Radici indoeuropee e "terzo uomo"
Di Giorgio Locchi - Altri Testi - 10/07/2006
Indoeuropeo è come noto un termine convenzionale tramite cui viene designata una lingua parlata agli inizi del neolitico e la cui "scoperta", da parte di una linguistica che si è così costituita in scienza (nel senso moderno del termine), risale ai primi decenni del diciannovesimo secolo. Dato che ogni lingua presuppone degli utilizzatori, la scoperta della lingua indoeuropea (l'indoeuropeo, appunto) rappresenta anche la scoperta di un gruppo di parlanti (gli indoeuropei), cioè di un popolo e di una civiltà, di cui tra gli altri Georges Dumézil si è applicato a restituire le dimensioni e a studiare le caratteristiche. Noi sappiamo oggi, ed in modo certo, ciò che gli uomini della fine del diciottesimo secolo ignoravano, ovvero che in un lontano passato è esistito un "popolo indoeuropeo", e che la lingua di questo popolo è l'antenato in linea diretta d'un gran numero di lingue parlate tanto nell'antichità che ai nostri giorni, precisamente delle parlate neolatine, germaniche, celtiche, baltiche, elleniche, slave e indoarie. Inoltre, sappiamo anche, e con certezza non minore, che l'eredità indoeuropea ha conformato in modo determinante le civiltà che hanno dato nascita alla "civilizzazione europea", e che tale eredità veicola ancora, non fosse che per mezzo del solo fatto linguistico, una certa "percezione del mondo" (Weltsicht), la quale è senza dubbio oggi a brandelli nella sua sostanza, ma resta sempre attiva come forza costrittiva di rappresentazione, e struttura il quadro stesso del nostro pensiero.
Si coglie qui subito la prima ragione del nostro interesse per la res indo-europeana. In un'Europa necessariamente chiamata, nell'ambito di un mondo divenuto planetario, a trasformare in unità politica la sua secolare unità di civiltà, parliamo tutti o quasi delle lingue neo-indoeuropee, e siamo perciò tutti debitori, al di là dei millenni della storia scritta, di un'unica percezione che conforma la nostra mentalità e il nostro destino.
Nelle ultime pagine della sua opera sulla terminologia linguistica, Einführung in die linguistiche Terminologie, Nymphenburger Verlagshandlung, Monaco 1971), Hans J. Vermeer scrive: «Non vi è dubbio che la dicotomia [tra il verbo e il nome]operata dalle lingue indoeuropee storiche marca della sua impronta, per il semplice fatto di strutturare un lessico ridato in permanenza a ciascun individuo, la visione del mondo occidentale. Ma questa visione del mondo, che è una teoria, non è che una tra molte altre possibili».
E' di moda, in effetti, interrogarsi sul fondamento di questa Weltsicht, di questa teoria in forma di percezione-del-mondo, che sembra inerente alle lingue neo-indoeuropee, e si oppone così, in modo abbastanza netto, alle "teorie" delle altre lingue. E' ugualmente di moda il rispondere negativamente a tale domanda. Si rimprovera per esempio alle lingue europee la loro capacità d'astrazione. Ora, questa volontà e capacità di astrazione, se sono state all'origine di divagazioni incontrollate, sono state anche la condicio sine qua non di ogni pensiero e prassi scientifici. E' per questo che la scienza e il progresso scientifico sono debitori storicamente, in modo pressoché esclusivo, della mentalità occidentale e delle "società calde" votate alla storia che Claude Lévy-Strauss [alias],, tra gli altri, vorrebbe riconvertire al verde e freddo paradiso dei Bororos. Certo, l'eredità indoeuropea appare limitativa: la percezione del mondo che essa comporta è una tra mille e mille possibili. Ma la stessa identica cosa vale per qualsiasi altra percezione del mondo. E questa eredità è la sola, ai nostri occhi, che offra ancora una apertura sull'avvenire, in un mondo in cui, restando il principio di individuazione la condizione d'esistenza, ogni esistenza deriva da una scelta limitativa.
Inoltre, ed al di là di ogni considerazione raziocinante, ci riteniamo in diritto di scegliere liberamente l'eredità indoeuropea e il destino che vi si ricollega, tramite un atto di fedeltà che, non nascondiamolo, non concerne che noi. Martin Lutero diceva: «Così io sono: non posso essere altrimenti». In un'epoca che ingloba ancora il momento in cui Lutero annunciava la sua rivolta, crediamo di sapere che è ormai possibile essere ciò che siamo perché lo vogliamo, e perché non siamo altrimenti.
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Se è vero, come riteniamo, che l'uomo non possa essere veramente compreso in quanto tale che nel quadro che gli è proprio, cioè nel quadro storico, sarebbe inconcepibile non essere interessati al fatto indoeuropeo, poiché tale fatto è un passato da cui prendiamo le mosse e che al tempo stesso si iscrive nel nostro presente.
Ciononostante, il nostro interesse prende origine anche altrove. La nostra attenzione è polarizzata, a due livelli differenti, dal metodo scientifico che ha permesso alla linguistica nascente di "scoprire" gli indoeuropei; e, d'altra parte, dall'oggetto stesso della "scoperta", da queste origini indoeuropee in cui vediamo un esempio unico di rigenerazione della storia, una rigenerazione quale la nostra epoca sembra nuovamente reclamare.
La scoperta della lingua indoeuropea grazie al metodo comparativo è in effetti, dal punto di vista strettamente scientifico, una rivoluzione altrettanto determinante per le scienze umane quanto la scoperta della natura discreta dell'energia e delle particelle elementari lo è stata per la fisica.
La voga attuale della linguistica sincronica, guardata da taluni come il "modello" stesso delle scienze umane (forse perché si riduce spesso ad un discorso complicato sulla sua propria vacuità...) fa un po' troppo spesso dimenticare che questa linguistica non è di fatto, storicamente parlando, che una derivazione della linguistica diacronica, e che essa si è costituita, con Saussure, tramite una semplice riflessione sugli assiomi (impliciti ed espliciti) e le procedure della linguistica diacronica. E' così, per non prendere che un esempio, che la linguistica strutturalista, madre di tutti gli strutturalismi della nostra epoca, non fa che proclamare, dandosi l'aria di scoprirlo, ciò che i linguisti dell'inizio dell'ottocento consideravano come un fatto acquisito, che va quasi da sé, ovvero che ogni lingua è strutturata e che costituisce un sistema. Se Bopp, Rask e Grimm hanno potuto, all'inizio del diciannovesimo secolo, "ricostruire" la lingua indoeuropea, è per il fatto che il loro metodo si basava precisamente sulla comparazione di sistemi (fonetici e morfologici) in campo linguistico, come testimonia d'altronde il titolo di alcune loro opere.
La riflessione che la linguistica sincronica propone ai nostri contemporanei non può dunque giustificarsi da sola. Essa non può che raffinare lo strumento linguistico necessario all'investigazione diacronica, questa sola potendo attingere al fatto storico, che è il fatto umano per eccellenza. Ripiegata su se stessa, la linguistica sincronica conduce fatalmente a ciò che viene chiamato riduzionismo, cioè il tentativo abusivo di ridurre l'umano allo zoologico, poi al biologico, prima di "riassorbirlo", come direbbe Lévi-Strauss, nel "fisico-chimico".
La linguistica diacronica, da parte sua, si è sempre ed immediatamente posta come ausiliaria della vera scienza umana, che è la storia. Meglio ancora, essa ha da sola sconvolto la nostra concezione della storia, e messo così Indossamente in evidenza le proprietà di uno spazio-tempo storico, distinto dallo spazio tempo macrofisico, microfisico, biologico. Giungendo per la prima volta ad infrangere la barriera della testimonianza diretta, su cui si fondava prima ogni studio storico, essa ha saputo ritrovare un passato interamente dimenticato, risalendo al di là dell'affermazione della scrittura, sino ai "millenni silenziosi" che sino ad allora erano stati percepiti come storicamente vuoti, e si ritrovavano compressi dall'immaginazione in una sorta di unico momento, di durata indefinita, ma immobile. D'un sol colpo, grazie alla linguistica diacronica (ed agli sviluppi paralleli dell'archeologia e dell'antropologia) un tempo storico, l'ultrastoria nel senso che dà al termine Dumézil, a cui avevamo attribuito appena sette o ottomila anni di "durata", ha guadagnato una nuova dimensione, di una profondità immensa e che abbiamo appena cominciato ad esplorare.
Infine, la linguistica diacronica ha questo di particolare (e d'essenziale): che cerca, e trova, la testimonianza del passato non - come farebbe ad esempio un archeologo o un paleontologo - in un fossile o un reperto che solo il caso geologico ha fatto arrivare sino a noi, ma piuttosto in un fatto contemporaneo che è l'attualità stessa dell'uomo e della lingua che usa. Così, il passato storico ci appare implicitamente non più come un momento anteriore per sempre perduto, ma come una dimensione dell'epoca storica, ad ogni momento data del nostro presente - e quindi anche del nostro avvenire.
Bisogna tuttavia sottolineare (e mai dimenticare) che questo passato ritrovato in seno all'attualità non sorge di fronte ai nostri occhi che in funzione di una prospettiva nuova, propria ad un'epoca storica ben determinata ed unicamente ad essa. Prima dell'epoca in questione (o piuttosto al di fuori di essa) tale passato non esisteva affatto, e non è che nel linguaggio della sola prospettiva bio-macrofisica che potremmo dire che non esisteva più. Prima dello sviluppo della linguistica diacronica gli indoeuropei non erano e non erano mai stati nella storia, che li ignorava completamente (come una certa storia "scolastica" continua d'altronde a fare a tutt'oggi). Non "esistevano". Il che non impedisce che si sia ricondotti ad applicare il termine di "indoeuropeo" a fossili e reperti di natura bio-macrofisica, cosa del tutto normale, dato che la storicità si appoggia sul biologico umano. Ciononostante, sappiamo anche che l'attualità perenta di cui tali reperti sono testimonianza non ha mai conosciuto una entità indoeuropea storica: nessun popolo si è mai dichiarato "indoeuropeo", o ha mai avuto coscienza di tale identità quale essa appare a noi, oggi. Di nuovo, in questo non vi è nulla di particolarmente sorprendente, giacché un fatto storico non trova la sua realtà che a livello della coscienza umana. Il fatto indoeuropeo non entra dunque nella storia, e non diviene storicamente agente, che una volta "scoperto", ovvero dall'istante in cui una coscienza umana, legata a una prospettiva "epocale" determinata - coscienza e prospettiva che sono di nuovo le nostre - lo ricostruisce come passato del suo proprio presente.
Non è quindi esagerato dire che il vero e proprio fatto indoeuropeo non è tale che in noi e nostro tramite: è la proiezione di noistessi nel passato, al tempo stesso che il mito reinventato tramite cui ci proiettiamo parimenti nell'avvenire. Se fossimo marxisti, diremmo che il fatto indoeuropeo, nella sua "sostanza mitica", è la teoria della nostra prassi. Ed è giustamente per questo che possiamo parlare di "libera scelta" a proposito dell'eredità indoeuropea che è a tutti gli effetti il passato che ci diamo tra mille altri possibili.
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Si continua a proclamare che la storia è nata a Sumer. Non è vero, non è più vero. Ma la storia non comincia neppure con Cro-Magnon e le sue pitture, ersatz rispettivi di Sumer e della scrittura ad uso degli storici "moderni" ben decisi a non riconoscere storicità ed "umanità" vere e proprie che nel tipo d'uomo (l'Homo sapiens sapiens) da cui origina la rivoluzione neolitica. Anche qui, a partire dall'inizio del diciannovesimo secolo, i progressi della paleo-antropologia ci permettono di ampliare la nostra prospettiva storica: la storia, ai nostri occhi, comincia (e ogni volta ricomincia) là ove il pre-uomo, unendo al gesto la parola, si fa uomo e che ne lascia testimonianza attraverso l'invenzione e l'adozione dell'utensile.
Non è certamente un caso se le scoperte della paleoantropologia così come l'evidenza del fatto indoeuropeo intervengono al momento stesso in cui il sentimento di uno Zeit-Umbruch, di una "rottura" del tempo storico, s'impadronisce degli spiriti europei, gli uni vedendovi l'annuncio della fine della storia, dell'avvenimento escatologico decisivo che permetterebbe all'umanità di uscire da «questa valle di lacrime», gli altri scorgendovi al contrario il segno di una rigenerazione della storia e di un nuovo inizio. La scoperta della storia al di là del muro della scrittura, quella delle radici indoeuropee delle civiltà "classiche", appare in effetti come una risposta ai bisogno di un'epoca di crisi, ormai incapace di immaginare e volere un avvenire storico (se non in una prospettiva puramente escatologica) senza avere preventivamente ritrovato un nuovo passato, e, con esso, una nuova possibilità di autentica scelta.
Siamo entrati nel diciannovesimo secolo in un'epoca di passaggio, di transizione marcata da una trasformazione radicale del nostro Umwelt, nel nostro ambiente. Ora, nella vecchia prospettiva storica, la transizione fondamentale per eccellenza corrispondeva ad un passaggio ex abrupto dal naturale (il pre-uomo) allo storico (l'uomo). Si è dunque pensato, per semplice analogia, che la crisi attuale, nella misura in cui essa marca effettivamente una nuova transizione fondamentale, non poteva che corrispondere a un ritorno dello storico al naturale. In una tale prospettiva, si ritiene che l'evoluzione dell'umanità si svolgerebbe come in un'andata-e-ritorno, tra un alfa e un omega, tra il paradiso terrestre ancestrale e un paradiso celeste, tra il comunismo primitivo di un pre-umano totalmente agito dalla natura e il comunismo post-storico di un uomo "ritornato" alla natura grazie all'abolizione di ogni "sfruttamento" e di ogni "repressione degli istinti".
Certo, nella prospettiva che ci è propria un ritorno-alla-natura, una "fine della storia", resta sempre possibile, ma questo ritorno, questa "fine", non è più logicamente necessario; non corrisponde più a un misterioso volere sopra-umano, né ad una qualunque predeterminazione del destino dell'umanità. Soprattutto, un'altra possibilità si offre: quella appunto di una rigenerazione della storia, a dell'avvento del "terzo uomo", di una nuova avventura dell'umano. E, tra queste differenti possibilità, la scelta spetta all'uomo, ed a lui soltanto.
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Vi sono stati sinora due uomini. Uno ha creato se stesso in quanto uomo: si è "addomesticato" grazie alla sua "scienza", che era la magia. L'altro ha preteso di essere l'uomo tout court, e ha negato l'"umanità" del primo: la sua storia si confonde con quella della "domesticazione" della materia vivente, che si compie oggi. Oggi, l'uomo, superando ancora una tappa, "addomestica" la materia-energia. Di conseguenza, trasforma di nuovo radicalmente il suo ambiente. Ma, al tempo stesso, si rifiuta di prendere chiaramente coscienza delle implicazioni di questo mutamento: rifiuta di cambiare egli stesso. E' per questo che risente delle trasformazioni del mondo attuale come di una sorta di costrizione esterna, che lo oltrepassa e lo aliena. L'umanità oggi gioca così all'apprendista stregone. Dichiara «non volevo questo». Sottolinea con compiacenza la sua "inquietudine", la sua "angoscia", etc. Minaccia nucleare, inquinamento, esplosione demografica, onnipotenza della macchina, "disumanizzazione" della società, corsa alla crescita: tutto diventa pretesto per arrestare questa evoluzione «che va troppo in fretta», «che non ha senso», tutto diventa motivo di fuga nel sogno di un "arresto del progresso".
E' in una tale situazione che il fatto indoeuropeo acquisisce per noi un valore esemplare. Le origini indoeuropee ci rinviano in effetti ad un'altra epoca di transizione fondamentale, all'epoca di passaggio caratterizzata dalla rivoluzione neolitica. La religione, l'ideologia e l'organizzazione sociale dei gruppi indoeuropei, studiati in modo eccellente da Dumézil, ci appaiono come una risposta (dal nostro punto di vista, come la sola risposta buona) alle esigenze, non meno angoscianti di quelle che conosciamo oggi, di tale rivoluzione. Forti di questa "risposta", le società fondate dagli indoeuropei, e che avevano ereditato il loro atteggiamento di fronte alla vita, hanno potuto assumere la responsabilità del mondo del "secondo uomo": esse hanno spinto sino alle ultime conseguenze la dinamica dei rapporti tra "domesticatori" della natura vivente e natura vivente "addomesticata", prima di schiudere le porte di un nuovo avvenire, grazie all'invenzione di tecniche di "domesticazione" della materia-energia.
A dispetto della sua pressante attualità, e del fatto che stiamo giusto cominciando a conoscerne gli autori, quest'eredità indoeuropea pare oggi spesso "dimenticata", talora deliberatamente dimenticata e persino quasi odiata. Non bisogna stupirsene. La storia di Roma, della Grecia o della Germania erano accettabili, nella vecchia prospettiva, per tanto che si riteneva che tali "avvenimenti" prefigurassero e preparassero l'avvento del cristianesimo e dell'ecumene egualitario. Nel momento in cui sappiamo da dove vengono questi insieme storici, e in che direzione è possibile che vadano, sembra "preferibile" a certuni rimuoverli e di sfumarne i contorni. La scuola europea oggi non vuole più nemmeno sentir parlare del greco e del latino.
La chiave di questa rimozione, di questo oblio volontario, la troviamo una volta di più nel carattere e nella volontà escatologica delle società attuali: le società occidentali, eredi delle società indoeuropee, ci spiega Lévi-Strauss, sono delle «società calde», essenzialmente dinamiche, sempre in movimento, animate da una «funesta» volontà storica; bisogna dunque che scompaiono, o almeno che si "raffreddino".
Resta nondimeno il fatto che la sola risposta positiva ai problemi e alle sfide del nostro tempo consiste in un atteggiamento che riprodurrebbe, adattandolo e reinventandolo, quello degli indoeuropei di fronte alla rivoluzione neolitica. La nostra riflessione si basa quindi sul fatto delle origini indoeuropee, su questo passato ritrovato in seno alla nostra propria attualità, che ci permette di precisare al tempo stesso le questioni che pone la nostra epoca e le risposte che sarebbe possibile dare ad esse.
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L'"esempio" delle origini indoeuropee non è sorprendente che a prima vista. Quando la si esamina da vicino, la società trifunzionale ricostruita da Georges Dumézil non organizza, in fin dei conti, che due caste, o gruppi sociali. Il primo, dominante, assume la funzione sovrana e la funzione guerriera sulla base di una separazione originale in "classi d'età". La seconda assume la funzione economica. Ora, sempre grazie ai lavori di Dumézil, sappiamo che questa società trifunzionale si riflette (e trova al tempo stesso il suo modello ideale) nella società degli dèi, di cui il mito ci rivela a modo suo la genesi.
Tale mito indica che la società trifunzionale si costituita tramite la sovrapposizione e la dominazione della prima sulla seconda, del mago sull'uomo religioso, del predatore sul produttore. Il mito degli Asi e dei Vani, non diversamente da quello dei Latini e dei Sabini, mette d'altronde in evidenza i caratteri rispettivi di tali due gruppi sociali o famiglie di dèi: i primi, dèi "predatori", continuatori del "primo uomo" in quanto autodomesticatori, si impongono alla fine in virtù della magia legante del loro capo, Odhinn/Wotan; i secondi, dèi "produttori", continuatori del primo uomo in quanto autodomesticati, devono (ed accettano di) sottomettersi, a dispetto della potenza che loro conferisce la "ricchezza", simboleggiata dall'oro di Gullweig.
Questa dicotomia "social-divina" discende da una Weltsicht, da una percezione-del-mondo, che si ritrova in modo saliente nelle strutture linguistiche indoeuropee, con la netta separazione tra il soggetto e l'oggetto (vi è un "imperialismo" del soggetto in rapporto all'oggetto come vi è un "imperialismo" degli dèi-soggetto del primo gruppo rispetto agli dèi-oggetto del secondo). Inoltre, a questa organizzazione sincronica, che conserva il passato nell'attualità, corrisponde anche un'organizzazione diacronica. Giacché gli Asi, essendo i primi dèi, sono ugualmente i figli o i nipoti dell'"Uomo cosmico" di cui il mito ci dice che è all'origine del mondo (o, più esattamente, del nuovo mondo).
Un vasto campo di ricerca e di studio si apre qui, e non insisteremo sull'argomento. Ma sembra sin d'ora possibile individuare alcune linee-forza di questa visione del mondo indoeuropea che è, ripetiamolo, una visione innanzitutto storica.
Il "primo uomo", Zwitter indiviso, riunente in sé tutte le antinomie, tutti i contrari, si era creato da se stesso per autodomesticazione: era al tempo stesso soggetto ed oggetto della "magia" domesticatrice. Il "secondo uomo" appare (e con lui il nuovo mondo) quando il "primo uomo", (Purusha, Ymir, l'Uomo cosmico, etc., nella mitologia indoeuropea) si suddivide e si oggettivizza in due tipi sociali: da una parte l'uomo-soggetto, che continua ad esercitare la sua "magia" su se stesso (self-control), ma che lo esercita ormai anche sull'altro tipo, l'uomo-oggetto, su cui si esercita dall'esterno la magia domesticatrice (ovvero: che si vede fissare dei canoni da un altro-da-sé), e che, liberato da questo legame "religioso" dalla necessità di addomesticare l'uomo che è in lui, può consacrarsi interamente alla "domesticazione della natura", cioè alla produzione di beni. La coesistenza di questi due tipi sociali in una società armoniosa si opera per sinecismo (termine suggerito da Dumézil), cioè per compromesso contrattuale, a seguito di una "guerra di fondazione".
Va d'altronde rimarcato che il dio sovrano degli indoeuropei è sempre al tempo stesso un dio terribile, che esercita una costrizione "magica", e un dio "benefattore", che è garante dei "contratti". Si trova così, a partire dalle origini indoeuropee, una chiara concezione di questo "contratto sociale", che ha senza dubbio trovato la sua espressione più compiuta presso i romani.
Ciò che si può dunque già trarre dall'esempio indoeuropeo è il primato attribuito alla vera attività creatrice, ovvero alla soggettività rispetto a se stessi. Non si può dire in effetti che il "secondo uomo" rappresenta un progresso rispetto al "primo". Corrisponde soltanto ad una cesura realizzatasi oggettivamente nella società unitaria (indivisa) delle origini.
Ma allo stesso tempo, la separazione dei tipi implica fatalmente, e come per contraccolpo, la necessità di ricostituire l'uni-totalità dell'uomo, non più a livello dell'individuo, bensì dell'insieme sociale. Donde il compromesso e il "contratto": ormai, l'uomo non può più "realizzarsi" che sul piano sociale in seno ad una comunità. Nella società indoeuropea non alterata non vi sono soltanto una "massa" o soltanto degli "individui". C'è un popolo, di cui la "personalità", il genio, l'aristocrazia sono gli organi di espressione, di concezione e di rappresentazione. Massa e individuo sono in effetti delle nozioni puramente "sincroniche" che non si definiscono che nello spazio sociale, e cui fa difetto la dimensione temporale, di cui il popolo partecipa al contrario pienamente.
La società indoeuropea è quindi proprio una "società calda", caratterizzata dalla coscienza (o almeno dall'istinto) della sua propria storicità. E' la ragione per cui porta in essa, in ogni momento, il passato, il presente e l'avvenire indossolubilmente legati. Questa co-attualità del passato, del presente e dell'avvenire, l'abbiamo già osservata, implicitamente affermata all'interno e per mezzo del metodo della linguistica diacronica. Tutto si tiene: il metodo d'una scienza è sempre imposto dall'oggetto stesso di tale scienza, così come un "oggetto scientifico" non è ritrovato, svelato e definito che attraverso il metodo che gli si addice.
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L'eredità indoeuropea che ritroviamo e coltiviamo in noi, la proiettiamo quindi doppiamente nella storia; al tempo stesso come rappresentazione, ri-presentazione, del passato, e come "immaginazione" dell'avvenire. Al limite, il termine "indoeuropeo" si applica a tutto ciò che ci piace nello spettacolo esaltante di un'avventura già vissuta da altre generazioni, in opposizione a tutto ciò che non amiamo, e a tutto ciò che ci lascia indifferenti. Ma lo studio e il "culto" di questo passato che noi abbiamo scelto e che ci ha scelto non costituiscono che un aspetto, l'aspetto teorico, di una manifestazione di volontà. L'altro aspetto, l'aspetto pratico, consiste nel rifiutare il ripiego, la rinuncia, la riduzione (l'arresto della storia), e nell'accettare (anzi: volere) «tutto ciò che di grande e di terribile vi è nell'uomo», cioè, nell'ora attuale, l'abbozzo di un nuovo mondo, di un nuovo destino storico e tragico.
Così, quando parliamo di tradizione indoeuropea, o quando riportiamo alla luce del giorno le tracce dimenticate del mito, della religione, dell'ideologia e della storia dei popoli nei quali noi vogliamo riconoscere i nostri antenati, non guardiamo soltanto all'indietro. Al contrario, come Giano bifronte, progettiamo altresì l'avvenire. Poniamo delle pietre miliare sulla via, e schizziamo i modelli degli uomini e delle cose che ci adoperiamo a creare in noi ed al di là di noi.