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    Predefinito Vittorio Emanuele III Re d'Italia

    Intervista rilasciata da Re Umberto II nel 1966 sull'operato del Padre.


    In questi venti anni di esilio l'ultimo re d'Italia è rimasto fedele a una linea di estrema dignità e discrezione. Non ha fatto mai nulla, che potesse in qualche modo inasprire le polemiche e fomentare la discordia fra gli italiani. Per questo ha sempre considerato con un certo disappunto, più o meno palese, l'attività politica dei partiti monarchici che soprattutto nel Meridione hanno cercato di sfruttare il sentimento popolare per scopi meramente elettorali.

    Credo si possa dire, senza suscitare indignate proteste, che Umberto di Savoia, dal punto di vista umano ha saputo guadagnarsi il rispetto di tutti gli italiani, anche di quelli che nel 1946 votarono per la Repubblica e, in questi ultimi vent'anni non hanno avuto modo di pentirsene.

    Ho raccolto in un grosso taccuino di appunti il frutto dei lunghi colloqui che ho avuto con Umberto di Savoia, nella sua casa a Cascais, fra la fine di maggio e il principio di giugno: mai prima d'ora aveva parlato a un giornalista (nemmeno a me quando ebbi già occasione di intervistarlo anni or sono) con tanta semplicità e franchezza, eliminando l'impaccio del cerimoniale, senza il limite delle domande prestabilite, accettando di fornire testimonianze inedite o esprimere opinioni anche su argomenti che in passato nessuno ha mai osato prospettargli in modo esplicito. Ha accettato di discutere e giudicare, con calore umano, ma sempre con serena imparzialità, le azioni e decisioni del padre, Vittorio Emanuele III, nei momenti cruciali del suo regno: la conquista, del potere da parte di Mussolini nel 1922, la crisi parlamentare dopo il delitto Matteotti, la folle avventura bellica intrapresa nel 1940, l'incalzare di drammatici eventi fra il luglio e il settembre 1943. Capitoli ancora scottanti della nostra storia, che saranno argomento di questa narrazione.

    Indro Montanelli ha scritto alcune settimane fa per i lettori della «Domenica del Corriere» una nitida ricostruzione degli avvenimenti. che nel giugno 1946 trasformarono gli italiani, da sudditi di un regno, in cittadini di una repubblica democratica.

    I colloqui con Umberto hanno preso l'avvio proprio da questo tema, ma per mostrare nella giusta luce la breve vicenda del giovane sovrano che si trovò coinvolto nell'ultimo atto di un dramma cominciato più dì vent'anni prima, sarà opportuno rimandare all'ultima puntata le considerazioni sul referendum istituzionale, per valutare anzitutto l'operato di Vittorio Emanuele III.

    « Io credo - dice Umberto - che qualcosa sia mutato nello stato d'animo di molti italiani, indipendentemente dal credo politico: le opinioni non sono certo affievolite, ma forse si fa strada il concetto che per difenderle val meglio il pacato ragionare che non il cieco ardore polemico. Gli eventi che travagliarono l'Italia dal 1922 al 1946 non servono più come materia da manipolare polemicamente ad uso di opposti interessi di parte: oggi possiamo e dobbiamo inquadrarli in un assetto storico definitivo. Tenendo presente che la storia, secondo il concetto di Benedetto Croce che mi sembra inoppugnabile, non è mai giustiziera ma giustificatrice. Deporrà tenerlo presente chi voglia emettere un equo giudizio sulle, responsabilità della monarchia nel tragico ventennio fascista, sugli errori che mio padre può avere commesso, ha indubbiamente commesso, ma che comunque sarebbe ingiusto valutare soltanto in base al senno di poi; come dovrà tenerlo presente chi voglia giudicare l'operato dei partiti repubblicani all'epoca del referendum istituzionale ».

    A Umberto nessuno ha mai attribuito connivenza col fascismo o responsabilità nella catastrofica avventura bellica. Il suo antifascismo era ben noto e lo stesso Ciano nel suo diario, ne fa più volte testimonianza.

    Contro Vittorio Ernanuele III, viceversa, nel 1943-44, dopo l'armistizio e la cosiddetta fuga a Pescara, nei mesi amari del regno del Sud, si levarono da ogni parte accuse precise: fu tenuto responsabile di avere dato all'Italia vent'anni di dittatura fascista e una catastrofica guerra perduta responsabile « quanto Mussolini e anzi di più perchè più intelligente» come ebbe a dire Carlo Sforza.

    Il quale, nel 1944, rientrando in patria dall'esilio, sentenziò anche a Bari: «Vittorio Emanuele III meritò la condanna del popolo italiano, nell'ottobre 1922, per avere consegnato il Paese alla, dittatura fascista. Poteva guadagnarsi l'assoluzione in appello, nella seconda metà del 1924, dopo il delitto Matteotti, rovesciando il governo che ne era responsabile. Poteva, infine, riabilitarsi in cassazione, nella primavera del 1940, dicendo no alla guerra: ma preferì entrare nel conflitto a fianco del duce, farsi complice di un orrendo delitto contro il popolo italiano e l'intera umanità. Ora la sentenza è passata in giudicato e il reo dovrà espiare ».

    Vogliamo rifare questo processo tenendo conto della testimonianza di indubbio interesse storico e umano che Umberto di Savoia può portare?

    Umberto annuisce: «Quali furono il ruolo e la responsabilità di mio padre l'ottobre 1922? Ebbene, si potrà discutere, col senno di poi, se il re agì per il meglio, o il meno peggio, in alcuni momenti cruciali del ventennio: per quanto riguarda l'ottobre 1922, diciamolo pure, mio padre affidando a Mussolini l'incarico di formare il governo non attuò o favorì un colpo di stato ma agì in modo costituzionale, sia pure con prassi di emergenza per risolvere una crisi che ormai, come ebbe a dire Giovanni Giolitti, era "in cancrena" e non lasciava altra via d'uscita. Oggi le opinioni sul fascismo sono chiare e la sua condanna è storicamente acquisita: ma soltanto perchè conosciamo gli sviluppi e le tragiche conseguenze della dittatura. Allora, non dimentichiamolo, si trattava di un fenomeno nuovo e di non facile valutazione, chi mai poteva immaginare le aberrazioni e sciagure verso cui si avviavano l'Italia e l'Europa? Lo stesso Mussolini aveva tutta l'aria di non sapere ciò che voleva e dove sarebbe arrivato: in certi momenti sembrò palleggiasse la dittatura, indeciso su che uso farne, come fosse una specie di ordigno affascinante, ma anche un po' imbarazzante, capitatogli fra le mani per caso. Come fare colpa ai partiti democratici se di quell'ordigno compresero il funzionamento e il potenziale soltanto quando l'ebbero fatto scoppiare? Dobbiamo rifarci alla situazione del 1919, del '20, del '21: il paese usciva dalla guerra vittoriosa in uno stato di avvilente confusione, di disagio morale, di torbida violenza. Il governo non riusciva va a fronteggiare la situazione con autorità perché gli mancava. Il sostegno di un Parlamento concorde le elezioni del 1919 avevano portato alla camera 170 deputati liberali e democratici, 155 socialisti ufficiali, 100 del partito popolare di don Sturzo, più qualche gruppetto minore senza peso determinante. Tre, forze che si equivalgono dunque ma tre gruppi politici separati da insormontabili barriere di opposte ideologie, di interessi contrastanti di rivalità acerrime. Per dare un governo efficiente al paese occorreva che due dei tre gruppi politici trovassero una leale intesa: ma negli anni che seguirono, benché il re, come un paziente alchimista tentasse innumerevoli esperimenti, la combinazione buona non venne fuori. Il primo governo lo fa Nitti, con l'appoggio del partito popolare. Ma quattro mesi dopo, nel marzo 1920, i popolari passano all'opposizione e il governo cade. Don Sturzo dà segni di ravvedimento e l'incarico torna di conseguenza a Nitti, che fa un secondo governo, sempre sostenuto dai popolari, i quali, questa volta, gli concedono soltanto tre mesi di vita. Il re tenta allora un esperimento nuovo che a qualcuno sembra temerario ma che potrebbe, attuato con la dovuta cautela... ».

    Umberto si è alzato, ha preso un libro dallo scaffale, "La disgregazione. dell'Europa", che Francesco Saverio Nitti scrisse nel, 1928, quando era già esule in Francia lo sfoglia a colpo sicuro, trova il un attimo la pagina che cerca: «Ecco la testimonianza precisa dello stesso Nitti: "Il re mi espresse più di una volta il desiderio di vedere i socialisti con me al governo, perchè sperava di trasformarli, così, in elementi di ordine e di incanalare la loro azione in un movimento di riforme democratiche "».

    « Un tentativo di apertura i sinistra fatto con quarant'anni di, anticipo ».

    « Se le piace definirlo così... Un'apertura a sinistra, comunque, che rispondeva alla drammatica necessità del momento: se il tentativo fosse riuscito, nel duplice scopo di opporre al fascismo nascente un solido baluardo e di sottrarre il socialismo alla seduzione della violenza, forse la storia d'Italia avrebbe avuto un corso ben diverso e felice. Ma è inutile abbandonarsi ora ai rimpianti. Ecco come Nitti spiega il fallimento di questa illusione: " Purtroppo i socialisti rivaleggiavano in demagogia coi comunisti, e i loro capi più seri, come Turati e Treves, non sapevano né potevano trovare il modo di staccarseli " ».

    « Non c'è da stupirsi se il re, allora, non riuscì ad attuare quel suo vagheggiato progetto. Dopo la parentesi del fascismo e della guerra, la Repubblica. italiana si è trovata alle prese col medesimo problema: e solo ora, dopo vent'anni, pare l'abbia risolto ».

    « La storia, purtroppo, procede più lenta delle speranze umane. Ma torniamo alla infelice primavera del 1920: al re, dopo il duplice fallimento di Nitti, non restava che giocare l'ultima carta, Giolitti, lo statista giubilato che conservava intatto il prestigio di una lunga supremazia nell'esercizio del potere. Giolitti formò un governo dì coalizione, con Croce, Sforza, Bonomi, Meda del partito popolare e il socialista indipendente Labriola: ebbe un anno di vita. E fu un anno di tumulti, di lutti, di aberrazione. Il governo sì confessò alla fine impotente di fronte alla violenza scatenata e rassegnò le dimissioni. Reclamate da tutti i partiti, anche di sinistra, furono indette nuove elezioni: a questo punto il fascismo cominciò a insinuarsi come una amara speranza nel cuore di molti antifascisti. Nel 1919 Mussolini era già popolarissimo, se non altro come personaggio pittoresco: pochi però lo prendevano sul serio come uomo politico e aspirante deputato, tanto è vero che alle elezioni di quell'anno il partito fascista non riuscì a conquistare neppure un seggio. Ma alle elezioni del 1921 Mussolini stimò opportuno nascondere la camicia nera sotto un drappo tricolore, si presentò alle elezioni con un " blocco nazionale " al quale aderirono uomini fra i più eminenti della democrazia parlamentare di allora, da Bonomi a Soleri, da Facta a Salandra. La campagna elettorale fu un susseguirsi di episodi luttuosi: più di 350 persone furono uccise in tre mesi e 44 nelle sola giornata del voto. Il " blocco nazionale " ebbe un discreto successo, cori 47 deputati eletti, fra cui Mussolini che a Milano ottenne circa 70000 preferenze, ventimila più del prestigioso Turati. I fascisti restavano, comunque, una minoranza esigua: contro i loro 47 deputati se ne schieravano, infatti, circa 230 liberali e democratici, 120 socialisti, più di 100 popolari, 16 comunisti, una decina di repubblicani. Sono cifre approssimative: dovrà avere la cortesia di controllarle, poi, sui giornali dell'epoca, perchè è possibile che la mia memoria mi inganni ».

    Ho controllato le cifre: sono esatte. Umberto ha una memoria stupefacente.

    « Giolitti - prosegue Umberto - ebbe l'incarico di formare il nuovo governo: il Parlamento gli accordò una esile maggioranza di trenta voti, una fiducia ambigua e condizionata da esplicite riserve della democrazia sociale in politica estera e del partito popolare in politica finanziaria. Giolitti si dimise e se ne tornò in Piemonte. Fallirono quindi i tentativi di De Nicola e di Orlando. Riuscì, finalmente, Bonomi, ma il suo governo ebbe pochi mesi di vita travagliata: cadde, nel febbraio 1922, per un dissidio coi popolari. Il re pensò di richiamare Giolitti: ma don Sturzo pose il veto del partito popolare a questo estremo rimedio. Vani furono i nuovi tentativi di De Nicola e Orlando. Al re non restava che respingere le dimissioni del governo Bonomi e rimandarlo in Parlamento per il voto di fiducia: che gli fu negato. Nuovo tentativo di indurre il partito popolare a sostenere Giolitti: nuovo veto di don Sturzo. Si giunse così alla soluzione di ripiego del governo Facta, che resse alla meno peggio per quattro mesi: dopo di che i popolari, accusandolo di scarsa energia nel fronteggiare i fascisti sulle piazze, passarono all'opposizione e ne determinarono la caduta. Tentativo di dare vita a un governo Orlando, appoggiato da fascisti e socialisti: veto di De Gasperi e Gronchi a nome del partito popolare. Il re offre allora l'incarico all'onorevole Meda, popolare, appunto: ma il partito di don Sturzo non se la sente di assumere la responsabilità del governo in un momento così difficile. Resta un ultimo filo di speranza: il socialista Turati, capo di un gruppo cosiddetto "di concentrazione ", va proclamando, fra lo sdegno di molti compagni, che " il socialismo deve mutare tattica, valorizzare l'azione parlamentare, trovare aiuti e alleanze, controllare direttamente l'opera stessa del governo».

    Oggi possiamo apprezzare in pieno l'illuminata preveggenza e saggezza di questa iniziativa del socialista Turati, che promise a Bonomi l'appoggio socialista ma fu sconfessato e criticato aspramente dal suo partito, anche perchè aveva avuto un colloquio col sovrano, al termine del quale non aveva esitato a dichiarare pubblicamente: " Ecco un re costituziona1issimo, che sta al di sopra dei partiti e delle fazioni, ortodosso nella funzione che esplica, sinceramente ansioso di mettere fine alle lotte che affliggono l'Italia: un re al quale anche un socialista può fare tanto di cappello". Svaniva. così l'ultima speranza di dare \vita a un governo efficiente. La verità è che il fascismo, ormai, era una realtà accettata dai democratici italiani: considerato da molti con speranza, o almeno senza eccessive apprensioni. Si giunse alla seconda metà di ottobre col governo Facta dimissionario: le squadre fasciste affluivano " pacificamente " verso Roma. Facta propose al re di firmare lo stato d'assedio ma il sovrano non volle temendo di scatenare la guerra civile.

    « Non pensa che, in ogni caso, sarebbe stato meglio osare il tutto per tutto, pur di salvare l'Italia dalla dittatura? ».

    « Sì. Certo, se fosse stato anche solo lontanamente immaginabile, allora, ciò che noi ora sappiamo, cioè che quell'esperimento di un governo Mussolini era il primo passo verso una dittatura di cui il paese non si sarebbe liberato se non dopo i lutti e le rovine di una guerra perduta. Ma la sola cosa che si poteva prevedere, allora, era che dichiarare lo stato d'assedio significava scatenare la guerra civile. E il re riteneva che suo primo dovere fosse quello di impedire la guerra, civile. Non agì a cuor leggero Consultò i capi militari: ed ebbe conferma che molti ufficiali simpatizzavano per il fascismo e avrebbero accolto lo stato d'assedio come l'ordine più ingrato da eseguire. Consultò gli uomini politici più eminenti dello schieramento democratico e anche dell'opposizione: ebbe certezza che il Parlamento era pronto ad appoggiare l'esperimento di un governo Mussolini, senza vedere in ciò un pericolo per la democrazia. Che poteva fare, il re, se non trarne le logiche conseguenze? Convocò Mussolini e gli affidò l'incarico di formare il nuovo governo, non di soli fascisti, ma di larga coalizione, e subordinato, s'intende, al voto di fiducia del Parlamento. Voto che poi fu accordato a larghissima maggioranza, liberamente, nel rispetto della prassi democratica. Possiamo definirlo un colpo di stato? O fu un atto costituzionale, secondo una procedura adottata altre volte, in passato, quando circostanze di emergenza avevano consigliato di ricorrere al prestigio del vecchio Giolitti per risolvere una crisi altrimenti insanabile? ».

    Mussolini formò quel governo di larga coalizione che il sovrano aveva preteso. Scontentò, anzi, molti dei suoi, che si videro esclusi a vantaggio degli avversari. I partiti democratici, che per anni non avevano saputo trovare un durevole accordo fra loro, scoprirono improvvisamente ideali comuni e parteciparono uniti con molta. buona volontà al governo Mussolini, che fu composto da quattro ministri fascisti, due popolari (più tre sottosegretari fra cui il giovane onorevole Gronchi), due democratici sociali, due nazionalisti, un liberale, più il generale Diaz alla guerra e l'ammiraglio Thaon di Revel alla marina. Il 17 novembre questo governo ebbe la fiducia del Parlamento con 306 voti favorevoli e 116 contrari. Il gruppo fascista era di appena 47 deputati, cioè una minoranza irrisoria: sarebbe stato facile negare la fiducia a Mussolini. Come si sarebbe comportato il re in tal caso? Umberto non ha dubbi in proposito: avrebbe subito passato l'incarico ad altri secondo la prassi costituzionale. Un Mussolini clamorosamente battuto in Parlamento, dopo il discorso tracotante col quale si era presentato e dopo la clamorosa parata esibizionistica della marcia su Roma (ormai il momento " eroico " era passato e le squadre d'azione si
    erano sciolte) sarebbe sprofondato nel ridicolo, non si sarebbe ripreso tanto facilmente. Ma tutti i gruppi democratici votarono la fiducia. E anche parecchi socialisti votarono per Mussolini o si astennero: infatti i deputati socialisti e comunisti erano complessivamente 138, mentre solo 116 furono i voti contrari.

    Fu quindi votato, il 25 novembre, il disegno di legge (proposto da un ministro del partito popolare) per i pieni poteri a Mussolini: votarono a favore 215 deputati e soltanto 86 votarono contro. Da notare che la votazione avvenne a scrutinio segreto.

    I pieni poteri misero Mussolini in condizione di deliberare su delicati problemi « senza la difficoltà delle procedure parlamentari ». Così fu creato il gran consiglio del fascismo, organo costituzionale che avrebbe poi sostituito il Parlamento. Fu varata la legge sulle mansioni del primo ministro, che praticamente rendeva Mussolini arbitro delle sorti del governo, con diritto di nominare o licenziare i ministri, quindi al di sopra delle prerogative costituzionali del re. Infine, ancora una volta a scrutinio segreto, fu approvata dal Parlamento la nuova legge elettorale a sistema maggioritario, che doveva assicurare al governo fascista, scaduti i pieni poteri, una maggioranza parlamentare sicura.

    « Il re - prosegue Umberto - non disponeva più, dunque, di un organo costituzionale libero attraverso cui controllare l'azione del governo Mussolini. E a questo stato di cose si giunse mediante quella serie di provvedimenti, liberamente votati dal Parlamento democratico nel quale i fascisti erano esigua minoranza. E' forse temerario affermare che non fu il re a consegnare il paese alla dittatura, ma fu i1 Parlamento democratico, che valendosi delle sue prerogative costituzionali, consegnò la monarchia prigioniera alla dittatura fascista? E questo, lo ripeto, non vuole essere un giudizio critico sulle decisioni di una maggioranza parlamentare democratica che, innegabilmente, aveva a cuore le sorti del Paese e amava la libertà. Ogni decisione fu presa nella convinzione che giovasse al paese o non costituisse, comunque, un male irreparabile. Credo che si possa rendere omaggio a ciò che ebbe a dire Vittorio Emanuele Orlando: " La parola dittatura non impaurisce se significa eccezionale concentrazione di poteri in un periodo eccezionale e transitorio ". Oggi un buon democratico andrebbe cauto ad affermare una cosa del genere.



    Ma rifacciamoci alla realtà di quaranta anni or sono: fra l'altro, allora, la parola dittatore non aveva il lugubre significato che in seguito acquistò dopo le esperienze di dittatori quali Hitler e Stalin o lo stesso Mussolini. Penso che basti ad assolvere il Parlamento di allora l'opinione di Vittorio Emanuele Orlando, che nessuno vorrà accusare di non avere amato la democrazia ».

    Umberto tace, ma cogliendo una mia espressione perplessa, mi dice, con un lieve sorriso, non so se ironico o che: « Voleva chiedermi qualcosa? ».

    « Ecco, sì: tutto ciò che lei ha detto è storicamente esatto, forse troppo esatto... Gli avvenimenti, nella loro successione cronologica e quindi storica, si sono svolti esattamente come lei ha ricordato. Ma la funzione di un re (mi perdoni, ma io, qui, mi sono assunto il compito del pubblico accusatore, intendo, cioè, esporre le ragioni di coloro che attribuliscono gravi responsabilità a Vittorio Emanuele III), la funzione di un re, dicevo, non è soltanto quella di prendere atto dei fatti che accadono giorno per giorno e di adeguare ad essi la linea immediata di condotta: molti ritengono che Vittorio Emanuele III avrebbe dovuto interpretare la storia, più che la cronaca, e prevenire i grandi e drammatici sommovimenti che la storia, appunto, stava preparando ».

    «Ignorando o calpestando lo statuto? ».

    « Perchè no?... dal momento che lo statuto veniva rispettato dagli altri solo formalmente, ma vuotato di ogni sostanza, di ogni reale garanzia... Vittorio Emanuele III avrebbe dovuto fare l'opposto: scavalcare magari la forma dello statuto, ma difenderne la sostanza. Prima che altri, come poi avvenne, non rispettasse più né forma né sostanza dello statuto, che non prevedeva, ad esempio, il gran consiglio del fascismo, nemmeno formalmente... ».

    « Capisco perfettamente quello che lei vuol dire - risponde Umberto senza incertezza - si sarebbe voluto, cioè, che mio padre fosse il solo, in tutto il paese " ufficiale ", a vedere con chiarezza nel futuro: lui solo, più lungimirante degli altri, più deciso e coraggioso....»

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    Predefinito

    Peccato che lo scritto ripeta la squallida moda delle minuscole per tutto quanto concerne l'Istituzione monarchica e le maiuscole invece per la repubblica. Forse è perchè, come sempre dice il mio Padrino, dobbiamo ricordare l'ammonimento di Guareschi: "la parola repubbblica va scritta con tre b perchè, poverina, ha bisogno d'aiuto".

  3. #3
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    Predefinito Re: Vittorio Emanuele III Re d'Italia

    sono capitato per puro caso su questo articolo di Indro Montanelli del 1970 su Vittorio Emanuele III e sul suo massimo consigliere, il ministo della Real Casa Duca Pietro d'Aquarone (1890-1948) che gli fu vicino dal 1939 al 1946 e che piloto' il licenziamento di Mussolini e la nomina a primo ministro di Badoglio il 25 luglio 1943
    Concordo su questo articolo parola per parola, questo articolo è privo dell'odio peloso degli antifascisti e dei repubblicani fanatici e quanto è vero!E scitto con tanta sincerità e senza pregidizi!

    UN grande del giornalismo

    STORIA: I MAESTRI: Vittorio Emanuele III e il suo vicario Acquarone
    29 Dicembre 2011
    di Indro Montanelli
    [dal “Corriere della Sera”, sabato 22 agosto 1970]

    La bibliografia sul « Re Soldato » si è arricchita in questi giorni di una nuova impor­tante opera: un Vittorio Ema­nuele III scritto da Silvio Ber­toldi e pubblicato dalla UTET in un bel volume rilegato di 480 pagine.

    Essa non contiene, intendia­moci, nulla di rivoluzionario ed esplosivo che dia al perso­naggio una nuova dimensio­ne e c’imponga una revisione di giudizi. Forse questo po­trebbe accadere solo se l’ex-re Umberto si decidesse a render note le carte che il padre, se­condo qualcuno, gli avrebbe dato. Ma noi dubitiamo che queste carte esistano real­mente: e, anche se esistono, dubitiamo che contengano ele­menti tali da ribaltare i dati ormai acquisiti alla Storia e illuminarli di una nuova luce. Anche perché, se così fosse, non sapremmo come giudi­care la renitenza del figlio — molto migliore del padre e attaccatissimo alla sua memoria — alla loro divulgazione.

    Tuttavia l’assenza di sensa­zionali rivelazioni non toglie nulla ai meriti di questo li­bro, cui Bertoldi è approdato quasi per fatalità. Autore di un Mussolini, di un Umberto e di un Badoglio, eccellenti per coscienziosità di documen­tazione e distacco critico, egli possedeva già tutti i punti di riferimento. Ma a questi ha potuto aggiungere qualcosa di inedito: l’archivio privato del duca Pietro Acquarone, mini­stro della Real Casa, forse il solo uomo che abbia goduto la fiducia del diffidentissimo sovrano. Ho l’impressione che Bertoldi si sia sentito un po’ tenuto a ripagare il favore suggerendo di questo perso­naggio una valutazione che non ci trova del tutto con­senzienti. Che Acquarone sia stato, per Vittorio Emanuele, un « uomo del destino » e che abbia svolto, negli ultimi drammatici avvenimenti, una parte di protagonista, ne conveniamo. Ma è sul giudizio sui frutti di questo connubio che dissentiamo.

    *



    Acquarone entrò per la prima volta nella vita del re co­me ufficiale di cavalleria e istruttore del principe Umberto. Ma allora ci rimase po­co e dentro i limiti di que­ste modeste funzioni ippiche. Quando ci rientrò, nel ’39, era un accreditato uomo d’af­fari, arricchito un po’ dalla dote della moglie, ma ancora di più dalla propria abilità. Il re, che ai suoi soldi ci te­neva (nulla di male), lo scelse appunto perché glieli ammini­strasse. Acquarone glieli am­ministrò benissimo, salvandolo fra l’altro da una « bidona­ta » di Kreuger, il grande av­venturiero svedese. Ma a qua­lificarlo agli occhi del sovrano non fu solo questo; fu anche, e di più, una parentela di carattere. Non si sapeva chi dei due avesse più sfiducia negli uomini e più li considerasse, dal primo all’ultimo, ladri e traditori in atto o in potenza. Entrambi erano guardinghi, coperti, aridi, fru­gali, rispettosi delle forme e nemici di ogni retorica. En­trambi avevano la passione del segreto da cui escludevano an­che le proprie mogli. Entram­bi avevano della politica una concezione « giusnaturalistica »: la consideravano un in- trigo, in cui non c’era posto né per sentimenti né per scru­poli. Era fatale che il loro rapporto si traducesse poco a poco in omertà e che il mini­stro della Real Casa, statutariamente tenuto a semplici compiti di pubbliche relazioni, diventasse insieme il padre Giuseppe e il tutto-fare del sovrano.

    Naturalmente non si posso­no addebitare ad Acquarone le decisioni che il re prese, o si lasciò imporre, al momento della svolta fatale. Entrato in servizio nel ’39, egli non era certo in grado nel 40 d’impedire, e neanche di sconsigliare, il reale assenso alla dichiarazione di guerra. Non abbiamo neanche nessu­na difficoltà a credere che sin da principio egli si sia reso conto della catastrofe a cui eravamo avviati e che sin d’al­lora abbia cercato di prepa­rarvi il sovrano e di predisporre qualche scappatoia. Ma tutto ciò cominciò a tradursi in azione — e cautissima — solo ne gennaio del ’43, quan­do gli avvenimenti avevano acquistato tale eloquenza da non avere più bisogno d’interpreti.

    Concediamo dunque ad Acquarone tutte le attenuanti, e prima di ogni altra la difficoltà dell’uomo con cui aveva a che fare. Conquistarne la fi­ducia non dovette essere un’impresa rapida e facile: se si fosse « scoperto » anzitempo l’avrebbe irrimediabilmente perduta. E concediamogli anche il merito di averla saputa sfruttare, vincendo la renitenza all’azione del suo principale. Senza dubbio fu lui a andare in avanscoperta e a fa­re i primi sondaggi sulle per­sone che si potevano attrarre in una congiura che in realtà non acquistò mai precisi contorni, ma che prevedeva un golpe militare. E qui c’è da porsi una domanda, a cui sinora nessuno ha mai saputo rispondere: questo golpe, i ge­nerali italiani sarebbero stati capaci di farlo? Monelli dice di sì, e lo dice da par suo. Ma noi ne dubitiamo assai. Visti poi all’opera, i vari Bado­glio, Carboni e Castellano ci sembrano tutti dei Di Lorenzo avanti lettera, fertilissimi di « piani », ma anche preoccupa­tissimi del « ruolo di avanza­mento ».

    Acquarone dice che « il re, anche prima che si riunisse il Gran Consiglio, e indipenden­temente dal suo voto, mi ave­va resa nota la sua ferma de­liberazione di sostituire Mus­solini e di far cadere il regi­me ». Sì, ma quando? C’è da temere che questo quando non sarebbe venuto mai, o sarebbe venuto solo il giorno in cui gli Alleati, già sbarcati in Sicilia, fossero stati alle porte di Ro­ma, se il Gran Consiglio non avesse agito per conto suo. L’unica raccomandazione che il re fece a Grandi il 3 giu­gno, data dell’ultimo loro in­contro, fu: « Non abbiate fretta ».

    *



    Ma veniamo al dopo che resta, per Vittorio Emanuele e il suo vicario, la pagina più nera. Reduce dall’infocata not­te del 25 luglio, Grandi trovò a casa sua Acquarone in an­siosa attesa e gli disse pres­sappoco: « Noi abbiamo tatto quello che ci spettava. Ora il re ha il pretesto costituzionale per dichiarare Mussolini deca­duto e procedere alla sostitu­zione. Mi permetto raccoman­dare ancora una volta il mare­sciallo Caviglia, unico militare che non abbia mai patteggiato col fascismo e disposto a pro­vocare un incidente coi tede­schi che ci faccia trovare automaticamente in guerra con loro prima che occupino il nostro territorio »

    Le cose invece andarono nel modo che sappiamo. Il successore di Mussolini fu Badoglio, cioè uno dei generali più compromessi col regime, e la stesura del proclama fu affi­data al vecchio Orlando, in­ventore della bella trovata: « La guerra continua ». Chi suggerì queste scelte al re che, dopo aver ricevuto il vecchio statista, avrebbe detto con di­sprezzo: « Ha ricominciato a piangere al punto in cui aveva smesso nel 1922 »? Secondo Grandi, non ci sono dubbi: fu Acquarone. E, anche se non ne abbiamo le prove, molte cose c’inducono a crederlo. Il re non faceva più nulla sen­za consultarsi col suo ministro della Real Casa, e quelle de­cisioni recavano il segno di un’ambiguità ch’era nel carat­tere sia dell’uno che dell’altro. Se essi l’avessero presa già prima del 25 luglio non sap­piamo, e forse non lo sapremo mai perché entrambi erano troppo sospettosi per rivelare a qualcuno le proprie intenzio­ni o metterle nero su bianco in qualche carta.

    Ma insomma, tutto sembra confermare la nostra vecchia convinzione che il colpo di Stato del 26 sia stato il frutto di due congiure svoltesi paral­lelamente, ma senza precisi rapporti tra loro. Il re e il suo ministro pensavano a una so­luzione militare, per la quale però sin allora non avevano predisposto nulla, neanche la data. I contatti che avevano avuto con Grandi e Ciano era­no soltanto precauzionali, in­tesi a creare una divisione nello stesso « vertice » del re­gime, che ne prevenisse o in­debolisse la resistenza. Gli uomini del Gran Consiglio agi­rono nella speranza, forse ad­dirittura nella persuasione di avere dalla loro il Quirinale, ma senza averne ricevuta nes­suna garanzia. Se l’indomani Mussolini, invece di andare a Villa Savoia, fosse andato da Kesselring e avesse mobilitato la sua milizia, per quanto scal­cagnata, dubitiamo molto che la Corona avrebbe preso aper­tamente le parti dei ribelli.

    Per il re e il suo ministro il voto del Gran Consiglio fu il classico cacio sui macche­roni. Essi mostrarono gran­de abilità e prontezza di rifles­si nell’impadronirsene imme­diatamente e strumentalizzarlo ai loro fini. Mi chiedo se da soli avrebbero mai osato af­frontare un duce ancora vivo, per quanto stremato dalle di­sfatte e senza più alcun segui­to nel Paese. Il Gran Consiglio riduceva quel compito alla se­poltura di un cadavere: e tutti sappiamo come fu eseguita. Poi il re e il suo vicario ripre­sero ad agire secondo il loro piano: e tutti abbiamo visto in che condizioni ci condusse­ro all’8 settembre.

    Si poteva far meglio? Non lo sappiamo. Sappiamo sol- tanto che non si poteva far peggio. Quanto di questo peggio sia da attribuirsi al re, e quanto al suo vicario, resterà sempre materia di congetture. Ma che la simbiosi fra loro abbia dato buoni frutti, non si può certo dire. Si somiglia­vano troppo.

 

 

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