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    Come si muore a Torino(e non in Bangladesh)

    Quel "no" gli è costato la vita

    Desiderava un cambio turno
    ma glielo avevano negato
    MARCO ACCOSSATO
    TORINO
    Antonio aveva tre figli e un gran bisogno di fare straordinari: la moglie aveva smesso di lavorare dopo aver dato alla luce Michele, due mesi fa. Così il suo stipendio era rimasto l’unico per tirare avanti in cinque. Ma l’altra sera aveva chiesto (inutilmente) di essere sostituito nel turno di sera, perché voleva andare a ogni costo alla cena di compleanno del figlio del suo migliore amico.

    Antonio Schiavone aveva 36 anni. La lingua di fuoco che sulla linea numero 5 dell’acciaieria di Torino ha investito lui e i sei colleghi - ancora in rianimazione fra la vita e la morte - non gli ha lasciato scampo. Neppure il tempo di fuggire. Speriamo neanche quello di accorgersi dell’inferno.

    Ondata d’olio
    Una morte orribile, l’ondata di olio e fiamme. «Toni» abitava a Envie, cittadina di duemila abitanti in provincia di Cuneo: lo conoscevano in molti da quando, nel 2004, si era trasferito lì da Torino, per abitare con la famiglia accanto ai suoceri. Lui, la moglie Immacolata, Giulia di sei anni e Giada di tre. E col piccolo Michele, da settembre.

    Un destino spietato, una coincidenza tremenda: anche Antonio era rimasto orfano del padre poco più che trentenne. Ieri, quando la madre ha saputo, si è sentita male.

    Parlano già al passato anche le mogli, le madri e gli amici degli altri operai, i superstiti. Sperano nel miracolo ma hanno la sensazione che sarà impossibile. Roberto Scola, 33 anni, forse il più grave di tutti, è ricoverato al Cto di Torino con ustioni di terzo grado sul 95 per cento del corpo. Solo le piante dei piedi non sono bruciate. Al padre, ieri mattina, la dottoressa Daniela Risso ha spiegato che le possibilità di salvarlo «sono una su cento». Anche Angelo Laurino, 43 anni, ha ustioni sul 95 per cento del corpo. Sposato, due figli, è ricoverato al San Giovanni Bosco: il figlio Fabrizio, 12 anni, ieri si è precipitato in ospedale assieme alla sorellina Noemi, 2 anni, per «vedere papà». Ma papà non si può vedere, non loro, e comunque non più di qualche minuto, in Rianimazione, circondato da monitor, tubi, flebo di soluzione salina.

    Bruno Santino e Giuseppe De Masi sono i più giovani fra gli operai feriti, ma questo, purtroppo, non cambia la gravità della situazione: le bruciature, secondo e terzo grado, ricoprono il 90 per cento dei loro corpi avvolti dal fuoco. Le ambulanze del 118 li hanno trasportati entrambi al Maria Vittoria, in Rianimazione.

    Soltanto Scola, il più grave tra i gravi, ha trovato un letto in un centro Grandi ustionati, perché al Cto di Torino gli altri posti erano occupati, in un reparto troppo piccolo per l’importanza che ha. Così quando i medici del Mauriziano si sono resi conto che Rosario Rodinò, il quinto ferito, 26 anni e il 95 per cento di ustioni, doveva essere trasferito dal pronto soccorso in una struttura dedicata, si è deciso di trasportarlo in elicottero da Torino al San Martino di Genova. Dove, come per Scola, i medici non danno false speranze: «E’ in condizioni disperate».

    Vigilia della pensione
    Per Rocco Marzo, 54 anni, quello di mercoledì era uno degli ultimi turni alla ThyssenKrupp. Maledetta serata. A fine mese sarebbe andato in pensione dopo trent’anni di lavoro. La moglie e le due figlie hanno atteso tutto il giorno una parola di ottimismo dai medici delle Molinette, di fronte al pronto soccorso dove Rocco è legato a un respiratore artificiale. Ogni ora in più è una speranza che si fa più debole, sotto il peso della disperazione. Confessa un medico che «casi come questi, con ustioni così profonde e così estese, sfiorano l’accanimento terapeutico». Non c’è più un lembo sufficiente di pelle prelevabile per tentare l’innesto dopo una coltura. «E tutti gli organi, con il tempo, cominciano a soffrire». Fegato, reni, polmoni.

    Il cuore di Giuseppe, Bruno, Roberto è forte: è un appiglio nel dolore, in questo momento, ma può trasformarsi in un calvario. L’unica certezza è «una tragedia annunciata». Roberto Scola, appena giunto in pronto soccorso, ancora cosciente, ha implorato i medici: «Salvatemi, vi prego, ho due figli piccoli». Poi è entrato in coma. Il vice prefetto Russo ha portato personalmente, ai parenti in ospedale, l’abbraccio del presidente della Repubblica. Napolitano ha commentato: «Occorre più impegno da parte di tutti, non basta fare le leggi, bisogna attuarle. Bisogna estirpare l’inaccettabile piaga delle morti e degli incidenti sul lavoro».
    http://www.lastampa.it/Torino/cmsSez...5351girata.asp



  2. #2
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    VIDEO TORINO (6/12/2007)
    ThyssenKrupp: parlano gli operai


    http://www.lastampa.it/multimedia/mu...882&tipo=VIDEO

  3. #3
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    La Cina a Torino

    GIUSEPPE BERTA
    Il rogo dell’esplosione che, nella notte tra mercoledì e giovedì, ha devastato l’impianto in smobilitazione della ThyssenKrupp, uccidendo un operaio e ustionandone in maniera terribile altri sei, oltre a causare feriti più lievi, ha messo fine nella forma più tragica all’esperienza industriale della siderurgia di Torino. La sorte della fabbrica era stata decisa già da tempo: il gruppo tedesco aveva stabilito di concentrare le proprie attività in Italia nell’area siderurgica di Terni. Per lo stabilimento torinese, si trattava dunque degli ultimi mesi di lavoro, in vista dello smantellamento definitivo. Ciò che appare incredibile è la condizione di incuria e di insicurezza in cui lavoravano gli operai, addetti a macchinari obsolescenti e in un ambiente in cui si erano già verificati incidenti gravissimi, sottoposti per giunta a stressanti regimi di orario prolungato.

    Secondo i sindacati le vittime lavoravano da 12 ore quando è avvenuto l’incidente.


    È difficile allineare le immagini orribili dell’esplosione dell’altra notte con i risultati economici e produttivi che, per ironia della sorte, proprio il 4 dicembre aveva snocciolato la ThyssenKrupp. Il gruppo ha realizzato un utile prima delle tasse pari a 3,3 miliardi di euro, con una crescita del 27 per cento rispetto all’esercizio precedente. Il giro d'affari per prodotti e servizi sfiora i 55 miliardi di euro, con un incremento su base annua dell’8 per cento. Dati che testimoniano dell’espansione recente di un campione dell’economia tedesca, un gruppo che, nella seconda metà di quest’anno, conta oltre 190 mila addetti e una presenza in 70 Paesi del mondo.

    Chi voglia soffermarsi anche brevemente sul sito aziendale che si trova su Internet, troverà che l’immagine della ThyssenKrupp è costruita sul richiamo a una frontiera tecnologica d’avanguardia come asse di sviluppo di un’impresa globale, ispirata a una governance trasparente e al rispetto di alcuni fondamentali princìpi di modernità. Un’immagine in stridente contrasto con le foto e i filmati relativi all’incidente, anch’essi reperibili su Internet. Questi ultimi fanno venire in mente, piuttosto che gli assetti tecnologici evocati dalla comunicazione aziendale, le sequenze sulle fabbriche siderurgiche della Cina contenute in un film recente di Gianni Amelio, La stella che non c’è, dove sbuffi di vapore sporco avvolgono gli operai e le loro famiglie mentre consumano il loro povero pasto accanto ai macchinari.

    Qual è dunque la realtà che abbiamo dinanzi? Quella patinata diffusa dall’azienda o quelle delle «buie officine sataniche» di cui parlava l’immaginazione visionaria e poetica di William Blake durante la Rivoluzione industriale del Settecento?

    L’una e l’altra assieme, verrebbe da dire. A Essen, in quella Ruhr dove sta il suo quartier generale, la ThyssenKrupp si presenterà senz’altro con la sua faccia più moderna e persuasiva, quella dominata dall’impronta di una modernità tecnologica che non è in conflitto con l’equilibrio sociale. Ma sui mercati e nei Paesi dove la spinta della globalizzazione si manifesta in tutta la sua forza, è probabile che affiori un volto diverso, insofferente dei vincoli sociali e ambientali, propenso a subordinare alle immediate esigenze aziendali regimi di orario e condizioni di lavoro, con indifferenza per i costi umani.

    Il fatto a cui ci ha messo di fronte l’incidente dell’altra notte è che anche Torino, una delle patrie d’origine dell’industria europea, può ritrovarsi di colpo assoggettata, nella logica di un’impresa multinazionale, a quello stato di necessità continuo imposto dalla globalizzazione. Invece di gestire un ritiro ordinato dal territorio, si è smobilitato in modo confuso e affrettato un impianto che era uno degli eredi della tradizione siderurgica della città. Dimenticando che la fabbrica è vettore di progresso quando produce e diffonde, oltre che ricchezza materiale per gli azionisti, comportamenti civili, in primo luogo quelli che si imperniano sulla dignità e il rispetto del lavoro.
    http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tm...ione=&sezione=


  4. #4
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    Naturalmente la "difesa della vita" di queste persone che lavorano in condizioni peggiori che nell' Inghilterra della rivoluzione industriale, non interessa alla "cattolica" Binetti. Lei difende la vita di blastocisti di otto cellule non differenziate, delle persone se ne frega.

  5. #5
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  6. #6
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    Per me è omicidio.

    Chiunque ha iniziato a lavorare alla fine degli 80 come me nelle fabbriche, ed ha tirato fino ai 30, alla fine dei 90 e primi anni 2000, si è visto proporre turni assurdi e massacranti, mansioni feroci, ricatti continui, ambienti con sicurezze azzerate....tutto, stranamente, è sempre peggiorato più è aumentato il precariato, dato che a tempo indeterminato potevi dire la tua, ora, con il precariato tanto caro a molta gente, non puoi più permetterti di fiatare.....o mangi o salti.

    Spesso fai entrambi le cose, per mangiare devi saltare.


    Dio li faccia bruciare all'inferno, ed in modo molto "precario".

  7. #7
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    Flessibili da morire
    Loris Campetti

    Era molto flessibile Antonio, un giovane di 36 anni ucciso ieri alla Thyssenkrupp di Torino. Ucciso non da un incidente, non da un infortunio: ucciso dallo sfruttamento selvaggio che fa tirare a mille gli impianti fino a far esplodere le macchine e costringe a un lavoro bestiale gli operai. Al momento in cui quel maledetto tubo che trasportava olio bollente è stato colpito da una scintilla sprigionatasi dal quadro elettrico s'è spezzato, trasformandosi in un lanciafiamme, Antonio e una decina di ragazzi come lui sono stati colpiti. Tutto e tutti hanno preso fuoco, gli estintori non funzionavano, la linea 5 delle ex Ferriere sembrava una città bombardata con il napalm, raccontano i sopravvissuti. Quando si è trasformato in una torcia umana, alle due di notte, Antonio era alla quarta ora di straordinario. Dunque era alla dodicesima ora di lavoro in quell'inferno.
    Antonio era molto flessibile, come tutti gli altri ragazzi della Thyssenkrupp. Alle 12 ore di lavoro ne aggiungeva ogni giorno due o tre di viaggio da casa, nel Cuneese, alla fabbrica, e ritorno. Non è che gli restasse molto tempo per la sua compagna e i suoi tre bambini, la più grande di 6 anni e il più piccolo di 2 mesi. Antonio era proprio il tipo di operaio di cui ha bisogno un padrone tedesco che decide di chiudere la fabbrica di Torino per portare la produzione in Germania, ma prima di mettere i sigilli agli impianti vuole tirare fino all'ultima goccia di sangue alle macchine e agli uomini, ai ragazzi. Per questo una decina di loro ha preso fuoco, nel 2007, nell'occidente avanzato, sotto il comando di Thyssenkrupp, un nome che se scomposto in due rimanda ad altri fuochi, a un altro secolo, a un'altra guerra.
    C'è la fila, adesso, di quelli che si lamentano per la mancanza di sicurezza sul lavoro. Forse tutti si erano distratti: presi com'erano a combattere l'insicurezza provocata dai rumeni si sono dimenticati della guerra quotidiana in fabbrica, nei campi, nei cantieri. Chi oggi dice che servono maggiori misure di sicurezza sul lavoro dovrebbe aggiungere che il modello sociale ed economico dominante è criminale. Chi chiede di produrre di più, per più ore nel giorno e per più anni nella vita è corresponsabile dei crimini quotidiani sul lavoro. La sicurezza è incompatibile con l'accumulazione selvaggia, togliendo dignità e diritti ai lavoratori si aumenta l'insicurezza, sul lavoro e nella vita.
    I teorici del liberismo, della fine del welfare, di quella che spudoratamente chiamano flessibilità ma che per noi è precarietà, hanno tutti i diritti nella nostra società. Ma uno almeno non ce l'hanno: quello di piangere i morti sul lavoro perché quei morti sono vittime della loro cultura e della loro fame di danaro e di potere. I tre bambini di quel paesino del cuneese che si chiama Envie non sanno che farsene delle loro lacrime. E noi con loro.
    Probabilmente i cancelli della fabbrica torinese della Thyssenkrupp non riaprirà mai più. Speriamo che non riapra più, il prezzo da pagare per tenerla aperta è troppo alto.

    www.ilmanifesto.it

  8. #8
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  9. #9
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    Nessun innocente, alla ThyssenKrupp

    A partire dall’inizio del secolo e fino al 2005 gli incidenti mortali sul posto di lavoro sono costantemente e consistentemente diminuiti, dall’anno scorso hanno ripreso a crescere, pur restando sotto la media europea. Le leggi son sempre le stesse, quindi il problema non è quello. Il modo in cui sono morti gli operai della ThyssenKrupp, a Torino, è talmente raccapricciante da imporci di esaminare il problema sotto tre profili di, generale, responsabilità.



    1. I dirigenti di quel gruppo industriale non possono cavarsela dicendo che tutto era a posto, intanto perché non hanno funzionato due estintori su due. E la Confindustria non può chiudere la faccenda dicendo che certe cose non devono succedere. No, se si ritiene di dovere espellere il piccolo industriale che non regge alle pressioni della delinquenza organizzata e paga il pizzo, non si può poi pensare di lasciar correre un’acciaieria dove gli estintori sono vuoti o scaduti e degli operai bruciano vivi.
    Alla stessa azienda, inoltre, occorre tenere un significativo corso di comunicazione, e far presente che: a. i dirigenti sono responsabili, quindi si presentano, al pubblico ed alle famiglie, non foss’altro per porgere le condoglianze; b. non si apre una sottoscrizione, mettendo benevolmente a disposizione un conto bancario, ma si stanziano le somme necessarie alle famiglie ed al ripristino della sicurezza.
    2. I sindacati non devono sentirsi immuni da colpe, perché l’organizzazione del lavoro è tema di contrattazione decentrata e se in quello stabilimento si facevano turni troppo lunghi (per comprendervi lo straordinario) ed in condizioni non ottimali erano le organizzazioni dei lavoratori a dover sollevare il problema.
    Un sindacalismo tutto concentrato sulle rivendicazioni salariali e sulla tutela del posto di lavoro è funzionale alla conservazione delle inefficienze, comprese quelle sul lato della sicurezza.
    3. E’ vero che non servono nuove leggi, ma non per questo il mondo politico può sentirsi assolto. Occorrono controlli seri e non meramente formali, occorre una vigilanza sulla sicurezza che non sia mero adempimento burocratico.
    L’avere incluso, inoltre, l’omicidio colposo, quindi l’ipotetico reato commesso dal datore di lavoro che non provvede alla sicurezza dei lavoratori, fra quelli per cui vale l’indulto, avere, pertanto, vanificato l’esito di tutti i processi in corso, non agevola certo il timore della legge e la convenienza del suo rispetto.
    Il combinarsi di queste tre responsabilità rende quell’incidente, come gli altri, odioso al di là delle statistiche e, comunque, non archiviabile come un semplice e doloroso lutto.

    Davide Giacalone
    www.davidegiacalone.it

    tratto da http://www.nuvolarossa.org/modules/n...p?storyid=4556

  10. #10
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    Si può dare il proprio contributo al conto corrente speciale dedicato (n° 41125701 - abi 02008 - cab 01046).

 

 
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