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Discussione: La stirpe indoeuropea

  1. #11
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    Hyperborea



    Degli Iperborei, il popolo che dimorava nell'estremo Settentrione, si trova menzione presso numerosi autori dell'antichità latina e greca.

    La prima testimonianza risale a Ecateo di Mileto (VI sec. A. C.), che li situa all'estremo nord della terra, tra l'Oceano e i Monti Rifei.

    Dati analoghi, ma più ampi, vengono forniti da Erodoto, che scrive: "Aristea di Proconneso figlio di Castrobio, componendo un poema epico, disse di essere arrivato, invasato da Febo, presso gli Issedoni e che al di là degli Issedoni abitano gli Arimaspi, uomini monocoli, e al di là di questi i grifi custodi dell'oro, e oltre a questi gli Iperborei, che si estendono fino ad un mare. Tutti costoro, eccetto gli Iperborei, a cominciare dagli Arimaspi aggrediscono di continuo i loro vicini; e così dagli Arimaspi furono scacciati dal loro paese gli Issedoni, dagli Issedoni gli Sciti; e i Cimmeri, che abitano sul mare australe, premuti dagli Sciti, abbandonarono il paese" (IV, 13). Ecateo di Abdera (IV-III sec. a. C.), autore di un'opera Sugli Iperborei di cui ci son pervenuti solo alcuni frammenti, li colloca anch'egli a nord, in un'isola dell'Oceano "non minore della Sicilia per estensione". Su questa isola, dalla quale è possibile vedere la luna da vicino, i tre figli di Borea rendono culto ad Apollo, accompagnati dal canto di una schiera di cigni originari dei Monti Rifei.

    Altre citazioni si trovano nel primo Inno a Dioniso pseudomerico, in Pindaro, in Eschilo, in Diodoro Siculo, in Luciano. Da parte sua, Strabone colloca gli Iperborei tra il Mar Nero, il Danubio e l'Adriatico: "Tutti i popoli verso nord ebbero nome, da parte degli storici greci, di Sciti o Celtosciti, ma gli scrittori dei tempi ancora più antichi, ponendo distinzioni tra loro, chiamavano Iperborei quelli che vivevano intorno al Ponto Eusino, all'Istro e all'Adriatico" (Geografia, 11, 6, 2).

    Tra i latini, troviamo questo passo di Virgilio: "tale è la gente selvaggia che sotto l'iperboreo Settentrione viene sferzata dal vento rifeo e si avvolge il corpo in fulve pellicce di animali" (Georgiche, 3, 381-383). Ma la testimonianza più ricca è quella di Plinio il Vecchio: "Poi ci sono i Monti Rifei e la regione chiamata Pterophoros per la frequente caduta di neve, a somiglianza di piume, una parte del mondo condannata dalla natura ed immersa in una densa oscurità, occupata solo dall'azione del gelo e dai freddi ricettacoli dell'Aquilone. Dietro quelle montagne e al di là dell'Aquilone, un popolo fortunato (se crediamo), che hanno chiamato Iperborei, vive fino a vecchiaia, famoso per leggendari prodigi. Si crede che in quel luogo siano i cardini del mondo e gli estremi limiti delle rivoluzioni delle stelle, con sei mesi di chiaro e un solo giorno senza sole; non, come hanno detto gl'inesperti, dall'equinozio di primavera fino all'autunno: per loro il sole sorge una volta all'anno, nel solstizio d'estate, e tramonta una volta, nel solstizio d'inverno. È una regione luminosa con clima mite, priva di ogni nocivo flagello. Hanno per case boschi e foreste, venerano gli dèi profondamente e in comune, la discordia e ogni malattia sono loro ignote. Non c'è morte, se non per sazietà di vita, dopo i banchetti e nella vecchiaia colma di conforto; si gettano in mare da una rupe: questo tipo di sepoltura è il più felice (..). Non si può dubitare di quel popolo: tanti autori tramandano che essi sono soliti inviare a Delo, ad Apollo, da loro venerato tra tutti, le primizie delle messi. Le portavano alcune fanciulle, venerate per alcuni anni dall'ospitalità dei popoli, finché, essendo stato violato il patto, essi decisero di deporre le sacre offerte sui confini degli abitanti più vicini, affinché questi le passassero ai loro vicini, e così fino a Delo" (Naturalis Historia, IV, 88-91).

    A nostro parere, un'eco del tema iperboreo potrebbe essere individuata nella stessa Odissea. Come è stato osservato, "il primo autore classico in cui l'idea di Settentrione sembra assumere connotazioni riducibili a termini reali è l'autore dell'Odissea i cui versi danno un'idea precisa di che cosa significasse il Nord per i Mediterranei. Quando Ulisse scende agli inferi ne trova l'ingresso nel paese dei Cimmeri, oscuro e gelido. Sia della Cimmeria che di Lestrigonia, dove d'estate regna la luminosità continua, Omero aveva avuto notizia tramite i mercanti che frequentavano i porti del Mar Nero settentrionale, dove i Greci si erano stabiliti a partire dall'VIII secolo" (1). In realtà, di ciò che accade nelle zone settentrionali del globo terrestre i Greci poterono avere notizia già in età micenea, quando importavano l'ambra dal Baltico. Ma non è escluso che il decimo libro dell'Odissea abbia custodito un elemento relativo all'originario stanziamento dei popoli indoeuropei nella zona artica e subartica, così come elementi analoghi sono stati conservati dagli inni vedici, secondo quanto ha dimostrato Bâl Gangâdhar Tilak (2).

    A Telepilo Lestrigonia infatti, secondo quanto dice l'aedo, "rientrando il pastore chiama il pastore, e questo uscendo risponde. Qui un uomo insonne (àypnos) riscuoterebbe due paghe: una pascolando buoi, l'altra pascolando candide greggi; infatti sono vicini i sentieri della Notte e del Dì" (Od., X, 82-86). In altre parole, un pastore che fosse in grado di rimanere continuamente sveglio potrebbe svolgere un doppio turno di lavoro, perché nella terra dei Lestrigoni la durata della luce diurna è di circa ventiquattro ore. (L'immagine dei sentieri del Dì e della Notte si chiarisce in questo senso, se la confrontiamo con Esiodo, Theog., 746 ss.).

    Il fenomeno descritto da Omero trova riscontro in ciò che effettivamente avviene nell'estremo Settentrione; e anche il nome di Lamo (Làmos), citato nel brano in questione, richiama curiosamente, come è stato osservato, quello di Lamøy, un'isola vicina alle coste settentrionali della Norvegia (3). Infine, non bisogna trascurare il fatto che "Telepilo Lestrigonia" potrebbe benissimo significare "Lestrigonia Porte-Lontane", nel qual caso avremmo un sintagma analogo ad "ultima Tule".



    *


    Un antico testo taoista, il Lieh-tzu o Vero libro della sublime virtù del cavo e del vuoto, contiene una lunga descrizione di un paese, il regno dell'Estremo Settentrione, che si trova a nord del mare settentrionale, "non so a quante migliaia o decine di migliaia di li dalle province centrali". Questo paese, in cui le condizioni climatiche sono miti ("non c'è vento e pioggia, gelo e rugiada"), "non dà vita ad uccelli e ad animali, ad insetti e a pesci, ad erbe e ad alberi". La geografia di questo paese richiama, per alcuni versi, certe descrizioni del paradiso: "Tra i quattro lati è completamente piatto ed è circondato da ripide colline. Nel mezzo del regno c'è una montagna a forma di orcio, chiamata Hu-ling, sulla cui sommità c'è un orificio a forma di braccialetto rotondo, detto Antro dell'Abbondanza, dal quale zampilla un'acqua chiamata Polla Sovrannaturale: ha un odore più forte di quello delle orchidee e delle spezie, un sapore più forte di quello del mosto. Questa sola sorgente, dividendosi, forma quattro corsi d'acqua, che fluiscono verso il basso della montagna e scorrono ad irrigare tutto il paese".

    Gli abitanti dell'Estremo Settentrione, prosegue il Lieh-tzu, vivono una vita felice. "Essendo di carattere gentile e compiacente, non litigano e non contendono; avendo il cuore molle e le ossa deboli, non sono alteri né servili; vivendo separati anziani e giovani, non hanno principi né sudditi; andando frammisti uomini e donne, non hanno paraninfi e sponsali; vivendo in vicinanza dell'acqua, non arano e non seminano; essendo il clima mite e uniforme, non tessono e non si vestono. Muoiono a cent'anni, senza morti premature o malattie; il popolo si moltiplica a iosa, gode di piaceri e di gioie e non conosce decadimento e vecchiaia, tristezza e dolore. Per costume sono amanti della musica e, prendendosi per mano, cantano a turno senza mai smettere per tutto il giorno. Quando hanno fame e sono stanchi, bevono alla Polla Sovrannaturale e ne sono rinfrancati nelle forze e nella volontà, se eccedono si ubriacano e tornano sobri dopo dieci giorni. Bagnandosi nella Polla Sovrannaturale, la loro pelle diviene liscia e lucida e la fragranza svanisce solo dopo dieci giorni" (4).



    *


    I temi del paradiso iperboreo e dell'origine polare, attestati nelle forme tradizionali più antiche, si ripresentano congiuntamente, in modo definitivo, nella forma tradizionale più recente, quella islamica, la quale ha situato nell'estremo Settentrione la "terra celeste" di Hûrqalyâ. Questa dottrina, esposta nell'età contemporanea dalle scuole sciite shaykhî e ishrâqî, riprende il tema mazdaico della "Terra trasfigurata": infatti il geografo Yaqût affermava che il monte Qâf, la "madre di tutte le montagne" da cui parte la via polare verso Allâh, un tempo si chiamava Alborz. Henry Corbin, da parte sua, avverte che l'Oriente di cui parla la cosmologia di Avicenna deve essere cercato nella "dimensione polare", e non nell'est indicato dalle nostre carte geografiche. "Infatti - spiega Corbin - questo Oriente è il polo celeste, il 'centro' di ogni orientamento concepibile. Bisogna cercarlo nella direzione del Nord cosmico, quella della 'Terra di luce'" (5). Nel suo Libro dell'Uomo Perfetto (Kitâb al-insân al-kâmil), cAbd al-Karîm al-Jîlî (1365-1403) parla di un luogo che in Corano, VII, 44 e 46 è designato col nome di al-Acrâf ("le Altezze") e in LIV, 55 è definito "soggiorno di verità, presso un re potente". Chi dimora in questo luogo è un "desto", un "vegliante" (in arabo yaqzân, equivalente all'omerico àypnos); d'altronde il vicino paese dell'angelo Yûh, sul quale regna Sayyidn`â al-Khidr, è il paese del sole di mezzanotte, nel quale non vige l'obbligo della preghiera rituale della sera (salât al-maghreb), perché ivi l'alba precede il tramonto.



    *


    "Dov'era, dove non era, di là dai sette paesi e un settimo, di là dalla Montagna di Vetro, di là dal mare di Operencia, c'era una volta..." (6) Nel motivo dei "sei paesi e un settimo" (hetedhétország) o dei "sette mondi" (hétvilág), che compare nel consueto incipit delle fiabe popolari ungheresi, il folclore magiaro ha conservato il residuo fossile di un elemento di dottrina tradizionale ampiamente diffuso nelle culture dell'Eurasia. I "sette paesi" o "sette mondi" della tradizione magiara trovano infatti riscontro nella geografia sacra dei Purâna indù, che parlano di sette dwîpa, cioè di sette "isole" continentali emerse l'una dopo l'altra. Ma il motivo delle "sette terre" è presente anche nella geografia tradizionale iranica, la quale distingue sette keshvar (avest. karshvar), sette "climi", che sono in realtà sette zone della Terra. Il keshvar centrale, che rappresenta lo spazio terrestre attualmente accessibile agli uomini, è stato a sua volta suddiviso (per esempio da al-Bîrûnî) nelle sette regioni seguenti: 1) India, 2) Arabia e Abissinia, 3) Siria ed Egitto, 4) Iran, 5) Bisanzio e mondo slavo, 6) Turkestan, 7) Cina e Tibet. Nell'esoterismo islamico, le "sette terre" rappresentano sette diverse categorie (tabaqât) dell'esistenza terrena: ciascuna è governata da un Polo (Qutb) e i sette Poli sono subordinati al Polo Supremo (al-Qutb al-Ghawth). Ai sette Poli dell'Islam (ai sette rsi dell'India, ai sette saggi dell'antichità greca ecc.) corrispondono i sette Magyar (hetumoger) di cui parlano le Cronache medioevali, i hét vezér delle tribù ugriche guidate da Árpád.

    Di là dai "sette paesi", di là dai "sette mondi", tra gli altri personaggi fiabeschi c'è anche il Forte Giovanni (Erös János, Erös Jancsi). In questo personaggio (che corrisponde al Batyr Ivan delle favole ciuvasse e allo Starker Hans di quelle tedesche) troviamo il riflesso fiabesco di tutta una serie di mitici "fanciulli divini", alla quale, come ha mostrato Károly Kerényi (7), appartengono anche il Kullervo del Kalevala e il Mir-susne-hum della mitologia vogula. Alcune favole raccontano che il Forte János è figlio di una vedova, come Parsifal, come Mani; altre dicono che non ha né padre né madre: come Melchisedec (Ebrei, 7, 3), che alcuni identificano con Sayyidnâ` al-Khidr. D'altronde, la figura del "fanciullo divino" allude anch'essa a un'arché; e spesso a questa arché si accompagnano riferimenti "polari" ed iperborei.

    In una favola il Forte János si fa obbedire da un orso che egli ha trovato nella foresta; alcune varianti spiegano l'eccezionale forza fisica del ragazzo attribuendone la paternità ad un orso. E' noto che il simbolo dell'orso corrisponde, in una delle sue valenze, al Nord: ce lo ricorda l'Orsa Maggiore, ma anche la terminologia geografica ed astronomica relativa al Nord, che in varie lingue trae origine dal greco àrktos ("orso"). Ma, secondo la tradizione indù, la settentrionale "terra dell'orso" era stata precedentemente la "terra del cinghiale", Vârâhî, perché il cinghiale (in sanscrito varâha) simboleggia la terza "discesa" di Vishnu nell'attuale manvantara, ossia nel presente ciclo di umanità. Tale cambiamento di denominazione, spiega René Guénon, sarebbe l'effetto di una rivolta della casta guerriera contro quella sacerdotale, rivolta alla quale pose termine il sesto avatâra di Vishnu, Parashu-Râma.

    Ora, se il Forte János si limitasse a sottomettere l'orso, il suo ruolo sarebbe identico a quello di Parashu-Râma e l'eroe della favola ungherese sarebbe una variante folclorica della figura dell'avatâra. Anzi, per rimanere in ambito ugrofinnico, János si identificherebbe con Mir-susne-hum, che insegue l'orso e lo sconfigge. Ma János riunisce intorno alla propria persona sia l'orso sia i cinghiali, quasi a dimostrazione del fatto che "i due simboli del cinghiale e dell'orso non appaiono sempre necessariamente in opposizione o in lotta, ma, in certi casi, possono anche rappresentare l'autorità spirituale e il potere temporale, o le due caste dei druidi e dei cavalieri, nei loro rapporti normali e armonici" (8). Dunque, se l'abbinamento dei simboli in questa favola non è casuale, essa dovrebbe alludere a un'epoca remota in cui tra le due funzioni esisteva ancora una perfetta armonia.

    Infine, un'osservazione sul nome del protagonista. Nel suo studio sulla "Dacia iperborea" (9), Geticus (alias Vasile Lovinescu) ha riportato il nome Ion (Giovanni), che secondo la sua interpretazione designa il "Re del Mondo" nella tradizione popolare romena, al nome di Janus, il dio che regnò sul Lazio nell'età dell'oro. Ma si potrebbe aggiungere che il latino Janus, indipendentemente da ogni considerazione propriamente etimologica, presenta una curiosa assonanza anche con l'ungherese János; e a questa fortuita analogia fonetica tra i due nomi si aggiunge una analogia sostanziale tra le due figure, perché tanto il bifronte Janus quanto lo János dominatore di orsi e cinghiali rappresentano un'unità primordiale non ancora dissociata nella dualità.

    La tesi di Geticus-Lovinescu è nota. A suo parere la Dacia sarebbe stata, in un certo periodo dell'antichità, la sede di un centro spirituale di origine iperborea; in altri termini gl'Iperborei, spostandosi dall'originaria sede settentrionale verso il sud, avrebbero sostato nel territorio compreso tra il Danubio e i Carpazi e ne avrebbero fatto una loro sede secondaria. Al fine di suffragare un tale assunto, l'autore della Dacia iperborea passa in rassegna un vasto materiale documentario, desunto sostanzialmente dall'opera di Densuçianu (10): il folclore, la toponomastica, la numismatica, le fonti greche e latine, la stessa storia dei Principati romeni secondo Geticus-Lovinescu avvalora l'ipotesi per cui la tradizione dacica sarebbe sopravvissuta fino a tempi relativamente recenti.

    Geticus-Lovinescu espose tali vedute in una serie di articoli che apparvero su "Études Traditionnelles" tra il 1936 e il 1937. Questi scritti hanno avuto più ampia risonanza cinquant'anni più tardi, quando, in seguito all'edizione italiana del 1984 e a quella francese del 1987, Vintila Horia ne parlò con ammirazione, mentre in Romania Virgil Candea ebbe modo di richiamare l'attenzione sull'immagine della Dacia arcaica tracciata da "B.P. Hasdeu, Nicola Densuçianu, Mihail Sadoveanu, Matila Ghyka, Mircea Eliade, Mihai Valsan, Mihai Avramescu, Vasile (e anche Horia) Lovinescu, Nichita St[nescu, per citare soltanto quegli autori scomparsi che hanno coltivato la philosophia perennis con mezzi, ambizioni e risultati differenti" (11). L'edizione francese, in particolare, destò l'interesse di studiosi quali Charles Ridoux e Paul Georges Sansonetti; quest'ultimo, allievo di Henry Corbin e Gilbert Durand, tenne alla Sorbona un corso sulla "Dacia iperborea".

    Le indicazioni contenute nella Dacia iperborea hanno ricevuto un certo sviluppo in Russia, negli scritti di Aleksandr Dugin, che già nel 1991 faceva circolare in samizdat una sua Giperborejskaja teorija (12). Scrive Dugin: "La 'Dacia iperborea' di Geticus rappresenta il polo comune di due circoli opposti: il circolo meridionale mediterraneo e il circolo settentrionale (..) russo-slavo (nel quale rientrano anche le componenti balto-scandinave). (..) Comunque sia, la 'Dacia iperborea' rappresentava il limite meridionale della Gardarika-Russia iperborea, concentrando in sé le energie sacrali del Nord e i motivi mitici iperboreo-solari. Però, la sua posizione intermedia tra i due circoli suddetti fa sì che essa svolga una funzione davvero particolare all'interno della 'economia del sacro', sicché si spiega in parte il radicarsi delle tendenze iperboree sul territorio romeno" (13). Sempre in Russia, nel 1997 Valerij Diomin ha guidato una spedizione scientifica nella Penisola di Kola, dove sono stati scoperti i resti di una civiltà che dovrebbe risalire a ventimila anni fa. Riferendosi ai risultati di quella spedizione, la stampa russa annunciava che l'Iperborea, "culla di tutti i popoli indoeuropei (..) non soltanto è esistita, ma si trovava sul territorio del Settentrione russo" (14).


    Claudio Mutti


    1 Luigi De Anna, Conoscenza e immagine della Finlandia e del Settentrione nella cultura classico-medievale, Turun Yliopisto, Turku 1988, pp. 17-18.

    2 Bâl Gangâdhar Tilak, The Arctic Home in the Vedas, trad. it. La dimora artica nei Veda, Ecig, Genova 1986.

    3 Felice Vinci, Homericus nuncius. Il mondo di Omero nel Baltico, Solfanelli, Chieti 1993, p. 45.

    4 Testi taoisti, trad. di F. Tomassini, Utet, Torino 1977, pp. 275-276.

    5 Henry Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste, Adelphi, Milano 1986, p. 94.

    6 Cfr. Anikó Steiner, Sciamanesimo e folclore, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 1980, p. 26.

    7 Carl G. Jung e Károly Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Boringhieri, Torino 1972.

    8 René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Torino 1975, pp. 150-151.

    9 Geticus, La Dacia iperborea, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma, 1984.

    10 Nicolae Densusianu, Dacia preistorica, editia a II-a, studiu introductiv si note de Manole Neagoe, Editura Meridiane, Bucuresti 1986.

    11 Virgil Cândea, Viziuni ale Daciei arhaice în perspectiva istoriei ideilor, "Viata Româneasca", nn. 2, febbraio 1990, p. 41.

    12 Edizione a stampa: Aleksandr Dugin, Giperborejskaja teorija, Arktogeja, Moskva 1993.

    13 Alexandr Duguin, Rusia. El misterio de Eurasia, Grupo Libro 88, Madrid 1992, pp. 67-72.

    14 Vittorio Strada, Scoperta Iperborea. Nuova linfa per i neonazisti russi, "Corriere della Sera", 19 aprile 1998.

    fonte: http://www.centrostudilaruna.it/hyperborea.html

  2. #12
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    Un'ipotesi curiosa....


    Gli Indoeuropei nell'antica Cina



    Nel terzo libro del suo famoso Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, pubblicato negli anni cinquanta del secolo scorso, Arthur de Gobineau, descrivendo i flussi migratori dei popoli indoeuropei in Oriente, rileva che "verso l'anno 177 a.C. noi intravediamo numerose nazioni bianche dai capelli biondi o rossi e gli occhi azzurri, acquartierate sulle frontiere occidentali della Cina. Gli scrittori del Celeste Impero ai quali dobbiamo la conoscenza di questo fatto nominano cinque di queste nazioni... Le due più celebri sono gli Yüeh-chi e i Wu-suen. Questi due popoli abitavano a nord dello Hwang-ho, al confine col deserto del Gobi... cosicché il Celeste Impero possedeva, all'interno delle province del sud, nazioni ariane-indù immigrate all'inizio della sua storia" (1). Il de Gobineau traeva le sue informazioni dagli studi di Ritter (Erdkunde, Asien) e von Humbolt (Asie centrale), che si basavano sugli annali cinesi della dinastia Han, iniziata nel 206 a.C.

    Di fatto oggi sappiamo che già nel IV secolo a.C. le documentazioni storiche del Celeste Impero parlavano di popoli biondi, dallo spirito guerriero, presenti nelle zone di confine, in quello che oggi si chiama Turkestan cinese o Xinjiang (Cina occidentale). A parere del de Gobineau questi fatti indicavano la potenza espansiva e, implicitamente, civilizzatrice, delle popolazioni "bianche". Ma, al di là delle interpretazioni unilaterali e talora inaccettabili dello studioso francese, quasi nessuno prese in considerazione il significato che tale informazione avrebbe potuto rivestire per tracciare una storia della cultura e delle influenze culturali dal profilo meno banale e lineare di quella in voga nell'Ottocento. Piuttosto si tendeva a essere increduli sulla attendibilità degli annali, in base ai pervicaci pregiudizi eurocentrici, secondo cui i popoli di colore sarebbero bambini fantasiosi, privi di concretezza storica. Inoltre non si poteva verificare la presenza di tali popolazioni "bianche": ammesso che fossero esistite, per quel che se ne sapeva erano da tempo scomparse nel mare delle preponderanti popolazioni gialle circostanti. Quell'area geografica, una volta attraversata dalla "leggendaria via della seta", e ormai da tempo diventata in gran parte deserto, risultava quasi inaccessibile agli europei per cui erano improponibili eventuali studi archeologici seri e approfonditi.

    Come sottolinea Colin Renfrew, ben noto per le sue ricerche sulle migrazioni arie, solo agli inizi di questo secolo vi si avventurarono i primi studiosi, in particolare nella depressione di Tarim e in varie aree circostanti (2). Lì trovarono molti materiali, ben conservati data l'estrema aridità del clima desertico. Si trattava di testi spesso bilingui, scritti in una lingua allora sconosciuta, che però aveva adottato un alfabeto del Nord dell'India, con accanto la versione sanscrita. Il che permise agevolmente di capirla e studiarla. Tale idioma, poi chiamato, forse impropriamente, Tocario, era presente in due forme leggermente differenti, che rivelano "diverse caratteristiche grammaticali che le collegano al gruppo indoeuropeo" (3). Degno di nota è il fatto che le maggiori somiglianze sono riscontrabili con le lingue celtiche e germaniche, piuttosto che con quelle dei vicini Irani o degli altri Arii giunti in Asia. A titolo di esempio compariamo alcune parole fondamentali rispettivamente in latino, antico irlandese e tocario: padre si dice pater, athir e pacer, madre mater, mathir e macer, fratello frater, brathir e procer, sorella soror, siur e ser, cane canis, cu e ku (4). Come curiosità riportiamo un'altra corrispondenza: il numerale tre si dice tres in latino, tri in antico irlandese e tre (!) in tocario. Le affinità ci sembrano più che evidenti.

    "La documentazione risale al VII e VIII secolo d.C. e comprende corrispondenza e rendiconti monasteriali... Delle due lingue tocarie la prima, spesso chiamata tocario A, era anche nota da ritrovamenti di testi nelle città di Karashar e Turfan ed è talvolta denominata turfaniano. L'altra, il tocario B, è ampiamente nota da testi trovati a Koucha ed è perciò, in genere, chiamata koucheano" (5). Oggi si tende a pensare che tali lingue venivano parlate dai Yüeh-chi (o Yü-chi), il popolo citato negli antichi annali, che ebbe contatti prolungati con il mondo cinese. Questo risulta un punto fondamentale, per lungo tempo non risolto. Infatti sulla nascita della civiltà cinese si sono sempre fronteggiate due opinioni opposte: una, volta a privilegiare un processo del tutto endogeno, senza influenze esterne di altri popoli, l'altra, invece, tesa a evidenziare apporti rilevanti, fondamentali, provenienti da aree culturali molto differenti. La prima posizione è naturalmente quella ufficiale dei cinesi, ma anche di coloro che osteggiano ogni concezione della storia dove possano emergere idee di tipo protocolonialista in chiave occidentale. Infatti gli assertori più convinti della seconda posizione sono sempre stati quegli studiosi (il già citato de Gobineau, ma anche Spengler, Kossinna, Günther, Jettmar, Romualdi, ecc.) sostenitori, seppur in modo talora diverso, del ruolo civilizzatore dei popoli indoeuropei nelle loro migrazioni dalla patria primordiale fin nei lontani paesi a cui dettero un'impronta specifica. Naturalmente in certi casi questi studiosi hanno ritenuto che l'apporto culturale non era stato in grado di "dare forma" a una nuova nazione, dato il ridotto numero dei nuovi venuti rispetto alla popolazione "indigena", ma ciononostante la presenza di una influenza indoeuropea, a loro parere, sarebbe stata sufficiente a imprimere un impulso vivificatore e animatore allo sviluppo dei popoli con cui era venuta a contatto. Questo sarebbe stato il caso dei Tocari con i Cinesi. Ad esempio, Spengler (6) rilevò l'importanza centrale della introduzione del carro da guerra indoeuropeo nella evoluzione della società cinese al tempo della dinastia Chou (1111-268 a.C.). Altri studiosi, come Hans Günther, già diversi decenni addietro avevano avanzato alcune ipotesi ben articolate e supportate con dati di un certo rilievo, attribuendo a queste penetrazioni di popoli indoeuropei l'introduzione dell'agricoltura fra le tribù nomadi dell'Asia Centrale alla metà del secondo millennio e mostrando come l'agricoltura si espanse nell'Asia centrale parallelamente al diffondersi di popolazioni di stirpe nordica. La stessa introduzione del bronzo in Cina sembrò riconducibile alle invasioni indoeuropee, tanto da far supporre che agli inizi della storia cinese sia da porre un'invasione del popolo dei carri da guerra, cioè di un popolo proveniente dal lontano Occidente. Va detto che i sinologi oggi riconoscono l'estrema importanza della lavorazione e del commercio del bronzo nello sviluppo della società nell'antica Cina (7).

    Altrettanta importanza viene riconosciuta, ormai da più parti, alla introduzione di certe tecniche agricole e del carro trainato dai cavalli. Anche gli studi di Günther sul parallelismo tra la presenza di popoli biondi e la diffusione della cultura indoeuropea in Asia, nonostante siano stati demonizzati, meritano attenzione nelle parti ancora valide. Così pochi amano ricordare che nell'oasi di Turfan, situata nel Turkestan cinese dove vivevano i Tocari, si possono vedere ancora affreschi in cui questo popolo viene raffigurato con tratti nettamente nordeuropei e con i capelli biondi (8). E' una riconferma della attendibilità degli annali del Celeste Impero. Non si può, quindi, negare una certa concatenazione degli eventi, per quanto, fino a pochi anni fa mancavano prove più dirette e convincenti di insediamenti indoeuropei molto antichi, nell'area asiatica di cui stiamo parlando, cioè insediamenti avvenuti all'epoca delle grandi migrazioni arie verso Oriente (II millennio a.C.) prima che si manifestassero certi aspetti della civiltà cinese. Dicevamo, appunto, fino a pochi anni fa...

    Nel 1987 Victor Mair, un sinologo della università della Pennsylvania, durante la visita nel museo della città di Ürümqui, capitale della regione autonoma del Xinjiang, vide qualcosa che gli provocò uno shock. Si trattava dei corpi mummificati, per cause naturali, di una famiglia: un uomo, una donna e un bambino di due-tre anni. Si trovavano dentro una teca di vetro. Erano stati rinvenuti nel 1978, nella depressione di Tarim, a sud del Tian Shan (le Montagne Celesti), in particolare nel deserto del Taklimakan (un posto ospitale, a giudicare dal significato del suo nome: "entra e non ne verrai più fuori")! Alcuni anni dopo, Mair dichiarava al redattore del mensile americano Discover: "Ancora oggi sento i brividi pensando a quel primo incontro. I cinesi mi dissero che quei corpi avevano 3.000 anni, ma sembravano essere stati sepolti ieri" (9). Ma il vero shock venne quando lo studioso guardò da vicino i loro volti. In acuto contrasto con le popolazioni asiatiche, di stirpe cino-mongolica, questi corpi mummificati presentavano degli evidentissimi caratteri somatici di tipo europeo, addirittura nordeuropeo. Infatti Mair notò i loro capelli, ondulati, biondi o rossicci, i nasi lunghi e stretti, l'assenza di occhi a mandorla, le ossa lunghe (la loro struttura longilinea contrastava con quella tarchiata delle popolazioni gialle). Lo stesso colore della pelle, mantenutosi incredibilmente quasi intatto nei millenni, gli appariva quello tipico di una popolazione bianca. L'uomo presentava un fitta barba, carattere del tutto assente tra le popolazioni gialle. Le tre "mummie" (sarebbe più corretto dire: corpi disidratati dal clima fortemente secco e preservati dalla alta percentuale di sali del terreno che hanno impedito la crescita batterica) costituivano gli esempi rappresentativi di una serie di poco più di un centinaio di individui che i cinesi avevano dissotterrato nelle zone circostanti. Dalle datazioni con il radiocarbonio 10, eseguite negli anni precedenti dai ricercatori locali, era risultato che questi corpi avevano una età compresa tra i 4000 e i 2300 anni. Quindi ciò induce a pensare che la popolazione di cui erano parte visse e prosperò a lungo in quelle zone, la cui natura nel lontano passato doveva essere più ospitale (sono stati trovati numerosi tronchi secchi di alberi).

    Anche il corredo funebre e il vestiario di queste "mummie" è assai interessante. Ad esempio: la presenza di simboli solari, come spirali e svastiche, raffigurate nei finimenti dei cavalli collegano ancora una volta, sotto il profilo culturale, queste genti con gli antichi Arii. Il materiale usato per i vestiti è la lana, che fu introdotta in Oriente dall'Occidente. Il "popolo delle mummie" conosceva bene l'arte della tessitura: non solo perché sono state trovate molte ruote da telaio, ma anche perché le stoffe rinvenute hanno una eccellente fattura. A testimonianza dei rapporti con il Celeste Impero si può portare poi un dato: la presenza di una piccola componente di seta negli indumenti più recenti (dopo il VI secolo a.C.), evidentemente acquisita dai Cinesi. Gli articoli di vestiario nella maggior parte dei casi dimostrano stretti rapporti con le culture indoeuropee occidentali e includono giacconi ornati e foderati con pelliccia, pantaloni lunghi. Più rilevante è il ritrovamento, in una tomba, di un frammento di tessuto incredibilmente identico ai "tartans" (11) celtici trovati in Danimarca e nell'area della cultura di Hallstatt in Austria, sviluppatasi oltre la metà del II millennio a.C., quindi in parte contemporanea alla popolazione "bianca" del Xinjiang. Se si ipotizza che costoro furono i progenitori dei cosiddetti Tocari (o furono i Tocari tout court), questo dato si accorda bene con quanto detto in precedenza circa le similitudini tra la lingua celtica e quella degli Indoeuropei del Turkestan cinese: i due dati si rinforzano a vicenda. Un'ulteriore nota di interesse deriva da un copricapo a punta, con larghe falde, definito scherzosamente "cappello della strega", indossato da una mummia di sesso femminile, risalente a circa 4000 anni fa: è molto simile a certi copricapi usati dagli Sciti, popolo ario di guerrieri della steppa, ma si possono trovare anche raffronti nella cultura iranica (si pensi ai cappelli dei Magi). Erano agricoltori, come dimostra la presenza di sementi nelle borse e avevano rapporti con popolazioni che vivevano sul mare, dato che sono state trovate numerose conchiglie di molluschi marini. L'estrema rilevanza di questi reperti ha indotto a eseguire alcuni studi antropologici (principalmente di antropometria classica), condotti da Han Kangxin, dell'Accademia Cinese di Scienze Sociali di Pechino, che hanno confermato quanto già a una prima occhiata risultava evidente: in molti casi le loro proporzioni corporee, dal cranio alla struttura generale dello scheletro, sono incompatibili con qualsiasi popolazione asiatica "gialla", mentre si inseriscono pienamente nei valori consueti degli europei, specie nordici.

    Tramite la cosiddetta archeologia genetica, è stato possibile ottenere dati ancora più sofisticati, per chiarire ulteriormente le origini e le parentele di questo popolo misterioso. La tecnica, abbastanza recente, si basa sul raffronto del DNA mitocondriale (12) di varie popolazioni che si vogliono confrontare per valutare la distanza genetica. Uno dei vantaggi risiede nel fatto che si può analizzare anche il DNA di individui morti da molto tempo, naturalmente stando molto attenti a evitare eventuali contaminazioni derivanti dall'ambiente (es. batteri) e dalla manipolazione dei campioni. L'archeologia genetica risulta, quindi, utile per creare un collegamento, a livello molecolare, tra l'antropologia fisica e la genetica delle popolazioni. I primi test, eseguiti dal ricercatore italiano Paolo Francalacci dell'Univerità di Sassari, hanno ulteriormente confermato l'appartenenza degli individui analizzati alle popolazioni del ceppo indoeuropeo, in quanto il DNA mitocondriale, estratto e tipizzato, è risultato appartenente ad un aplogruppo frequente in Europa (apl. H) e praticamente assente nelle popolazioni mongoliche (13). Purtroppo le autorità di Pechino hanno permesso di analizzare solo pochi campioni per cui rimane ancora molto da studiare, ammesso che ciò sarà possibile in futuro. Da ultimo va notato come gli attuali abitanti del Turkestan cinese, gli Uyghuri, mostrano dei caratteri somatici misti, dove i tratti europoidi si uniscono a quelli asiatici, secondo quanto ci si potrebbe aspettare da una situazione dove stirpi assai diverse si sono incrociate formando un nuovo popolo. Non a caso le autorità di Pechino temono che la dimostrazione dell'esistenza di ceppi "bianchi" tra i fondatori dell'etnia uyghura porti al rafforzamento della loro identità culturale e allo sviluppo ulteriore delle già presenti aspirazioni indipendentistiche, violentemente anticinesi. E questo contribuisce a spiegare certi comportamenti di aperto boicottaggio verso le ricerche condotte da Mair e dai suoi collaboratori.

    In conclusione ci sembra evidente che l'ampiezza, la solidità e la coerenza dei dati ottenuti supporta l'intuizione di quegli studiosi, a lungo ignorati, che avevano avanzato l'ipotesi di un contributo esterno alla formazione della civiltà cinese, contributo dovuto a stirpi arie alle quali, dopo la scoperta delle "mummie", si tende a far risalire l'introduzione diretta, e non mediata, del bronzo e di altre importanti acquisizioni nella Cina arcaica. Ad esempio, Edward Pulleyblank ha sottolienato di recente che "esistono segni indubbi di importazioni dall'Occidente: grano e orzo, per quel che riguarda le coltivazioni di cereali, e, ancor più di rilievo, il carro trainato dai cavalli... sembra molto probabile che uno stimolo, proveniente da Occidente, abbia svolto una funzione importante nella nascita dell'età del bronzo in Cina" (14). Naturalmente tutto ciò non toglie originalità alla grande cultura del Celeste Impero, ma evidenzia alcuni aspetti fondamentali della sua genesi e del suo sviluppo, riconoscendo il giusto ruolo giocato dagli antichi migratori provenienti dall'Europa.


    Giovanni Monastra


    Note:

    1) Arthur de Gobineau, Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, Rizzoli, Milano 1997, p. 443.
    2) Colin Renfrew, Archeologia e linguaggio, Laterza, Bari 1989, p. 77.
    3) ivi, p. 79.
    4) I cinesi, per indicare il cane, usano il termine kuan, quasi unica parola della loro lingua simile alla nostra, a causa di una evidente introduzione del cane domestico nella loro società da parte di popolazioni indoeuropee, che hanno lasciato una traccia di questa trasmissione nel nome dell'animale. Non va dimenticato che in Danimarca si ha notizia del cane fin dal Mesolitico.
    5) Colin Renfrew, Archeologia ecc., cit., pp. 78-9.
    6) Osvald Spengler, Reden und Aufsätze, Monaco 1937, p. 151.
    7) Jacques Gernet, La Cina Antica, Luni, Milano 1994, pp. 33-4.
    8) Luigi Luca Cavalli-Sforza, Geni, Popoli e Lingue, Adelphi, Milano 1996, p. 156.
    9) Discover, 15, 4, 1994, p. 68.
    10) Il metodo del radiocarbonio (14C) si basa sul fatto che in ogni organismo vivente, oltre al normale atomo di carbonio (12C), si trova anche una certa quantità del suo isotopo, il radiocarbonio, che decade in modo costante diventando un isotopo dell'azoto. Mentre il rapporto tra 14C e 12C rimane stabile quando l'organismo è in vita, ciò non avviene più alla sua morte in quanto si osserva un decadimento costante che comporta la progressiva scomparsa del radiocarbonio che si dimezza ogni 5730 anni. Quindi in un campione è sufficiente conoscere il rapporto tra i due isotopi per poter calcolare gli anni intercorsi dalla morte dell'organismo. Un limite del metodo consiste nel fatto che non può essere usato per reperti che hanno più di 70000 anni.
    11) Archaeology, Marzo 1995, pp. 28-35. Il "tartan" è la tipica stoffa dei plaid scozzesi. Per un approfondimento dei vari aspetti legati alla tessitura e al vestiario di questo popolo rimandiamo a un eccellente ed esaustivo testo, ricco di comparazioni con le aree europee: Elizabeth Wayland Barber, The Mummies of Ürümchi, W. W. Norton & Company, Inc., New York, 1999.
    12) I mitocondri sono organuli presenti nelle cellule degli eucarioti (dai funghi ai mammiferi), talora anche a decine di migliaia. Solo queste strutture, a parte il nucleo cellulare, contengono il DNA, molecola-base della trasmissione ereditaria, ma il loro DNA è molto più piccolo di quello nucleare (200000 volte più corto): serve unicamente per la sintesi di proteine necessarie a questi organuli. Va comunque ricordato che al momento della fecondazione sembra che solo la madre trasmetta i mitocondri alla prole.
    13) Journal of Indo-European Studies, 23, 3 & 4, 1995, pp. 385-398.
    14) International Rewiew of Chinese Linguistics, I, 1, 1998, p. 12. Vedi anche: Elizabeth Wayland Barber, The Mummies of Ürümchi, cit.

    Da Percorsi III (1999), n. 23 (poi ripubblicato sul sito Est Ovest). Ringraziamo l'Autore per la gentile autorizzazione alla pubblicazione del presente saggio.



    fonte: http://www.centrostudilaruna.it/indoeuropeicina.html

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    si può inserire nel primo messaggio il simbolo dei popoli indoeuropei?

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    Radici indoeuropee e "terzo uomo"


    Di Giorgio Locchi - Altri Testi - 10/07/2006




    Indoeuropeo è come noto un termine convenzionale tramite cui viene designata una lingua parlata agli inizi del neolitico e la cui "scoperta", da parte di una linguistica che si è così costituita in scienza (nel senso moderno del termine), risale ai primi decenni del diciannovesimo secolo. Dato che ogni lingua presuppone degli utilizzatori, la scoperta della lingua indoeuropea (l'indoeuropeo, appunto) rappresenta anche la scoperta di un gruppo di parlanti (gli indoeuropei), cioè di un popolo e di una civiltà, di cui tra gli altri Georges Dumézil si è applicato a restituire le dimensioni e a studiare le caratteristiche. Noi sappiamo oggi, ed in modo certo, ciò che gli uomini della fine del diciottesimo secolo ignoravano, ovvero che in un lontano passato è esistito un "popolo indoeuropeo", e che la lingua di questo popolo è l'antenato in linea diretta d'un gran numero di lingue parlate tanto nell'antichità che ai nostri giorni, precisamente delle parlate neolatine, germaniche, celtiche, baltiche, elleniche, slave e indoarie. Inoltre, sappiamo anche, e con certezza non minore, che l'eredità indoeuropea ha conformato in modo determinante le civiltà che hanno dato nascita alla "civilizzazione europea", e che tale eredità veicola ancora, non fosse che per mezzo del solo fatto linguistico, una certa "percezione del mondo" (Weltsicht), la quale è senza dubbio oggi a brandelli nella sua sostanza, ma resta sempre attiva come forza costrittiva di rappresentazione, e struttura il quadro stesso del nostro pensiero.
    Si coglie qui subito la prima ragione del nostro interesse per la res indo-europeana. In un'Europa necessariamente chiamata, nell'ambito di un mondo divenuto planetario, a trasformare in unità politica la sua secolare unità di civiltà, parliamo tutti o quasi delle lingue neo-indoeuropee, e siamo perciò tutti debitori, al di là dei millenni della storia scritta, di un'unica percezione che conforma la nostra mentalità e il nostro destino.
    Nelle ultime pagine della sua opera sulla terminologia linguistica, Einführung in die linguistiche Terminologie, Nymphenburger Verlagshandlung, Monaco 1971), Hans J. Vermeer scrive: «Non vi è dubbio che la dicotomia [tra il verbo e il nome]operata dalle lingue indoeuropee storiche marca della sua impronta, per il semplice fatto di strutturare un lessico ridato in permanenza a ciascun individuo, la visione del mondo occidentale. Ma questa visione del mondo, che è una teoria, non è che una tra molte altre possibili».
    E' di moda, in effetti, interrogarsi sul fondamento di questa Weltsicht, di questa teoria in forma di percezione-del-mondo, che sembra inerente alle lingue neo-indoeuropee, e si oppone così, in modo abbastanza netto, alle "teorie" delle altre lingue. E' ugualmente di moda il rispondere negativamente a tale domanda. Si rimprovera per esempio alle lingue europee la loro capacità d'astrazione. Ora, questa volontà e capacità di astrazione, se sono state all'origine di divagazioni incontrollate, sono state anche la condicio sine qua non di ogni pensiero e prassi scientifici. E' per questo che la scienza e il progresso scientifico sono debitori storicamente, in modo pressoché esclusivo, della mentalità occidentale e delle "società calde" votate alla storia che Claude Lévy-Strauss [alias],, tra gli altri, vorrebbe riconvertire al verde e freddo paradiso dei Bororos. Certo, l'eredità indoeuropea appare limitativa: la percezione del mondo che essa comporta è una tra mille e mille possibili. Ma la stessa identica cosa vale per qualsiasi altra percezione del mondo. E questa eredità è la sola, ai nostri occhi, che offra ancora una apertura sull'avvenire, in un mondo in cui, restando il principio di individuazione la condizione d'esistenza, ogni esistenza deriva da una scelta limitativa.
    Inoltre, ed al di là di ogni considerazione raziocinante, ci riteniamo in diritto di scegliere liberamente l'eredità indoeuropea e il destino che vi si ricollega, tramite un atto di fedeltà che, non nascondiamolo, non concerne che noi. Martin Lutero diceva: «Così io sono: non posso essere altrimenti». In un'epoca che ingloba ancora il momento in cui Lutero annunciava la sua rivolta, crediamo di sapere che è ormai possibile essere ciò che siamo perché lo vogliamo, e perché non siamo altrimenti.
    ***
    Se è vero, come riteniamo, che l'uomo non possa essere veramente compreso in quanto tale che nel quadro che gli è proprio, cioè nel quadro storico, sarebbe inconcepibile non essere interessati al fatto indoeuropeo, poiché tale fatto è un passato da cui prendiamo le mosse e che al tempo stesso si iscrive nel nostro presente.
    Ciononostante, il nostro interesse prende origine anche altrove. La nostra attenzione è polarizzata, a due livelli differenti, dal metodo scientifico che ha permesso alla linguistica nascente di "scoprire" gli indoeuropei; e, d'altra parte, dall'oggetto stesso della "scoperta", da queste origini indoeuropee in cui vediamo un esempio unico di rigenerazione della storia, una rigenerazione quale la nostra epoca sembra nuovamente reclamare.
    La scoperta della lingua indoeuropea grazie al metodo comparativo è in effetti, dal punto di vista strettamente scientifico, una rivoluzione altrettanto determinante per le scienze umane quanto la scoperta della natura discreta dell'energia e delle particelle elementari lo è stata per la fisica.
    La voga attuale della linguistica sincronica, guardata da taluni come il "modello" stesso delle scienze umane (forse perché si riduce spesso ad un discorso complicato sulla sua propria vacuità...) fa un po' troppo spesso dimenticare che questa linguistica non è di fatto, storicamente parlando, che una derivazione della linguistica diacronica, e che essa si è costituita, con Saussure, tramite una semplice riflessione sugli assiomi (impliciti ed espliciti) e le procedure della linguistica diacronica. E' così, per non prendere che un esempio, che la linguistica strutturalista, madre di tutti gli strutturalismi della nostra epoca, non fa che proclamare, dandosi l'aria di scoprirlo, ciò che i linguisti dell'inizio dell'ottocento consideravano come un fatto acquisito, che va quasi da sé, ovvero che ogni lingua è strutturata e che costituisce un sistema. Se Bopp, Rask e Grimm hanno potuto, all'inizio del diciannovesimo secolo, "ricostruire" la lingua indoeuropea, è per il fatto che il loro metodo si basava precisamente sulla comparazione di sistemi (fonetici e morfologici) in campo linguistico, come testimonia d'altronde il titolo di alcune loro opere.
    La riflessione che la linguistica sincronica propone ai nostri contemporanei non può dunque giustificarsi da sola. Essa non può che raffinare lo strumento linguistico necessario all'investigazione diacronica, questa sola potendo attingere al fatto storico, che è il fatto umano per eccellenza. Ripiegata su se stessa, la linguistica sincronica conduce fatalmente a ciò che viene chiamato riduzionismo, cioè il tentativo abusivo di ridurre l'umano allo zoologico, poi al biologico, prima di "riassorbirlo", come direbbe Lévi-Strauss, nel "fisico-chimico".
    La linguistica diacronica, da parte sua, si è sempre ed immediatamente posta come ausiliaria della vera scienza umana, che è la storia. Meglio ancora, essa ha da sola sconvolto la nostra concezione della storia, e messo così Indossamente in evidenza le proprietà di uno spazio-tempo storico, distinto dallo spazio tempo macrofisico, microfisico, biologico. Giungendo per la prima volta ad infrangere la barriera della testimonianza diretta, su cui si fondava prima ogni studio storico, essa ha saputo ritrovare un passato interamente dimenticato, risalendo al di là dell'affermazione della scrittura, sino ai "millenni silenziosi" che sino ad allora erano stati percepiti come storicamente vuoti, e si ritrovavano compressi dall'immaginazione in una sorta di unico momento, di durata indefinita, ma immobile. D'un sol colpo, grazie alla linguistica diacronica (ed agli sviluppi paralleli dell'archeologia e dell'antropologia) un tempo storico, l'ultrastoria nel senso che dà al termine Dumézil, a cui avevamo attribuito appena sette o ottomila anni di "durata", ha guadagnato una nuova dimensione, di una profondità immensa e che abbiamo appena cominciato ad esplorare.
    Infine, la linguistica diacronica ha questo di particolare (e d'essenziale): che cerca, e trova, la testimonianza del passato non - come farebbe ad esempio un archeologo o un paleontologo - in un fossile o un reperto che solo il caso geologico ha fatto arrivare sino a noi, ma piuttosto in un fatto contemporaneo che è l'attualità stessa dell'uomo e della lingua che usa. Così, il passato storico ci appare implicitamente non più come un momento anteriore per sempre perduto, ma come una dimensione dell'epoca storica, ad ogni momento data del nostro presente - e quindi anche del nostro avvenire.
    Bisogna tuttavia sottolineare (e mai dimenticare) che questo passato ritrovato in seno all'attualità non sorge di fronte ai nostri occhi che in funzione di una prospettiva nuova, propria ad un'epoca storica ben determinata ed unicamente ad essa. Prima dell'epoca in questione (o piuttosto al di fuori di essa) tale passato non esisteva affatto, e non è che nel linguaggio della sola prospettiva bio-macrofisica che potremmo dire che non esisteva più. Prima dello sviluppo della linguistica diacronica gli indoeuropei non erano e non erano mai stati nella storia, che li ignorava completamente (come una certa storia "scolastica" continua d'altronde a fare a tutt'oggi). Non "esistevano". Il che non impedisce che si sia ricondotti ad applicare il termine di "indoeuropeo" a fossili e reperti di natura bio-macrofisica, cosa del tutto normale, dato che la storicità si appoggia sul biologico umano. Ciononostante, sappiamo anche che l'attualità perenta di cui tali reperti sono testimonianza non ha mai conosciuto una entità indoeuropea storica: nessun popolo si è mai dichiarato "indoeuropeo", o ha mai avuto coscienza di tale identità quale essa appare a noi, oggi. Di nuovo, in questo non vi è nulla di particolarmente sorprendente, giacché un fatto storico non trova la sua realtà che a livello della coscienza umana. Il fatto indoeuropeo non entra dunque nella storia, e non diviene storicamente agente, che una volta "scoperto", ovvero dall'istante in cui una coscienza umana, legata a una prospettiva "epocale" determinata - coscienza e prospettiva che sono di nuovo le nostre - lo ricostruisce come passato del suo proprio presente.
    Non è quindi esagerato dire che il vero e proprio fatto indoeuropeo non è tale che in noi e nostro tramite: è la proiezione di noistessi nel passato, al tempo stesso che il mito reinventato tramite cui ci proiettiamo parimenti nell'avvenire. Se fossimo marxisti, diremmo che il fatto indoeuropeo, nella sua "sostanza mitica", è la teoria della nostra prassi. Ed è giustamente per questo che possiamo parlare di "libera scelta" a proposito dell'eredità indoeuropea che è a tutti gli effetti il passato che ci diamo tra mille altri possibili.
    ***
    Si continua a proclamare che la storia è nata a Sumer. Non è vero, non è più vero. Ma la storia non comincia neppure con Cro-Magnon e le sue pitture, ersatz rispettivi di Sumer e della scrittura ad uso degli storici "moderni" ben decisi a non riconoscere storicità ed "umanità" vere e proprie che nel tipo d'uomo (l'Homo sapiens sapiens) da cui origina la rivoluzione neolitica. Anche qui, a partire dall'inizio del diciannovesimo secolo, i progressi della paleo-antropologia ci permettono di ampliare la nostra prospettiva storica: la storia, ai nostri occhi, comincia (e ogni volta ricomincia) là ove il pre-uomo, unendo al gesto la parola, si fa uomo e che ne lascia testimonianza attraverso l'invenzione e l'adozione dell'utensile.
    Non è certamente un caso se le scoperte della paleoantropologia così come l'evidenza del fatto indoeuropeo intervengono al momento stesso in cui il sentimento di uno Zeit-Umbruch, di una "rottura" del tempo storico, s'impadronisce degli spiriti europei, gli uni vedendovi l'annuncio della fine della storia, dell'avvenimento escatologico decisivo che permetterebbe all'umanità di uscire da «questa valle di lacrime», gli altri scorgendovi al contrario il segno di una rigenerazione della storia e di un nuovo inizio. La scoperta della storia al di là del muro della scrittura, quella delle radici indoeuropee delle civiltà "classiche", appare in effetti come una risposta ai bisogno di un'epoca di crisi, ormai incapace di immaginare e volere un avvenire storico (se non in una prospettiva puramente escatologica) senza avere preventivamente ritrovato un nuovo passato, e, con esso, una nuova possibilità di autentica scelta.
    Siamo entrati nel diciannovesimo secolo in un'epoca di passaggio, di transizione marcata da una trasformazione radicale del nostro Umwelt, nel nostro ambiente. Ora, nella vecchia prospettiva storica, la transizione fondamentale per eccellenza corrispondeva ad un passaggio ex abrupto dal naturale (il pre-uomo) allo storico (l'uomo). Si è dunque pensato, per semplice analogia, che la crisi attuale, nella misura in cui essa marca effettivamente una nuova transizione fondamentale, non poteva che corrispondere a un ritorno dello storico al naturale. In una tale prospettiva, si ritiene che l'evoluzione dell'umanità si svolgerebbe come in un'andata-e-ritorno, tra un alfa e un omega, tra il paradiso terrestre ancestrale e un paradiso celeste, tra il comunismo primitivo di un pre-umano totalmente agito dalla natura e il comunismo post-storico di un uomo "ritornato" alla natura grazie all'abolizione di ogni "sfruttamento" e di ogni "repressione degli istinti".
    Certo, nella prospettiva che ci è propria un ritorno-alla-natura, una "fine della storia", resta sempre possibile, ma questo ritorno, questa "fine", non è più logicamente necessario; non corrisponde più a un misterioso volere sopra-umano, né ad una qualunque predeterminazione del destino dell'umanità. Soprattutto, un'altra possibilità si offre: quella appunto di una rigenerazione della storia, a dell'avvento del "terzo uomo", di una nuova avventura dell'umano. E, tra queste differenti possibilità, la scelta spetta all'uomo, ed a lui soltanto.
    ***
    Vi sono stati sinora due uomini. Uno ha creato se stesso in quanto uomo: si è "addomesticato" grazie alla sua "scienza", che era la magia. L'altro ha preteso di essere l'uomo tout court, e ha negato l'"umanità" del primo: la sua storia si confonde con quella della "domesticazione" della materia vivente, che si compie oggi. Oggi, l'uomo, superando ancora una tappa, "addomestica" la materia-energia. Di conseguenza, trasforma di nuovo radicalmente il suo ambiente. Ma, al tempo stesso, si rifiuta di prendere chiaramente coscienza delle implicazioni di questo mutamento: rifiuta di cambiare egli stesso. E' per questo che risente delle trasformazioni del mondo attuale come di una sorta di costrizione esterna, che lo oltrepassa e lo aliena. L'umanità oggi gioca così all'apprendista stregone. Dichiara «non volevo questo». Sottolinea con compiacenza la sua "inquietudine", la sua "angoscia", etc. Minaccia nucleare, inquinamento, esplosione demografica, onnipotenza della macchina, "disumanizzazione" della società, corsa alla crescita: tutto diventa pretesto per arrestare questa evoluzione «che va troppo in fretta», «che non ha senso», tutto diventa motivo di fuga nel sogno di un "arresto del progresso".
    E' in una tale situazione che il fatto indoeuropeo acquisisce per noi un valore esemplare. Le origini indoeuropee ci rinviano in effetti ad un'altra epoca di transizione fondamentale, all'epoca di passaggio caratterizzata dalla rivoluzione neolitica. La religione, l'ideologia e l'organizzazione sociale dei gruppi indoeuropei, studiati in modo eccellente da Dumézil, ci appaiono come una risposta (dal nostro punto di vista, come la sola risposta buona) alle esigenze, non meno angoscianti di quelle che conosciamo oggi, di tale rivoluzione. Forti di questa "risposta", le società fondate dagli indoeuropei, e che avevano ereditato il loro atteggiamento di fronte alla vita, hanno potuto assumere la responsabilità del mondo del "secondo uomo": esse hanno spinto sino alle ultime conseguenze la dinamica dei rapporti tra "domesticatori" della natura vivente e natura vivente "addomesticata", prima di schiudere le porte di un nuovo avvenire, grazie all'invenzione di tecniche di "domesticazione" della materia-energia.
    A dispetto della sua pressante attualità, e del fatto che stiamo giusto cominciando a conoscerne gli autori, quest'eredità indoeuropea pare oggi spesso "dimenticata", talora deliberatamente dimenticata e persino quasi odiata. Non bisogna stupirsene. La storia di Roma, della Grecia o della Germania erano accettabili, nella vecchia prospettiva, per tanto che si riteneva che tali "avvenimenti" prefigurassero e preparassero l'avvento del cristianesimo e dell'ecumene egualitario. Nel momento in cui sappiamo da dove vengono questi insieme storici, e in che direzione è possibile che vadano, sembra "preferibile" a certuni rimuoverli e di sfumarne i contorni. La scuola europea oggi non vuole più nemmeno sentir parlare del greco e del latino.
    La chiave di questa rimozione, di questo oblio volontario, la troviamo una volta di più nel carattere e nella volontà escatologica delle società attuali: le società occidentali, eredi delle società indoeuropee, ci spiega Lévi-Strauss, sono delle «società calde», essenzialmente dinamiche, sempre in movimento, animate da una «funesta» volontà storica; bisogna dunque che scompaiono, o almeno che si "raffreddino".
    Resta nondimeno il fatto che la sola risposta positiva ai problemi e alle sfide del nostro tempo consiste in un atteggiamento che riprodurrebbe, adattandolo e reinventandolo, quello degli indoeuropei di fronte alla rivoluzione neolitica. La nostra riflessione si basa quindi sul fatto delle origini indoeuropee, su questo passato ritrovato in seno alla nostra propria attualità, che ci permette di precisare al tempo stesso le questioni che pone la nostra epoca e le risposte che sarebbe possibile dare ad esse.
    ***
    L'"esempio" delle origini indoeuropee non è sorprendente che a prima vista. Quando la si esamina da vicino, la società trifunzionale ricostruita da Georges Dumézil non organizza, in fin dei conti, che due caste, o gruppi sociali. Il primo, dominante, assume la funzione sovrana e la funzione guerriera sulla base di una separazione originale in "classi d'età". La seconda assume la funzione economica. Ora, sempre grazie ai lavori di Dumézil, sappiamo che questa società trifunzionale si riflette (e trova al tempo stesso il suo modello ideale) nella società degli dèi, di cui il mito ci rivela a modo suo la genesi.
    Tale mito indica che la società trifunzionale si costituita tramite la sovrapposizione e la dominazione della prima sulla seconda, del mago sull'uomo religioso, del predatore sul produttore. Il mito degli Asi e dei Vani, non diversamente da quello dei Latini e dei Sabini, mette d'altronde in evidenza i caratteri rispettivi di tali due gruppi sociali o famiglie di dèi: i primi, dèi "predatori", continuatori del "primo uomo" in quanto autodomesticatori, si impongono alla fine in virtù della magia legante del loro capo, Odhinn/Wotan; i secondi, dèi "produttori", continuatori del primo uomo in quanto autodomesticati, devono (ed accettano di) sottomettersi, a dispetto della potenza che loro conferisce la "ricchezza", simboleggiata dall'oro di Gullweig.
    Questa dicotomia "social-divina" discende da una Weltsicht, da una percezione-del-mondo, che si ritrova in modo saliente nelle strutture linguistiche indoeuropee, con la netta separazione tra il soggetto e l'oggetto (vi è un "imperialismo" del soggetto in rapporto all'oggetto come vi è un "imperialismo" degli dèi-soggetto del primo gruppo rispetto agli dèi-oggetto del secondo). Inoltre, a questa organizzazione sincronica, che conserva il passato nell'attualità, corrisponde anche un'organizzazione diacronica. Giacché gli Asi, essendo i primi dèi, sono ugualmente i figli o i nipoti dell'"Uomo cosmico" di cui il mito ci dice che è all'origine del mondo (o, più esattamente, del nuovo mondo).
    Un vasto campo di ricerca e di studio si apre qui, e non insisteremo sull'argomento. Ma sembra sin d'ora possibile individuare alcune linee-forza di questa visione del mondo indoeuropea che è, ripetiamolo, una visione innanzitutto storica.
    Il "primo uomo", Zwitter indiviso, riunente in sé tutte le antinomie, tutti i contrari, si era creato da se stesso per autodomesticazione: era al tempo stesso soggetto ed oggetto della "magia" domesticatrice. Il "secondo uomo" appare (e con lui il nuovo mondo) quando il "primo uomo", (Purusha, Ymir, l'Uomo cosmico, etc., nella mitologia indoeuropea) si suddivide e si oggettivizza in due tipi sociali: da una parte l'uomo-soggetto, che continua ad esercitare la sua "magia" su se stesso (self-control), ma che lo esercita ormai anche sull'altro tipo, l'uomo-oggetto, su cui si esercita dall'esterno la magia domesticatrice (ovvero: che si vede fissare dei canoni da un altro-da-sé), e che, liberato da questo legame "religioso" dalla necessità di addomesticare l'uomo che è in lui, può consacrarsi interamente alla "domesticazione della natura", cioè alla produzione di beni. La coesistenza di questi due tipi sociali in una società armoniosa si opera per sinecismo (termine suggerito da Dumézil), cioè per compromesso contrattuale, a seguito di una "guerra di fondazione".
    Va d'altronde rimarcato che il dio sovrano degli indoeuropei è sempre al tempo stesso un dio terribile, che esercita una costrizione "magica", e un dio "benefattore", che è garante dei "contratti". Si trova così, a partire dalle origini indoeuropee, una chiara concezione di questo "contratto sociale", che ha senza dubbio trovato la sua espressione più compiuta presso i romani.
    Ciò che si può dunque già trarre dall'esempio indoeuropeo è il primato attribuito alla vera attività creatrice, ovvero alla soggettività rispetto a se stessi. Non si può dire in effetti che il "secondo uomo" rappresenta un progresso rispetto al "primo". Corrisponde soltanto ad una cesura realizzatasi oggettivamente nella società unitaria (indivisa) delle origini.
    Ma allo stesso tempo, la separazione dei tipi implica fatalmente, e come per contraccolpo, la necessità di ricostituire l'uni-totalità dell'uomo, non più a livello dell'individuo, bensì dell'insieme sociale. Donde il compromesso e il "contratto": ormai, l'uomo non può più "realizzarsi" che sul piano sociale in seno ad una comunità. Nella società indoeuropea non alterata non vi sono soltanto una "massa" o soltanto degli "individui". C'è un popolo, di cui la "personalità", il genio, l'aristocrazia sono gli organi di espressione, di concezione e di rappresentazione. Massa e individuo sono in effetti delle nozioni puramente "sincroniche" che non si definiscono che nello spazio sociale, e cui fa difetto la dimensione temporale, di cui il popolo partecipa al contrario pienamente.
    La società indoeuropea è quindi proprio una "società calda", caratterizzata dalla coscienza (o almeno dall'istinto) della sua propria storicità. E' la ragione per cui porta in essa, in ogni momento, il passato, il presente e l'avvenire indossolubilmente legati. Questa co-attualità del passato, del presente e dell'avvenire, l'abbiamo già osservata, implicitamente affermata all'interno e per mezzo del metodo della linguistica diacronica. Tutto si tiene: il metodo d'una scienza è sempre imposto dall'oggetto stesso di tale scienza, così come un "oggetto scientifico" non è ritrovato, svelato e definito che attraverso il metodo che gli si addice.
    ***
    L'eredità indoeuropea che ritroviamo e coltiviamo in noi, la proiettiamo quindi doppiamente nella storia; al tempo stesso come rappresentazione, ri-presentazione, del passato, e come "immaginazione" dell'avvenire. Al limite, il termine "indoeuropeo" si applica a tutto ciò che ci piace nello spettacolo esaltante di un'avventura già vissuta da altre generazioni, in opposizione a tutto ciò che non amiamo, e a tutto ciò che ci lascia indifferenti. Ma lo studio e il "culto" di questo passato che noi abbiamo scelto e che ci ha scelto non costituiscono che un aspetto, l'aspetto teorico, di una manifestazione di volontà. L'altro aspetto, l'aspetto pratico, consiste nel rifiutare il ripiego, la rinuncia, la riduzione (l'arresto della storia), e nell'accettare (anzi: volere) «tutto ciò che di grande e di terribile vi è nell'uomo», cioè, nell'ora attuale, l'abbozzo di un nuovo mondo, di un nuovo destino storico e tragico.
    Così, quando parliamo di tradizione indoeuropea, o quando riportiamo alla luce del giorno le tracce dimenticate del mito, della religione, dell'ideologia e della storia dei popoli nei quali noi vogliamo riconoscere i nostri antenati, non guardiamo soltanto all'indietro. Al contrario, come Giano bifronte, progettiamo altresì l'avvenire. Poniamo delle pietre miliare sulla via, e schizziamo i modelli degli uomini e delle cose che ci adoperiamo a creare in noi ed al di là di noi.


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    Il mito cosmogonico degli indoeuropei

    Di Giorgio Locchi - Altri Testi - 09/03/2007





    «Ich sagte dir, ich muß hier warten, bis sie mich rufen»
    (Oreste, in Elektra di Hugo von Hoffmanstahl)


    Il Rig-Veda dell'India antica e l'Edda germanico-nordica presentano due grandi miti cosmogonici, che concordano tra loro a tal punto che vi si può vedere a giusto titolo una duplice derivazione di un mito indoeuropeo comune. Di tale mito delle origini è forse possibile trovare qualche eco presso i Greci. Roma, come vedremo, non ha mai perso il ricordo del "protagonista" di questo dramma sacro che era, per i nostri antenati indoeuropei, l'inizio del mondo. Ma il dramma stesso non ci è pervenuto, nella sua integralità, che tramite l'intermediazione dei germani e degli indoari, di cui scopriamo così che essi ebbero, almeno quando entrarono nella "storia scritta", e più che ogni altro popolo europeo, la "memoria più lunga.
    Grazie ai suoi ammirevoli lavori sulla ideologia trifunzionale, Georges Dumézil ha da lungo tempo messo in luce un aspetto fondamentale, assolutamente originale, della Weltanschauung e della religione degli indoeuropei. Non meno essenziale, non meno originale ci appare la credenza istintiva nel primato dell'uomo (e dell'umano) che testimonia il mito cosmogonico indoeuropeo "conservato" nel Rig-Veda e nell'Edda. Per l'indoeuropeo, in effetti, l'uomo è all'origine dell'universo. E' da lui che procedono tutte le cose, gli dèi, la natura, i viventi, lui stesso infine in quanto essere storico. Tuttavia, come rimarca Anne-Marie Esnoul, «questo cominciare non è che un un cominciare relativo: esiste un principio eterno che crea il mondo, ma, dopo un periodo dato, lo riassorbe» (La naissance du monde, Seuil, Parigi 1959). L'uomo, presso gli indoeuropei, non è soltanto all'origine dell'universo: è l'origine dell'universo, in seno al quale l'umanità vive e diviene. Giacché all'inizio, dice il mito, vi era l'Uomo cosmico: Purusha nel Rig-Veda, Ymir nell'Edda, Mannus, citato da Tacito, presso i germani del continente (Manus, in quanto antenato degli uomini, essendo parimenti conosciuto presso gli indiani).
    Nel decimo libro del Rig-Veda, il racconto dell'inizio del mondo si apre così:
    «L'Uomo (Purusha) ha mille teste;
    ha mille occhi, mille piedi.
    Coprendo la terra da parte a parte
    la oltrepassa ancora di dieci dita.
    Purusha non è altro che quest'universo
    Ciò che è passato, ciò che è a venire.
    Egli è signore del dominio immortale,
    perché cresce al di là del nutrimento».
    E' da Ymir, Uno indiviso anche lui, che procede la prima organizzazione del mondo. Il Grimnismal precisa:
    «Della carne di Ymir fu fatta la terra,
    il mare del suo sudore, delle sue ossa le montagne,
    gli alberi furono dai suoi capelli,
    e il cielo del suo cranio».
    Le cose avvengono nello stesso modo nel Rig-Veda:
    «La luna era nata dalla coscienza di Purusha,
    dal suo sguardo è nato il sole,
    dalla sua bocca Indra e Agni,
    dal suo soffio è nato il vento.
    Il dominio dell'aere è uscito dal suo ombelico,
    dalla sua testa evolse il sole,
    dai suoi piedi la terra, dal suo orecchio gli orienti;
    così furono regolati i mondi».
    Purusha è anche Prajapati, il «padre di tutte le creature». Giacché gli dèi stessi non costituiscono che un "quartiere" dell'Uomo cosmico. Ed è da lui solo che in ultima istanza proviene l'umanità. Si legge nel Rig-Veda:
    «Con tre quartieri l'Uomo (Purusha) s'è elevato là in alto,
    il quarto ha ripreso nascita quaggiù».
    Essendo "Uno indiviso", l'Uomo cosmico è uno Zwitter, uno Zwitterwesen, un essere asessuato o, più esattamente, potenzialmente androgino. Riunisce in sé due sessi, in maniera ancora confusa. La teologia indiana nota d'altronde che il "maschio" e la "femmina" sono nati dalla «suddivisione di Purusha», così come tutti gli altri "opposti complementari". Ymir, quanto a lui, dormiva nei ghiacci dell'abisso spalancato (Ginungagap) tra il sud e il nord, quando due giganti, uno maschio e l'altro femmina, si sono formati come escrescenze sotto le sue ascelle. E' parimenti da lui, o dal ghiaccio fecondato da lui, che è nata la prima coppia umana, Bur e Bestla, genitori dei primi Asi (o dèi sovrani), Wotan (Odhinn), Wili e We.
    Nell'ìnterpretazione di questi grandi miti cosmogonici non bisogna mai dimenticare che per la mentalità indoeuropea la generazione reciproca è un processo assolutamente normale: gli "opposti logici" sono sempre complementari e perfettamente equivalenti: si pongono mutualmente. E' così che l'uomo dà nascita a, o tira da se stesso, gli dèi, mentre gli dèi a loro volta danno nascita agli uomini (o insufflano loro lo spirito e la vita). Secondo il racconto dell'Edda, più precisamente nella Voluspa:
    «Tre Asi, forti e generosi,
    arrivarono sulla spiaggia:
    trovarono Ask e Embla,
    (che erano ancora) privi di forza.
    Senza destino, non avevano sensi,
    né anima, né calor di vita, né un colore chiaro.
    Odhinn donò il senso, Hoenir l'anima,
    Lodur donò la vita e il colore fresco».
    In tutta evidenza, in questo racconto, i tre Asi giocano il ruolo dei primi "eroi civilizzatori". Ask (ovvero "frassino") e Embla (ovvero "orma") rappresentano un'umanità ancora "immersa nella natura", interamente sottomessa alle leggi della specie, testimone di un'era trascorsa, quella di Bur. Se ci si pone al momento della società indoeuropea caratterizzata dalla tripartizione funzionale, ci si accorge d'altronde che le classi che assumono rispettivamente le tre funzioni appaiono come discendenti del dio Heimdal e di tre donne umane. Il Rigsmal racconta come Heimdal, avendo preso le sembianze di Rigr, generò Thrael, capostipite degli schiavi, con Ahne ("antenata"), Kerl, antenato capostipite dei contadini, con Emma ("nutrice") e Jarl, capostipite dei nobili con "Madre". Nel Rig-Veda, per contro, gli antenati delle classi sociali sorgono direttamente dall'Uomo cosmico primordiale:
    «La bocca di Purusha divenne il brahmino,
    il guerriero fu il prodotto delle sue braccia,
    le sue coscie furono l'artigiano,
    dai suoi piedi nacque il servo».
    Così come la distribuzione delle classi è sufficiente a dimostrare, la "versione" del Rig-Veda è probabilmente la più fedele al racconto originale indoeuropeo. Non è escluso cionostante che la "versione" germanica si riallacci anch'essa ad una fonte molto antica. Heimdal, in effetti, è una figura tra le più misteriose. Dumézil ha messo ben in evidenza la particolarità essenziale di questo dio, corrispondente germanico dello Janus romano e del Vaju indiano. Cronologicamente, Heimdal è il primo degli Asi, il più vecchio degli dèi. E' anche un dio che vede tutto: «ode l'erba spuntare sul prato, la lana crescere dalla pelle delle pecore, nulla sfugge al suo sguardo acuto», ed è questa la ragione per cui svolge il ruolo di guardiano di Asgard, la «dimora degli Asi». Dalui è proceduto l'inizio, da lui procederà anche la fine, il Ragnarok (o "crepuscolo degli dèi") che annuncerà lui stesso dando fiato al corno. Heimdal riunisce dunque in sé tutti i caratteri dell'"Essere supremo", oggetto di una più antica credenza che Raffaele Pestalozzi attribuiva all'umanità primitiva (cioè agli umani della fine del mesolitico), ma corresponde anche al "dio dimenticato" di cui parla Mircea Eliade, oscura reminiscenza in seno alle religioni "evolute" di una preesistente concezione della divinità. Il che lascia supporre che Heimdal non sia che una proiezione dell'"Essere supremo" degli antenati degli indoeuropei in seno alla società dei "nuovi dèi", nello stesso modo in cui Ymir lo prolunga, in quanto "principio universale, a livello della cosmogonia (1). Una tale interpretazione è suscettibile di gettare una nuova luce sul "problema di Janus", altra divinità misteriosa, di cui abbiamo detto che corrispondeva a Roma allo Heimdal germanico. Innumerevoli discussioni hanno avuto luogo sull'etimologia del nome "Janus". Da qualche tempo, sembra che un accordo si stia formando nel senso di ricollegarlo alla radice indoeuropea *ya, che ha a che fare con l'idea di"passare", di "andare". Ma tale spiegazione non sembra molto convincente, e ci si può domandare se non vale la pena di mettere il nome "Janus" in relazione con le radici *yeu(m) o *yeu(n) (da cui il latino jungo, "congiungere", "coniugare"), che esprimono l'idea di "unire", di "accoppiare ciò che è separato", dunque di "gemellare i contrari" (gli "opposti logici"). Ciò spiegherebbe bene il carattere ambiguo di questo deus bifrons, che è, come Ymir, uno Zwitter.
    Si sa, del resto, che un antichissimo appellativo di Janus, di cui i romani dell'epoca di Augusto non comprendevano più esattamente il significato, è Cerus Manus, che si traduce come "buon creatore" (da *krer, "far crescere", e da un ipotetico *man, "buono"). Noi pensiamo piuttosto che "Manus" non è che un fossile alto-indoeuropeo conservato nel latino antico, che rinvia perfettamente a "Mannus" e significa "uomo" come in germanico ed in sancrito. Il latino immanis non significa d'altronde affatto "cattivo", "malvagio", bensì "prodigioso", "smisurato" (inumano: fuori dalla misura umana). Si comprende allora perché Janus, che è come Heimdal il dio dei prima (delle cose "cronologicamente prime") è considerato, in quanto Cerus Manus, l'antenato delle popolazioni del Lazio, così come Mannus è l'antenato delle popolazioni germaniche.
    Il rituale vedico, essenzialmente imperniato sulla nozione di sacrificio, fa precisamente dello smembramento, della "suddivisione" dell'Uomo cosmico (Purusha), il prototipo stesso del sacrificio. Ora, nei testi "speculativi", questo sacrificio di Purusha ci è presentato sotto due aspetti: da un lato Purusha sacrifica se stesso, inventando così il «sacrificio imperituro»; dall'altro, sono gli dèi che sacrificano Purusha e lo "smembrano". La questione si pone dunque di sapere se gli indiani hanno "interpretato" o se al contrario hanno conservato la tradizione indoeuropea in tutta la sua purezza. Questa ultima eventualità ci sembra la più verosimile, non fosse che per il fatto che all'origine ogni mito è al tempo stesso storia del rito e proiezione del rito stesso. D'altra parte, la medesima doppia immagine si ritrova nell'Edda. Allo "smembramento" di Purusha corrisponde, sotto una forma desacralizzata, ma sempre presente, lo "smembramento" di Ymir da parte degli Asi, figli di Bur. Quanto all'altro aspetto del sacrificio dell'Uomo cosmico, quello dell'autosacrificio, basta riportarsi alla Canzone delle Rune (Runatals-thattr) per trovarne una forma trasposta, quanto Wotan dichiara:
    «Lo so: durante nove notti
    sono rimasto appeso all'albero scosso dai venti
    ferito dalla lancia, sacrificato a Wotan,
    io stesso a me stesso sacrificato,
    appeso al ramo dell'albero di cui non si può
    vedere da quale radice cresca»
    Odhinn-Wotan, dio sovrano, non è certo l'Uomo cosmico, e tanto meno ne gioca il ruolo in seno alla società degli dèi (2). Nondimeno, anche se non è all'origine dell'universo, Wotan è all'origine di un nuovo ordine dell'universo. Gli spetta dunque di inaugurare mercè il suo proprio sacrificio su Ygdrasil, l'albero-del-mondo, la "seconda epoca" dell'uomo (l'epoca propriamente storica). Odhinn-Wotan si sacrifica non più, come Purusha, per "suddividersi" e "liberare" così i contrari grazie ai quali l'universo deve acquisire la sua fisionomia, bensì per acquisire il sapere (il "segreto delle rune") che gli permetterà di organizzare, o più esattamente di riorganizzare, l'universo. A dire il vero, questo "rimaneggiamento" del mito originale non sorprende: la Weltanschauung germanica ha sempre sottolineato e amplificato l'immaginazione storica degli indoeuropei, mettendo l'accento su un divenire ove sia il passato, sia il futuro, sono contenuti nel presente, pur venendone trasfigurati.
    Per secoli il mito cosmogonico indoeuropeo non ha cessato di ispirare e di nutrire l'immaginazione degli indiani antichi. Forse la sua ricchezza non appare da nessuna parte, in tutto il suo splendore, meglio che nel magnifico poema di Kalidasa, il Kumarasambhava, in cui Purusha è Brahma, divina personificazione del sacrificio:
    «Che tu sia venerato, o dio dalle tre forme
    Tu che eri ancora unità assoluta, prima che la creazione fosse compiuta,
    Tu che ti dividevi nei tre gunas, da cui hai ricevuto i tuoi tre appellativi.
    O mai nato, il tuo seme non fu sterile allorché fu eietto nell'onda acquosa!
    Tuo tramite l'universo sorse, che si agita e che è senza vita,
    e di cui tu sei festeggiato nel canto come l'origine.
    Tu hai dispiegato la tua potenza sotto tre forme.
    Tu solo sei il principio della creazione di questo mondo,
    ed anche la causa di ciò che esiste ancora e che alla fine crollerà.
    Da te, che hai suddiviso il tuo proprio corpo per poter generare,
    derivano l'uomo e la donna in quanto parte di te stesso.
    Sono chiamati i genitori della creazione, che va moltiplicandosi.
    Se, tu che hai separato il giorno e la notte secondo la misura del tuo proprio tempo,
    se tu dormi, allora tutti muoiono, ma se vivi, allora tutti sorgono.
    [...]
    Con te stesso conosci il tuo proprio essere.
    Tu ti crei da te stesso, ma anche ti perdi,
    con il tuo te stesso conoscente, nel tuo proprio te stesso.
    Sei il liquido, sei ciò che è solido, sei il grande e il piccolo,
    il leggero e il pesante, il manifesto e l'occulto.
    Ti si chiama Prakriti, ma sei conosciuto anche come Purusha
    che in verità vede Prakriti, ma da lei non dipende.
    Tu sei il padre dei padri, il dio degli dèi. Sei più alto del supremo.
    Tu sei l'offerta in sacrificio, ed anche il signore del sacrificio.
    Sei il sacrificato, ma anche il sacrificatore.
    Tu sei ciò che si deve sapere, il saggio, il pensatore,
    ma anche la cosa più alta che sia possibile pensare».


    Questo inno di Kalidasa è uno degli apici della "riflessione poetica" indiana sulla tradizione dei Veda. Esplicita a meraviglia tutti i sottintesi del mito cosmogonico indoeuropeo, nello stesso tempo in cui riconduce ad unità le variazioni (successive o meno) del tema originario. L'opposizione di Purusha e Prakriti (che corrisponde, in qualche modo, alla natura naturans) è estremamente rivelatrice, soprattutto se la si mette in parallelo con quella di Purusha e dell'"onda indistinta" rappresentata da Ymir e dall'"abisso spalancato". E' per il fatto di «vedere Prakriti senza dipenderne» che l'Uomo cosmico è all'origine dell'universo. Giacché l'universo non è che un caos indistinto, sprovvisto di senso e di significato, da cui solo lo sguardo e la parola dell'uomo fanno sorgere la moltitudine degli esseri e delle cose, ivi compreso l'uomo stesso, alla fine realizzato. Il sacrificio di Purusha, se si preferisce, è il momento apollineo tramite cui si trova affermato il principium individuationis, «causa di ciò che esiste e che ancora esisterà», fino al momento in cui questo mondo «crollerà», ovvero sino al momento dionisiaco di una fine che è anche la condizione di un nuovo inizio.
    In una Weltanschauung di questo tipo, gli dèi sono essi stessi un "quartiere" dell'Uomo cosmico. "Uomini superiori" nel senso nietzschano del termine, essi perpetuano in un certo modo il ricordo trasfigurato e trasfigurante dei primi "eroi civilizzatori", di coloro che trassero l'umanità dal suo stato "precedente" (quello di Ask e di Embla), e fondarono davvero, ordinandola per mezzo delle tre funzioni, la società umana, la società degli uomini indoeuropei. Questi dèi non rappresentano il "Bene". Non rappresentano neppure il Male. Sono al tempo stesso il Bene e il Male. Ciascuno di loro, di per ciò stesso, presenta un aspetto ambiguo (un aspetto umano), il che spiega perché, mano mano che l'immaginazione mitica ne svilupperà la rappresentazione, la loro personalità tenderà a sdoppiarsi: Mitra-Varuna, Jupiter-Dius Fidius, Odhinn/Wotan-Tyr, etc. In rapporto all'umanità presente, che essi hanno istituito in quanto tale, questi dèi corrispondono effettivamente agli "antenati". Legislatori, inventori della tradizione sociale, e, in quanto tali, sempre presenti, sempre agenti, restano nondimeno assoggettati in ultima istanza al fatum, votati molto umanamente a una "fine".
    Si tratta, in conclusione, di dèi non creatori, ma creature; dèi umani, e tuttavia ordinatori del mondo e della società degli uomini; dèi ancestrali per l'"attuale" umanità: dèi, infine, "grandi nel bene come nel male" e che si situano essi stessi al di là di tali nozioni.
    Ciò che chiamiamo il "popolo indoeuropeo" è in effetti una società risalente agli inizi del neolitico, il cui mito si è precisamente costruito a partire dalla nuova prospettiva inaugurata dalla "rivoluzione neolitica", per mezzo di una riflessione sulle credenze del periodo precedente, riflessione che è alla fine sfociata in una formulazione rivoluzionaria dei temi della vecchia Weltanschauung.
    Se, come pensa Raffaele Pestalozzi, autore di L'omniscience de dieu, la credenza in un "Essere supremo" (da non confondere con il dio unico dei monoteisti!) era propria all'"umanità primitiva", cioè ai gruppi umani della fine del mesolitico, allora il mito cosmogonico indoeuropeo può effettivamente essere considerato come una formulazione rivoluzionaria in rapporto a tale credenza (o, se si preferisce, come un discorso che fa scoppiare, superandoli, il linguaggio e la "ragione" del periodo precedente). Giunti a questo punto, siamo in diritto di pensare che, per gli antenati "mesolitici" degli indoeuropei, l'"Essere supremo" non era forse che l'uomo stesso, o più esattamente la "proiezione cosmica" dell'uomo in quanto detentore del potere magico. Ugualmente, possiamo constatare al tempo stesso che questa idea di un Essere supremo, propria agli indoeuropei, non è affatto comune a tutti i gruppi umani usciti dal mesolitico, o, almeno, che essa non appare più tale ad altri gruppi di uomini ugualmente condotti dalla rivoluzione neolitica a "riflettere" sulle credenze antiche.
    L'Oriente classico, ad esempio, ha "riflesso", immaginato e interpretato le credenze "mesolitiche" in una direzione diametralmente opposta a quella presa dagli indoeuropei. La Bibbia ebraica, summa della Weltanschauung religiosa levantina, si situa, in effetti, agli antipodi della "visione" indoeuropea. Vi si ritrova purtuttavia, come antico tema offerto alla "riflessione", l'idea di un Essere supremo confrontato, all'inizio del mondo, ad una «terra deserta e vuota, dalle tenebre plananti sull'abisso» (Genesi, I, 1). Questo "abisso spalancato", è vero, è immediatamente presentato come risultante da una antecedente creazione di Elohim-Jahvé. Ora, Jahvé non ha tratto l'universo da una suddivisione e "smembramento" di sé. L'ha creato ex nihilo, a partire dal nulla. Non è affatto la coincidentia oppositorum, l'"Uno indiviso", non è l'Essere e il Non-essere al tempo stesso. E' l'Essere: «Io sono colui che è». Di conseguenza, e dal momento che l'universo creato non saprebbe essere l'uguale del dio creante, il mondo non ha essenza, ma soltanto un'esistenza, o, più esattamente, una sorta di "essere di grado inferiore", di imperfezione. Mentre il politeismo degli indoeuropei è il "rovescio" complementare di ciò che si potrebbe chiamare il loro mono-umanismo (equivalente d'altronde a un pan-umanismo), il monoteismo ebraico appare come la conclusione di un processo di riassorbimento, come la riduzione all'unicità di Elohim-Jahvé di una molteplicità di dèi non umani, personificanti forze naturali (3), in breve come lo sbocco di una speculazione che ha anch'essa ricondotto la pluralità delle cose a un principio unico, che in tal caso non è l'uomo ma la materia e l'energia (la "natura").
    Per il fatto di essere un dio unico, non ambiguo, che non è per nulla il luogo in cui si risolvono e coincidono gli "opposti logici", Jahvé rappresenta evidentemente il Bene assoluto. E' dunque del tutto normale che si mostri sovente crudele, implacabile o geloso: il Bene assoluto non può non essere intransigente rispetto al Male. Ciò che è molto meno logico, per contro, è la concezione biblica del Male. Non potendo derivare dal Bene assoluto, il Male, in effetti, non dovrebbe esistere in un mondo creato, a partire dal nulla, da un dio "di una bontà infinita". Ora, il Male esiste: il che pone un problema molto serio. La Bibbia prova a risolvere il problema facendo del Male la conseguenza accidentale della rivolta di certe creature, tra cui in primo luogo Lucifero, contro l'autorità di Jahvé. Il Male appare così come come il rifiuto manifestato da una creatura di giocare il ruolo che Jahvé le ha assegnato. La potenza di questo Male è considerevole (poiché deriva dalla ribellione di una creatura angelica, dunque privilegiata), ma, comparata alla potenza del Bene, ovvero di Jahvé, essa è praticamente pari a nulla. L'esito finale della lotta tra il Bene e il Male non è dunque minimamente in dubbio. Tutti i problemi, tutti i conflitti, sono risolti in anticipo. La storia è puro decadimento, effetto dell'accecamento di creature impotenti.
    Così, sin dall'inizio, la storia si trova privata di qualsiasi senso. Il primo uomo (la prima umanità) ha commesso la colpa di cedere ad una suggestione di Satana. Egli ha, di conseguenza, ricusato il ruolo che Jahvé gli aveva assegnato. Ha voluto toccare il pomo proibito ed entrare nella storia.
    Creatore dell'universo, Jahvé gioca ugualmente, in rapporto alla società umana "attuale", un ruolo perfettamente antitetico a quello degli dèi sovrani indoeuropei. Jahvé è non l'"eroe civilizzatore" che inventa una tradizione sociale, ma l'onnipotenza che si oppone alla "colpa" di Adamo, cioè alla vita umana che questi ha voluto gustare, alla civilizzazione urbana, uscita dalla rivoluzione neolitica, a cui rinvia implicitamente il racconto della Genesi. Come sottolinea Paul Chalus in L'homme et la réligion, Jahvé non ha che odio per "coloro che cuociono i mattoni". Quando li vede costruire Babele e la celebre torre, grida: «Se cominciano a fare ciò, nulla impedirà loro ormai di compiere ciò che avranno in progetto di fare. Andiamo, scendiamo a mettere confusione nel loro linguaggio, di modo che non si comprendano più l'un l'altro» (Genesi, XI, 6-7). Jahvé, aggiunge Paul Chalus, «li disperse da là su tutta la terra, ed essi smisero di costruire città». Ma già ben prima di questo evento Jahvé aveva rifiutato le primizie che gli offriva l'agricoltore Caino, e non aveva "guardato" che la pia offerta d'Abele. Il fatto è che Abele non era un allevatore, ma semplicemente un nomade che aveva abbandonato la caccia per la razzia, che prolungava la tradizione "mesolitica" in seno alla nuova civiltà uscita dalla rivoluzione neolitica, e che ne ricusava il modo di vivere. Ulteriormente, la missione di Abramo, il nomade che aveva disertato la città (Ur), e quella della sua discendenza, sarà di negare e ricusare dal di dentro ogni forma di civiltà "post-neolitica", la cui esistenza stessa perpetua il ricordo d'una "rivolta" contro Jahvé.
    L'uomo, in rapporto al "dio" della Bibbia, non è veramente un "figlio". Non è che una creatura. Jahvé l'ha fabbricato, così come ogni altro essere vivente, nello stesso modo in cui un vasaio modella un vaso. L'ha fatto "a sua immagine e somiglianza" per farne il suo intendente sulla terra, il guardiano del Paradiso. Adamo, sedotto dal demonio, ha ricusato questo ruolo che il Signore voleva fargli giocare. Ma l'uomo resterà sempre il servo di Dio. «La superiorità dell'uomo sulla bestia è nulla, perché tutto è vanità», nota Paul Chalus. «Tutto va verso un identico luogo: tutto viene dalla polvere, e tutto ritorna alla polvere» (Ecclesiaste).
    L'uomo, secondo l'insegnamento della Bibbia, non ha dunque che da rammentarsi perpetuamente che è polvere, che ogni Giobbe merità il destino che gli riserva il capriccio di Jahvé, e che l'esistenza storica non ha senso, se non quello che implicitamente gli si dà rifiutando attivamente di attribuirgliene uno. Con la loro voce terribile, i profeti di Israele ricorderanno sempre agli eletti di Jahvé la necessità imperiosa di questo rifiuto, così come gli eletti riconosceranno sempre, nelle loro disgrazie, la conseguenza e la giusta sanzione di una trasgressione (o di un semplice oblio) del comandamento supremo di Jahvé.
    Il cristianesimo "romano", nato dall'"arrangiamento costantiniano", corrisponde sin dall'inizio al tentativo di stabilire, in seno al mondo "antico" trasformato da Roma in orbis politica, un compromesso tra le Weltanschauungen indoeuropee e una religione giudaica, che Gesù si sarebbe sforzato di adattare alla civilizzazione imperiale romana (4). Il dio unico è diventato, tramite il gioco di un "mistero" dogmatico, un dio "in tre persone". Ha "integrato" la vecchia nozione di Trimurti, di "Trinità", e le sue "persone" hanno grosso modo assunto le tre funzioni delle società indoeuropee, sotto una forma d'altronde "invertita" e spiritualizzata. Pur essendo creatore e sovrano, Jahvé continua nondimeno a ricusare il doppio aspetto: il Male è provincia esclusiva di Satana. Al vecchio nome che gli dà la Bibbia si è sostituito il nuovo nome di "deus pater", il «èadre eterno e divino» riverito dagli indoeuropei. Ma Jahvé non è davvero padre che della sua "seconda persona", di questo figlio che ha inviato sulla terra per svolgervi un ruolo opposto a quello dell'"eroe fondatore"; di questo figlio che si è alienato a questo mondo per meglio rinviare all'oltremondo, e che, se rende a Cesare ciò che è di Cesare, non lo fa che perché ai suoi occhi ciò che appartiene a Cesare non riveste alcun valore; di questo figlio, infine, la cui funzione non è più di "fare la guerra", ma di predicare una pace gelosa, di cui soli potranno beneficiare gli uomini "di buona volontà", gli avversari di questo mondo, coloro a cui è riservato il solo nutrimento d'eternità che vi sia, la grazia amministrata dalla terza "persona", lo Spirito Santo.
    L'uomo, creatura e prodotto fabbricato, è il servo dei servi di Dio, «escremento» (stercus), come dirà così bene Agostino. Tuttavia, nello stesso tempo, è ora anche il fratello del figlio incarnato di Jahvé, il che fa di lui un "quasi-figlio" di Dio, a condizione che sappia volerlo e meritarlo, tutte cose che dipendono dalla grazia che amministra il creatore secondo criteri insondabili. Il giorno verrà dunque in cui l'umanità si dividerà definitivamente (per l'eternità) in santi e dannati. Giacché vi è ben un Valhalla biblico, il Paradiso celeste, ma è ormai riservato agli anti-eroi. L'Inferno, quando ad esso, appartiene agli altri.
    Questo compromesso ha modellato per secoli la storia di ciò che viene chiamata la "civilizzazione occidentale". Per secoli, secondo le loro affinità profonde, l'uomo "pagano" e l'uomo "levantino" hanno ciascuno potuto vedere nel dio "uno e trino" la loro propria divinità. Ciò spiega idee e confusioni ben numerose: a cominciare dall'assimilazione di Gesù, Sigfrido e Barbarossa da parte di un Wagner, o il "dio bianco delle cattedrali" caro a Drieu La Rochelle, e, d'altra parte, il Gesù di Ignazio di Loyola, il dio del prete-operaio e Jesus Christ Superstar.
    Constatiamo oggi, e in modo certo, che l'"arrangiamento" costantiniano alla fine non arrangiò proprio nulla, e che la giornata dell'«In hoc signo vinces» fu un imbroglio, le cui conseguenze si esercitarono a detrimento del mondo greco-romano-germanico. Sino ad una data relativamente recente, la Chiesa di Roma e le chiese cristiane sono restate, in quanto potenze secolari organizzate, attaccate a tutte le apparenze del vecchio compromesso. Ma da tempo ormai hanno cominciato a riconoscere l'autentica essenza del cristianesimo. Ed ecco che l'irrappresentabile Jahvé, sbarazzato dalla maschera del Dio-Padre luminoso e celeste, è ritrovato e proclamato. Ben prima che le chiese ci arrivassero, tuttavia, il "cristianesimo profano" (demitizzato e secolarizzato), ovvero l'egualitarismo in tutte le sue forme, aveva a modo suo ritrovato la verità secondo la Bibbia. Il "rifiuto della storia", la volontà proclamata di "uscire dalla storia" (per ritornarne alla natura), la tendenza riduzionista mirante a "riassorbire l'umano nel fisico-chimico", tutti i materialismi deterministi, la condanna marcusiana di un'arte che tradirebbe la "verità" integrando l'uomo alla società, l'ideologia egualitaria infine che intende ridurre l'umanità al modello dell'anti-eroe, al modello dell'eletto ostile ad ogni civiltà concreta perché non vi vuole vedere che infelicità, miseria, sfruttamento (Marx); repressione (Freud); o inquinamento: tutto ciò non ha cessato di restituire ai nostri occhi, e continua ancora a restituire – nel momento stesso in cui una nuova rivoluzione tecnica invita a superare le "forme" che aveva imposto la rivoluzione precedente – l'immobile visione jahvaitica, visione "eterna" se mai ve ne furono, poiché se limita ad una negazione senza cessa ripetuta di ogni presente carico d'avvenire.
    Il "Sì" da parte sua non può essere "eterno". Essendo un "Sì" al divenire, diviene esso stesso. Nella storia che non cessa di ri-proporsi, per mezzo di nuove fondazioni, questo "Sì" deve a se stesso il fatto di assumere sempre una forma e un contenuto parimenti nuovi. Il "Sì" è creazione, opera d'arte. Il "No" non esiste che negando un valore a tale opera. In un mondo in cui il clamore di voci divenute innumerevoli tende a persuaderci del contrario il mito cosmogonico indoeuropeo ci ricorda che il "Sì" resta sempre possibile: che un nuovo Ymir-Purusha-Janus può ancora risvegliarsi dall'"onda indistinta" in cui giace addormentato; che appena ieri, forse, si è già risvegliato, si è già sacrificato a se stesso, che ha già dato vita a Bur e Bestla, e che presto dei nuovi Asi, dèi luminosi, verranno a loro volta alla vita e intraprenderanno allora, in un mondo differente, sorto dalle rovine caotiche del vecchio, la loro eterna missione di "eroi civilizzatori", assumendo così, serenamente, lo splendido e tragico destino dell'uomo che crea se stesso, e che avendo dato nascita a se stesso accetta anche, nell'idea della propria fine, la condizione di ogni avventura storica, di ogni vita.


    Giorgio Locchi
    1Di Purusha, corrispondente indoario di Ymir, il Rig-Veda del resto dice espressamente che ha «mille teste e mille occhi», cosa che mostra bene che all'origine l'Uomo cosmico era dotato di onniveggenza. Secondo Pestalozzi, l'onniveggenza era precisamente uno degli attributi dell'"Essere supremo" primitivo.

    2Questo ruolo, come abbiamo visto, si trova parzialmente proiettato nel personaggio di Heimdal.

    3Jahvé confessa d'altronde di essere «geloso» degli altri dèi. Il termne stesso di Elohim non è forse plurale (plurale storico, e non di maestà)?

    4Non è evidentemente il caso qui di entrare nei dettagli di tale complessa questione, cui si accenna pertanto unicamente a grandi linee.

    http://www.uomo-libero.com/index.php...Fid%3D389&hash=

  8. #18
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  9. #19
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    Ottimo 3d Gio91. davvero ottimo.
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