Banlieues: tra Francia... e Palestina


Pubblichiamo, qui di seguito, un recente lavoro di Emilio Quadrelli, frutto di un investigazione ormai biennale dentro i territori "banditi" (in quanto posti fuori - "al bando" - dalle retoriche e dalle pratiche di cittadinanza della prima società) che si estendono nelle numerose periferie/quartieri popolari francesi.
Emilio intervista qui un abitante di questi territori che ha scelto di andare in Palestina per combattere nelle file di Hamas. Un contributo interessante, capace di gettare uno sguardo inedito e illuminante su tante nostre periferie europee.

[Il recente contributo - scaricabile anche in pdf - uscirà sabato prossimo (1 dicembre) su
Alias, supplemento culturale del quotidiano Il manifesto - Il titolo è nostro].



Nell’agenda politica della sinistra e dei movimenti più o meno antagonisti e radicali occidentali, l’attenzione verso la “questione palestinese” ha da tempo cessato di suscitare passioni e ancor meno entusiasmi. Eppure la Palestina continua a essere uno dei nodi politici di maggior peso dello scenario internazionale capace, per di più, di catalizzare intorno a sé l’attenzione di quote rilevanti delle popolazioni migranti arabe ma non solo. Accade così che, mentre nei nostri mondi, l’attenzione verso i migranti sia monopolizzata dalla “questione sicurezza” o, per altri versi, dalla “questione umanitaria”, all’interno di questi stessi mondi sia in atto la produzione di un discorso squisitamente politico che, obiettivamente, spiazza non solo le retoriche intorno alle classi pericolose ma anche l’insieme dei frames esattamente speculari che ascrivono i migranti nell’impolitica e in fondo rassicurante categoria del povero e/o del miserabile.
L’intervista che segue è stata realizzata in Francia lo scorso ottobre. A parlare è un palestinese che ha da poco superato i trent’anni e che nella migliore delle convenzioni coloniali chiameremmo Mohamed. Per molti versi, la sua, è la storia di un’immigrazione privilegiata, non recente e ampiamente inserita all’interno della “cosmopolita” società parigina nella quale, se finisse con l’accettarne le regole, non avrebbe difficoltà a trovare una comoda posizione di rendita e prestigio. La seconda Intifada, e la reazione che questa suscita nella sua famiglia e nella cerchia delle loro frequentazioni, invece, lo porta a osservare quanto accade in Palestina con occhi diversi ma non solo perché, lo sguardo sulla Palestina, ha delle ricadute immediate soprattutto sulla Francia. Ai suoi occhi la “questione palestinese” si lega all’arabofobia dilagante, alla stigmatizzazione delle “classi pericolose” degli abitanti della banlieue, retoriche fatte proprie dalla sua famiglia e da gran parte delle classi agiate arabe e palestinesi. Da qui la rottura drastica con il tranquillizzante mondo dell’assimilazione e dell’integrazione e l’inizio di un rapporto “militante” con i mondi palestinesi con la conseguente partenza verso la Palestina e la partecipazione diretta alla lotta armata del popolo palestinese tra le file di Hamas. Un aspetto che, per ovvi motivi, non può che rimanere, fino all’arrivo di tempi migliori, custodito tra gli archivi della Resistenza. Ma in fondo, l’interesse per la struttura combattente di Hamas, se ha interesse per gli strateghi degli eserciti imperialisti non particolarmente rilevante appare per una ricerca sociale e politica maggiormente attenta e interessata allo scenario socio/culturale all’interno del quale la Resistenza prende forma e consistenza. Per quanto le suggestioni della seconda Intifada, per Mohamed, giochino un ruolo importante e su questa scia prenda corpo un lavoro di studio e conoscenza dell’intera vicenda della lotta palestinese, a determinare la sua scelta di campo è il clima che gli sta intorno: l’arabofobia e l’odio sempre più diffuso nella società francese verso gli ex colonizzati delle periferie e i nuovi immigrati che lo porta a una revisione.


La tua è una condizione, almeno in apparenza, di ampia integrazione sociale all’interno della quale però, a un certo punto, succede qualcosa. Che cosa in particolare?

Questo mi sembra un po’ il nocciolo della questione. La resistenza in Palestina, per me, ha giocato sicuramente un ruolo importante ma, con ogni probabilità, le sue ricadute sarebbero state diverse se, intorno a me, non avessi trovato un clima politico, sociale e culturale di un certo tipo. In poche parole, nella mia scelta di campo, hanno finito con l’avere una notevole importanza molti aspetti della società francese. Abbandonando il mondo ovattato in cui ero cresciuto ho potuto rendermi conto che, per certi versi e per molti arabi ma anche neri e nuovi immigrati, non era necessario fare tanta strada per trovare la Palestina, perché se la ritrovano ogni giorno sotto casa.

Perché?
Intanto bisogna parlare dell’arabofobia che è diventato un sentimento comunemente condiviso nella società francese il quale, paradossalmente, trova consensi e accomodamenti anche in gran parte della popolazione araba rispettabile e socialmente inclusa. In questi mondi, infatti, è sempre più comune usare l’espressione quelli là per indicare gli arabi dei quartieri poveri e popolari o quando si parla degli immigrati. Nei loro confronti, a prevalere, è il disprezzo insieme al continuo bisogno di differenziarsi in modo da mostrarsi alla buona società francese come individui che non hanno nulla a che fare con quelle masse barbare. Un atteggiamento interno che ha il suo corrispettivo all’esterno dove, il ragionevole, moderato e presentabile Abu Mazen, è continuamente giocato contro l’irresponsabile, incivile e ignorante Hamas. I due comportamenti sono assolutamente reciproci perché, per costoro, l’unico problema è mantenere l’ordine imperialista all’interno del quale hanno trovato delle comode sistemazioni.

In che modo avviene l’adesione di parte delle classi sociali rispettabili arabe e palestinesi a tali retoriche?
Ciò che diventa oggetto di stigmatizzazione da parte degli arabi benestanti sono gli arabi poveri o, per usare un termine più preciso, di tutta quella parte di popolazione araba ascrivibile all’ambito della subalternità. In poche parole si assiste a una decisa presa di distanza nei confronti degli abitanti arabi della banlieue o di quelli che, limitandoci alla metropoli parigina, risiedono in alcune sacche, ad esempio Barbès e Belleville che, pur non essendo banlieue, presentano una realtà urbana e sociale distante dai canoni della rispettabilità. Una presa di posizione che tende a rimarcare la differenza tra chi si considera sostanzialmente assimilato e chi non è in grado di compiere tale passaggio ed è, per questo, destinato a rimanere perennemente altro e straniero. Da parte delle classi sociali arabe rispettabili è venuta via, via maturandosi l’idea che assoggettarsi alle retoriche dell’Occidente è l’unico passaggio culturale e politico sensato poiché, l’Occidente, rappresenta il punto più elevato e avanzato della civiltà. In questo modo, tutti coloro che rifiutano tale iter o, come accade per una quantità enorme di persone, ne sono oggettivamente escluse rappresentano qualcosa che deve essere eliminato. Tutto ciò ha delineato e costituito due mondi arabi che non hanno nulla da spartire l’uno con l’altro. Non è un caso che, in banlieue, la causa palestinese, al pari della memoria delle lotte anticoloniali, sia particolarmente viva mentre, al contrario, negli ambienti arabi rispettabili e occidentalizzati le storie della lotta anticoloniale siano, da tempo, oggetto d’imbarazzo. In banlieue, ad esempio, si è sviluppato un movimento per titolare 18 ottobre 1961 una stazione del Metrò. Ciò che si è sviluppato intorno a questa data, è particolarmente indicativo per capire la diversità dei punti di vista e di prospettive che attraversano complessivamente il mondo arabo. Mentre in banlieue o nei quartieri poveri di Parigi, alle iniziative hanno partecipato moltissime persone, in altri ambiti non si è smossa una foglia.

Quindi, sotto tale luce, il modo in cui si affronta la “questione palestinese” ha soprattutto a che fare con una condizione interna. Non si tratta di sola e semplice solidarietà verso qualcosa che, in ogni caso è distante, ma una sorta di identificazione dovuta al riconoscimento di una condizione simile, ovviamente con tutte le tare del caso, a quella vissuta dal popolo palestinese?
Per molti versi è così. In qualche modo, per gli abitanti della banlieue e dei quartieri poveri, la causa palestinese è assunta come specchio di una condizione esistenziale non distante da quella del colonizzato. Ed è anche questo il motivo per il quale la memoria delle guerre anticoloniali lì è particolarmente viva e, i movimenti che tengono alta quella bandiera, trovano molto sostegno, ammirazione e seguito.

Quindi, un movimento come quello di Hamas, in questi ambiti arabi trova consensi più per il suo aspetto anticoloniale che per quello religioso?
Nello scenario attuale questo è un po’ un falso problema perché, pur con qualche eccezione, il movimento della Resistenza e l’Islam politico tendono a coincidere. Forse il vero dibattito che andrebbe aperto è sull’Islam politico ma è un passaggio difficile perché, del tutto strumentalmente, in Occidente l’unica equazione possibile e accettata è quella Islam/integralismo, Islam/fondamentalismo, Islam/terrorismo e così via. Eppure, l’Islam politico, è un mondo complesso, sfaccettato ma in ogni caso per nulla assimilabile alle logiche qaediste che, come tutti dovrebbero ben sapere, sono un prodotto coltivato in serra dalle intelligence anglo/americane. Un virus che oggi, forse, gli è scappato dalle mani ma che, in ogni caso, è diretta filiazione del terrore imperialista e che non ha alcun legame con il movimento della Resistenza. Ne è prova il fatto che, nonostante i continui tentativi compiuti per infiltrarsi nelle situazioni di conflitto, è stata continuamente emarginata. L’identificazione dell’Islam politico con il qaedismo è una pura e tipica operazione propagandistica operata dalle agenzie della controguerriglia specializzate nella disinformazione. Un’equazione che ha il solo scopo di giustificare la politica di guerra da parte delle potenze imperialiste. Al contrario, L’Islam politico, tanto in Europa quanto nei mondi islamici coopera tranquillamente con forze laiche e, com’è facilmente verificabile frequentando gli ambiti di discussione politica in cui opera, anche con forze e individui dichiaratamente atei. Come hai potuto osservare con i tuoi occhi, nella riunione che abbiamo appena concluso, vi erano presenze diverse. In particolare, come avrai notato, a questa riunione hanno partecipato donne con il velo e molte senza. Il tutto senza alcuna forma di attrito o tentativo, neppure vago, di imposizione o di condizionamento. Questa realtà, queste attività, che si svolgono alla luce del sole chiunque le può vedere. Non sarebbe difficile smontare i luoghi comuni sul mondo islamico e soprattutto sull’Islam politico, probabilmente ciò non avviene perché, l’imperialismo, ha interessi d’altro tipo. Non solo deve giustificare la guerra ma, sia per i rovesci subiti, sia per il carattere strategico assunto dalla guerra nel delineare un nuovo ordine mondiale, deve preparare le sue popolazioni a scenari bellici sempre più ampi. Per questo, tutti o la stragrande maggioranza di coloro che hanno il potere della parola e della scrittura, preferiscono far finta di non vedere e finiscono con il presentare l’Islam politico così com’è stato confezionato dagli strateghi della controguerriglia psicologica e mediatica.

Eppure, una delle cose che è maggiormente rimproverata ad Hamas, e più in generale a buona parte del cosiddetto Islam politico, è l’imposizione di uno stile di vita al limite del bigotto e di essere fautore di una società tetra e tristi dove ogni espressione di vitalità ed esuberanza viene severamente perseguita dalla polizia islamica. Una polizia molta attenta e persino ossessiva nel far rispettare uno stile di vita dove non sembra esserci spazio per nulla: niente divertimento, niente sesso, niente musica, niente alcol e così via. In poche parole sembra che basti un niente per essere accusati e perseguitati con l’accusa di favorire la penetrazione, attraverso l’assunzione di determinati stili di vita, del modello occidentale. Che cosa puoi dire al proposito?

Forse bisogna ricordare alcune cose che sono ovvie, banali e scontate ma che in molti sembrano tranquillamente ignorare: in Palestina c’è la guerra. La società palestinese è una società in guerra e sotto occupazione. In ogni momento è possibile trovarsi sotto attacco da parte delle forze israeliane. Diventa abbastanza evidente, e sarebbe obiettivamente criminale non comportarsi in tale maniera, che ogni energia deve essere messa al servizio della resistenza e che tutto il popolo sia chiamato a una collaborazione non formale. Siamo di fronte a una lotta mortale. Un fenomeno che non ha nulla di particolare ma è tipico di tutte le società sotto assedio che, per forza di cose, non possono far altro che ricorrere alla mobilitazione totale. È da qui che è necessario partire per spiegare quanto accade dentro i territori palestinesi. L’imperialismo usa tutti i mezzi per piegare la forza e la volontà di resistenza dei popoli e tra questi, gli stili di vita improntati sull’individualismo, l’edonismo e il non impegno politico, culturale e militare non giocano un ruolo meno importante delle armi vere e proprie. Un popolo succube del e dal modo di vita occidentale è già un popolo sconfitto. Ma a tutto ciò va aggiunto anche un altro aspetto, del quale media e analisti politici preferiscono non parlare: la necessaria e legittima repressione dei collaborazionisti. Sono molti i fronti sui quali la Resistenza deve combattere. La guerra ai collaborazionisti è forse uno dei più importanti. In ogni guerra popolare, per la durezza e difficoltà che comporta, è normale che vi siano individui che, tradendo e rinnegando il proprio popolo, si mettono a lavorare attivamente con e per il nemico. Non bisogna mai dimenticare quanto il settore informativo, in guerra, sia prezioso così come, l’opera di disinformazione, giochi un ruolo strategico decisivo nei conflitti. La liquidazione di queste reti è una questione di vita e di morte per la Resistenza e sarebbe stupido oltre che suicida non dedicare a questo fronte le energie necessarie. Molte operazioni di polizia, che la stampa occidentale sbandiera come azioni contro innocui cittadini rei di propugnare uno stile di vita Occidentale in realtà non sono altro che lo smantellamento di reti spionistiche che hanno il compito di indicare alle squadre aeree o ai commando israeliani i luoghi di residenza dei migliori quadri della Resistenza o qualcuno pensa che i cosiddetti omicidi mirati e selettivi avvengano su ispirazione divina?

Secondo molti, però, questo stesso scenario le forze che si inspirano all’Islam politico tenderebbero a imporre qualcosa di simile anche all’interno delle metropoli occidentali, almeno nei confronti delle popolazioni di origine araba. Cercando, in questo modo, di islamizzare parti stesse delle metropoli europee. Cosa puoi dirmi al proposito?
Intanto, il problema delle spie e degli infiltrati, esiste qua come là ed è normale e legittimo cercare di non farsi intrappolare da questi. Per il resto, io credo che ci sono dei principi e dei valori che vanno instaurati ovunque. Prendi, per esempio, l’abitudine che trovi in gran parte dei negozi gestiti dagli arabi nelle banlieue di raccogliere fondi e offerte per sostenere la causa del popolo palestinese. Si può parlare di imposizione della legge islamica perché si raccolgono fondi per finanziare ospedali, scuole, servizi sociali per tutto il popolo palestinese? Cosa c’è di fondamentalista nel sostenere la legittima causa del popolo palestinese contro l’aggressione sionista e imperialista? L’unico motivo di tanto odio è il carattere antimperialista che questo tipo di attività rivendica senza farsene problema. Che questo sia l’imposizione della legge islamica mi sembra per lo meno ridicolo. Ma veniamo a quello che, con ogni probabilità, è causa di maggiore fastidio. Mi riferisco al fatto che l’Islam politico, il quale in non pochi casi agisce in perfetta sintonia e unità di intenti con tutte quelle forze laiche e progressiste non subalterne alle logiche sioniste e imperialiste, ha conquistato una notevole influenza morale ancora prima che religiosa e politica in molti ambiti metropolitani e in particolare nei quartieri popolari, riuscendo a dare dignità alle vite di molti e costruendo legami solidali tra le varie popolazioni senza alcuna distinzione anche se, per lo più, sono gli arabi e i neri a risultare maggiormente sensibili a questo tipo di lavoro. Credo che, in tutto ciò, vi sia ben poco di riprovevole.

In pratica di che cosa si sta parlando?
Come sanno tutti, dagli uomini di governo, alla polizia, ai giornalisti, agli intellettuali, in banlieue, vi è una situazione sociale ed economica molto dura e pesante. Una situazione che colpisce i giovani ma anche tutta quella generazione di cinquantenni, per lo più operai espulsi dalla produzione, che favorisce il proliferare di condotte e stili di vita moralmente riprovevoli. Il facile ricorso all’alcol, all’uso di droga, alla ricerca di reddito in attività di tipo micro illegale, alla sopraffazione dei propri fratelli e al non rispetto delle donne. Tutti atteggiamenti tipici di una situazione di esclusione sociale, di difficoltà economica e, perché questo è un po’ il nocciolo della questione, di isolamento individuale che induce ad affrontare la propria condizione non in termini collettivi ma individuali. All’interno di questo scenario è facile assistere alla messa in atto di risposte assolutamente individualiste che, nel fratello o nella sorella che vive condizioni simili alle tue, porta a vedere un nemico invece di un tuo naturale alleato. Il proliferare dell’uso indiscriminato di alcol e droga è il primo passo verso l’affermazione di uno stile di vita di questo tipo. Ed è qua che interviene quello che, giornalisti e scrittori asserviti al potere imperialista, chiamano il diffondersi o, come in molti casi questi palesemente alludono, l’imposizione della legge coranica. Vale la pena di vedere concretamente di che cosa si tratta. Il problema centrale, per tutte le forze che si oppongono alla dominazione degli imperialismi occidentali e a quello statunitense in particolare, è la costruzione di una solida rete di resistenza ovunque. Perché ciò sia effettivamente possibile occorre, non troppo diversamente da quanto accade direttamente nei territori di guerra, che la propria popolazione si riconosca in una dimensione collettiva, che condivida una serie di valori, che guardi il proprio vicino di casa come una sorella e un fratello, che collabori attivamente all’elaborazione di un progetto e a una pratica di resistenza in perfetta sintonia con il proprio popolo. Se una persona non fa altro che bere e drogarsi dalla mattina alla sera e l’unica sua preoccupazione è procurarsi, con qualunque mezzo, il denaro che gli serve per sprofondare nel vizio, se per farlo picchia la madre, sfrutta la sorella, aggredisce il suo vicino di casa com’è possibile che contribuisca alla causa della resistenza? Se la sua vita è dominata dal demone dell’individualismo e per servirlo è disposto a calpestare ogni cosa com’è possibile che la sua vita si metta al servizio della causa comune? Ovviamente non è possibile. Ed è esattamente questa condizione che gli strateghi della contro guerriglia vogliono perpetuare. L’acquisizione di una coscienza politica o, se preferisci, religiosa e politica consente la fuoriuscita da uno stile di vita degradato e senza prospettive, consente di liberarsi dalla paura, da una vita in fuga e senza obiettivi. Mentre tutti i programmi di risocializzazione dello Stato falliscono, e non potrebbe essere altrimenti, i programmi della Resistenza catturano ogni giorno di più l’interesse delle sorelle e dei fratelli i quali, nella lotta, trovano le motivazioni necessarie per chiudere con un passato poco edificante. Sotto tale aspetto, in Palestina, Hamas ha svolto un lavoro veramente superlativo riuscendo a emarginare il vizio e a restituire alla lotta intere schiere di gioventù palestinese.


Tuttavia, benché giudicata positivamente, l’esperienza Hamas, per Mohamed, non è esente da critiche anche se, ciò che ha da rimproverargli, ha dei tratti ben diversi da quelli che abitualmente si è usi ascoltare da parte degli analisti occidentali o da palestinese che sembrano dimenticare lo stato di guerra e occupazione permanente in cui versa il popolo palestinese e, sbandierando ai quattro venti la laicità, si preoccupano unicamente del numero limitato di discoteche fruibili all’interno dei Territori e del limitato “erotismo” al quale sarebbe costretto il popolo e in particolare le donne palestinesi. Argomenti che, non a caso, catturano l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale, forse particolarmente sensibile ai drammi della meno pausa ma a dir poco sorda di fronte ai reiterati eccidi compiuti dall’esercito israeliano. La critica che muove Mohamed a Hamas sorvola tranquillamente sulla quantità di sesso consumato nella società palestinese, per focalizzare l’attenzione intorno ai limiti della gestione internazionale della guerra. Al proposito vi è un passaggio e un riferimento fondamentale: il richiamo all’esperienza del FLN algerino e, aspetto tutt’altro che scontato, il parallelo tra l’esperienza della Rivoluzione algerina e il movimento della Resistenza contemporanea. Un parallelo tutt’altro che bizzarro e privo di fondamenti tanto che, in ambito Occidentale, lo stretto rapporto tra le vicende algerine e gli scenari bellici contemporanei è stato ultimamente proposto dallo storico di Oxford Alistar Horne nell’ultima Prefazione alla riedizione della sua monumentale opera La guerra d’Algeria.


Tornando ad Hamas da parte tua vi è anche un discorso critico. Ne potresti parlare?
È molto semplice. Mi sembra che, anche se ovviamente non bisogna perdere di vista la drammatica situazione in cui si è venuto a trovare specialmente a Gaza, Hamas stia correndo il rischio di ripiegare su se stesso non comprendendo che, nella situazione attuale, non basta chiudersi a riccio ma è necessario soprattutto rompere l’isolamento e l’accerchiamento. In questo senso, Hamas, sconta i limiti che la sua dimensione eccessivamente locale finisce con imporgli. Cresciuto e radicatosi prevalentemente grazie alla sua attività sociale e territoriale, ha trascurato la formazione di quadri politici complessivi in grado di giocare su tavoli dove le capacità necessarie sono diverse da quelle che sono risultate vincenti dentro i Territori. In poche parole la sua maggiore difficoltà è quella di svolgere un ruolo internazionale, la sua attività diplomatica ad esempio è praticamente nulla, e quindi il non essersi neppure posto il problema del peso che l’attività internazionale comporta. A differenza ad esempio di Hezbollah, che sotto questo aspetto rappresenta forse il punto più avanzato della resistenza, Hamas si mostra abbastanza lacunoso. C’è indubbiamente al suo interno un eccesso di localismo e anche, almeno nella fase attuale, il prevalere di figure la cui formazione politica e culturale non hanno potuto usufruire di esperienze di maggiore complessità. Bisogna anche dire che molti dei quadri migliori sono stati assassinati dagli israeliani che, nei confronti di Hamas ma non solo, continuano a perpetuare una politica di sterminio, obiettivamente intelligente, che mira a decapitare il movimento della resistenza nei suoi punti più alti e rappresentativi. In questo modo, in molti casi, il peso dell’organizzazione è dovuto forzatamente ricadere su quadri politicamente meno preparati e cresciuti sostanzialmente all’interno di dinamiche locali. Questo spiega un certo grado d’impasse al quale Hamas è costretto. Costretto a dover sostituire velocemente i suoi quadri assassinati è stato obbligato a ricorrere a un personale che obiettivamente mostra dei limiti. Vi è grande volontà e determinazione ma poca conoscenza. Questo spiega l’isolamento politico/diplomatico in cui oggi ha un po’ finito con il trovarsi. Ad esempio sono pochi coloro che, attualmente, hanno studiato a fondo l’esperienza della guerra d’Algeria e la linea di condotta del FLN algerino il quale, nell’azione internazionale, ha costruito una parte non secondaria della sua vittoria. Ciò che il movimento della Resistenza sta affrontando ha moltissime cose in comune con la guerriglia algerina che credo vada studiata con notevole attenzione. In Hamas, sotto questo profilo, vi sono delle carenze e questo ne limita il pensiero strategico. Mi sembra esserci una certa prevalenza di coloro che prediligono la concretezza rispetto a impostazioni di più ampio respiro ma questo non è mai un bene perché, per vincere, un movimento di popolo deve saper guardare più avanti del suo nemico. La Rivoluzione algerina è stata in grado di farlo mentre i francesi, imprigionati nel concreto e nel contingente, sono andati incontro a un disastro. Questo dobbiamo tenerlo sempre ben a mente.


Tutt’altro che privo di capacità critica, Mohamed assume sempre più i tratti di un militante distante dal fanatismo e dall’obbedienza cieca e continuamente in grado di sottoporre la prassi all’impietoso vaglio delle armi della critica. Ma ciò che senza mezzi termini compare nell’ultimo scorcio del suo discorso, la critica al “localismo” di Hamas, è forse indice di un problema non riconducibile alla dimensione della tattica piuttosto a quello della strategia. In altre parole e sotto una luce di respiro teorico più ampio, il “localismo di Hamas”, sembra essere il frutto obbligato di un’ipotesi politica che, della costruzione dello Stato, continua a fare il suo progetto politico principale. Ed è su ciò che pare sensato spostare l’angolo di osservazione e riflessione.

C’è, infine, un punto non sciolto nel tuo discorso: la questione dello Stato. Non pensi che tra le cause principali dell’obiettivo fallimento al quale sono andate incontro le varie esperienze della decolonizzazione vi sia proprio l’aver assunto la forma statuale occidentale come cornice e contenitore delle rivoluzioni? Su questo non sembra esservi stata nessuna riflessione seria e radicale da parte dei vari movimenti che si muovono sul terreno della resistenza i quali, al contrario, sembrano fortemente decisi a considerare la forma statuale il punto centrale del loro programma?

È vero, sulla questione dello Stato non si è mai aperta una discussione vera all’interno di tutte le esperienze della resistenza anche se, movimenti come quello di Hamas per un verso o Hezzbollah per un altro, hanno dato vita a forme di potere che non possono certo essere considerate la semplice fotocopia dello Stato Occidentale tuttavia, la necessità di edificare lo Stato, è parte fondamentale e irrinunciabile dei movimenti della resistenza. Bisogna però, altrimenti si rischia di affrontare la questione fuori dal contesto storico e reale in cui si pone, farlo tenendo presente lo scenario in cui tale questione si pone. A cosa assistiamo oggi? Assistiamo al rafforzamento e potenziamento di alcuni Stati e, al contempo, alla dissoluzione di altri i quali sono deprivati e depotenziati della loro legittimità politica per assumere l’innocua e in fondo esotica forma della struttura etnica, culturale, religiosa, semi tribale e così via. Mentre gli Stati occidentali, pur con tutte le modifiche anche radicali alle quali si è assistito in questi ultimi anni, hanno dilatato a dismisura la loro funzione, molti altri sono stati frantumati e continuano a esserlo. Non ci vuole molto per capire che, il progetto strategico dell’imperialismo, prevede la dissoluzione di ogni realtà politica a lui non allineata e la costituzione, al loro posto, di grottesche entità di tipo etnico/culturale completamente subordinate ai suoi comandi. Le stesse realtà statuali ancora formalmente autonome, come ad esempio gli stati del Nord Africa, hanno da tempo perso qualunque tratto indipendente e sono diventati delle semplici appendici poliziesche e militari degli Stati Occidentali. Poliziesca perché sono in prima linea nella repressione e nell’annientamento delle forze della Resistenza, operazioni che conducono sia all’interno di quelli chiamati ancora formalmente confini nazionali, sia attraverso l’invio di forze di polizia e forze speciali nelle metropoli europee al fine di reprimere le lotte e le forme organizzative, attraverso metodi apertamente terroristici, dei connazionali immigrati. Militare perché, e il caso del Marocco che spara e uccide i migranti africani per proteggere i confini spagnoli come nel caso di Ceuta e Melilla ne rappresenta la migliore esemplificazione, al pari dell’appoggio fornito da questi governi alla missione di Frontex insieme all’adesione alla guerra contro tutto ciò che, per motivi diversi, turba la pax occidentale è diventata la cifra del presente. Allora, in uno scenario simile, rivendicare la legittimità di edificare degli Stati veri non allineati al dominio imperialista, assume un carattere positivo anche se la tua obiezione iniziale, a proposito dei guasti che la riproduzione del modello statuale di tipo occidentale nelle esperienze della decolonizzazione, non può essere ignorata. Bisogna però tenere presente, quando si parla di Stato, della forma che questo sarà obbligato ad assumere nel contesto attuale. Non credo sia possibile una sua proposizione nelle vesti fino ad ora conosciute ossia quelle di uno Stato/Nazione inserito in un mondo di entità statuali simili. Questo, tra l’altro, è un altro dei limiti del pensiero politico – strategico che mi sembri caratterizzare gran parte del movimento di Hamas il quale, fossilizzandosi su tale aspetto, non sembra rendersi conto della sua inattualità e infondatezza. Credo, piuttosto, che il modello statuale al quale andremo incontro assomigli di più, ma su entità territoriali ben più ampie, a quanto si sta sperimentando in Libano. In questo caso, la forma – Stato che prenderà forma sarà per forza di cose qualcosa di molto diverso da quelle alle quali siamo stati abituati.


Obiettivamente, indipendentemente dalla condivisione che si può nutrire intorno alle argomentazioni ascoltate, è difficile non riconoscervi tentativi di elaborazione politica e analitica di spessore. Ciò che smuove il movimento della Resistenza appare ben distante da quella mistica afabulazione coranica che, media e analisti sociali e politici occidentali, continuano a propinare sia in trasmissioni e articoli divulgativi sia nei loro saggi a maggiore densità teorica. Il modo in cui, nell’ultimo passaggio dell’intervista è affrontata la “questione dello Stato”, solo per fare un esempio, merita considerazioni e riflessioni non liquidabili in quattro battute. Tuttavia, il vero nodo della questione, è un altro. Se, come in non pochi casi accade, un dibattito teorico – politico di valore è patrimonio esclusivo di piccoli cenacoli con legami a dir poco tenui con il mondo reale, le sue ricadute pratiche risultano pressoché nulle. Diverso lo scenario se, tale patrimonio, è socializzato tra quote di popolazioni e all’interno di ambiti sociali dove il rapporto tra teoria e prassi consuma un’unità dialettica foriera di ricadute non secondarie per lo scenario sociale e politico in cui, piaccia o no, anche noi siamo immessi. Ed è intorno a ciò che si conclude l’intervista con Mohamed anche se, a dire il vero, si tratta di una chiusura gravida di conseguenze e aperture soprattutto per noi che, grazie all’etnocentrismo che ci portiamo appresso, siamo sempre più relegati a spettatori, passivi ancorché forse non compiaciuti, dei conflitti reali che attraversano il mondo.


Al termine di questa lunga intervista la domanda obbligatoria è la seguente: quanto, delle cose che tu hai esposto, è patrimonio diffuso nel mondo dei subalterni, dell’immigrazione e quanto, invece, è semplice appannaggio di un ceto politico e culturale che, non diversamente dalle classi agiate e assimilate del mondo arabo, conduce una vita a sé, senza rapporti di una qualche importanza con i mondi dei subalterni?

Il lavoro che la Resistenza è in grado di svolgere tra coloro che, un tempo, erano i dannati della terra e oggi sono i dannati delle metropoli è molto avanzato. L’imperialismo e il colonialismo hanno un limite che oserei dire cognitivo: per loro il subalterno, il non occidentale, il nero, l’arabo, il musulmano è, per definizione, completamente incapace di pensiero politico e strategico. Nel corso della colonizzazione l’indigeno, nella migliore delle ipotesi, era qualcosa di simile all’animale domestico. Oggi, senza arrivare a tanto, il non assimilato, il subalterno e così via può solo essere un marginale, un criminale, un deviante, una subcultura. Tra lui e il mondo legittimo vi è uno scarto incolmabile. Questa non è solo vuota retorica ma una convinzione radicata tra gli imperialisti. Ma questa convinzione è anche la loro pietra tombale perché, ciò che ho brevemente esposto sopra, non è il frutto della riflessione di qualche piccolo circolo di un’elite non allineata ma priva di seguito. In maniera succinta ho semplicemente provato a descrivere e fotografare un dibattito che, pur con gradi e livelli di coscienza non omogenei, è presente in ampi settori di popolazione subalterna. Le narrazioni che l’imperialismo mette in circolo nei confronti delle popolazioni non occidentali e dei loro movimenti di resistenza, rappresentano soltanto un sogno: il modo come l’imperialismo immagina il suo avversario ma si tratta appunto di un sogno che, dall’Iraq, al Libano, dalla Palestina alla Nigeria e così via, diventa ogni giorno di più un incubo.

E invece, per quanto riguarda i territori delle metropoli europee?
Non sono in grado di parlare dell’Europa in generale ma, per quanto riguarda Parigi e la Francia, la situazione è tale che la domanda da porsi non è se la banlieue prenderà nuovamente fuoco ma quando.