Liturgisti e rubricisti
di Baronio
Il domenicano padre Domenico Maria Prümmer è stato un dottissimo moralista, ma non esercitò mai il proprio ministero come confessore. Potrebbe apparire una contraddizione, perché si suole pensare che quanto maggiore è la competenza teorica in una disciplina, tanto meglio si potrà riuscire nella pratica. Eppure, a ben guardare, la speculazione astratta di una materia - specialmente quando essa giunge a dei livelli di eccellenza - lungi dall’essere garanzia di una sua efficace applicazione concreta, spesso è anzi di impedimento a quest’ultima, perché è richiesta una capacità di valutazione globale immediata. Queste argomentazioni valgono a nostro avviso anche per quanti, recentemente spodestati dal proprio ventennale ruolo di cerimonieri, rivendicano il diritto a mantenere il proprio posto adducendo come titolo preferenziale la propria competenza nella scienza liturgica. Ma se tra un liturgista e un cerimoniere intercorre la stessa differenza che vi è tra un moralista ed un confessore, o tra un teologo e un predicatore, si deve anzitutto considerare che - pur essendo entrambi necessari - il primo ha una funzione meramente speculativa, mentre il secondo svolge una funzione pratica che risulta immediatamente utile alla Chiesa: il peccatore ricorre al confessore e chiede l’assoluzione preceduta da un’ammonizione breve e chiara, non una dissertazione sulle fattispecie di peccato; il fedele chiede al predicatore di essere istruito nella dottrina secondo il proprio livello culturale, e non un’analisi delle conseguenze teologiche della negazione del Filioque; allo stesso modo, nel corso di una celebrazione ci si aspetta che il cerimoniere applichi con competenza le norme liturgiche, e non che si cimenti in ardite innovazioni ad experimentum. A questo punto occorre però una precisazione. Chi si definisce liturgista - sostantivo che enfaticamente i suoi ammiratori accompagnano all’aggettivo insigne - dovrebbe anche dimostrare di esserlo veramente. Sappiamo bene che la setta dei liturgisti, una delle cui roccaforti è l’abbazia di Santa Giustina a Padova e l’avamposto è l’ateneo Sant’Anselmo in Roma, si riconoscono reciprocamente le patenti, negandole sdegnosamente a chi non fa parte dell’eletta schiera. Ma sappiamo altrettanto bene che né quella né questo, soprattutto negli ultimi anni, meritano oggettivamente la fama che si vedono riconosciuta da chi vi ha ottenuto un titolo accademico. Per questo motivo sarebbe il caso di vagliare attentamente le referenze dei sedicenti liturgisti: spesso scopriamo che nei curriculum di costoro compaiono espressioni eufemistiche - «ha seguito i corsi di liturgia presso l’Istituto...» oppure «ha frequentato le lezioni di liturgia alla Facoltà di...» - che vanno lette né più né meno che come una mancanza della licenza. Ed anche chi ottiene questa licenza non per questo è un liturgista, ma al massimo un licenziato in liturgia. Non dimentichiamo che gli studenti delle università, siano esse pubbliche o private, provengono dalle scuole superiori statali, e che il livello di istruzione di queste si è miserevolmente abbassato in questi anni; senza dire che troppo spesso la carenza di vocazioni induce i Superiori dei Seminari ad accogliervi giovani privi di formazione classica e completamente digiuni di materie umanistiche, senza parlare del latino o del greco. Questi ragazzi si trovano a frequentare lezioni di Sacra Scrittura in cui devono ricorrere alle traduzioni a fronte; lezioni di Patristica in cui per loro è impossibile accedere alle fonti; lezioni di dogmatica in cui non comprendono le espressioni teologiche latine. Con questo bagaglio non stupisce che i docenti siano costretti all’indulgenza, anche per rispondere all’insistente richiesta dei Rettori che vogliono vedere ordinati quanto prima i pochissimi seminaristi disponibili. Il paradosso è che in alcune Diocesi per i diaconi permanenti si pretende la licenza in Teologia, mentre poi ci si riduce a consacrare Vescovi ausiliari dei sacerdoti privi non solo di laurea, ma anche di licenza. In questo panorama desolante non fa eccezione la Liturgia, che come le altre discipline subisce gli adattamenti ideologici di docenti fortemente influenzati dalle dottrine moderniste. Fatte queste osservazioni ci si dovrebbe rassegnare a riconoscere il titolo di liturgista a personaggi di indiscussa erudizione come il Gavanto o il Cardinale Tomasi di Lampedusa, Monsignor Gamber o padre Lang, evitando di attribuirlo disinvoltamente a personaggi la cui produzione scientifica è pari a zero, specialmente rispetto ai primi. E questi ultimi, a onor del vero, quel titolo se lo sono sempre attribuito da sé, o hanno fatto in modo che i loro intrinsechi glielo riconoscessero, ma al di fuori della loro cerchia si preferiva ricorrere prudentemente al titolo ecclesiastico di Monsignore, glissando sul resto. L’odio della casta dei sedicenti liturgisti verso i rubricisti è cosa recente: prima della riforma liturgica gli uni e gli altri collaboravano d’amore e d’accordo, perché entrambi partivano dal comune presupposto dottrinale che la liturgia doveva esprimere tanto nella teoria quanto nella pratica; dopo la riforma i liturgisti accreditati sono divenuti pionieri dello sperimentalismo, della soppressione del vecchio, dell’affermazione ardita della novità come valore in sé, dell’inculturazione tribale in danno a quella genuina romanità «onde Cristo è romano» (Purg. XXXII, 102). I rubricisti, come spregiativamente sono definiti, erano eredi della formazione preconciliare e si trovavano a dover applicare norme vaghe ed incoerenti - a differenza delle prescrizioni chiarissime delle rubriche sino ad allora in vigore - cercando di coniugare le istanze del Concilio con una mentalità tradizionale. Ecco allora che mentre nelle Commissioni si partorivano creazioni estemporanee sforbiciando in lungo e in largo sui testi già amputati del Novus Ordo, i cerimonieri alla Monsignor Dante si aggrappavano alla forza normativa della legge per salvare il salvabile ed evitare che la rivoluzione si mostrasse in tutta la sua forza eversiva. Così, se nella liturgia dei defunti i liturgisti introducevano il violaceo come colore alternativo al nero al solo scopo di eliminare il nero e imporre il violaceo, i rubricisti osservavano che la norma permetteva l’uso di entrambi. E quando i liturgisti inventavano nuove preghiere eucaristiche da affiancare al Canone Romano al solo scopo di soppiantare quest’ultimo, i rubricisti conservavano l’uso del Canone. Similmente, quando i liturgisti introducevano la possibilità di erigere un altare coram populo per eliminare di fatto l’altare coram Deo, i rubricisti continuavano a far celebrare all’altare antico in rispetto alle norme - sempre ribadite dall’Autorità romana - che vietavano la contrapposizione di due altari. Questi decenni ci hanno insegnato che dietro all’azione dei cosiddetti liturgisti vi era un progetto ben chiaro, pensato con lungimiranza e nella consapevolezza che gli odiati rubricisti si sarebbero estinti, per far posto alle nuove leve, provenienti da quegli atenei in cui nel postconcilio si erano insediati come docenti i liturgisti stessi. Un incensarsi reciproco che può esser compreso solo riconoscendo la loro autoreferenzialità, peraltro molto provinciale e decisamente piccina. L’inganno in cui sono caduti i cosiddetti rubricisti consisteva nel fatto che mentre essi erano abituati ad obbedire all’Autorità e si sarebbero prima o poi piegati alle nuove disposizioni ancorché potessero loro apparire assurde, i liturgisti si sentivano assolutamente svincolati da qualsiasi obbligo di obbedienza, ed erano indocili e ribelli per scelta deliberata: le loro riforme non erano da prendere alla lettera se non in quanto demolivano del vecchio rito, mentre servivano da canovaccio per dar libero sfogo alla creatività e all’arbitrio. Per questo la figura del rubricista era destinata a scomparire, in modo da lasciar occupare il posto lasciato vacante dal liturgista stesso, che diventava mente e braccio del cambiamento: mons. Piero Marini fu un esempio di questo accorpamento di ruoli e negli oltre vent’anni in cui fu Maestro delle Cerimonie non ebbe bisogno di formulare distintamente le proprie idee sulla liturgia, perché gli fu sufficiente tradurle immediatamente in pratica, avendo nel Santo Padre un autorevole paradigma per le Diocesi di tutto il mondo, come dichiarò nella sua lettera di fine mandato: «in realtà Giovanni Paolo II non era un esperto di liturgia in senso tecnico, ma si è affidato al Suo Maestro». Non essendo liturgista nemmeno il defunto Pontefice, era necessario che obbedisse al «Suo Maestro», lui sì «esperto di liturgia in senso tecnico». Con la rimozione di Monsignor Piero Marini e la sua sostituzione con Monsignor Guido Marini, è stata rotta la cinghia di trasmissione tra la mente e il braccio del progressismo applicato alle celebrazioni papali. Il nuovo Maestro è in un certo senso un homo novus, non vanta patenti di questo o quell’Istituto, non è liturgista ma canonista. E se non è liturgista non può essere che rubricista, ossia un esecutore meticoloso delle norme liturgiche, com’egli stesso ha dichiarato con pacatezza e grande umiltà. Osserviamo che se è ai liturgisti che dobbiamo gli orrori del postconcilio, ben venga un prelato che non sfoggia con arroganza la licenza dell’Anselmianum, ma si limita ad applicare con gusto e precisione quanto la Chiesa e il Pontefice gli chiedono. Probabilmente il motivo che fa letteralmente infuriare i suoi detrattori è che, a dispetto dell’apparenza mite e dell’indole un po’ schiva, monsignor Marini non sembra minimamente intimidito dal loro enfatico stracciarsi le vesti e prosegue con mirabile determinazione nell’opera intrapresa, dimostrando di agire con rettitudine sotto lo sguardo di Dio piuttosto che cercando di compiacerli per ottenerne il plauso. Lo si dica senza vergogna: la scelta di ripristinare l’uso dell’antico altare della Cappella Sistina sarà anche determinata dal rispetto delle norme che impongono un unico altare in presbiterio, ma è certamente conforme alla tradizione che veri liturgisti come Monsignor Gamber e padre Lang hanno dimostrato essere elemento importantissimo non solo dell’atto sacrificale della Messa, ma anche dell’approccio pedagogico dei fedeli alla simbologia del sacro. Una simbologia presente anche nei sette candelieri riecheggianti l’Apocalisse, o nella sede del celebrante eretta in cornu Evangelii, il luogo più degno del presbiterio dopo l’altare, centro unico dell’azione sacra verso cui convergono tutti i presenti. Ma Gamber e Lang non hanno frequentato le lezioni a Santa Giustina, e quindi non meritano l’attenzione delle menti elette. In compenso sono ben conosciuti da uno stuolo di accademici di livello mondiale ed apprezzati dal Sommo Pontefice, il cui Magistero trova perfetta rispondenza nell’impostazione delle celebrazioni papali organizzate da Monsignor Guido Marini