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    Predefinito tra retrogradi vanno d'accordo

    La "santa alleanza"
    di Fulvio Ferrario

    Chiesa cattolica e chiese ortodosse potrebbero accordarsi sul primato pontificio

    Il dialogo ecumenico, secondo Roma, è a due velocità: quella tra le «vere chiese» cattolica romana e ortodossa e l’altra con il mondo protestante sempre più isolato

    Il cardinale Walter Kasper, responsabile vaticano per l’ecumenismo, lo va ripetendo da tempo: il cammino verso l’unità della chiesa viaggia a due velocità. Roma e l’ortodossia sono «chiese propriamente dette» e quindi possono dialogare alla pari; inoltre, queste due famiglie ecclesiali si sentono unite in quella che qualcuno ha chiamato una «santa alleanza», contro la secolarizzazione dell’Europa, che promuove l’aborto, l’eutanasia, il libertinismo etero e omosessuale e altre nefandezze. Con il protestantesimo, invece, è tutto più difficile: intanto, quelle evangeliche, come ormai tutti sanno, non sono chiese, ma qualcosa d’altro: non hanno veri vescovi (neanche quelle che hanno capi che si definiscono in tal modo), né veri pastori (figuriamoci: consacrano al ministero persino le donne), né veri sacramenti. Sembrano chiese, ma non lo sono. Inoltre, molte di esse si sono accodate all’immoralità dilagante. Le più estremiste addirittura la benedicono, per esempio nella forma delle unioni omosessuali.

    Naturalmente bisogna dialogare anche con loro, non è detto che non tornino sulla retta via: Kasper ha espresso a esempio la speranza che, in occasione del quinto centenario della Riforma (2017), luterani e cattolici possano dire qualcosa di positivo (per lui, Kasper), sul ministero episcopale e anche su quello che a Roma piace chiamare «ministero petrino». Negli auspici del cardinale, cioè, l’anniversario della Riforma dovrebbe coincidere con il funerale del protestantesimo, naturalmente celebrato in forma ecumenica. Quindi: avanti tutta con gli ortodossi, in attesa della conversione dei protestanti. Per la verità, ci sono anche gli evangelical. Essi, secondo Roma, hanno una visione della chiesa assai bizzarra, peggiore, se possibile, di quella dei protestanti «classici». Questi ultimi, però, dovrebbero prendere esempio dall’etica degli evangelical, assai meno servile nei confronti delle perversioni della modernità, semmai persino troppo rigida: solo Roma, come si sa, possiede infallibilmente l’equilibrio richiesto da Dio e dalla storia.

    Per la verità, alcuni problemini restano anche con gli ortodossi: per esempio il papato, con relativo dogma dell’infallibilità. Roma, però, è paziente. Il recente documento cattolico-ortodosso di Ravenna, reso noto poche settimane or sono, apre, secondo alcuni, interessanti prospettive. Il titolo non appare particolarmente accattivante: Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Roba da specialisti, si direbbe. Lo è, in effetti. Ma, con buona pace di chi, anche nelle nostre chiese, ritiene che la teologia sia un’esercitazione accademica fine a se stessa, produttrice di formule astratte e alla fine irrilevanti, a volte i testi dottrinali pongono le basi di processi capaci di plasmare la storia. Il documento di Ravenna argomenta a partire dall’autorità della tradizione, assai più che da quella della Scrittura: dati i firmatari, ciò non può stupire del tutto. La Bibbia è oggi letta anche nel cattolicesimo, come protestante l’ho constatato ripetutamente e ne sono stato realmente edificato. Un testo come questo, tuttavia, mostra con chiarezza che il pungolo critico del testo biblico, la sua protesta nei confronti del costituirsi di un apparato ecclesiastico gerarchico e autoritario, sono completamente censurati.

    Conta invece il fatto che la tradizione stabilirebbe un «ordine canonico» e che, in esso, la chiesa di Roma e il suo vescovo occuperebbero il primo posto. Le chiese ortodosse si dicono d’accordo con l’idea di tale primato, il che ha indotto alcuni a intravedere l’alba di un futuro accordo su qualche forma di esercizio del papato. In realtà, i problemi di sempre restano. Il numero 41 del documento è chiaro: cattolici e ortodossi «non sono d’accordo sull’interpretazione delle testimonianze storiche (…) per ciò che riguarda le prerogative del vescovo di Roma». E poi, naturalmente, non sono d’accordo sugli sviluppi del papato nel secondo millennio, culminati nel dogma dell’infallibilità. Intanto, però, si parla di primato. Non si tratta, per Roma, di un importante tema teologico: è una vera e propria ossessione. Già il fatto che se ne parli, è motivo di ampia soddisfazione. Poi, si può dire quel che si vuole: per esempio che «primato e conciliarità sono reciprocamente interdipendenti» (n. 43), o che il vescovo di Roma non ha convocato né presieduto i concili ecumenici dei primi secoli. Va tutto bene, purché, intanto, si discuta del primato. Poi, col tempo si vedrà.

    Non sono affatto sicuro che, sulle questioni teologiche, un effettivo consenso sia imminente. Piuttosto, verrà approfondita l’idea delle «due velocità» e accelerato il processo di coordinamento della presenza culturale e politica in Europa, almeno se l’intervento cattolico nei paesi di tradizione ortodossa non determinerà incidenti simili a quelli verificatisi nel passato. L’isolamento protestante all’interno del movimento ecumenico è da considerarsi più che probabile.
    Di per sé, la cosa non costituirebbe necessariamente una sciagura. I protestanti sono abituati, quasi dappertutto, a essere minoranza: magari non microscopica come da noi, ma sempre minoranza. L’essenziale sarebbe che riscoprissero la passione di pro-testare, cioè di testimoniare le ragioni della Riforma (che sono poi quelle dell’evangelo), contro l’arroganza delle gerarchie ecclesiastiche di varia provenienza. Non si tratta affatto di essere servili nei confronti della modernità: anche a essa, può solo essere annunciata la parola della croce, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani. Questo è il nostro messaggio. La democrazia, il pluralismo e anche i diritti civili dei gay vengono dopo. Dove la parola della croce risuona, però, essa crea anche spazio per i diritti degli uomini e delle donne e sì, per la libertà, delle anime e dei corpi. La croce del Figlio di Dio è liberante. Le croci dorate dei gerarchi ecclesiastici di varie confessioni lo sono assai meno. Se per dirlo bisogna per forza essere minoranza, lo saremo volentieri.

    Tratto da Riforma del 30 novembre 2007

  2. #2
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    Molto d'accordo.

 

 

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