che noi copriamo i nostri genitali”
Pietosi gli argomenti irrealistici di Agostino erotico sessuòfobo, che punta dritto ai genitali di Adamo e Eva, e sulla emblematica foglia di fico, col suo arcaico e cristiano indice accusatorio: eccolo là il peccato originale, l’urgere del sesso (la “concupi-scenza”!) come fonte di ogni male, come “tortura” confessa, “punizione” e dannazione perpetua! Il vecchio vescovo retrivo vedeva in questo nemico la “grande forza” naturale, che più rivelava la fisica corrotta, la meccanica corruttiva della natura umana originariamente peccaminosa, che conturba e insidia anche la “castità” del matrimonio cristiano.
Benaltro il punto di vista positivo, umanistico di Giuliano, che nel sesso vedeva un “bene naturale”, esaltando la “legittima unione dei corpi” (lo si deve desumere al solito dal Contra Julianum di Agostino, in Opere vol.XVIII, Città Nuova 1985). “Giuliano rappresenta un vertice della civiltà romana” – scrive Brown –, cioè di quella avanzata cultura classica umanistica svilita dai teisti uni-trini cristiani come “pagana”, essendo tuttavia un vescovo cristiano poi esautorato: “quanto egli difendeva in Dio era la razionalità e la forza universale della legge” (p.397), della superiore giustizia che Dio esercita sugli uomini. Che non impedisce però il male, la sconfinata sofferenza dell’uomo: è la contestazione ossessiva di Agostino negli ultimi suoi anni. Oltretutto Agostino credeva nel potere infesto del diavolo; anzi peggio, con una persistente fantasia manichea, vedeva l’umanità stessa come “l’albero da frutto del Diavolo, la sua proprietà, dal quale può cogliere il suo frutto” (cit., p.400). Senza noia e senza imbarazzo, il vecchio Agostino vittorioso degli eretici morì scrivendo ancora, con costanza e fissità paranoicale, il lungo testo interrotto (l’Opus imperfectum) contro l’eretico Giuliano, temibile negatore di un mito di cui il vescovo, e tutta la sua ecclesia piovuta dall’arcaico, si faceva dogma fondamentale, a sgabello del potere ecclesiastico..
Tra la somma imponente dei mali che vedeva affliggere l’umanità, non poteva scorgere la iattura più tragica per l’Occidente, in questa sua chiesa infernale, antica e retroversa, inflitta in pena inenarrabile dall’iniquità del suo degno Dio, figurato così per questo, all’umanità falcidiata di quello che fu l’impero di Roma. Che essa occupava abusivamente, regnandovi come potere estraneo e ostile alla felicità possibile, alla libertà possibile, all’autonomia realizzativa dell’uomo. Di cui le menzionate dottrine paoline-agostiniane sono fra le espressioni irrazionali più coerenti, indici di una frana culturale in notevole misura responsabile della distruzione di una avviata cultura umanistica e naturalistica, della ragione, del logos come insegna eminente dell’uomo. Il tentativo penoso dei padri agostiniani odierni di allestire nel 1986 un “convegno internazionale” a Bari su L’umanesimo di Sant’Agostino (Levante 1988), con l’apporto solito di professori eruditi ecc. spesso ignari della materia, è naufragato nella sua totale inapparenza.
Ma è questo contrasto pluriennale radicalizzato, a cui Agostino ha dedicato tante e tante pagine, che qui più interessa. I temi sono quelli accennati del peccato originale, della natura buona, del libero arbitrio e della sovra-imposta “grazia” di Dio, fra cristiani tutti credenti nella Trinità, nell’Incarnazione e nella Resurrezione dogmatiche. Né Pelagio né Giuliano rigettavano in linea di principio – anche per l’intimidazione assillante di Agostino – la “grazia” divina, ma ne davano benaltra non dogmatica interpretazione: la grazia come originario dono di libertà, e come aiuto, sollecitazione, illuminazione in una gamma di possibilità e situazioni umane. Tutto ciò è ragionevolmente “grazia”, non la sola coazione dogmatica al bene (cristiano) sancita dalla chiesa col battesimo e gli altri sacramenti, a pena di morte eterna e in vista di delizie eternissime.
La concezione del peccato difesa da Giuliano non negava il “vizio” come “peccato”, ma ancora una volta con intelligente – direi “classico” per sua cultura formativa – rispetto della natura, come fallo e caduta umanissimi, passione ovvia di libera scelta, servitù di cui ci si può liberare. Quello che infastidisce, qui dove si tratta di Pelagio e del pelagianesimo, è che si frappongano sempre le confutazioni e difese di Agostino, e si arrivi perfino a definire “inutile polemica” questa importante anche se infinita discussione, che investiva la libera volontà dell’uomo (Prete, pp.123ss.), e i limiti di una “grazia” agostiniana pletorica, questa sì non necessaria all’uomo, poiché schiacciava con la sua coazione la volontà umana. Sul tema poi cruciale della “con-cupiscenza”, che ossessionava Agostino, si confermava la più radicale opposizione, da parte di Giuliano, con la bella rivendicazione della sessualità come energia naturale positiva: “tutte le testimonianze sono qui ad attestarci che il piacere dei sensi è naturale”. Giuliano contestava a Agostino di volere opporre l’invincibilità del peccato (del sesso peccaminoso), per confermare la “necessità” della grazia.
Con parole ispirate – non a caso sostenute da testi classici – Giuliano esalta la possente forza vitale che anima e muove l’universo: “tutte le specie viventi (…) sono afferrate da questa travolgente e voluttuosa forza di unire i corpi. Chi ha dato loro questa ardente attrattiva del sesso? Dio o il demonio?…”. Vi si ricollegava la difesa del matrimonio, che non trasmette il peccato ma la vita (pp.127ss.). Giuliano respingeva con energia la primitiva concezione agostiniana del peccato, per cui la pretesa e mitica “colpa” del primo uomo si ripercuote per eredità – un dono del Dio ebraico! – su tutti i discendenti, su tutta l’umanità condannata graziosamente alla dannazione eterna. Ironizzava sulla contraddizione in cui sarebbe caduto Dio stesso, colmando di capacità e di privilegi l’uomo, per poi permettere al diavolo di farlo tentare da una donna e di rovinarlo, imponendogli la necessità di operare il male.
Il geniale Giuliano, sostenitore “moderno” della colpa voluta e non trasmissibile e della responsabilità personale, rigettava quindi le assurde conseguenze della teologia del peccato, come il peccato dei bambini neonati. Scrive Prete che “nei suoi scritti l’agguerrito dialettico di Eclano ha ripetuto più volte la dottrina del peccato originale, per batterla e confutarla con tutti i più sottili e ricercati argomenti del suo esigente razionalismo. Egli opponeva in sintesi cinque considerazioni: quella dottrina, se accettata, riconosceva il demonio quale autore della natura umana; condannava il matrimonio quale atto e istituto malvagio; debilitava la stessa efficacia del battesimo predicata dai cattolici, lasciando sussistere nei cristiani adulti quel male che era causa generandi di male negli altri; rendeva Dio iniquo, poiché Egli rimetteva agli adulti peccatori peccati altrui; dichiarava impossibile la perfezione, essendo l’uomo nato con vizi inestirpabili e la concupiscenza malvagia” (p.136). Ma poi Prete riserva le sue pagine a Agostino, alle sue deboli e oscillanti difese, alla sua identificazione ossessiva del sesso col peccato originale, come diabolica forza annidata nella carne dell’uomo, che uccide la sua volontà, e che solo col battesimo viene “lavata” nel pupo lascivo.
La riprova più evidente del carattere “personale” delle contestazioni agostiniane è data da questa controversia invelenita, prolungata per molti anni e interrotta solo dalla morte, che malgrado gli eccessi verbali merita di essere rievocata, anche a costo di ripeterne i concetti ossessivi e le varianti, per la centralità assoluta dei temi, dominanti nella intera storia del cristianesimo. Sulla vita e sulle opere di Giuliano si replica monotamente la situazione di quasi tutti i dissenzienti, rispetto alla “ortodossia” autoritaria, praticata dalla “grande chiesa” di Cristo. “Le notizie biografiche su Giuliano sono estremamente frammentarie, incerte e spesso contraddittorie, perché le sue fonti sono quasi sempre connotate dalla sola preoccupazione di confutarne, nella maniera più radicale, le posizioni teologiche e l’attività pastorale”. Così comincia il suo lavoro storico un suo recente biografo conterraneo, Rodolfo Marandino (Giuliano di Aeclanum, Desanctisiana ed. 1987).
La succinta ricerca, aldilà dei risultati della indagine filologica sui pochi testi controllabili, sembra divisa nel giudizio fra la professata ortodossia cattolica del-l’autore, non esente da dubbi e da critiche anti-istituzionali, e la rivendicazione insistita della nobiltà (“la fierezza e la tenacia”) e delle superiori qualità intellettive e culturali, di questa comunque eccezionale figura di prete “libero”. Una rivendicazione strana anche per un cattolico “aperto” odierno, perché si spinge al punto di ritenere accoglibili dalla chiesa di Wojtyla prese di posizione anti-dogmatiche così eterodosse come quelle di Giuliano, per cui Marandino solo alla fine evoca il “li-bero pensiero”, e perfino un misterioso “concatenarsi non formale del pensiero ‘laico’ europeo con il cristianesimo” (p.93) – nel IV secolo? –, molto dubbio nella sua stessa formulazione incerta. E lascia interdetti che l’onesto Marandino si sorprenda (“a prescindere dalla giustezza o meno delle sue idee”) della “opera di oscuramento della sua figura e di distruzione delle sue opere”, che qualifica come “un atto di vandalismo morale e culturale, che non si può perdonare alle autorità ecclesiastiche che lo permisero” (p.74).
L’autore conosce bene – suppongo – la storia della chiesa cattolica, per non doversi né potersi assolutamente stupire di un vandalismo annichilatorio, che non era solo “permesso” ma programmato e praticato sistematicamente, istituzionalmente benoltre il fanatismo ecclesiastico e monacale. Ugualmente, è deltutto irrealistico pensare che Agostino nell’Opus imperfectum abbia riprodotto integralmente il testo dell’Ad Florum di Giuliano per “correttezza intellettuale”, e perfino “per salvarne la memoria”, mentre è evidente, e quasi espressamente dichiarato, che Agostino così volle replicare alle accuse di Giuliano – formulate appunto nell’Ad Florum –, di avere stralciato e manipolato arbitrariamente per confutarlo il precedente suo libro Ad Turbantium, perciò confutando ora il suo nuovo libro frase per frase! Illusorio e quasi assurdo poi pretendere, secondo la prassi millenaria di una chiesa cattolica esclusiva, preclusa e repressiva, che avrebbe potuto trarre “maggior giovamento nel tollerarne il dissenso che nel decretarne l’espulsione” (ivi). E ciò proprio alla luce dell’accusa formulata sul finire da Marandino, a “una società” imprecisata, anziché a una chiesa imperiale, che “si irrigidiva in una dogmatica chiusa [la “società”?] e indisponibile ai contributi che potevano venire da una generazione di intellettuali di formazione ‘liberale’, e in un sistema di gerarchie che si arrogavano il diritto d’imporre la loro volontà e le loro dottrine, conquistando la leadership religiosa [la “società”?] con una spregiudicatezza tutta laica, e riducendo gli spazi di una fede viva, problematica e personalmente partecipata” (p.90).
Ottimamente, ma perché questa protesta dirottata alla “società” non è esplicitamente attualizzata, visto che tale fu sempre e solo quella mostruosa struttura faraonica, dogmatica e teocratica, che per oltre un millennio ha dominato il destino socio-politico dell’Europa, e tuttora imperversa, con la complicità politica (anche per me criminale) dei governi “laici” moderni? Giuliano fu senza dubbio un intellettuale umanista illuminato, sulle buone radici della sua cultura classica, non certo su quelle regressive della dogmatica trinitaria e cristologica, in cui credette e che comunque lasciò indiscussa. Si notino ora le condizioni in cui fu scritto l’Ad Florum, dai pochi dati che se ne hanno, principalmente dal fiero anti-pelagiano Mercatore. Il quale riferisce sul libro di Giuliano dedicato al vescovo Florio, altro esule pelagiano, che da Costantinopoli l’aveva sollecitatò a confutare il De nuptiis et concupiscentia di Agostino. Lui Giuliano era finito da Eclano in Cilicia, “dopo avere percorso terre e mari qua e là per l’Oriente” – scrive Mercatore –, per fermarsi presso Teodoro, stimato “insigne maestro di dottrine cristiane”.
Si noti al riguardo il cinismo del vecchio vescovo africano, che quando allude alla condizione del suo interlocutore costretto all’esilio, lo fa quasi invidiando i suoi privilegi di “ozio”, che dice “pasciuto dai miseri che hai ingannato” (Opera incompiuta, vol.XIX/1, tr.it. Città Nuova 1993, II 51, p.247). Si legga poi: “Va’, di’ codesti errori, ascoltino gli uomini corrotti di mente, reprobi circa la fede. Ti ascoltino, ti amino, ti onorino, ti pascano, ti vestano, ti abbiglino e seguendoti perduto si perdano anch’essi. Ma il Signore conosce chi sono i suoi, né c’è da disperare neppure di voi, finché la sua pazienza si prodiga per voi” (III 44, p.481).
Nello Cipriani curatore dei tre grossi voll.XVIII-XIX/1-2 delle Opere di sant’Ago-stino (Città Nuova, 1985,1993-94) intitolati Polemica con Giuliano, e comprendenti Le nozze e la concupiscenza e il Contro Giuliano, nell’Introduzione del vol.XVIII fa apparire Agostino un moderato, suo malgrado trascinato alla polemica da un virulento Giuliano. Invece presenta sùbito il vescovo di Eclano, sotto il pretesto degli aspetti letterari e retorici dell’Ad Florum, come un facinoroso duellatore a colpi di scudisciate verbali, pure dandogli non a torto modelli e predecessori cristiani, come Tertulliano e Girolamo. Ma Agostino stesso vi si adegua sùbito, tanto che gli storici moderni – rari lettori di questa Opera incompiuta – hanno parlato di “intransigenza aspra e impaziente”, di pessimismo nero e di “impressione di sgomento” (Pincherle), di “tragica rivelazione di un uomo ormai anziano” (Brown), diciamo pure vecchio e inflessibile, inaccessibile a ragioni che insidino o intacchino il suo sistema dogmatico.
Rinuncio a leggere il De nuptiis, le cui tesi ci sono note e riemergeranno nella polemica Contra Julianum, che rispetto all’Opus imperfectum è opera di confutazione troppo esclusivamente agostiniana, per l’uso scarso e arbitrario dei testi confutati. E’ largamente sufficiente prestare attenzione all’opera maggiore che – si noti –, seppure incompiuta, consta di due ponderosi volumi, e in cui si fa merito a Agostino di avere adottato la tecnica generalmente insolita di riprodurre, capoverso dopo capoverso (rompendo in realtà molti capoversi e perfino periodi compiuti), il testo integrale (sei libri su otto) dell’Ad Florum, confutandolo brano a brano: il che dà l’illusione di un dialogo inesistente, fra un testo scritto e il suo commentatore prevaricante. Lo scontro si dava fra i nuovi eretici pelagiani e quelli che non a torto – si deve infine riconoscere – Giuliano chiamava i nuovi “manichei”, ossessionati dal “male naturale” sotto specie di “peccato originale”. Agostino moderato piglia per offesa mortale l’accusa “obbrobriosa” di un “crimine” come il manicheismo – giacché è crimine l’eresia dannata dalla chiesa cattolica –, da cui s’illude di essersi emendato. Nel suo nero “umanismo”, infatti, annienta la natura umana, evocando la “miseria del genere umano, alla quale non vediamo scampare nessuno dalla nascita alla morte”, quindi la iattura del “peccato originale”, gratuito dono del Dio onnipotente (I 3, p.7): e per darsi sostegno, si rifà frequentemente a un’autorità riconosciuta come Ambrogio, altro strenuo difensore dell’ortodossia cattolica più cieca.
Inutilmente Giuliano invoca ragioni di “giustizia”, che ricerca perfino in quelle “scritture sante” in cui crede anche lui, ma con la convinzione ferma e ragionevole che non si può dare una sanzione divina a ciò che non si può rivendicare per giustizia. La risposta avversa di Agostino è quella accennata prima sulla miseria dell’uomo, col sussidio di molte generose minacce scritturali, che sembrano dannare finanche i neonati, e Agostino illuminato plaude. E poi non esita a invocare, secondo il suo stile tollerante, “la disciplina della coercizione” delle “autorità terrene dello stato”, contro “tali nemici della fede quali voi siete”, come fu fatto per i donatisti (I 10, p.13). Il contrasto fra i due vescovi, dopo le condanne e con la persecuzione agostiniana che continua, è diventata una guerra: i due si dicono “nemici”, Giuliano tratta l’autorevole arcidotto Agostino non solo senza riguardi, ma con esibito disprezzo, che inficia a volte pure le sue solide ragioni, accusandolo intanto di “sporca coscienza” (I 11).
La lettura di questo Opus imperfectum è penosa, sia per le lungaggini personalistiche, le picche e le ripicche e le continue ingiurie ricambiate dei contendenti, sia per le iterazioni inesauribili dei temi e delle argomentazioni. Insistita da parte di Giuliano è l’accusa convinta di manicheismo, rivolta all’antagonista e a chi lo segue, riconducendo il peccato alla natura cattiva dell’uomo, non alla sua cattiva volontà, come credono gli eretici pelagiani (I 24), negatori ragionevoli del peccato originale, nell’accezione psichiatrica della mistica paolina. Su cui il giudeo Paolo ha preteso di edificare la monumentale figurazione del povero Cristo crocifisso Salvatore dell’umanità, altrimenti dannata in eterno dal peccato di Adamo (Rom. 5,12ss.). La sterile risposta di Agostino, ancorata a tale folle magistero, è un patetico richiamo alla tradizione ecclesiastica – tipico di chi non ha argomenti ragionevoli –, ai “maestri cattolici” che hanno condiviso l’idea di questa iniquità universale, che coinvolge e marchia di colpa tutti gli uomini. In realtà questa aberrazione è la chiave di volta della mitologia cristiana, su cui si fonda la chiesa stessa, coi suoi auto-attribuiti “carismi”, che si traducono in “poteri” reali.
Ripeto, la difesa forsennata dell’irragione – necessaria come cieca fede – aveva tale motivazione politico-ecclesiastica più che ragionata: Agostino ne era l’interprete conscio, costi quel che costi di “verità” e credibilità e di onestà pastorale. Ragioni ecclesiologiche reali a cui il vescovo Giuliano era invece estraneo, evidentemente, essendo per lui preminenti le ragioni di “verità”, come sostiene, pursempre all’in-terno – si noti pure come contraddizione profonda – del medesimo sistema trinitario e cristologico. Per Giuliano Dio s’identifica con la giustizia, è inconcepibile e blasfemo attribuirgli una iniquità così mostruosa come quella di avere creato una natura umana corrotta dal peccato: insostenibile da nessuna ragione e da nessuna pietà (I 28-31, p.39).
La “giustizia” di Agostino invece trova colma soddisfazione nella colpa universale, lavata dalla redenzione cristiana, mediante i sacramenti somministrati dalla chiesa cattolica, che se ne dà poteri magici e quindi Autorità soprannaturale. In nome della giustizia divina e della fede, come può concepirsi una nascita dell’uomo tarata, “oppressa” non da peccato proprio ma dal peccato altrui, come asserisce l’afri-cano? Oppone Giuliano magnificamente ragionante: “se non c’è nessun peccato senza la volontà, se non c’è nessuna volontà dove non c’è l’esplicito esercizio della libertà, se non c’è libertà dove non c’è facoltà di scelta per mezzo della ragione, per quale mostruosità si troverebbe il peccato nei bambini che non hanno l’uso di ragione?”. E ancora: “Presso quale giudice dunque un delitto esterno prese a gravare su una innocenza illibata? Chi è stato quel nemico barbarico, così crudele, così truce, così dimentico di Dio e della equità, da condannare gli innocenti come rei?” (I 48, p.45).
Ma chi è questo giustiziere d’innocenti, il Dio d’amore cristiano? dopo “questa sentenza così assurda, così sacrilega, così funesta, se disponessimo di giudici sani, non dovrei nient’altro ricavarne che la tua esecrazione” (I 48, p.47). La risposta di Agostino rivela o meglio conferma la sua nemmeno segreta patologia del sesso, la vergogna dei genitali, della concupiscentia che contamina l’uomo dal suo nascere: è infine questo l’originario “male naturale” dell’uomo, è il primo amplesso dei mitici progenitori, è appunto il “peccato originale”, la tara universale che colpisce l’umanità, provvidamente “salvata” dalla sua chiesa asessuata. S’intende solo l’u-manità dei convertiti e battezzati: così la più parte degli uomini è dannata al fuoco eterno col verme. Il sesso dunque come ossessione peccaminosa, sudiciume insito nella carne dell’uomo, che può sbiancarsi solo con la castità santificata dal-l’ecclesia sessuofòbica.
Giuliano “greco” disinibito su questo tema oppone un’interpretazione realistica del peccato di Adamo: “Che sia naturale la voluttà dei sensi lo insegna la testimonianza universale. Che poi questa voluttà e concupiscenza sia esistita nel paradiso prima del peccato lo mette in evidenza il fatto che la via al delitto passò attraverso la concupiscenza, la quale dopo aver eccitato gli occhi con la bellezza del pomo accese anche il prurito della speranza di un giocondo sapore. Non poté quindi questa concupiscenza, che pecca quando non tiene la sua misura ed è invece una disposizione naturale e innocente quando sta nel limite della concessione [quale?], non poté dico essere frutto del peccato, perché si dice che essa fu occasione del peccato non certo per suo vizio, ma per vizio della volontà” (I 71, p.99).
Nell’andamento tumultuoso e zigzagante dell’Ad Florum, che Giuliano però descrive come programmato nei suoi sviluppi tematici generali, l’irpino protesta la sua fede nella grazia battesimale necessaria anche ai bambini e anatemizza chi non ci crede, ma nel senso più benefico, di una grazia che non va contro la giustizia, “né fa i peccati ma ce ne purga (…), che assolve i rei non calunnia gli innocenti” (I 53, p.59). Sul tema sessuale, nella specificità del matrimonio, ambiguamente Agostino (nel De nuptiis et concupiscentia) scindeva i due valori legittimando il matrimonio finalizzato alla procreazione, e sempre maledicendo la libidine come diabolico vizio. Giuliano sessuòfilo riporta il matrimonio alla “verità” naturale dell’amore cor-poreo, del connubio carnale, in cui solo trova senso e conseguenze naturali culminanti nella generazione. Il ragionamento dell’italiano, radicato nella tradizione classica, tende ancora a valorizzare la natura dell’uomo, che Agostino offusca affermando teoricamente (retoricamente) la bontà originaria della natura, per travolgerla sùbito nella tirannia viziosa del peccato della carne, appunto l’esecrabile con-cupiscenza, demonizzata come espressione massima del maluso del male (I 65).
Come poi si distingua il bonuso dal maluso dell’amplesso nel matrimonio cristiano, Agostino non precisa, ma dovrebbe intendersi che bonuso è l’amplesso meccanico esente da libido repressa, quale solo poteva concepire e difendere un vecchio erotòmane sessuofobo, che ha improntato fino a oggi caratterizzandola l’etica eroto-sessuòfoba cristiana, largamente compensata dai costumi erotici attivi e finanche “viziosi” di molti ecclesiastici in ogni tempo. Dice Giuliano con ragione che Agostino arriva al punto di fare intendere che il Cristo, proprio per condannare l’am-plesso, “abbia voluto nascere da madre vergine”: “che cosa dunque ha potuto mai dirsi da chiunque di più improprio e di più imprudente di questo?” (I 66, p.79).
Seguendo con difficoltà gli inviluppi più che sviluppi di questo libro, con cui Giuliano reagiva animosamente e rispondeva con nuovi e vecchi argomenti al primo Contra Jiulianum di Agostino, cogliamo ancora la difesa del libero arbitrio come riaffermazione moderna della emancipazione umana: “L’uomo infatti fu creato animale ragionevole, mortale, capace di virtù e di vizio, in grado per possibilità concessagli o di osservare i comandamenti di Dio o di trasgredirli; in grado di rispettare il diritto della società umana per il magistero della natura, libero di fare volontariamente l’una o l’altra scelta: e in questo sta essenzialmente il peccato e la giustizia” (I 79, p.115). E’ proprio la possibilità, la libertà di fare il male, che esalta la scelta del bene, s’intende senza coazione della volontà, come “attesta la fortezza, i cui muscoli si sono assiduamente coperti di gloria nel disprezzare i dolori e in mezzo ai pagani e in mezzo ai cristiani” (I 83, p.117). A questa intelligente moralità aperta alle virtù dei “pagani”, “ahi”, contesta Agostino con la più convinta ottusità ecclesiastica, “è proprio questo che fa la vostra eresia: voi aggiungete qui anche i pagani, perché non si creda che i cristiani abbiano potuto fare o abbiano fatto con la grazia di Dio l’opera della pia fortezza, che è propria dei cristiani e non comune a cristiani e pagani. Udite dunque e intendete bene: la fortezza dei pagani la fa l’ambizione mondana, la fortezza dei cristiani la fa la carità divina, la quale [citazione!] è stata riversata nei nostri cuori, non per mezzo dell’arbitrio della volontà che viene da noi, ma per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (ivi).
Le argomentazioni più stringenti di Giuliano sono quelle che denunciano le contraddizioni insolubili di Agostino in tema di libero arbitrio, che afferma come virtualità e nega come realtà, soggiacente all’arbitrio irrazionale della “grazia”. Così che la volontà dell’uomo – come obietta insistentemente Giuliano – è prima costretta al male dal “peccato originale”, poi dovrebbe essere costretta al bene dal battesimo, quindi mai libera: una concezione dogmatica insostenibile da ogni lato, che il vecchio Agostino continuava a sostenere senza la minima flessione, sordo a ogni argomento ragionevole, come continuava a dannare la libido come diabolica, anche nel matrimonio, “causa di voluttà per i genitori e di reato per i figli”, come dice Giuliano e Agostino conferma, lodando la oscura “pudicizia coniugale” esente da voluttà (II 31, p.228). Contesta ancora Giuliano: “Quando infatti dichiari che concupiscenza della carne è stata impiantata nell’uomo dal principe delle tenebre ed essa è la pianta del diavolo che produce di suo il genere umano come un albero i suoi pomi, appare certamente in modo assoluto che tu non dici creatore degli uomini Dio ma il diavolo; dal quale dogma estremamente empio si condanna l’attività dei coniugi, ossia la mescolanza dei genitali, e la carne tutta” II 32, p.229).
E Agostino impassibile e laconico: “Non si condanna; ma non sia lodata da te quasi fosse sana, perché anche per tua confessione sia sanata dal suo Creatore e Salvatore. In coloro nei quali non viene sanata sarà condannata senza nessun dubbio” (ivi). Infatti l’Agostino ancora sottile nell’irrealtà distingue, nella sua astrazione contro-naturale, pure nel matrimonio, la bontà della natura dal maleficio del vizio, l’atto generativo in se stesso, che sarebbe buono e voluto dal suo Dio, dalla concupiscenza che eventualmente l’accompagna, il peccato diabolico ereditato dall’Adamo goloso, da cui sanarsi con la grazia di Dio e la benedizione di santo Agostino, repressore irreprimibile (II 45).
Giuliano imputa alla concezione davvero diabolica del peccato originale, di cui nega la paternità a Paolo, le seguenti conseguenze catastrofiche, sconvolgenti la natura dell’uomo: 1) “non poter le nozze, che Dio aveva create, esistere senza il dono del diavolo, al quale dono tu fai appartenere la libidine sessuale; anzi, volando via quelle nozze che Dio aveva ordinate con l’onore della sua istituzione, costringesse e convincesse a credere opera del diavolo e non di Dio le nozze di ora, delle quali è rimasto l’ordinamento con l’eccitazione dei genitali, con il pudore degli accoppiamenti, con il calore e l’orgasmo delle membra, con la soddisfazione dei sensi, con l’iniquità dei nascenti”. 2) di “far crollare infine con la spinta di un solo peccato la stessa libertà dell’arbitrio, con la conseguenza che nessuno successivamente avesse in potere di respingere i vecchi crimini con la elezione della virtù, ma tutti fossero trascinati alla condanna dall’unico torrente di un’umanità sconvolta”. 3) ma “se l’iniquità del primo uomo rovesciò tutti questi mali sull’immagine di Dio, appare manifestamente troppo debole nei suoi doni la grazia del Cristo, non avendo essa trovato nulla che rimediasse a mali così numerosi ed enormi: o, se l’ha trovato, affermalo. Confrontiamo ora infatti i singoli mali con i singoli rimedi. Se al di fuori delle opere della volontà Adamo ha sovvertito le istituzioni della stessa natura, nient’altro avrebbe dovuto fare il Cristo più di questo: riparare i cocci di Adamo ricalcando esattamente le tracce della sua rovina” (II 88-90, pp.279-81).
Giuliano, scrittore prolisso come Agostino che – come dicevo – qui perfino sminuzza in più frasi i periodi dell’irpino per contraddirlo sulla parola, rendendoli più volte poco comprensibili, sembra scrivere anche per gusto retorico, e sfida all’autorevole vescovo, che ha già provocato tanto danno al monaco Pelagio e a Celestio e a lui stesso esule coatto fuori dell’ecclesia, malgrado le sue istanze argomentate per riottenere il vescovato. Lo sfida rabbiosamente, come un nemico pericoloso, su tutti i piani in cui Agostino eccelle e ha acquisito autorità universa, quello teologico, scritturale, retorico classico, dialettico e sofistico, con l’intento di smascherare e demolire il castello d’irrazionalità dogmatiche – lui dice anche la follìa, la demenza, le mistificazioni – su cui si regge il suo riverito pensiero. Sfida l’odiosa protervia autoritaria che gli consente di condannarli come eretici e di coprirli di anatemi squalificanti che, escludendo gli ecclesiastici infamati dalla chiesa, oramai escludevano anche dalla società contemporanea chi dissentiva dalle sue dottrine malfondate e contro ragione.
Giuliano “moderno” difensore della libera volontà dell’uomo, della ragione e della natura integrale (sessuale) dell’uomo, aveva pienamente ragione di rovesciare il suo odio non solo intellettuale contro questa autorità alta, che concorreva a fondare la “dottrina ufficiale” della sua chiesa, e perseguiva il libero pensiero. E la sua sfida aperta e così veemente, drammaticamente da pari a pari, e talmente efficace da obbligare il vecchio antagonista a dedicargli più anni della sua vita residua, fu in certo modo eroica nella sua solitudine, disinteressata alle conseguenze per la propria sorte personale. Ma forse per coerenza di pensiero globale così avanzato nell’èra cristiana, sulla scia della tradizione classica, avrebbe dovuto spingersi oltre, fino al rigetto dell’intero sistema mitologico cristiano, che invece accettava o diceva di accettare. E chissà se dopo la sua scomparsa nell’ombra, questo processo liberatorio non si sia verificato in lui, purtroppo senza lasciare tracce scritte o comunque preservate per essere trasmesse ai posteri. Chissà? Si noti che il pelagianesimo fu definitivamente condannato, nella persona di Celestio, nel concilio ecumenico di Efeso, un anno dopo la morte di Agostino: associato al pelagiano Nestorio patriarca di Costantinopoli, per il quale principalmente fu convocato il concilio (431),
Tornando alla lunga controversia con Giuliano, impressiona la risultante destituzione globale del sistema dogmatico agostiniano: sul tema della “grazia”, il peccato deltutto volontario di Adamo per Giuliano non poté che ricadere su lui solo, non sull’intera umanità e in perpetuo, come pretendeva la follìa cattolica di Agostino, che persisterà fino alla morte colma di fede cieca. Così la “grazia del Signore Gesù Cristo” fu un gesto solo di cancellazione originaria universale, “con la forza di una sola consacrazione”, quindi “non è stata data così da provvedere per singoli peccati, quasi per singole ferite, anche singoli rimedi d’indulgenza, e da offrire venia ai vari peccati con diversi battesimi” (II 108, p.299), una sorta di grazia perpetua come pretendeva Agostino. Sorvoliamo sulla lunga esasperante confutazione di Giuliano, e sulle monotone iterazioni difensive di Agostino, dialettici animosi e oratori paritetici nella profusione, non nel peso delle rispettive ragioni e irragioni a contrasto. Si consideri che il riferimento polare dell’intero II libro è il verbo caldo allucinato e contraddittorio dell’apostolo Paolo, in particolare la citata lettera ai Romani (5,12ss.), che svela la geniale invenzione mitica appunto del peccato e della grazia. Un discorso confuso e ambiguo, come pronunciato “in visione”, sfruttato non a caso da entrambi i contendenti a sostegno delle loro tesi opposte.
A chi fosse concretamente rivolto e da chi sia mai stato compreso, è uno dei “miste-ri” cristiani fondatori. Che “grandi teologi” produttori di pura verbalità, come Barth, abbia dedicato all’epistola nel XX secolo un bestseller di 1000 pagine, dimostra che il “mistero” continua e s’infittisce, con la medesima “grazia” illuminante dell’origine paolina. Il cimento aspro fra Giuliano e Agostino fu così il più sterile di esiti ragionevoli, anche là dove oggi Cipriani riconosce che “l’esegesi moderna dà ragione all’avversario” di Agostino (p.XXXIV). Il quale lodava cinicamente “l’in-tervento a vostro favore del potere cristiano, perché siate impediti dalla vostra sacrilega audacia” (II 14), e s’indignava drammaticamente sul nulla, per es.: “E’ questo l’occulto e orribile veleno della vostra eresia: volete ridurre la grazia di Cristo all’esempio e non in un suo dono, dicendo che gli uomini vengono giustificati per la loro imitazione e non per la somministrazione dello Spirito Santo, affinché tutti siamo attratti a imitarlo. Quando l’Apostolo propone l’opposizione Adamo-Cristo voi volete opporre l’imitazione all’imitazione e non la rigenerazione alla generazione” (II 146, p.333).). Questioni psichiatriche che pure investivano il destino prossimo e ultimo dell’uomo, o lo pretendevano.
Più interessante forse il libro III, dove Giuliano si rifà a una fonte di sapere illusivo come l’Antico Testamento, da cui ricava testi utili alle sue tesi, ma Agostino ne oppone altri a sostegno delle sue tesi avverse! Quella di Giuliano rivendica ancora la giustizia divina per destituire il fondamento del peccato originale: si noti che il presupposto fideale di entrambi è che quella sia davvero “la parola di Dio”, una parola oltretutto straordinariamente polivocale e multanime! Dunque il Deuteronomio 24, 16 recita: “Non moriranno i padri per i figli né i figli per i padri, ciascuno morirà nel suo peccato, e giustamente Giuliano vi trova un esemplare “modello di giudizio”, con cui Dio mostra che “il principio e l’inizio della giustizia, che ordinava doversi osservare nei giudizi, è che la parentela non fosse di peso agli innocenti e che l’odio meritato da una persona non passasse alla sua stirpe” (III 13, p.447). Il tragicomico è che Agostino può tranquillamente opporre l’iniquità divina di versetti biblici, in cui invece i figli sono coinvolti e puniti o punibili per i peccati dei padri (III 13-15ss.). E Agostino si compiace e con costanza vi aggiunge una citazione del sapiente Ambrogio, il quale nel De poenitentia – denso di pensiero originale – benevolmente dice che “noi uomini nasciamo tutti sotto il peccato”, che “il nostro primo vedere la luce è già nella colpa, come leggiamo in David”; diversamente il povero Cristo, “concepito dallo Spirito Santo e dalla Vergine aveva assunto un corpo mortale, non solo non macchiato da alcuna colpa ma neppure sfiorato da quel-l’ignominioso miscuglio di sostanze proprio della nascita o del concepimento (La penitenza, tr.it. cit., p.40). Niente sporcizia, quella è tutta per noi partoriti nella colpa, secondo il lucido pensiero di Ambrogio (I 3,13), che ancora una volta puntella il vecchio Agostino malfermo (III 38).
Esemplare come sempre è il senso giuridico di Agostino, che distingue l’ammini-strazione della giustizia divina da quella umana, con codici diversi e antitetici: sembra di capire che quella umana individualizza la colpa, il Dio misericordioso (diodamore) invece dona ai figli la punizione per le colpe dei padri. Esempi significativi di giustizia divina (giudaica), il diluvio universale che non risparmiò bambini innocenti, e la distruzione totale di Sodoma (III 12). Nel citato articolo su “L’anti-giuridicismo di Agostino”, F.D’Agostino giurista cattolico afferma che Agostino “è stato tra i primi a mettere in chiaro (…) l’insufficienza del diritto come regola di vita” (op.cit., p.143), essendo pure il diritto subordinato alla teologia, scienza di vita elettiva. M.Villey citato qui in nota al riguardo ha scritto (La formazione del pensiero giuridico moderno, tr.it., Milano 1986, p.86) che per Agostino “la giustizia è il prestito gratuito, la remissione dei debiti, l’elemosina. E la mercede dell’ope-rato dell’ultima ora, che riceve tanto quanto quelli della prima. E’ un paradosso permanente. La giustizia s’identifica con la misericordia… Sarà un giusto giudice su questa terra colui che saprà far grazia”.
Quanto questo sia retorico o immaginario, lo dimostrano la sua pratica incessante dei contra e degli adversus antieretici per tutta una lunga vita, la sua totale mancanza di “grazia” nell’esigerne la condanna, l’anti-giuridicismo ideologico che è un aspetto essenziale dell’anti-umanismo, e in genere il suo cinismo etico di giustiziere cattolico. Perciò la sua può pure essere segnalata quale probabile “punto di svolta nell’autocoscienza dell’ Occidente cristiano”, come retorizza D’Agostino (ivi), se si considera che quel punto di svolta è incarnato storicamente nell’esercizio stravolto del diritto, della “giustizia sacra”, a opera della chiesa cattolica millenaria, interprete del suo Dio vendicatore, che persegue i suoi nemici secondo la sua giustizia anti-giuridica.
Gli stessi temi continuano a ruotare incessantemente come in un rosario oratorio inarrestabile, che – come dicevo – per quanto riguarda Agostino si arresta al VI libro di Giuliano, sugli otto del suo Ad Florum, per la morte del vecchio vescovo, col-mando un altro grosso volume, sempre delle medesime tesi in variazione perpetua. Sul tema della “grazia adiuvante,” l’introduttore dell’Opera incompiuta fa notare ancora una volta come il contrasto irriducibile tra i due vescovi cristiani si baserebbe su un diverso “metodo teologico”: “mentre la riflessione agostiniana cerca costantemente il proprio ancoraggio nella Parola della Scrittura e nella preghiera della Chiesa, la riflessione del pelagiano appare dominata dalla preoccupazione di accordare razionalmente la grazia di Dio con un’idea già prefissata di libertà umana” (p.XLVIII). Dove si può constatare il consueto rovesciamento clericale, sicché sarebbe “prefissata” l’idea pura e semplice definibile “laica” della libertà del volere, o libero arbitrio, non lo sarebbero le Scritture dogmaticamente vincolanti come abusiva “parola di Dio”!
In realtà il divario si riflette radicalmente pure nella concezione della “grazia adiuvante”: per Giuliano la volontà umana è aiutata da innumerevoli specie e gradi di (abbastanza imprecisato) “aiuto divino”, non è un gesto divino che sovrasti e annulli la libera volontà umana, come la “grazia” agostiniana. Qui si insiste a dire invece che la libertà di volere e fare il bene e il male senza condizionamenti obbliganti, sarebbe quasi un’idea fissa, come quella agostiniana del peccato originale. Quella di Giuliano è una piena affermazione della libera volontà umana, senza “necessità” e limitazioni “superiori” (III 109-10), e per tutto il corso dell’esistenza, dalla nascita alla morte, cioè oltre i doni naturali originari dell’uomo, la vita la ragione la volontà, in cui consiste la fondamentale e la sola necessaria “grazia di Dio”. Non ne era scalfita quindi la fede di Giuliano nella fiaba mitica cristiana e dogmatica dell’incarnazione del Verbo, quindi il riconoscimento prioritario della “grazia” di Cristo, di un Cristo modello perfetto di virtù e giustizia.
Questa “idea particolare”, “intellettualistica” della libertà, tipica “preoccupazione razionalistica”, tutti termini di Cipriani che nel vocabolario clericale sono martellate, contrasta radicalmente col verbo agostiniano, che ha la “grazia” di essere sempre “ancorato alla Scrittura e alla fede della Chiesa, nella consapevolezza che la ragione non può esaurire il mistero delle relazioni tra Dio e le sue creature” (p.LIII). E tali limiti della ragione sono sempre, secondo i punti di vista, squilli di tromba per la dogmatica ecclesiale più arbitraria, o campane a morto per la ragione. Agostino uomo d’interiorità dice che l’aiuto divino concepito da Giuliano è “esteriore”, che “Dio aiuta ordinando, benedicendo, santificando, reprimendo, stimolando e illuminando” (III 114) – più o meno una auto-rappresentazione pastorale, di sé distributore di grazie autorizzato. Frasi retoriche che nulla aggiungono alla lettera, ma vogliono introdurre il “mistero” soprannaturale di una “grazia” arcana, l’ineffabile grazia dalle “inscrutabili vie”, fondata sulle fonti sapienziali irrinunziabili delle scritture “dettate da Dio”.
Un esercizio nemmeno difficile, si strappa dal contesto un lacerto, “La volontà è preparata da Dio” (Proverbi 8,35), e qualche frase di Paolo guida pure irrinunziabile, guida preziosa all’irrazionale puro, come: “Io ho piantato, Apollo ha innaffiato, ma Dio ha fatto crescere. Quindi né colui che pianta è qualcosa, né colui che innaffia, ma solo Dio che fa crescere” (1Cor.3,6). Oppure, sul piano sempre della teocrazia totalitaria: “è Dio che produce in voi e il volere e l’operare con buona volontà” (Fil.2,13). Bè per Agostino genio teologico infarinato di filosofia, frasi come queste sono fondamenti incrollabili del sapere, deposti da Dio stesso. Ma ciò che è più toccante in Agostino, e indizio di una fede ottenebrante, è l’altro “divino pilastro” del suo sapere, sono perfino “le preghiere” supplici dei sacerdoti nella sua “santa chiesa” orante, in cui lui stesso opera per il bene dell’umanità, dei fedeli e degli infedeli, prodigo di sé, del suo sapere, del suo potere benefico di inquisizione e repressione esaltante.
Altri pilastri minori ma solidi del suo argomentare sono – come più volte si è visto – vescovi graziati come Cipriano e Ambrogio, per trasmissione alta, come lo sarà Agostino per tutto il Medioevo e oltre fino a oggi. E Cipriani confedele odierno non avverte minimamente il comico, mentre scrive che “una volta assicurato questo caposaldo della dottrina sulla grazia, Agostino ne precisa la natura, indicandola nel dono divino della carità” (p.LV), con l’intervento di altre autorità indimenticabili come Giovanni, col magistero di Paolo.
Chi giudicasse il sapere e l’autonomia di pensiero dell’autore da tale mitraglia continua di citazioni “sacre”, pure sapendo che per tradizione classica le auctoritates erano sostegni ricercati di ogni discorso anche razionale, oltre che segnacoli di dottrina, si farebbe un’idea comunque misera di un ragionatore così tenacemente ancorato a “fonti” testuali mitiche e mistiche, le più carenti di attendibilità storica e di evidenza riconoscibile. Tali sono sempre i super-santificati “geni” cristiani, e Agostino suttutti suprema intelligenza dialettica, la più asservita alla dogmatica ecclesiale, la più concorrente ai suoi arbìtri irrazionali, coi suoi castelli di false ragioni, di argomentazioni fondate unicamente sul “sacro” detto biblico. Cipriani corrivo fa merito e vanto a Agostino di una modalità diminutiva per qualunque intelligenza pensante minimamente autonoma, come erano Pelagio e i suoi seguaci, di esporre la sua dottrina della grazia “sempre con le stesse parole della Scrittura”, formidabile! S’immagini la fantasia ilare di una “dimensione trinitaria della grazia”, come quella concepita da Agostino: una sorta di bal à trois fra il Dio Padre, il Dio Figlio e lo Spirito Santo. Ecco la superiore virtù ragionativa di Agostino, la sua profonda capacità distintiva inattingibile a chi sfugge ai raggi solari dello Spirito Santo raggiante.
A tale Spirito ecclesiale è appesa la “grazia” agostiniana che sovrasta e oltrepassa e annienta, con l’originaria coazione al male e poi con la millantata coazione al bene dopo il battesimo, il libero volere dell’uomo: la dipendenza dell’agire dell’uomo dall’aiuto di Dio, dai “doni” della “grazia”, dall’azione spirante dello Spirito Santo, non esprimendo che la riduzione dell’uomo a burattino strumentale della chiesa cattolica, a unità del gregge arresa alla volontà del pastore. E Agostino lo sapeva bene, e non vale che con abituali rovesciamenti dialettici del vero sostenesse che la grazia di Dio non limita ma anzi “libera” la volontà, la volontà di sottostare alla disciplina ecclesiastica, nel sistema sacramentale cattolico, dal battesimo alla estrema unzione!
Quando afferma che sempre la volontà (di ogni credente pure non aggregato nella gerarchia) “è preparata dal Signore”, per vie niente affatto “misteriose”, che altro vuole dire senon che è concretamente indirizzata dagli apparati della chiesa cattolica (III 114)? Così solo è intesa sempre la “libertà umana” da Agostino e dalla sua chiesa: la libertà umana senza la “grazia”, cioè senza la chiesa, è talmente viziata – anzitutto della maledetta concupiscenza – da non potere operare rettamente (VI 13). Solo la “grazia”, solo la chiesa, dona la definitiva “salvezza”. E ciò corrisponde agli schemi e ancora alla tecnica del rovesciamento idealizzante, su cui si fondano tutte le religioni, ma con eccellenza quella cattolica, costituendosi su favolosi quanto illusori e in fondo disperati sistemi d’irrealtà benefiche, beatifiche, oltremondane ecc., che sono l’esatto calco positivo della cruda e crudele realtà dell’esperienza comune, pure nella vita della “grande chiesa” terrena.
Tutti noi scredenti possiamo sperimentare con debito scetticismo quali e quante “grazie” reali piovano addosso a noi e al nostro immediato prossimo, nella nostra operosa e dannata giornata contesta di infinite contrarietà “na-turali”, nell’infinita trama universale, meccanica e deterministica, di azioni e reazioni incontrollabili e quindi per noi largamente “casuali”. Ma lui no, lui Agostino mistico ragionante sui sogni spirati dallo Spirito Santo, le “grazie” del suo Dio immaginario se le godeva tutte di vero gaudio, uccidendo la concupiscenza, con la più alta libidine “spirituale”, giacché per lui operatore fanatico, per la sua psicosi “religiosa” vissuta come in delirio, “già ora la Chiesa è il Regno di Dio e il regno dei cieli”!