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    Predefinito Vocazione spirituale deve prevalere su ruolo sociale del sacerdote

    La vocazione spirituale deve prevalere sul ruolo sociale del sacerdote

    I presbiteri devono innanzitutto irradiare a Cristo, segnala un Vescovo olandese


    di Carmen Elena Villa

    ROMA, venerdì, 12 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il Vescovo di Utrecht (Olanda), monsignor Willem Jacobus Eijk, ha espresso la sua preoccupazione per la "mancanza di contenuto spirituale" di alcuni sacerdoti che purtroppo mettono il lavoro sociale al di sopra della propria vita spirituale.

    Lo ha dichiarato in un intervento sul tema "Tra la vocazione spirituale e il ruolo sociale" durante il Congresso "Fedeltà di Cristo, fedeltà del Sacerdote", terminato questo venerdì presso la Pontificia Università Lateranense di Roma in occasione dell'Anno Sacerdotale.

    Dopo aver presentato un contesto storico della situazione attuale del sacerdote, monsignor Eijk ha sottolineato che l'aspetto più prezioso della vocazione sacerdotale risiede nella "sua identità intrinseca, quella sacramentale di uomo che rappresenta Cristo in persona", ma che in molte occasioni si cade nell'errore di "essere affezionati alla loro identità estrinseca, cioè alle funzioni di leader nella società profana e delle organizzazioni cattoliche".

    Una delle cause di ciò, ha osservato, "va ricercata nella crescente difficoltà di dedicarsi alla cura delle anime, attività insidiata dalla secolarizzazione".

    Il Concilio Vaticano II e l'identità sacerdotale

    Il Vescovo olandese ha affermato che il Concilio Vaticano II, segnalando l'identità del laico nella Chiesa, ha anche sottolineato la vocazione del sacerdote di essere un altro Cristo.

    "Il Concilio non ha introdotto una discontinuità nell'identità del prete", ha spiegato, osservando tuttavia che "c'è stata comunque una tale discontinuità, fuori del contesto del Concilio, in due fasi diverse".

    "La prima", ha rilevato, "è stata una modifica graduale del modo in cui i preti vivevano la loro identità intrinseca, fenomeno che si è manifestato almeno nell'Europa del nord-ovest negli anni Quaranta del secolo scorso".

    Nella seconda fase, "l'immagine sociale che il prete aveva fino alla fine degli anni Cinquanta è venuta meno rapidamente nell'epoca rivoluzionaria degli anni Sessanta".

    Monsignor Eijk ha quindi dichiarato che il Concilio, "fissando i paletti giusto in tempo, ha evitato che la crisi minasse in modo ancor più grave l'identità del sacerdote". In questo modo, ha detto, il presbitero avrà sempre la sfida di trovare un equilibrio tra il ruolo sociale e la vita spirituale.

    Per questo, è necessario "evitare tentativi di forzare vocazioni sacerdotali, fissando l'attenzione sull'identità estrinseca del sacerdote".

    I presbiteri, ha riconosciuto, sono "quotidianamente esposti alla pressione, alle tensioni e alle delusioni connesse alla proclamazione del Vangelo nella nostra società poco aperta alla fede cristiana", motivo che influisce sul fatto che non pochi di loro cadano nell'attivismo.

    Per rimanere fedeli all'aspetto principale della loro vocazione, ha concluso monsignor Eijk, devono "curare il più possibile il loro rapporto con Cristo Sacerdote, Maestro e Pastore".

    Zenith.org-Passion Secrets Exposed-Reviving A Cold Love Life
    “Pray as thougheverything depended on God. Work as though everything depended on you.”

  2. #2
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    Predefinito Rif: Vocazione spirituale deve prevalere su ruolo sociale del sacerdote

    Sono d'accordo, il sardote deve essere la guida delle anime. Ricordiamoci però del ruolo che il CVII ha assegnato a noi laici
    Antifascista, cattolico-democratico, contrario al principio "destro" di "limite e conservazione" e sostenitore del principio di "non appagamento", dunque, di centrosinistra!

  3. #3
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    Predefinito Rif: Vocazione spirituale deve prevalere su ruolo sociale del sacerdote

    Citazione Originariamente Scritto da Popolare Visualizza Messaggio
    Sono d'accordo, il sardote deve essere la guida delle anime. Ricordiamoci però del ruolo che il CVII ha assegnato a noi laici
    Il Concilio ci ha ricordato che anche noi laici abbiamo (seppur in modo diverso) un ruolo sacerdotale, in quanto battezzati.
    Da questo deriva anche l'impegno sociale della Chiesa tutta, e dei laici in particolare.
    “Pray as thougheverything depended on God. Work as though everything depended on you.”

  4. #4
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    Predefinito Rif: Vocazione spirituale deve prevalere su ruolo sociale del sacerdote

    Parole chiare e precise, nel solco di quelle che Benedetto XVI va dispensando da tempo e sulle quali tutti siamo chiamati a riflettere.


    Monumentali parole del Papa sul sacerdozio

    Pubblichiamo un estratto del discorso di ieri del Papa Benedetto XVI ai partecipanti al convegno teologico della Congregazione per il Clero. Trovate il testo integrale nel blog di Maranatha.



    Messainlatino.it: MONUMENTALI parole del Papa sul sacerdozio

    [..]

    Il tema dell’identità sacerdotale, oggetto della vostra prima giornata di studio è determinante per l’esercizio del sacerdozio ministeriale nel presente e nel futuro. In un’epoca come la nostra, così “policentrica” ed incline a sfumare ogni tipo di concezione identitaria, da molti ritenuta contraria alla libertà e alla democrazia, è importante avere ben chiara la peculiarità teologica del Ministero ordinato per non cedere alla tentazione di ridurlo alle categorie culturali dominanti. In un contesto di diffusa secolarizzazione, che esclude progressivamente Dio dalla sfera pubblica, e, tendenzialmente, anche dalla coscienza sociale condivisa, spesso il sacerdote appare “estraneo” al sentire comune, proprio per gli aspetti più fondamentali del suo ministero, come quelli di essere uomo del sacro, sottratto al mondo per intercedere a favore del mondo, costituito, in tale missione, da Dio e non dagli uomini (cfr Eb 5,1). Per tale motivo è importante superare pericolosi riduzionismi, che, nei decenni passati, utilizzando categorie più funzionalistiche che ontologiche, hanno presentato il sacerdote quasi come un “operatore sociale”, rischiando di tradire lo stesso Sacerdozio di Cristo. Come si rivela sempre più urgente l’ermeneutica della continuità per comprendere in modo adeguato i testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, analogamente appare necessaria un’ermeneutica che potremmo definire “della continuità sacerdotale”, la quale, partendo da Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, e passando attraverso i duemila anni della storia di grandezza e di santità, di cultura e di pietà, che il Sacerdozio ha scritto nel mondo, giunga fino ai nostri giorni.

    Cari fratelli sacerdoti, nel tempo in cui viviamo è particolarmente importante che la chiamata a partecipare all’unico Sacerdozio di Cristo nel Ministero ordinato fiorisca nel “carisma della profezia”: c’è grande bisogno di sacerdoti che parlino di Dio al mondo e che presentino a Dio il mondo; uomini non soggetti ad effimere mode culturali, ma capaci di vivere autenticamente quella libertà che solo la certezza dell’appartenenza a Dio è in grado di donare. Come il vostro Convegno ha ben sottolineato, oggi la profezia più necessaria è quella della fedeltà, che partendo dalla Fedeltà di Cristo all’umanità, attraverso la Chiesa ed il Sacerdozio ministeriale, conduca a vivere il proprio sacerdozio nella totale adesione a Cristo e alla Chiesa. Infatti, il sacerdote non appartiene più a se stesso, ma, per il sigillo sacramentale ricevuto (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn.1563; 1582), è “proprietà” di Dio. Questo suo “essere di un Altro” deve diventare riconoscibile da tutti, attraverso una limpida testimonianza.

    Nel modo di pensare, di parlare, di giudicare i fatti del mondo, di servire e amare, di relazionarsi con le persone, anche nell’abito, il sacerdote deve trarre forza profetica dalla sua appartenenza sacramentale, dal suo essere profondo. Di conseguenza, deve porre ogni cura nel sottrarsi alla mentalità dominante, che tende ad associare il valore del ministro non al suo essere, ma alla sua funzione, misconoscendo, così, l’opera di Dio, che incide nell’identità profonda della persona del sacerdote, configurandolo a Sé in modo definitivo (cfr ibid., n.1583).

    L’orizzonte dell’appartenenza ontologica a Dio costituisce, inoltre, la giusta cornice per comprendere e riaffermare, anche ai nostri giorni, il valore del sacro celibato, che nella Chiesa latina è un carisma richiesto per l’Ordine sacro (cfr Presbyterorum Ordinis, 16) ed è tenuto in grandissima considerazione nelle Chiese Orientali (cfr CCEO, can. 373). Esso è autentica profezia del Regno, segno della consacrazione con cuore indiviso al Signore e alle “cose del Signore” (1Cor 7,32), espressione del dono di sé a Dio e agli altri (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n.1579).

    Quella del sacerdote è, pertanto, un’altissima vocazione, che rimane un grande Mistero anche per quanti l’abbiamo ricevuta in dono. I nostri limiti e le nostre debolezze devono indurci a vivere e a custodire con profonda fede tale dono prezioso, con il quale Cristo ci ha configurati a Sé, rendendoci partecipi della Sua Missione salvifica. Infatti, la comprensione del Sacerdozio ministeriale è legata alla fede e domanda, in modo sempre più forte, una radicale continuità tra la formazione seminaristica e quella permanente. La vita profetica, senza compromessi, con la quale serviremo Dio e il mondo, annunciando il Vangelo e celebrando i Sacramenti, favorirà l’avvento del Regno già presente e la crescita del Popolo di Dio nella fede.

    Carissimi sacerdoti, gli uomini e le donne del nostro tempo ci chiedono soltanto di essere fino in fondo sacerdoti e nient’altro. I fedeli laici troveranno in tante altre persone ciò di cui umanamente hanno bisogno, ma solo nel sacerdote potranno trovare quella Parola di Dio che deve essere sempre sulle sue labbra (cfr Presbyterorum Ordinis, 4); la Misericordia del Padre, abbondantemente e gratuitamente elargita nel Sacramento della Riconciliazione; il Pane di Vita nuova, “vero cibo dato agli uomini” (cfr Inno dell’Ufficio nella Solennità del Corpus Domini del Rito romano). Chiediamo a Dio, per intercessione della Beata Vergine Maria e di San Giovanni Maria Vianney, di poterLo ringraziare ogni giorno per il grande dono della vocazione e di vivere con piena e gioiosa fedeltà il nostro Sacerdozio. Grazie a tutti per questo incontro! Ben volentieri imparto a ciascuno la Benedizione Apostolica.
    Dato che questa è una Magnum 44, cioè la pistola più precisa del mondo, che con un colpo ti spappolerebbe il cranio, devi decidere se è il caso. Dì, ne vale la pena? ("Dirty" Harry Callahan)

  5. #5
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    Predefinito Rif: Vocazione spirituale deve prevalere su ruolo sociale del sacerdote

    Il curato fallimentare

    I santi parroci esistono ancora, e vanno in pellegrinaggio ad Ars. Le risposte sociologiche alla crisi del clero stanno facendo un deserto



    Il curato fallimentare - [ Il Foglio.it › La giornata ]

    Grazie a Dio, ci sono ancora parroci che, quando li si cerca, si trovano in chiesa, magari in ginocchio davanti al Santissimo oppure a confessare. Sono quei parroci che celebrano la Messa con devozione, consci di offrire sull’altare, a soddisfazione del Padre e per il bene dei fedeli, il sacrificio del Figlio
    . Sono quei parroci consapevoli del fatto che anche il più indegno dei sacerdoti può compiere ciò che nemmeno centomila battezzati integerrimi possono fare: perdonare un peccato mortale e trasformare il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo. Sono quei parroci che, durante l’Anno sacerdotale voluto da Papa Benedetto XVI, non li si è visti per qualche giorno tra canonica, sacrestia e chiesa perché sono andati in pellegrinaggio ad Ars, dipartimento dell’Ain, Francia, 45° e 58’ di latitudine nord, 4° e 49’ di longitudine est e hanno fatto delle coordinate del villaggio a suo tempo affidato al Santo Curato la croce che segna il cuore del loro sacerdozio. Ma quanti sono? Il parroco moderno, di solito, si presenta sotto altre spoglie. E’ iperattivo e impegnato altrove. In tipografia per il bollettino parrocchiale, sul cantiere del nuovo oratorio, a controllare le attività della Caritas, a discutere con l’assessore ai Servizi sociali, a passare le carte dell’ennesimo piano pastorale partorito dall’ennesimo ufficio diocesano, a barcamenarsi nelle discussioni del consiglio pastorale. Altrove. Non di rado una vittima del sistema, spesso è anche un onest’uomo. Ma noi fedeli non possiamo accontentarci di parroci che siano solo onest’uomini.

    L’abate Giovanni Battista Chautard in un aureo libretto intitolato “L’anima di ogni apostolato” diceva impietosamente: “A sacerdote santo, si dice, corrisponde un popolo fervente; a sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a sacerdote onesto un popolo empio”. Anche i più inguaribili ottimisti devono riconoscere che la crisi pluridecennale in cui si dibatte il cattolicesimo è essenzialmente una crisi del sacerdozio e dei sacerdoti. Un dramma in tre atti. Il primo, andato in scena negli anni successivi al Concilio, è stato accompagnato da clamorosi fenomeni di contestazione e da una imponente emorragia di preti che hanno abbandonato la tonaca. Nel secondo, gli abbandoni sono diminuiti e i fenomeni di dissenso sono andati scemando, lasciando il posto a una diffusa visione burocratica del ruolo del sacerdote, fedele esecutore della linea dettata dal vescovo e insensibile, quando non addirittura refrattario, alla volontà del Papa. Si è così affermata una figura di parroco conservatore nella sua fedeltà incrollabile alla teologia moderna e allo “spirito del Concilio”, ma, proprio per questo, progressista nella sua aperta dissonanza dal magistero e dalla tradizione. Il terzo atto è appena cominciato ed è caratterizzato dall’inesorabile declino numerico dei sacerdoti nella vecchia Europa, cui corrisponde un tremendo “che fare?”.

    Molti sostengono che la mancanza di vocazioni sia un fatto che deve essere accettato senza tentare alcuna contromisura. Anzi, dicono, siccome è Dio che manda operai nella vigna, è Lui stesso che decide di rallentare o addirittura estinguere il flusso delle vocazioni. Ragion per cui saremmo di fronte a uno di quei famosi “segni dei tempi” che esigono di “pensare” una chiesa diversa da quella che abbiamo fin qui conosciuto. Tradotto in parole più semplici, bisogna prepararsi a una chiesa senza sacerdoti. Ma chi nella storia aveva pensato a costruire una chiesa senza preti? Martin Lutero. L’ombra della protestantizzazione si allunga su non poche diocesi sotto le mentite spoglie dell’emergenza vocazionale. Ecco così fiorire l’idea di parrocchie in cui i laici impegnati, quasi sempre donne, rimpiazzino il prete nelle sue funzioni. Ed ecco attuarsi, come ad esempio nella diocesi di Milano, un complesso piano di accorpamento delle parrocchie sotto il cappello delle comunità pastorali, con la regia di sacerdoti-funzionari di mezza età. Una riforma che in questi mesi sta mettendo tutti d’accordo, nel senso che laici e sacerdoti non ne possono più.

    Quello milanese è un laboratorio tanto pericoloso quanto interessante. Chiunque vi si applichi può osservare da vicino il rischio di sgomberare il campo dalla vecchia figura del parroco, che nel diritto canonico ha una sua potestas molto robusta, per sostituirlo con dei preti che appaiono più simili a dei burocrati diocesani. I danni pastorali di una simile impostazione sono evidenti. Il prete che non risiede stabilmente in una comunità non riesce a essere un punto di riferimento per i fedeli. E, soprattutto, non diventa un modello, anche sul piano antropologico, per i ragazzi e i giovani che sempre meno avranno voglia di diventare come lui e verificare se hanno la vocazione al sacerdozio. Non a caso, nella terra di Ambrogio, si stanno affidando alcuni oratori a degli “animatori” stipendiati. Non a caso, nella diocesi che fu di San Carlo, un parroco può spiegare ai fedeli attoniti che “la domenica, invece di prendere la macchina e andare a Messa in una chiesa vicina, potete riunirvi e leggere insieme il Vangelo”. Il progetto sembra evidente. Siccome ci sono meno preti, si fanno fare più cose ai laici, con la conseguenza che ci saranno sempre meno preti e sempre più laici, finché il sistema progettato per funzionare perfettamente senza preti arriverà a pieno regime. Come sarebbe piaciuto a Lutero.

    Ma questo ragionamento, viziato da una conclusione precofenzionata, risulta di conseguenza viziato anche in origine. E’ proprio vero che non esistono vocazioni? Oppure le si va a cercare dove non ci sono? A riprova di questa idea, sta il fatto che, mentre i seminari diocesani si svuotano, molte famiglie religiose di recente fondazione e fortemente incentrate sul sacerdozio cattolico hanno i loro seminari, anche minori, stracolmi. Forse, a voler leggere i “segni dei tempi”, si impara qualcosa dallo svuotarsi dei seminari diocesani. Innanzi tutto che sono un problema. Nessuno sa dire con certezza quale siano gli standard dottrinali comuni ai luoghi in cui si devono vagliare e far crescere le vocazioni. C’è però un’aneddotica inquietante che racconta di seminaristi costretti a recitare il rosario di nascosto, a non rimanere inginocchiati durante la Messa, a farsi mandare a casa propria riviste di apologetica come Il Timone, ad ascoltare clandestinamente Radio Maria. Per le misteriose vie della Provvidenza, nonostante un simile apparato deformante, ci sono ancora buoni preti cattolici che oggi si affacciano, giovani e freschi di ordinazione, alla loro missione apostolica. Ma sono fiori nel deserto, perché la crisi è ben più drammatica di quanto si voglia dire.

    E' sufficiente una ricognizione della prassi liturgica invalsa in questi anni per rendersene conto. Le Messe domenicali offrono esempi a non finire. Dal prete che, al momento della comunione, si fa da parte e va a dirigere i canti mentre i ministri straordinari dell’eucaristia svolgono ordinariamente ciò che non toccherebbe loro, a quello che alla Messa per la Prima Comunione invita i bambini a recitare la formula di consacrazione assieme a lui, a quello che fa tenere l’omelia alla catechista. E’ il sacerdozio universale, bellezza. Una deriva ormai lontana mille miglia da quanto la Chiesa cattolica ha sempre insegnato. San Tommaso d’Aquino spiega benissimo che il sacerdozio dei fedeli consiste nel “ricevere” da Dio, mentre il sacerdozio ordinato consiste nell’“offrire” a Dio. Ma, una volta oscurato nella teologia l’aspetto sacrificale della Messa, il sacerdote ordinato finisce per essere come un comune fedele.

    E’ doloroso portarne le prove, ma non si può raccontare la progressiva scomparsa dei parroci nascondendone i segni. E’ capitato per esempio che, venute a scarseggiare le ostie consacrate per la comunione in una chiesa di un’importante città lombarda, si sia corsi in fretta e furia a prendere delle particole in sacrestia e le si sia mischiate alle altre, quasi che la consacrazione possa avvenire per semplice contatto. Qui è in gioco il cuore della fede cattolica. Qui ci si balocca con il dogma della presenza reale di corpo, sangue, anima e divinità di Gesù Cristo nell’ostia consacrata a opera del sacerdote. Sarà brutale, ma senza presenza reale non c’è sacerdozio. Senza la certezza che nell’ostia c’è tutto Gesù Cristo, senza riverenza per quel pane bianco e immacolato, senza sacro timore al cospetto di tanta grandezza, senza dolcezza al cospetto del manifestarsi della Grazia pallida e pura, il sacerdote può solo farsi da parte. Quando si arriva a questo, si comprende che il vecchio parroco, quello che anche tanti atei ricordano con un certo rispetto o persino un certo affetto, quello che magari metteva soggezione ma era capace di dire la parola giusta al momento giusto, quello che induceva a guardare in Cielo quando si rischiava di affezionarsi troppo alla terra, quel parroco non c’è più.

    Non poteva andare diversamente viste le premesse. Quando il 24 ottobre 1967, davanti al Sinodo dei vescovi, si tenne nella Cappella Sistina una celebrazione sperimentale della Messa prodotta dalla riforma postconciliare, l’impressione più diffusa venne riassunta benissimo dai molti che definirono il rito “freddo come una cena luterana”. Col risultato che più della metà dei padri sinodali votò contro o, quanto meno, chiese modifiche sostanziali. Monsignor Annibale Bugnini, artefice della riforma, accusò il colpo, ma non arretrò, anzi. Nel suo libro “La riforma liturgica” spiega quanto inadeguati fossero quei vescovi che non avevano gradito il suo lavoro. In particolare, riserva parole poco benevole per quelli “assillati dal dogma della presenza reale” che, poveri ruderi medievali, “avevano visto con preoccupazione qualche riduzione nei gesti e nelle genuflessioni, l’allungarsi della liturgia della Parola”.

    Proprio così, tra i vescovi di santa romana chiesa ce n’erano ancora molti con la fissa della presenza reale di Nostro Signore nell’eucaristia. Levata quella fissa, oggi, in gran parte dei seminari, è considerato chiaro segno di non-vocazione rimanere inginocchiati per il ringraziamento dopo la comunione. Ma se un sacerdote non insegna ai suoi parrocchiani la reverenza per Dio che cos’altro può fare? Se non vuol rimanere con le mani in mano, ecco che insegnerà la reverenza per qualcos’altro: per l’ambiente, per la pace, per i poveri, per le balene in via d’estinzione. Persino per il dio delle altre religioni: ma non per il proprio. Non è un caso se, nell’udienza generale del 1° luglio 2009, a proposito dell’anno sacerdotale, Papa Benedetto XVI ha detto: “Dopo il Concilio Vaticano II, si è prodotta qua e là l’impressione che nella missione dei sacerdoti in questo nostro tempo, ci fosse qualcosa di più urgente; alcuni pensavano che si dovesse in primo luogo costruire una diversa società”. Ma non è in un progetto umanitario che trova compimento la vocazione al sacerdozio.

    Il sacerdote radica la sua identità nel primato della Grazia divina. “A fronte di tante incertezze e stanchezze anche nell’esercizio del ministero sacerdotale, è urgente il recupero di un giudizio chiaro ed inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando quanto scrive san Tommaso d’Aquino: ‘Il più piccolo dono della Grazia supera il bene naturale di tutto l’universo’”. Nell’udienza precedente aveva inoltre spiegato che “in un mondo in cui la visione comune della vita comprende sempre meno il sacro, al posto del quale la funzionalità diviene l’unica decisiva categoria, la concezione cattolica del sacerdozio potrebbe rischiare di perdere la sua naturale considerazione, talora anche all’interno della coscienza ecclesiale”. Perso di vista tutto questo, il destino del parroco è quello di essere uno fra i tanti. A far marciare le cose per bene in parrocchia ci pensa il popolo che, liberato da secoli di oppressione liturgica, può dare finalmente sfogo alla sua democratica creatività. Ma il popolo, quand’anche sia il “popolo di Dio”, una volta abbandonato a se stesso, al massimo riesce a mettere su la Festa dell’Unità, fosse pure la Festa dell’Unità dei cristiani.

    E il prete, nella gran parte dei casi cresciuto nella stessa temperie, partecipa con entusiasmo. Poiché l’entusiasmo è l’unico criterio che oggi misura la riuscita di qualsiasi iniziativa ecclesiale, dalla celebrazione della Messa alla raccolta di carta per il Mato Grosso. Se una Messa non è partecipata entusiasticamente, se non è animata entusiasticamente pare quasi non sia valida. Così, ognuno ci mette del suo. C’è chi si affanna nella corsa al microfono per leggere chilometriche preghiere dei fedeli, chi compie gesti simbolici che danno un senso ulteriore alla Messa, chi sale alla ribalta per spiegare che cosa significhino quei gesti simbolici, chi dai gesti simbolici si sente edificato e chi, ma raramente, volta i tacchi dicendo: “Se me lo devi spiegare che razza di simbolo è?”.

    Quanto sono lontane le Messe del Curato d’Ars. Quanto lontana la sua concezione del sacerdozio. Quanto lontano il suo essere parroco, responsabile davanti a Dio del destino eterno di ogni anima affidatagli. “Tolto il sacramento dell’Ordine” diceva ai suoi parrocchiani il santo “noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire per il peccato, chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote”. E poi ancora sopraffatto dalla responsabilità di dare a Dio ciò che gli spetta anche per conto altrui: “E’ il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra. Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti, è lui che apre la porta, è lui l’economo del buon Dio, l’amministratore dei suoi beni. Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie”.

    © 2009 - FOGLIO QUOTIDIANO

    di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
    Ultima modifica di Bèrghem; 24-03-10 alle 14:54
    Dato che questa è una Magnum 44, cioè la pistola più precisa del mondo, che con un colpo ti spappolerebbe il cranio, devi decidere se è il caso. Dì, ne vale la pena? ("Dirty" Harry Callahan)

 

 

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