Legler, Queen, Unilever,
crisi del mondo agricolo,

agricoltori di decimoputzu

lotta per il prezzo del latte...


COLUNIALISMU BASTAT!
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OPERAJOS! PASTORES! MASSAJOS!


Est arribada s’ora de secare sas cadenas coluniales, non podimus prus sichire chin-d’ una bida de disoccupatzione, gana e isfruttamentu de su traballu nostru!

In su mentres chi sos industriales e i sos banchieris italianos si prenan sas buzacas de su dinare nostru, sas familias nostras si che sun morinde ‘e sa gana e sos fizos nostros sun emigrande!
Populu traballadore sardu, est ora de facher balere sa dinnidade nostra de Sardos e de traballadores, contra a custos meres colunialistas chi sun distruende sa terra nostra, su traballu nostru, sa bida nostra!
Manifestamus tottus paris su dirittu nostru a biver in Sardigna che liberos, rispettados e uguales, contra a sas lezes colunialistas, pro su traballu!

12 DE JANNARJU DE SU 2008

MARCIA CONTR’ A SU COLUNIALISMU:

MACUMELE-OTHANA-THINISCOLE

ADDOBIUS:

· IN MACUMELE A ORA DE SAS 10 IN PRATA EX MERCATO CIVICO

· IN OTHANA A ORA DE SAS 14.30 IN PRATA SAN NICOLA

· IN THINISCOLE A ORA DE SAS 18.30 IN VIA ROMA

A ORA DE SA 21 IN PRATA PUXEDDU, IN THINISCOLE:

PROIEZIONE VIDEO CONCERTO KENZE NEKE 2006

COLUNIALISMU BASTAT!
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La Sardigna è una colonia dello Stato italiano. Non si tratta di un’opinione, più o meno discutibile, ma di una presa d’atto della realtà. Non essere d’accordo con questa affermazione può avere sostanzialmente due sole motivazioni: o non si conosce nemmeno superficialmente la realtà economica, sociale, politica, culturale e storica della Sardigna – e in questo caso si è in disaccordo in maniera incosciente – , o si vuole faziosamente negare una realtà che è sotto gli occhi di tutti – e in questo caso si è semplicemente in malafede.

Detto questo approfondiamo l’argomento. Il colonialismo non è altro che un’operazione della borghesia volto ad accumulare risorse al prezzo più basso possibile in maniera da poter ricavare dal processo di lavorazione industriale il guadagno maggiore possibile. Neanche il colonialismo, dunque, è un fattore fine a sé stesso, ma è solo una delle varie operazioni che il capitalismo mette in atto per garantire i propri profitti ed il proprio sviluppo. Il colonialismo fa parte del capitalismo, così come le guerre, così come l’imperialismo, così come lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo più in generale. Fa parte della sua natura: chi accetta il capitalismo mette in conto anche il colonialismo.

Il vero errore è fondamentalmente quello di considerare l’aspetto della spoliazione economica, della rapina sistematica delle risorse della nostra nazione come una sola tra le tante componenti del colonialismo. In realtà l’aspetto economico è la componente principale e fondamentale del colonialismo, e tutti gli altri aspetti discendono direttamente da questo. Risalendo dalle motivazioni periferiche a quella principale possiamo dire che l’annientamento culturale, l’italianizzazione in contemporanea alla desardizzazione, l’estinzione del sentimento di identità nazionale e così via altro non sono che delle necessità contingenti. Necessità contingenti che il colonialismo è costretto ad utilizzare contro un popolo che ha dimostrato che fino a quando si sentirà tale, fin quando si sentirà altro dall’Italia, sarà sempre capace di percepire il colonialismo come una rapina delle proprie risorse a beneficio di qualcun altro, e quindi di lottare contro di esso.

L’impostazione coloniale della nostra economia determina un peggioramento generale delle condizioni di vita dei Sardi, ed in particolar modo con i nuovi sviluppi dell’economia e della politica mondiale.

Ad una situazione economica disastrosa bisogna aggiungere le condizioni tragiche del lavoro. Il Popolo Lavoratore Sardo è flagellato da circa 15000 incidenti sul lavoro ogni anno, e naturalmente a questi devono aggiungersi i numerosi incidenti che si verificano nel mondo del lavoro nero, che in Sardigna arriva in alcuni settori ad essere maggioritario rispetto a quello in regola. La situazione di degrado del lavoro sardo è poi ulteriormente accentuata dal fatto che 1 lavoratore su 6 è un lavoratore precario. Gli stipendi sardi sono tra i più bassi d’Europa, circa 315.000 Sardi vivono sotto la soglia della povertà (1/5 della popolazione), la disoccupazione giovanile in alcuni territori arriva a superare il 30%… Non stupisce, di conseguenza, che il 45% della popolazione sarda ha attualmente più di 60 anni, anche perché i giovani che non emigrano e riescono a rimanere in Sardigna non hanno comunque la possibilità economica di potersi costruire una famiglia ed avere figli. Non è esagerato dire che la nostra nazione, ogni giorno di più, sta diventando una nazione di poveri e vecchi. E tutti sappiamo bene che una nazione costituita di poveri e vecchi ha altissime probabilità di soccombere come entità nazionale.

Approfittando delle condizioni disastrose del lavoro e delle dimensioni epocali della disoccupazione, l’Italia tiene sotto ricatto – con il lavoro – tutti i sardi. Tutti sanno che non c’è lavoro, dunque se a uno non sta bene ciò che gli viene offerto può farsi da parte: la fila di chi aspetta un lavoro, qualsiasi lavoro e a qualsiasi costo, è sempre molto lunga in Sardigna. Il lavoro in Sardigna è diventato una gara al ribasso, sia per quanto riguarda la qualità e i diritti sia per quanto concerne la retribuzione. Questa situazione fa sì che qualsiasi investimento dell’Italia (e della Regione Sardegna per conto dell’Italia), seppur evidentemente fallimentare e truffaldino sin dall’inizio, venga accettato senza remore.

Negli ultimi anni la Sardigna ha ripetutamente finanziato progetti industriali ad avventurieri italiani che erano già stati più volte condannati per truffe, i quali, nuovamente, hanno incassato i finanziamenti e hanno lasciato i disoccupati sulla strada. Il colmo è che spesso le aziende che invece sono realmente produttive, e che hanno per giunta un bilancio in attivo, minacciano di voler smantellare il loro apparato produttivo per trasferirlo all’estero, in Paesi dove il costo del lavoro è inferiore alla Sardigna. La Regione allora deve ciclicamente stanziare fondi di milioni di euro anche per queste aziende e convincerle così a rimanere in Sardigna. In questo modo i benefici della produzione continuano a rimanere nelle tasche degli industriali, mentre, di fatto, la Regione paga gli stipendi. Questo vuol dire che tutti noi Sardi con le nostre tasse dobbiamo pagare gli stipendi agli operai delle ditte coloniali, affinché i padroni possano beneficiare dei guadagni senza essere gravati da nessuna spesa!

La Regione Sarda, piuttosto che dirigere i finanziamenti verso un serio piano produttivo (cosa che dovrebbe fare modificando anche lo Statuto Regionale, che da ottimo Statuto coloniale non permette interventi economici di una certa vastità) preferisce tirare a campare finanziando continuamente i salari in cambio di un rinvio del problema sociale della disoccupazione. Se poi a questo aggiungiamo che le spese per la costruzione delle infrastrutture industriali sono in gran parte sostenute dalla Regione, e che le banche stanziano grossi finanziamenti a tassi agevolati, ci rendiamo conto che il sistema industriale sardo è un pozzo senza fondo che inghiotte i nostri miliardi pubblici a vantaggio di un pugno di industriali coloniali, con in cambio il solo beneficio di rimandare di qualche mese lo spettro sempre presente della disoccupazione. Alcune aziende hanno addirittura avuto la faccia tosta, dopo aver licenziato tutti i loro operai sardi, di impacchettare i macchinari (finanziati dalle tasse dei Sardi) e rivenderli a proprio favore in paesi del Terzo mondo.

Ma perché accadono queste cose? Proviamo a pensare a questa cosa: se uno Stato tiene un popolo nella condizione di dover attendere eternamente i finanziamenti per poter lavorare, se fa sì che la continuazione del lavoro sia sempre vincolata a un nuovo rifinanziamento, se – a differenza del resto del mondo – le fabbriche producono debiti anziché ricchezza e dunque devono sempre essere foraggiate dallo Stato, se la situazione è questa… come è possibile realizzare una vera produzione, come è possibile creare stabilità e fare a meno dello Stato assistenzialista finanziatore? E’ impossibile, è chiaro, perché in un regime di dipendenza come quello che viene imposto alla nostra terra anche le fabbriche – che sono il simbolo della produzione – non devono produrre, devono indebitarsi, devono stare sempre sull’orlo del fallimento per rendere indispensabile l’intervento dello Stato italiano. In maniera che a tutti sia chiaro un concetto: se non ci aiuta l’Italia facciamo la fame.

I lavoratori delle campagne sono stati messi nelle stesse condizioni di ricatto. Per quanto riguarda gli agricoltori il mastodontico cartello formato dagli interessi delle multinazionali, delle banche, delle classi politiche italianiste ed europeiste, della malavita legata all’alta finanza si stanno preparando a darle il colpo finale! Per quanto riguarda i pastori la Regione e lo Stato hanno lasciato che gli industriali del latte dettassero le loro condizioni impossibili, dopodiché sono calati dall’alto, come angeli custodi. Hanno assicurato che la quota compresa tra ciò che i pastori pretendevano per ogni litro di latte e ciò che l’industriale era disposto ad offrire l’avrebbe coperta la Regione Sarda, cosicché l’industriale non ha rinunciato a niente, mentre il pastore vede la sua sopravvivenza legata al finanziamento della Regione. Dunque il pastore sardo deve lavorare per avere un prezzo misero sul proprio latte (pagato dall’industriale), e deve aspettare che la burocrazia aggiunga la differenza. Sta di fatto che nel frattempo i pastori sardi, migliaia di pastori sardi, mentre attendono risarcimenti per calamità e malattie del bestiame, mentre attendono la differenza del prezzo del latte, mentre si convincono di essere creditori dello Stato, si debbano rivolgere alle banche per avere prestiti. Una buona parte dei finanziamenti e dei risarcimenti, una volta arrivati, finisce per essere destinata alle banche che nel frattempo hanno maturato interessi sui prestiti erogati. In pratica, in tutto questo meccanismo, l’industriale ci ha guadagnato, le banche ci hanno guadagnato, la Regione finanzia e il pastore viene assistito. Detto diversamente: la borghesia economica e finanziaria si arricchisce mentre i produttori rurali sono costretti a rimanere legati ai finanziamenti statali. Anche nelle campagne, quindi: se va via l’Italia moriamo di fame!

Eppure è facile per chi si guarda intorno con occhio attento e studia i fenomeni che si stanno verificando in Sardigna con sempre maggiore accelerazione, capire che la nostra terra, con tutte le sue classi sociali non collaborazioniste del colonialismo, sta andando verso la distruzione proprio a causa del colonialismo italiano. Noi dobbiamo solo produrre materie prime per l’industria italiana e elargire tasse che poi l’Italia ci ridarà – in parte – sotto forma di aiuto allo sviluppo. A quello sviluppo che essa stessa ci nega. Dobbiamo vivere in povertà, in maniera che possiamo continuare a fornire altri soldati, carcerieri, poliziotti, carabinieri, per debellare la criminalità che nasce da quella stessa povertà.

Tutte le classi sociali oppresse dal colonialismo italiano non fanno che ripetersi ossessivamente, come una cantilena infernale, che se mandiamo via l’Italia moriamo di fame… e non si rendono conto che, da sempre ed anche oggi, è proprio con l’Italia che stiamo morendo di fame! Da oltre un secolo ci ripetiamo, nella miseria più nera, che se ci liberiamo di chi ci tiene nella povertà… finiremo in povertà!

E’ ora di finirla con questo fatalismo che ci rende partecipi della nostra stessa oppressione!
E’ ora di finirla di morire di fame credendo che il nostro affamatore ci salverà!
E’ ora di finirla di vivere sotto un sistema coloniale!

E’ ora che il nostro popolo prenda in mano le redini del suo futuro e lo diriga dove meglio crede, organizzando finalmente una economia produttiva e rispettosa del nostro ambiente, un commercio attivo e legato alla produzione, un’industrializzazione intelligente e legata alla trasformazione dei beni della nostra terra. Questo potrà avvenire solo quando noi Sardi, tutti insieme, avremo il coraggio di rientrare nella scena della storia e di costruire il nostro domani con regole e leggi nostre, con ritmi nostri e secondo le nostre esigenze, con le nostre speranze e secondo i piani che verranno decisi qui, in terra nostra, e non a Roma o a Milano!

L’Indipendenza nazionale è, ogni giorno di più, non un’opzione, una possibilità fra tante, ma una necessità imprescindibile per la salvezza del nostro popolo.

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ORGANIZAT: A MANCA PRO S’INDIPENDENTZIA – SINDACADU DE SA NATZIONE SARDA – SARDIGNA NATZIONE INDIPENDENTZIA

PARTECIPAT: 28 DE ABRILI (ORGANIZADURA DE SA JUVENTUDI SARDA) – C.S.S. CONFEDERAZIONE SINDACALE SARDA