Che Pervez Musharraf non fosse un sostenitore entusiasta della democrazia, non lo abbiamo scoperto oggi. Che l'impegno solenne di garantire autonomia al Kosovo senza renderlo indipendente, assunto dalla comunità internazionale alla fine della guerra che la Nato aveva condotto contro la Jugoslavia, sarebbe diventato carta straccia, era da dare per scontato.
Che lsraele possiede varie decine (e forse più) di testate nucleari da decenni, pur non avendolo mai ammesso, è un segreto di Pulcinella. Che Abu Mazen è un governante privo di legittimazione popolare, lo hanno svelato impietosamente le elezioni del 2006, dalle quali è uscita una netta maggioranza di consensi per Hamas. Che in Libano non è in corso alcuna lotta di liberazione dallo straniero (siriano) in nome dell'indipendenza nazionale, bensì un aspro conflitto tra potenze ansiose di piegare il paese dei cedri alle proprie strategie mediorientali, soltanto i più fanatici lettori del "Foglio" o di altre consimili imitazioni de "L'Unità" degli anni peggiori possono permettersi di ignorarlo. Per non parlare di ciò che sta accadendo in Afghanistan o in lraq, dove ogni malefatta delle truppe di occupazione nei confronti delle popolazioni civili, malgrado i comunicati reticenti emessi a getto continuo dai comandi militari "alleati", finisce col venire a galla. E tuttavia...
Tuttavia, per i fruitori dei maggiori canali informativi dei paesi europei, le cose non stanno nei termini a cui abbiamo fatto riferimento. Quel che ascoltano o leggono li induce a credere che il presidente pakistano, ad onta della sospensione dei diritti garantiti dalla legge, della rimozione del presidente della corte costituzionale, della bastonatura degli avvocati, dell'incarcerazione di migliaia di oppositori e della condanna all'esilio dei maggiori rivali, sia un pilastro del "mondo libero", solido alleato dell'Occidente in lotta contro il fondamentalismo islamico. Che negare l'indipendenza ai kosovari sia 'ingiusta lesione della più logica tra le aspirazioni popolari. Che in Medio Oriente la minaccia atomica sia brandita, contro il pacifico stato ebraico, dalla cricca guerrafondaia che è al potere a Teheran. Che in Palestina il torto stia dalla parte di Hamas, impostosi aGaza solo grazie alla violenza, e la ragione arrida alla "lucida" élite di Fatah, che avrebbe gettato ad Annapolis le basi di un futuro di pace. Che a procurare i guai del Libano sia la nefasta coppia Siria-Hezbollah. E che in lraq e in Afghanistan minoranze di terroristi siano oggi all'offensiva per ostacolare l'impegno dei "costruttori di pace" in divisa, spediti sul luogo per restituire ai cittadini tranquillità e accettabili condizioni di vita.
Mai come in questi anni, malgrado l'immediatezza dei flussi comunicativi, le interconnessioni globali e internet, la realtà e l'informazione che sarebbe tenuta a descriverla si sono divaricate, lasciando il campo a una spregiudicata azione manipolativa.
Perché ciò accada, è facile capirlo. La scoperta che il soft power quantomeno è un prezioso ausiliario dell'hard power, a cui può spianare la strada o coprire le spalle, e in non pochi casi ne è un sostituto ancor più efficace, ha da tempo convinto i programmatori delle strategie di potenza che conquistare le mentalità degli abitanti di un territorio è altrettanto essenziale quanto controllarne per via militare i confini e le vie di accesso. Di conseguenza, orientare tramite i media le opinioni è diventato l'impegno prioritario delle classi politiche, che, nei regimi democratici non meno che in quelli autoritari, agli operatori dell'informazione chiedono non quella libertà di giudizio che a parole proclamano, ma fiancheggiamento. Si dirà che questo modo di comportarsi non ha in sé niente di nuovo o sconcertante, perché si limita ad applicare i sempiterni canoni del realismo politico, seguendo una lezione che rimonta in Occidente a Machiavelli e in Oriente a Sun Zu. Il rilievo, spesso avanzato dai fans dell'euroatlantismo, è fondato, ma scavalca ipocritamente un dato cruciale; e cioè il fatto che le odierne potenze "realistiche" sono le stesse la cui legittimità ad arrogarsi il ruolo che detengono è affermata sulla base di argomentazioni idealistiche, con un quotidiano indecente gioco delle parti. Se infatti lo spirito del tempo che si è imposto in una larga parte del pianeta dopo il 1945, rafforzandosi dopo il 1989, ha fatto della democrazia liberale la forma di governo assunta a modello universale, ciò è avvenuto perché essa si presentava come baluardo incrollabile di una serie di precisi principi, tra i quali spiccavano la libertà di manifestazione del pensiero, il rispetto del pluralismo delle opinioni, la trasparenza delle procedure, il diritto di autodeterminazione dei popoli. Tradire un numero crescente di quelle promesse in nome dei vantaggi che la cinica strumentalità realista è in grado di procurare immediatamente significa sgretolare nel lungo periodo quel fondamento di legittimità, e mettere da parte i princìpi per avvalersi degli inganni rischia di provocare un effetto boomerang. Può darsi che questo non crei casi di coscienza a chi, dietro l'usbergo della retorica democratica, cela il mero desiderio di continuare a godere di rendite di posizione politica e/o economica; ma il discorso non può che essere diverso per quanti, invece, nel rispetto del diritto alla specificità dei popoli e delle culture vedono un'indispensabile condizione per un futuro del mondo socialmente più equo e spiritualmente più armonico, lontano dalle angustie in cui ci hanno precipitato il prevalere dell'egoismo e di quella forma particolarmente insidiosa di materialismo spicciolo che è la mania del consumo. Proprio mentre la way of life occidentale, che di questi veleni psicologici è il veicolo, festeggia il proprio trionfo, si fa più urgente denunciarla e combatterla.

Marco Tarchi