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    Predefinito Report su Essere Comunisti a Livorno

    Intervento conclusivo all'assemblea "I comunisti non si sciolgono"

    di Claudio Grassi

    su redazione del 22/01/2008


    Care compagne, cari compagni,

    intanto un ringraziamento alla Federazione di Livorno che ci ha ospitato in questa due giorni così interessante e partecipata. Agli ospiti di queste nostre iniziative – quella di ieri sulla centralità del lavoro e quella di oggi sul futuro di Rifondazione -, agli artisti che hanno contribuito con le loro opere alla realizzazione del catalogo curato dal compagno Roberto Gramiccia su “falce e martello”, al compagno Enzo Apicella che ha preparato per noi le vignette che avete visto nel video proiettato all’inizio di questo incontro e a tutti voi che siete venuti qui da varie parti d’Italia.

    Con questi due giorni di iniziative noi pensiamo di aver dato un contributo affinché questo appuntamento - che ricorda l’anniversario della fondazione del Partito Comunista d’Italia - diventi sempre di più un evento politico. Meritoriamente da alcuni anni la federazione di Livorno si sta muovendo in questa direzione. Io credo che noi dobbiamo impegnarci già da ora per fare di questo appuntamento per il prossimo anno e quelli successivi un avvenimento ancor più partecipato. Il modello potrebbe quello - che ormai da tempo si è trasformato in un appuntamento di massa - che caratterizza a Berlino l’anniversario dell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht e che quest’anno, proprio pochi giorni fa, ha raccolto in quella città oltre centomila persone. Ne vale la pena perché la storia del Partito Comunista, che nacque 87 anni fa qui a Livorno, è una grande storia che va ricordata, che non va dispersa, che va rivendicata.

    Non voglio fare, care compagne e cari compagni, un discorso retorico. Il Partito Comunista Italiano – soprattutto negli ultimi anni – ha compiuto scelte sbagliate e ha commesso anche gravi errori. Basta pensare agli anni ‘76-’79, all’appoggio al governo di solidarietà nazionale. Ma non vi è dubbio che il bilancio della sua storia sia incommensurabilmente positivo. Pensiamo ad Antonio Gramsci. Abbiamo appena concluso gli appuntamenti e i ricordi per i 70 anni dalla morte. Il nostro compagno Alberto Burgio ha scritto un nuovo interessante libro, che è qui all’uscita, che vi consiglio di leggere. Antonio Gramsci, un comunista italiano. Un comunista che il fascismo e Mussolini avevano decretato che non dovesse pensare e che quindi andava chiuso in carcere perché quel cervello non funzionasse. E pensate il paradosso: proprio quella condizione così terribile ha dato la possibilità a quel grande intellettuale comunista di scrivere quelle straordinarie opere che ancora oggi sono fonte preziosa di riflessione e che vengono tradotte e lette in tutto il mondo. Ma oltre a Gramsci pensiamo a quel “paese nel paese” che ha coinvolto milioni e milioni di donne e uomini cresciuti anche culturalmente nella grande organizzazione del Partito comunista e che con le sue lotte ha reso più civile e democratico questo paese. Non siamo disposti ad accettare che il rullo compressore del revisionismo storico mandi al macero quella storia. Noi stessi dobbiamo reagire con maggiore forza contro chi, a destra ma anche nel centrosinistra, non esita a gettare fango su quella storia. I comunisti sono stati protagonisti decisivi - in alcuni momenti anche i soli - nella lotta contro il fascismo e per la cacciata del nazismo. Sono stati decisivi nella Resistenza, sono stati parte importante nella scrittura della nostra Costituzione che non ha caso porta la firma anche di quel grande comunista che è stato Umberto Terracini, quella Costituzione che oggi vorrebbero stravolgere e cancellare. I comunisti sono stati decisivi nella ricostruzione del paese, nelle lotte per la pace, per la terra, per i diritti al lavoro e allo stato sociale, i diritti civili. I comunisti sono stati in prima fila in tutte quelle lotte.

    Non vorrei essere pedante ma voglio ricordare alcuni numeri perché in questi anni siamo stati travolti da informazioni che andavano in una direzione opposta. Pensate, solo per ricordare un ultimo fatto, a questo libro vergognoso di Giampaolo Pansa “I gendarmi della memoria”. Vorrei ricordare allora alcune piccole cifre che forse danno un’idea. Dei 256 mila partigiani 153 mila erano comunisti, dei 70.930 caduti 42.558 erano comunisti, dei 3.354 volontari che sono corsi in Spagna ad arruolarsi nelle Brigate Internazionali per difendere la Repubblica 1.819 erano comunisti e tra loro il giovanissimo compagno Giovanni Pesce che il luglio scorso ci ha lasciati e che ricordiamo con immenso affetto. Ci onora la presenza qui con noi della sua compagna Nori Brambilla Pesce che salutiamo e che ringraziamo. Dei 4956 condannati dal Tribunale Speciale 4.030 erano comunisti, per un totale di 23.000 anni di carcere. Altro che, come disse Veltroni, “il comunismo è incompatibile con la libertà”! I comunisti hanno dato un contributo determinante per la conquista della libertà e della democrazia di questo paese.

    Noi siamo qui non solo per ricordare - ricordare è importante perché senza memoria non c’è futuro – siamo qui soprattutto per cercare di cambiare il presente. Per dare il nostro contributo affinché resti viva, in questo paese, una presenza comunista con basi di massa, ancorata al mondo del lavoro, che lotti per una società diversa da quella capitalistica e che, quindi, non sia basata sul profitto di pochi. Oggi per conseguire questo profitto, anteponendo a tutto l’interesse dell’impresa capitalistica, non si guarda in faccia a nessuno. Pensiamo ai morti sul lavoro: la recente vicenda della Thyessenkrupp e di Porto Marghera. Perché avvengono queste morti? Sono forse una fatalità? No. I padroni non investono in sicurezza, preferiscono aumentare i loro profitti e utilizzarli in speculazione finanziaria. Vengono a piangere ai funerali ma non fanno nulla per modificare la situazione. E pensate l'ipocrisia di quegli stessi padroni che hanno detto “Non succederà mai più una Thyessenkrupp” e che oggi negano ai meccanici il rinnovo del contratto di lavoro per consentire a questi lavoratori di avere una paga minimamente dignitosa. Ai meccanici che lottano da mesi per il rinnovo del loro contratto va il nostro appoggio oltre che ovviamente la nostra solidarietà. Perché se sei un lavoratore con un salario basso, sei costretto a fare lo straordinario e allora sei più stanco ed più facile che possa avvenire un incidente nel luogo di lavoro. Di questo ci parla la vicenda terribile della Thyessenkrupp, salari incapaci di dare una vita dignitosa ai lavoratori di questo paese. Proprio in questi giorni giornali e televisioni sono sommersi di quello che fa e dice Mastella, nessuno ha parlato più di pochi minuti dei dati Istat usciti in questi giorni che ci dicono drammaticamente che metà delle famiglie di questo paese vive con meno di 1900 euro al mese e che il 14.6% non arriva a fine mese e se deve affrontare una spesa di 600 euro non sa come fare. Questo ci hanno detto i dati dell’Istat. E tutto si tiene, appunto, per conseguire il profitto. Pensiamo alla precarietà diffusa che colpisce le giovani generazioni, nega loro un futuro, una possibilità di costruirsi una prospettiva di vita e rende difficile nei luoghi di lavoro anche una solidarietà, poiché nega anche una possibilità per questi lavoratori di lottare, di unirsi, di alzare la testa nei confronti del padrone perché quella situazione li rende più deboli, indifesi, soli. Hanno il timore che una loro lotta, una contestazione a quanto richiede il padrone, possa significare il mancato rinnovo del contratto di lavoro.

    E pensiamo anche al fatto che per fare profitti si colpisce sempre di più l’ambiente, aggredito da uno sviluppo insostenibile, da un modo di produzione distorto. Perché vedete nella vicenda dei rifiuti di Napoli vi è racchiuso il fallimento non solo di una classe dirigente locale, che indubbiamente c’è - e Rifondazione comunista farebbe bene a tirarne le dovute conseguenze visto che ci siamo anche noi in quella amministrazione! Bisogna riconoscere anche i propri errori e valutare se non sia il caso di uscirne. Ma nei cumuli dei rifiuti è condensato il limite di una società che produce merci inutili, imballaggi inutili e non riciclabili, sostanze tossiche in totale disarmonia con le esigenze collettive e il rispetto dell’ambiente. E pensiamo al fatto che sempre per questi profitti si continuano a fare guerre e ad aumentare a dismisura le spese militari quando sarebbe sufficiente utilizzare parte di queste risorse per consentire ai due terzi degli esseri umani del pianeta che vivono in condizioni terribili di vivere dignitosamente.
    E pensiamo al fatto che si fa di tutto per alimentare la guerra tra i poveri dove il nemico è il migrante o il rom, quello che è più debole di te, che attraverso anche una vergognosa campagna mediatica – che non esito a definire fascista e razzista – viene additato come la causa di tutti i mali. Per cui è lui che devi contrastare e non il padrone o il sistema che brucia le risorse in guerre e chiude i servizi sociali.

    Allora per noi – care compagne e cari compagni – essere comunisti oggi significa combattere tutto questo, anche se ciò vuol dire andare contro corrente. Significa dire senza timore che questo Papa è un reazionario e che hanno ragione gli studenti e i docenti che lo hanno contestato; significa continuare a credere che il capitalismo possa essere sconfitto e che possa esserci un’altra organizzazione della produzione e della società che anziché mettere al centro il profitto vi metta la persona e l’ambiente. Noi crediamo ancora che ciò sia possibile, anche se in molti paesi dove questa esperienza è stata tentata abbiamo subito una sconfitta. Ci crediamo ancora perché vediamo che chi tutti i giorni ci parla della sconfitta del comunismo – da Bush a Berlusconi – ci propone un modello di società senza futuro, che non regge e non reggerà. Anche perchè se da noi, nell’Europa occidentale le sinistre e i movimenti sono sulla difensiva, in altri continenti le cose vanno in altra direzione. Basta pensare, come è stato ricordato qui da altri compagni che mi hanno preceduto, all’America Latina dove non c’è più solo Cuba, pur con tutte le sue contraddizioni, che resiste, ma c’è la Bolivia, l’Ecuador, l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay, il Nicaragua, il Venezuela di Chavez, che non accettano più di sottostare ai diktat degli Stati Uniti e del Fondo Monetario Internazionale. Ciò dimostra che anche se qui i tempi sono difficili e quindi tende a prevalere in noi il pessimismo della ragione, dobbiamo sempre associarlo – come ci ha insegnato Antonio Gramsci – all’ottimismo della volontà perché, ne sono certo, le contraddizioni di questo sistema riapriranno una stagione di conflitti, di movimenti e di ripresa quindi anche delle forze che lottano per il cambiamento e il superamento del capitalismo.

    La situazione politica nella quale ci troviamo ad operare è particolarmente complessa, soprattutto per quanto riguarda il nostro partito. Non parlo tanto di questa vicenda di Mastella e dell’Udeur che pure ha la sua importanza perché con i precari equilibri al Senato rende ancora più incerta la prospettiva di questo governo. Ma anche perché, al di là della colpevolezza sua e degli altri inquisiti che sarà stabilita dalla magistratura, questa vicenda ha fatto venire alla luce un modo di fare politica basata sullo scambio tra politica e pubblica amministrazione, aziende pubbliche e società partecipate, finalizzato a conservare il potere e per quella via ad acquisire consenso e riprodursi come ceto politico. Se questo è vero, ed è sotto gli occhi di tutti, allora non capisco perché tutto il mondo politico abbia espresso a Mastella solidarietà, quasi avesse subìto un attentato. Al contrario, Mastella andava criticato e censurato per il grave e pesante attacco che ha fatto alla magistratura e quando questo viene fatto dal ministro della Giustizia è un fatto intollerabile per un paese democratico. Sei inquisito, il tuo partito è inquisito, e tu attacchi la magistratura e nello stesso tempo sei ministro del governo!? Consiglierei a tutti coloro che hanno espresso solidarietà politica a Mastella di andarsi a rileggere le pagine straordinarie e di grande attualità scritte da Enrico Berlinguer sulla questione morale: pagine che con notevole anticipo denunciarono il degrado della politica che poi sarebbe esploso con Tangentopoli e che sono valide ancora oggi.

    Ma al di là di Mastella la situazione è complessa perché dopo venti mesi di questo governo, Prodi ha deluso le aspettative che aveva suscitato nell’elettorato di sinistra, disattendendo le stesse proposte contenute nel programma dell’Unione. Si tratta di un vero e proprio fallimento e in questo - sono molto schietto perché credo che tra compagni non si debbano usare tanti giri di parole - vi è anche il fallimento delle scelte politiche effettuate dal nostro partito in particolare dalla sua maggioranza. Al congresso di Rifondazione comunista di Venezia lo slogan con cui si decise di entrare nell’Unione si intitolava: “Vuoi vedere che l’Italia cambia davvero?” e il manifesto stampato dopo l’approvazione della prima legge finanziaria titolava “Anche i ricchi piangano”: ebbene io penso che questi titoli siano la rappresentazione plastica di un errore clamoroso di valutazione politica. Il compagno Bertinotti - che di quelle scelte fu il principale protagonista - in una recente intervista su Repubblica ha parlato di fallimento del governo dell’Unione, per onestà avrebbe dovuto aggiungere che si tratta anche del fallimento della sua proposta politica. Se a Venezia anziché indicarci la porta avesse ascoltato un po’ anche le nostre ragioni forse oggi non saremmo in questa situazione. Avremmo risparmiato venti mesi, visto che oggi, per uscire da questa difficoltà, la maggioranza del partito propone esattamente quello che proponevamo noi nel dibattito congressuale, e cioè: definiamo alcuni punti programmatici, concordati possibilmente con le altre forze della sinistra di alternativa, se li accettano si entra nel governo se non li accettano diamo il nostro contributo per cacciare le destre, ma non entriamo nell'esecutivo. La conclusione della vicenda legata al protocollo sul welfare, quindi sul tema pensioni e precarietà così importanti per noi e per il nostro elettorato di riferimento, per i movimenti a cui noi ci rivolgiamo, ha segnato la sconfitta più bruciante per il nostro partito e la smentita più clamorosa delle tesi del congresso di Venezia. Il centrosinistra infatti, al contrario di quanto era stato detto, non si è affatto spostato a sinistra rispetto agli anni '90. Al contrario proprio in questi mesi si è portato a compimento la costruzione del Partito democratico e cioè lo spostamento al centro della parte più importante della coalizione nella quale ci troviamo ad operare, l’Unione. Il governo, che avrebbe dovuto dimostrarsi permeabile ai movimenti, si è dimostrato assai più permeabile alla Confindustria e alla Chiesa. L’assunto secondo il quale la nostra presenza in maggioranza aveva l’unico significato di far crescere i movimenti si è risolto nel suo contrario: da quando siamo al governo ci sono state tre grandi manifestazioni: nel novembre 2006 la grande manifestazione contro la precarietà, nel febbraio 2007 a Vicenza la straordinaria manifestazione contro la nuova base americana e infine il 20 ottobre 2007 la grande e splendida manifestazione - molto combattiva e piena di bandiere rosse - che aveva l’obiettivo di cambiare il Protocollo e dire No alla precarietà. Ebbene, se ci pensate, su tutte e tre le richieste avanzate da queste manifestazioni e dai movimenti che le hanno organizzate il governo ha risposto negativamente.

    Ora da questa difficoltà è necessario uscire. L’esito del protocollo sul welfare ha mortificato la manifestazione del 20 ottobre e anche la sinistra sindacale e la Fiom che nel referendum si erano impegnate, in una condizione difficilissima, per il No - e tra l’altro la Fiom e i meccanici quella battaglia erano riusciti a vincerla. Quell’esito, appunto, impone un chiarimento. E dunque è importante che il partito abbia deciso di andare a una verifica con il governo, ma deve essere una verifica vera e siccome per realizzarla – come ricordato da altri compagni – si è rimandato un congresso di fatto già avviato (erano già pronti i documenti, erano già state nominate le commissioni congressuali) devono essere protagonisti di essa prima di tutto le compagne e i compagni di Rifondazione attraverso la costruzione di un dibattito partecipato sui punti politici da portare al confronto con il governo. La decisione conclusiva, e cioè se l’esito conseguito dalla trattativa con il governo sia o meno positivo, deve spettare in ultima istanza al partito della Rifondazione Comunista. E’ positivo che vi sia anche un documento comune delle quattro forze della sinistra dell’Unione e che proprio in questi giorni sia stato presentato al governo. I contenuti di questo documento sono condivisibili, ma si tratta - e qui è il punto politico che pongo e che abbiamo posto alla Direzione del partito lunedì scorso - di un elenco lungo, ampio, di richieste. Rischia di essere un po’ un “bignami” del programma dell’Unione che poi, proprio perché così ampio, non riusciamo a farlo mettere in pratica! E allora io penso che dobbiamo andare alla verifica non con un programma così vasto – certo è importante sollecitare su tutti i punti una discussione e un impegno – ma noi, poiché dobbiamo decidere se restare o meno all’interno di questa coalizione, dobbiamo individuare non più di 3 o 4 questioni, punti chiari esigibili e porli come condizione per la permanenza nell’esecutivo: questo è un elemento che può dare credibilità alla nostra verifica. Io credo che i punti siano pochi, ma siano quelli che la gente si aspetta da noi arrivati a questo punto.

    Il primo punto è certamente quello di aumentare i salari ma, anche qui, occorre avanzare richieste precise: in primo luogo la restituzione del fiscal drag. Un’altra cosa concreta che il governo può fare domattina: firmare il contratto del Pubblico impiego e questo potrebbe aiutare anche la firma degli altri contratti, a partire da quello dei meccanici! Inoltre un recupero a fine anno del differenziale tra inflazione programmata e inflazione reale.

    Seconda questione il tema della precarietà: c’è scritto nel programma dell’Unione superamento della Legge 30 e cioè riduzione del numero enorme di tipi di contratti che hanno aumentato in modo immenso la precarietà soprattutto per i giovani.

    Terza questione la moratoria per la nuova base americana di Vicenza: almeno questo ci deve essere altrimenti la nostra credibilità con quel movimento della pace su cui noi abbiamo così tanto investito in questi anni rischia di scomparire.

    Infine, se vogliamo dare una risposta al tema della lotta al razzismo, se vogliamo dare una risposta alle persone che vengono nel nostro paese perché cercano un lavoro, una vita dignitosa, vogliamo il superamento della Bossi-Fini attraverso l’approvazione rapida della legge Ferrero-Amato.

    Ecco, io credo che attorno a questi 4 punti si possa costruire una mobilitazione nel paese e il senso della nostra permanenza all’interno del governo. Perché vedete, dopo venti mesi, è vero che abbiamo il problema, che non sottovalutiamo, di queste destre così pericolose e aggressive; sappiamo che di là c’è Berlusconi ma, compagni, non ce la facciamo più a continuare a rimanere lì solo con l’argomento che altrimenti torna Berlusconi! Perché se continuiamo così fino alla fine della legislatura poi Berlusconi torna lo stesso, torna alla grande e noi saremo travolti.
    Allora occorre ricostruire un senso che può essere dato solo da una risposta positiva ad alcune nostre richieste programmatiche sulla base delle quali si decide se continuare o meno a stare nel governo.

    Care compagne, cari compagni, sto concludendo. Un po’ provocatoriamente abbiamo intitolato questa nostra assemblea “I comunisti non si sciolgono”. Lo abbiamo fatto volutamente poiché riteniamo giusto mettere in chiaro alcune questioni per noi dirimenti. Con la costruzione del Partito democratico e lo scioglimento dei Ds, una parte di quello che era stato il Correntone ha dato vita a Sinistra Democratica. Per quanto ci riguarda con questi compagni e compagne, così come con i Verdi e con i Comunisti Italiani, riteniamo non solo giusto, ma decisivo, costruire un’unità d’azione nel parlamento e nel paese. Ciò è necessario per cercare di ottenere risultati per la nostra gente che ha bisogno di una massa critica che pesi nel paese e nelle istituzioni. Vedete, noi questo discorso molto semplice lo sostenevamo anche quando in Rifondazione vi era il più totale disinteresse, da parte della maggioranza del partito, verso questi soggetti. Quando andavano per la maggiore i Disobbedienti, i Casarini e Caruso. Il problema è che oggi, come è capitato a questo partito anche su altri temi, si rischia di passare da un estremo all’altro e invece di ragionare su un’unità possibile e necessaria, che si può costruire, per esempio, attraverso una confederazione in cui ogni forza politica mantiene la propria autonomia, alcuni propongono il partito unico della sinistra.

    Non siamo d’accordo. Lo ripeto: siamo per l’unità, non per il partito unico. Dico di più: chi spinge il processo unitario verso il partito unico, in realtà, non lavora per l’unità, poiché tra queste quattro forze non vi sono le basi culturali, programmatiche e identitarie per fare un unico partito. I Verdi - lo hanno già detto - non si riconoscono nella sinistra poiché il loro elettorato è trasversale e Sinistra democratica si è caratterizzata come forza che è partecipe e attiva del socialismo europeo, mentre Rifondazione comunista è collocata all’interno del Gue nel parlamento europeo. Infatti, pensate la contraddizione: si spinge verso il partito unico e la presentazione sotto un unico simbolo alle elezioni. Il prossimo anno ci sono le elezioni europee, che credibilità avrebbe una lista unica della sinistra di queste forze i cui eletti al parlamento europeo si dividerebbero immediatamente in tre gruppi diversi, e cioè quello verde, quello socialista e quello comunista? Ma non avevamo criticato il Partito democratico che nel parlamento europeo si divide in due gruppi? E ora noi facciamo una lista di eletti che si divide addirittura in tre gruppi? Non è questa la strada. Non abbiamo dato vita a Rifondazione nel 1990, contrastando Occhetto, per scioglierla oggi perché ce lo chiedono Mussi e qualcun altro, compreso lo stesso Occhetto, che dopo un giro molto tortuoso, ce lo ritroviamo in Sinistra democratica e che attraverso questa forza politica chiede a Rifondazione di fare la Bolognina dopo 17 anni! NO noi non ci stiamo! La nostra strada è quella di lavorare nell’ambito di una sinistra unitaria e plurale e, contemporaneamente, per il rilancio di Rifondazione comunista. C'è lo spazio in questo paese per la presenza di un partito comunista non settario, con vocazione unitaria, con basi di massa, radicato nel mondo del lavoro, nelle organizzazioni di massa, nei territori, presente nei movimenti, capace di innovare la propria cultura politica senza ripudiare la propria storia.
    D’altra parte sarebbe ben strano se in questa lunga transizione italiana che sta scomponendo e ricomponendo le varie forze politiche gli unici a scomparire fossero i comunisti che ancora oggi, nonostante tutto, con quel simbolo e quel nome raccolgono tra l’8 e il 10% dei consensi elettorali!

    Care compagne e cari compagni, io penso che ce la possiamo fare, ci sono tutte le condizioni per rilanciare Rifondazione comunista. I nodi di una linea politica sbagliata e di una gestione escludente sono venuti al pettine e ormai molti, anche nella maggioranza, avvertono l’esigenza di un cambiamento. E anche l’intervista di oggi di Giordano su Liberazione dimostra quanto sto dicendo e, se mi permettete, dà anche il senso dello sbandamento di questo partito, perché in quel ragionamento ci sono due cose che difficilmente possono stare assieme. Dice infatti Giordano nell’intervista: “basta, siamo nella palude, bisogna disinvestire dal governo per reinvestire nella società” e, contemporaneamente, dice che bisogna accelerare il processo unitario della sinistra. Ma come? non lo sappiamo che alcune di quelle forze non vedono in una autonomia dal governo una opzione possibile e praticabile??
    Allora delle due l’una: o investiamo decisamente verso una riconnessione con i movimenti, con la società o puntiamo decisamente verso il partito unico della sinistra. Questo è il nodo politico che va sciolto. Sono convinto che nella maggioranza del partito vi è una parte significativa che è contraria al superamento di Rifondazione comunista. E noi come area Essere comunisti, come stiamo facendo da tempo, come abbiamo fatto alla conferenza di organizzazione di Carrara, come abbiamo fatto alla nostra festa di Gubbio e come abbiamo fatto anche qui a questa bella manifestazione di Livorno, dobbiamo aprirci anche agli altri, a chi non la pensa come noi o non ha fatto le nostre considerazioni al congresso di Venezia, per unirci a tutti quelli che, come noi, credono nella Rifondazione comunista. Questo è un primo punto, poi come sarà il partito della Rifondazione Comunista lo decideremo, ma intanto uniamoci per mantenere questo soggetto politico organizzato. Questo è l’obiettivo di oggi. La manifestazione del 20 ottobre - con quella presenza straordinaria di popolo - ci dice che è una esigenza che si connette ad un pezzo non minoritario e marginale della sinistra. Certo, so che è difficile, che il partito vive una crisi oltre che politica anche organizzativa pesante; che anni di gestione maggioritaria ed escludente ha diviso i compagni e le compagne non solo nel gruppo dirigente nazionale ma anche nelle federazioni e nei circoli. So che in molte federazioni è più il tempo che si dedica a gestire il contrasto delle componenti interne che per fare politica nella società. So, che in conseguenza di ciò, molti compagni non hanno rinnovato la tessera o fanno sempre più fatica a farlo. Ma so anche che c’è un potenziale su cui lavorare, come ha dimostrato appunto la manifestazione del 20 ottobre. Noi dobbiamo lavorare con impegno nel partito, soprattutto nei circoli e nei territori, e non abbandonare la lotta, guai a lasciare la militanza e l’impegno nel partito. Non ci sono alternative all’impegno dentro Rifondazione comunista per chi vuole cercare in questa fase di dare il proprio contributo affinché in questo paese resti presente una forza comunista attiva e non residuale o testimoniale.
    Occorre quindi attivarci con impegno affinché questa verifica con il governo coinvolga tutti gli iscritti e sia un’occasione di confronto con la sinistra e la società. Occorre infine prepararsi per il prossimo congresso che si svolgerà entro l’anno e che oltre ad essere un’occasione importante per noi, per chiedere che si faccia un bilancio sui risultati negativi della linea di Venezia, si faccia chiarezza sul futuro di Rifondazione comunista. Noi siamo disponibili a discutere di tutto, a trovare tutte le forme di unità possibile. Una cosa però non possono chiedercela, e cioè che dopo tanti sacrifici e tante lotte si possa chiudere l' esperienza di Rifondazione comunista. Su questo il nostro consenso non l’avranno mai!

    Care compagne e cari compagni,
    nei giorni scorsi una ragazza di 18 anni, Ludovica, di un liceo classico in provincia di Treviso, stava tornando da scuola su un treno locale. Era contenta questa ragazza, canticchiava Bella Ciao. Prima di scendere dal treno due persone vestite di nero l’hanno spinta nel bagno e le hanno disegnato croci celtiche sulle braccia, le hanno scritto sul volto le iniziali di Forza Nuova e le hanno detto “comunista di merda, certe cose non si possono cantare”.

    E’ a Ludovica, e ai tanti giovani come lei che non vogliamo crescano in un mondo dove succedono queste cose, che noi dedichiamo questa riunione e il nostro impegno di essere comunisti, per cambiare la società, per sconfiggere il fascismo, il razzismo, la precarietà, i morti sul lavoro.

    http://www.esserecomunisti.it/index....Articolo=21150

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    Noi comunisti che non intendiamo scioglierci

    di Bruno Steri

    su redazione del 20/01/2008

    Livorno, 19/20 gennaio 2008, assemblea di Essere comunisti

    Care compagne, cari compagni
    farò anch’io un paio di considerazioni suggerite dal titolo che abbiamo voluto dare a questa nostra “due giorni”: i comunisti non si sciolgono.
    Dunque non ci sciogliamo. Già, ma perché? Evidentemente, la risposta non può consistere nella mera indicazione di un calcolo elettorale: nell’affermare che la falce ed il martello portano voti. Né si può solo dire: i comunisti non si sciolgono perché sono gli eredi di una tradizione importante, di una grande storia. Storia anche drammatica, certo; ma insieme grandiosa. Beninteso, queste sono motivazioni tutt’altro che da trascurare. Ma non basterebbero se, a monte, non ci fosse una ragione di fondo, una ragione che ha a che vedere con l’idea di una società diversa da quella in cui siamo immersi. E’ questa prospettiva generale che oggi appare appannata.
    I nostri quotidiani comportamenti, i singoli atti politici, le lotte sociali e territoriali, condotte su temi specifici, sarebbero meno forti se - accanto al loro valore vertenziale - non rinviassero ad un orizzonte, ad un senso più profondo che le connetta ad un progettualità politica (o storico-politica) più generale. Se le parole non sono dei meri suoni al vento, cos’altro dovrebbe essere quella che abbiamo chiamato un’ “alternativa di società”?
    Chi ha parlato prima di me ha fatto riferimento alle nostre attuali difficoltà. E ieri, nel corso delle riunioni che abbiamo dedicato al tema del lavoro, ho ascoltato le preoccupate analisi delle compagne e dei compagni intervenuti. Si è parlato della necessità di un maggiore radicamento, di un’aderenza più puntuale alle esigenze del mondo del lavoro (del semi-lavoro e del non lavoro). L’oggettività del conflitto di classe non è forse mai stata così drammaticamente visibile. E tuttavia non è sufficiente enunciarla: occorre intercettarne concretamente gli effetti, in un contesto in cui molte cose sono cambiate (in peggio: almeno dal punto dei vista del potere e della forza organizzata dei lavoratori). Non a caso, ieri si è detto: care compagne e cari compagni, diciamoci la verità, in questa fase storica non siamo stati all’altezza, non abbiamo saputo dare voce alle ragioni del mondo del lavoro.
    Pensiamo per un attimo a quello che è accaduto all’inizio di quest’ultimo quindicennio. Dal ’90 al ’95 abbiamo avuto: gli accordi di luglio del ’93, la contro-riforma previdenziale (la legge Dini, che ha tagliato di un terzo il valore delle pensioni), la sterilizzazione e poi l’abolizione della scala mobile. Una raffica di colpi micidiali ai livelli di vita, al potere delle classi popolari. Sarà un caso che tutto ciò si sia verificato nel quinquennio successivo all’ ’89? Trentin si dimise, dopo aver firmato l’accordo di luglio. Firmò perché riteneva di non poter fare altrimenti: ma si dimise subito dopo, perché percepiva che con quell’accordo mutava il Dna del sindacato, iniziava la stagione del sindacato concertativo. E le attuali difficoltà vengono da lì, sono ancora dentro quella congiuntura sfavorevole.
    Tuttavia, nonostante simili batoste, la coscienza della condizione di sfruttamento non si è affatto estinta. Né potrebbe esserlo, alimentata com’è dalla violenza sociale del capitalismo. Ho ascoltato recentemente in televisione una delle più semplici e chiare descrizioni di cosa sia la connessione tra morti (o, se preferite, omicidi) sul lavoro e precarietà. L’ha data un collega di uno dei lavoratori morti della Thyssenkrupp. La legge 626, la normativa sulla sicurezza nei posti di lavoro, contiene - egli ha ricordato - la possibilità per il lavoratore di rifiutare di svolgere una mansione, qualora quella mansione comporti un rischio per la propria incolumità fisica. Già, ma come andrebbero le cose se quel lavoratore fosse un precario? Egli non andrebbe mai dal padrone a dirgli che interrompe il lavoro, per il semplice motivo che, in quanto precario, è costretto a subire il ricatto del mantenimento del posto di lavoro. E in questo modo, accetta suo malgrado di lavorare a proprio rischio e pericolo. Ecco, con poche chiare parole, richiamata la criminale responsabilità di chi piange ipocritamente le “morti bianche”, ma non fa nulla per eliminare la precarietà del lavoro.
    Questa società, questo modo di produzione produce quindi e costantemente riproduce la coscienza della propria condizione di sfruttamento. Ed è da qui, dalle concrete articolazioni di tale condizione che è possibile rafforzare il radicamento del partito: organizzare e dare voce al mondo del lavoro. Questo è senz’altro un pezzo della risposta alla domanda: perché i comunisti non si sciolgono. Ma appunto: è un pezzo, non l’intera risposta. In più, occorre una prospettiva, un orizzonte più largo da dare alle proprie azioni: il convincimento che è possibile andare oltre l’ordine delle cose esistente, che è possibile un mondo, una società diversa (e più giusta) da quella in cui siamo.
    Guardate che non stiamo poi dicendo delle cose tanto strane. Vorrei in proposito sottoporvi un paio di brevi citazioni, che ho appositamente portato con me e che riguardano appunto la necessità di un superamento del modo di produzione capitalistico e della società capitalistica così come noi la conosciamo. In primo luogo, riporto pochi brani di una recente intervista tratta da un sito inglese: ma non voglio dirvi subito a chi è stata fatta. Chiede l’intervistatore: “Cosa lei mantiene oggi di Marx?”. Risposta: “Prima di ogni altra cosa, mantengo l’idea che il mercato capitalistico è un sistema, basato su una certa teoria del valore, che ha una certa dinamica e determinate disfunzioni. Un sistema dove ci sono possessori di capitale che acquistano lavoro e possessori del loro lavoro, che vendono il loro proprio lavoro. Questa relazione implica una teoria del profitto; ed il sistema (generato da questo profitto) ha la tendenza a fare più ricchi i ricchi, perché accumulano capitale, e a rendere più poveri i poveri perché non hanno che da vendere il loro proprio lavoro. Tutto questo rimane largamente vero. Nessuno, dopo Marx, ha elaborato un’analisi di così pregnante significato. Anche la globalizzazione è solo uno stadio storico del mercato capitalistico come Marx l’ha individuato”. E aggiunge: “Appartengo a coloro che continuano a cercare delle alternative”. Chiede l’intervistatore: “Alternative al capitalismo o alternative al modo in cui il capitalismo opera?” La risposta non potrebbe essere più perentoria: “Alternative al capitalismo. Il capitalismo non può soddisfarci”. Quest’ultima frase è stata posta a titolo dell’intervista.
    Ma chi è il protagonista di questa intervista? Ebbene, è Pascal Lamy, Direttore generale del Wto, della World Trade Organisation (l’Organizzazione mondiale del commercio). Chiedo sommessamente: se il Direttore generale del Wto - uno che non è certo un pericoloso estremista e che certo occupa un punto d’osservazione quanto mai privilegiato - sostiene l’urgenza di superare il capitalismo; e se credo nessuno possa smentire il fatto che coloro che con più determinazione hanno provato a seguire Marx e a lanciarsi in tale impresa sono i comunisti; ebbene, a conclusione di tale sillogismo, io dovrei sciogliere… i comunisti? Mi sembra una follia.
    Ma si potrebbe ancora dire: però ci sono delle novità, il mondo è cambiato. E oggi viviamo problemi inediti. Ad esempio, la questione ambientale. Non v’è dubbio: concordo sull’assoluta rilevanza di tale questione. Penso anche che l’impianto marxiano abbia colto nel dispositivo capitalistico e nel suo carattere onnivoro un presupposto fondamentale della devastazione dell’ambiente naturale. Ma certamente non si può dire che la portata di questo tema, le sue dimensioni siano equivalenti a quelle di un secolo fa. E’ evidente che nel merito c’è oggi un’urgenza ulteriore ed inedita.
    A questo proposito, voglio proporre una seconda (ed ultima) citazione. Recentemente, il Global Footprink Network, un’associazione che si incarica di misurare l’impatto ambientale dello sviluppo economico, ha condotto un’indagine su un certo numero di Paesi per stabilire qual è lo stile di vita migliore sotto il profilo sociale e della sua sostenibilità ambientale. Lo ha fatto, incrociando due parametri: l’ Indice di sviluppo umano, utilizzato dalle Nazioni Unite, che misura la qualità della vita di un Paese, il benessere della sua popolazione – la speranza di vita, il reddito, la qualità del sistema sanitario, quella del sistema educativo – e il Planet Lifestyle, cioè un parametro che “pesa” un dato stile di vita per valutarne l’impatto ambientale (quanto il pianeta lo possa “reggere”). La ricerca studia quindi quale stile di vita assicuri il rapporto migliore tra benessere sociale e sostenibilità ambientale. Ebbene, in tale classifica, quale Paese figura al primo posto? Al primo posto c’è Cuba.
    Da questo dato, care compagne e cari compagni, non intendo trarre chissà quale conseguenza circa il migliore dei mondi possibili. Mi piacerebbe però non dover trovare una notizia come questa nascosta all’ennesima pagina di qualche inserto o dispersa in qualche sito sconosciuto ai più. Mi piacerebbe trovarla ad esempio in un articolo di ‘Liberazione’, magari a firma di Angela Nocioni.
    Mi fermo qui, avendo cercato di offrire qualche spunto a conferma del fatto che no, i comunisti non intendono sciogliersi; ed è bene che non si sciolgano.

    http://www.esserecomunisti.it/index....Articolo=21140

  3. #3
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    Essere e rimanere comunisti

    di Simone Oggionni

    su Liberazione del 22/01/2008


    20 gennaio, pomeriggio. A Livorno si è appena concluso il ricco programma di iniziative organizzate da essere comunisti, area programmatica del Prc, in occasione dell’87° anniversario della nascita del Partito comunista d’Italia. Riposti negli scatoloni tutte le magliette, i libri, i volantini e le bandiere (moltissime quelle del partito e quelle di Cuba), l’ultimo manifesto che i compagni staccano dalle pareti del teatro di via del Platano propone uno slogan che è la sintesi perfetta della due giorni: I comunisti non si sciolgono.
    Qualcosa di più di un auspicio, anche perché di manifesti di buoni propositi rovinosamente disattesi nel volgere di pochi mesi (dal noto vuoi vedere che l’Italia cambia davvero? al celeberrimo anche i ricchi piangano) nessuno avverte la nostalgia. Piuttosto un impegno puntuale che, in questi frangenti così tortuosi della vita politica italiana, richiama con orgoglio la propria storia e le proprie radici e si attrezza, sulla base di queste, per le sfide che attendono la sinistra.
    Una fra tutte: arginare lo slittamento a destra del Paese per mezzo di una sinistra unita (e in questo più forte), ma nella quale, al contempo, i comunisti possano mantenere la propria autonomia politica e culturale e quindi il proprio partito.
    Che non sia cosa da poco, a Livorno, lo si capisce subito. Non a caso essere comunisti vi dedica cinque iniziative: l’attivo dei lavoratori, l’assemblea pubblica sui temi del lavoro, la cena con il ministro Paolo Ferrero, il convegno sulle prospettive del Prc e l’attivo dei giovani comunisti.
    E la percezione diffusa è che tale obiettivo, in realtà, ne contenga almeno tre.
    Il primo, a cui è stata dedicata l’intera giornata di sabato, chiama in causa la necessità di frenare, con l’occasione della verifica che si aprirà nelle prossime settimane, la deriva moderata del governo. Una deriva che – come hanno spiegato Alberto Burgio e Tiziano Rinaldini – si materializza in primo luogo nella sostituzione, compiuta progressivamente nel corso dell’ultimo ventennio, della centralità del lavoro dipendente con quella dell’impresa nell’orizzonte strategico della sinistra moderata. E che altro non è che lo specchio dell’affermarsi, dalle viscere del Paese, di una cultura organicamente di destra, che solletica gli istinti della paura, dell’indifferenza, dell’egoismo. A fronte di tutto ciò Claudio Grassi, coordinatore nazionale della componente, ha affermato che «non è più sufficiente agitare lo spettro di Berlusconi e del ritorno delle destre». Occorre un lungo lavoro di ricostruzione della sinistra e di ricomposizione della classe, ma anche una «svolta immediatamente percepibile nell’azione di governo, attraverso l’applicazione di alcuni punti programmatici significativi (restituzione del fiscal drag, firma del contratto del pubblico impiego, superamento della legge 30, approvazione della legge Amato-Ferrero, moratoria sulla base di Vicenza), in assenza dei quali verrebbero meno le condizioni per proseguire la nostra esperienza nell’esecutivo».
    Il secondo obiettivo è complementare a questo, e concerne la necessità di unire la sinistra: provare, cioè, ad alzare la testa facendo fronte comune, lottando insieme per scopi comuni, cominciando proprio (come hanno invitato a fare Maria Campese, Giuseppe Carroccia, Bruno Casati ed Enzo Jorfida) dal rappresentare politicamente il mondo del lavoro e il nuovo soggetto operaio.
    Come farlo? Realizzando il terzo intento: difendere Rifondazione Comunista e, contrariamente a ciò che ritengono coloro i quali vorrebbero che l’unità della sinistra prendesse la forma del partito unico, riaffermare il ruolo e il punto di vista autonomo di chi, per definizione e storia (come affiora dagli interventi di Bruno Steri e Bianca Bracci Torsi), non si accontenta di rappezzare il modo di produzione capitalistico.
    Chi ha partecipato alle iniziative di Livorno ha l’impressione che, in questa sfida, essere comunisti non sia sola. Lo dimostrano il migliaio di persone che ha preso parte alle cinque iniziative in calendario e i tantissimi giovani che hanno ascoltato emozionati l’intervento di Nori Brambilla Pesce e popolato il corteo di sabato dedicato al ricordo del 21 gennaio 1921 ma anche alle vittime della quotidiana guerra sul lavoro. Lo dimostrano, ancora, gli ottanta artisti che, coordinati da Roberto Gramiccia, hanno collaborato all’anteprima di un catalogo sulla falce e il martello che è stato presentato – così come le pungenti vignette di Enzo Apicella – in occasione dell’assemblea conclusiva.
    Claudio Grassi, concludendo domenica pomeriggio i lavori, si è detto «disponibile a confrontarsi e a ragionare su tutto, tranne che su una cosa: lo scioglimento di Rifondazione Comunista. Chi lo volesse proporre, sappia che troverà irriducibilmente contrari la grande maggioranza delle compagne e dei compagni del partito». La presenza di Imma Barbarossa e Aurelio Crippa, di Raul Mordenti, Sandro Targetti e Stefano Zuccherini sembra confermare che, a diciotto anni dalla Bolognina, sono in molti – dentro il Prc – a non avere alcuna intenzione di officiare nuovi funerali alla falce e al martello.

    http://www.esserecomunisti.it/index....Articolo=21141

  4. #4
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    Intervento all'assemblea pubblica a Livorno del 19 gennaio 2008: Le ragioni del lavoro

    di Alberto Burgio

    su redazione del 23/01/2008


    Care compagne e cari compagni,

    noi – lo sapete – siamo «quelli della centralità del conflitto di classe», «quelli della centralità della questione operaia». Ce lo siamo sentito ripetere per lunghi anni, talvolta con ironia, tal’altra con fastidio. Ma come? Non avevamo capito che la storia è cambiata? Che il Novecento è alle nostre spalle? Che «nulla è più come prima»? A questi slogan, che hanno sostituito l’analisi e mascherato l’assenza di riflessione abbiamo sempre contrapposto fatti ed evidenze. Il fatto della persistenza e anzi dell’espansione del salariato e dell’area del lavoro subordinato. L’evidenza del peggioramento della condizione lavorativa e delle condizioni di vita del lavoro. Non ci siamo lasciati distogliere dalle mode, dai nuovismi che hanno fuorviato tanta parte della sinistra italiana – anche della sinistra “critica”, smaniosa di escogitare trovate sempre nuove pur di non misurarsi con le vere cause della sconfitta e dell’arretramento del movimento di classe in Italia e in tutto il mondo capitalistico. Finché i fatti hanno preso a parlare così forte, sono diventati così evidenti, che anche i nostri critici hanno dovuto rassegnarsi. E riconoscere che il conflitto capitale-lavoro è ancora oggi l’architrave dei processi sociali, così come il processo di valorizzazione del capitale rimane il motore della riproduzione. Oggi tutti – almeno nel nostro partito – sono costretti a riconoscere che la nostra non era una «fissazione identitaria». Non era un punto fermo ideologico. Meglio tardi che mai: resta il rimpianto del tempo perduto dietro a mitologie stravaganti come quella, autorevolmente accreditata, della «fine del lavoro».

    Quali sono questi fatti che hanno costretto anche i riottosi a riconoscere la persistente centralità della questione operaia? È presto detto: la precarietà crescente del lavoro subordinato; la crescente povertà materiale – documentata da tutte le statistiche e ormai riconosciuta persino dal Governatore della banca d’Italia – delle classi lavoratrici (con particolare riferimento al Mezzogiorno, ai giovani e alle donne); la drammatica questione della sicurezza sul lavoro, con la strage quotidiana che insanguina fabbriche, strade e cantieri; la questione dei migranti e dell’economia sommersa, retrobottega dell’economia globalizzata, che insedia nelle nostre stesse città propaggini supersfruttate del Sud del mondo.
    La situazione del lavoro è oggi più che mai intollerabile. Ma attenzione. Se questo dato di fatto è riconosciuto a parole, non lasciamoci per questo ingannare. Le parole non costano nulla. Ma se andiamo a cercare i gesti concreti, i comportamenti effettivi, si stenta a cogliere anche solo un’avvisaglia di un’inversione di tendenza. Anzi. Si è aggiunto da ultimo un nuovo capitolo, insidiosissimo: l’attacco al contratto nazionale di lavoro, che – ove coronato da successo – condurrebbe alla radicale frammentazione della classe, alla dispersione della solidarietà e di qualsiasi fattore di redistribuzione, all’individualizzazione del rapporto tra lavoratore e padrone, quindi alla radicale solitudine e impotenza di chi lavora. È una partita delicatissima, che il governo (basti pensare al Protocollo sul welfare) sta giocando con spregiudicatezza, avendo purtroppo optato per le posizioni dei padroni e di quella parte del sindacato favorevole a privilegiare la contrattazione aziendale per legare i salari ai rendimenti (peraltro difficilmente documentabili) delle imprese (il che – con la scusa di voler «premiare il merito» determinerà un’ulteriore radicalizzazione dello sfruttamento). E che anche il nostro partito rischia di affrontare malamente, con proposte improvvisate e mai discusse – dunque mai vagliate dagli organismi dirigenti – di detassazione degli aumenti contrattuali. Lo denunciamo qui con forza. Sono proposte sbagliate, che ci vedono contrari (condividiamo al riguardo il giudizio della Fiom) e che contrasteremo con forza in tutte le sedi. Tanto più – lo ripeto – che nessuno (nemmeno chi ne avrebbe il dovere, prima di parlare di questa materia nel nome del partito) si è preso la briga di porle in discussione, ascoltando obiezioni, perplessità e critiche.

    Una situazione difficile, dunque. Drammatica. Al cospetto della quale proviamo rabbia e indignazione ascoltando le parole irresponsabili del neo-segretario del Partito democratico che, pur di accreditarsi agli occhi del padronato e dei ceti moderati del Paese, non ha esitato a teorizzare l’equidistanza tra impresa e lavoro e a dichiarare che in fondo anche i padroni sono lavoratori «come tutti gli altri». Parole vergognose, che pesano come macigni non solo sulla personalità politica che reca la responsabilità di dirigere il più grande partito del Paese, ma anche su quanti hanno affidato a questa figura un compito di tale portata.
    Una situazione insostenibile, che non è pensabile possa protrarsi ancora. E per questo noi chiediamo con forza che la “verifica” di governo dia risposte concrete, immediate e adeguate a questa emergenza fatta di precarietà, povertà e insicurezza del lavoro. La “verifica”, in ragione della quale il gruppo dirigente del partito ha chiesto il rinvio del Congresso nazionale. Anche questo elemento teniamo ben presente, e riteniamo accresca la responsabilità di chi dirige il nostro partito. Quella “verifica” dev’esserci – sempre che il governo rimanga in carica – e dev’essere una cosa seria. Altrimenti la credibilità del nostro partito, già messa a dura prova in questo primo scorcio di legislatura, sarà davvero a rischio. E con essa si ridurrà drasticamente la nostra agibilità politica, la possibilità di fare davvero pesare le ragioni dei soggetti sociali che abbiamo l’ambizione e il compito di tutelare e rappresentare.

    Ma se l’attualità politica conta, evitiamo anche noi l’errore di schiacciare tutte le nostre valutazioni sull’immediata attualità. Una delle cause del disastro della sinistra italiana è che i gruppi dirigenti che l’hanno guidata in questa fase di transizione hanno come perduto ogni memoria, ogni capacità di pensare l’oggi sullo sfondo della durata storica. Non è possibile comprendere la condizione attuale del lavoro enucleandola dalla storia di quest’ultimo trentennio, nel corso del quale è venuta dispiegandosi la grande «rivoluzione passiva» neoliberista. Questa storia dobbiamo tenerla presente se vogliamo comprendere quanto sta accadendo anche in questi mesi. Perché questa storia – con buona pace di chi scambia i propri desideri per realtà e sfodera analisi ottimistiche (vi ricordate l’ipotesi della «grande riforma» che il nostro partito ventilò ancora alla vigilia delle elezioni politiche del 2006?) – dura ancora e provoca disastri in tutto e per tutto coerenti con il suo connotato regressivo. Vogliamo una prova? Oggi sul «Sole-24Ore» Cesare Romiti – al quale evidentemente le enormi responsabilità della sua impresa nella catastrofe ecologica della Campania non paiono ragion sufficiente per tacere – non si perita di invocare una «svolta traumatica» nella vicenda del governo del Paese. E sapete che cosa intende Romiti per «svolta traumatica»? Una svolta come quella impressa ai conflitti di lavoro dalla dirigenza Fiat dopo la marcia del 40mila. E che cosa fu, a sua volta, la marcia dei 40mila, se non il corrispettivo italiano dello sfondamento operato da Ronald Reagan qualche anno prima, nel 1981, contro le lotte dei controllori di volo? E del brutale scontro vinto dalla Thatcher contro i minatori, dopo il quale si ruppe l’argine della difesa operaia e cominciò il lungo inverno delle privatizzazioni, dei licenziamenti, delle lotte anti-sindacali, della precarietà del lavoro elevata a sistema?
    Non contento delle sue vittorie e di essersi arricchito in questi decenni alle spalle del lavoro e dell’economia nazionale, il padronato italiano ricorda con nostalgia quella stagione e accarezza il sogno di nuove «svolte» repressive. Dobbiamo saperlo, dobbiamo stare attenti, dobbiamo mobilitare tutta la nostra capacità di resistenza e di lotta.

    Questa vicenda e questa situazione dunque ci chiamano drammaticamente in causa, come chiamano in causa anche il sindacato. L’arretramento del movimento operaio e della sinistra di classe parla di un grave deficit di rappresentanza politica e sociale del lavoro in Italia, che è la nostra più grave responsabilità. Certo, noi abbiamo sempre cercato di fare la nostra parte, nel nostro impegno di partito e di movimento. E questa consapevolezza ci conforta. Ma alla fine dei conti importa il risultato, ben più che l’intenzione. E sul piano dei risultati non possiamo essere indulgenti con noi stessi. Dobbiamo dirci la verità, e la verità credo ci imponga una valutazione severa della nostra esperienza comune. Dicevo di un deficit di rappresentanza del lavoro. Questo deficit era già evidente nel ’91, quando demmo vita al Partito della Rifondazione comunista contro chi intendeva cancellare la presenza dei comunisti in Italia. Il fatto stesso che oggi siamo alle prese con questo stesso problema, in forme persino più gravi di allora, la dice lunga sul rapporto tra compiti e risorse soggettive. Certo, si trattava di un cimento gigantesco, che avrebbe richiesto ben altre forze politiche, intellettuali, organizzative. Ma il fatto resta. E lo viviamo ogni giorno con disagio, con sofferenza.
    Ciò nondimeno, qui stiamo, qui restiamo. I compiti che ci fronteggiano non ci intimoriscono, anche se ne riconosciamo l’enorme portata. Al contrario: dalla consapevolezza di non aver fatto sin qui abbastanza ricaviamo una rinnovata assunzione di impegno e di responsabilità.
    Noi, le compagne e i compagni di «Essere comunisti», ci siamo sempre battuti affinché i problemi del lavoro fossero la prima preoccupazione del partito. Oggi, alla vigilia di un Congresso che si annuncia cruciale per le sorti stesse del partito, rinnoviamo questo impegno con ancor maggiore determinazione, qui, in questa splendida festa dei comunisti che ricordano la nascita del loro partito in questa città 87 anni addietro.
    Che cosa significa che rinnoviamo il nostro impegno per il lavoro con più forte determinazione? Significa che ci batteremo con tutte le nostre forze perché non avvenga più che Rifondazione comunista dia anche solo l’impressione di subordinare ad altre considerazioni la difesa dei diritti del lavoro, a cominciare dal salario e da condizioni di sicurezza del lavoro e sul lavoro – senza mai dimenticare le ragioni delle lavoratrici e dei lavoratori precari e sotto-occupati, sempre più numerosi nel nostro Paese. Ma non solo. Il punto è politico. Perché coinvolge il tema della soggettività del lavoro, come soggetto autonomo, come attore protagonista della vicenda democratica del Paese e come vettore determinante dei processi di trasformazione. In una battuta semplice e difficilissima al tempo stesso: dobbiamo tornare ad essere in primo luogo il partito delle lavoratrici e dei lavoratori del nostro Paese. E per questo dobbiamo riuscire a penetrare nei luoghi di lavoro, nelle organizzazioni sindacali che mantengono ancora una prospettiva di classe e una cultura del conflitto, nel mondo della precarietà e del non-lavoro, nella dura realtà dei migranti che vengono in Italia, sfuggendo a guerra e miseria, per guadagnarsi con dignità il pane come capitò a tanti nostri concittadini in un passato non lontano ma che sembra vogliamo accantonare. È un compito difficile, lo sappiamo. Ma conoscendo le nostre compagne e i nostri compagni, conoscendo la loro determinazione, la loro passione politica di comunisti, credo che sia anche un compito possibile. Ad ogni modo faremo ogni sforzo per adempierlo!

    http://www.esserecomunisti.it/index....Articolo=21178

  6. #6
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    Meno male che mi avevi promesso un recoconto...questa è la treccani! :-)

  7. #7
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    sappi che da te esigo un parere, anche in pvt se non vuoi sbilanciarti

  8. #8
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    Assolutamente, ma ora sto seguendo il dibattito al Senato.

  9. #9
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    anch'io ma ora devo andare a prendere il bus, fammi un chiamo tra un pochetto che voglio un aggiornamento, ti adoro

  10. #10
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    Troppi morti,troppi infortuni,troppe malattie a causa del lavoro in fabbrica.

    E’ questo ormai un modo di dire popolare che si limita,però,a prendere atto semplicemente che sono “troppi” quasi a considerare “inevitabile” il problema.

    Ma se questa è, purtroppo, la drammatica situazione,và anche detto che è la registrazione del fallimento della Legge 626 del 1994,emanazione di una direttiva europea di qualche anno precedente che aveva la pretesa di risolvere il problema alla radice,affidandosi alla “concertazione “ fra le parti (lavoratori e padroni) per tutelare la salute psico-fisica nella applicazione dei principi costituzionali :

    ( articolo 32: la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e della collettività. articolo 35: la Repubblica tutela il lavoro. articolo 41:l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,alla libertà,alla dignità umana.).

    Ho voluto ricordare alcuni articoli della nostra Costituzione che dettano i principi su cui si dovrebbe basare non solo l’iniziativa legislativa ma anche i comportamenti dei cittadini e delle cittadine.

    E li ripropongo nella ricorrenza del 60° anniversario della promulgazione della Carta Fondamentale ed in modo particolare nel titolo che regola i rapporti etico-sociali.

    Quella parte della Costituzione che sempre di più molti uomini politici di destra e di centro vorrebbero RIFORMARE,naturalmente peggiorandola,perché ormai il termine RIFORMA è sinonimo di arretramento delle conquiste civili e democratiche del nostro Paese.

    Quando a prevalere è il profitto,la necessità per i capitalisti di valorizzare sempre di più il loro capitale,a qualunque costo,è chiaro che il costo per i lavoratori e lavoratrici dipendenti e per le loro famiglie è un costo non misurabile con il metro della moneta in quanto il valore della vita umana non ha prezzo.

    Oltre 1.000 morti all’anno significa circa 100.000 morti sul lavoro in questi 60 anni di vita repubblicana.

    Oltre 1 milione di infortuni sul lavoro vuol dire,sempre nello stesso periodo,almeno 60 milioni di infortuni e non è dato di sapere quanti/e sono morti/e o sono ammalati/e a causa del lavoro e delle mansioni svolte.

    La fabbrica fa paura?

    Si,quando si sà che non vi sono adeguati controlli,adeguate protezioni,una fattiva prevenzione,diritti sindacali e garanzie del proprio posto di lavoro,la “paura” è una delle condizioni umane più che naturali.

    Ma che fare,allora?

    Limitandoci al tema della tutela della salute e della vita nei luoghi di lavoro,occorre ripristinare il concetto che “la salute non si vende”,”non si monetizza”.

    Occorre quindi lottare per cambiare un intero sistema di relazioni sindacali che si è basato,in modo fallimentare a partire dall’inizio degli anni ’90,sulla cosiddetta “concertazione” che non è altro che l’abolizione del conflitto sociale fra capitale e lavoro.

    O meglio,ha favorito il capitale a discapito del lavoro.

    Gli scioperi,le lotte per migliorare le condizioni di lavoro,hanno costretto i padroni a fare investimenti di capitali freschi per migliorare gli impianti,i metodi di lavorazione,le misure di prevenzioni,i materiali impiegati nel ciclo produttivo.

    Quelle stesse lotte avevano creato un rapporto positivo con i settori progressisti della medicina,della giurisprudenza,della magistratura e del mondo degli intetellettuali,scrittori,attori,artisti di vario genere.

    Poi venne il periodo della riscossa padronale.

    In parte subita e in parte condivisa dai gruppi dirigenti dei sindacati ma anche di settori non marginali delle sinistre di allora (PCI e PSI)

    Abolita la scala mobile ,cambiato il sistema previdenziale,abolite le pause,aumentati gli orari di lavoro,sviluppato un forte decentramento produttivo (Ricordate lo slogan padronale “PICCO E’ BELLO”?) ,avviato il processo di smantellamento dell’industria pesante e delle Partecipazioni Statali e successivamente introdotto il precariato come rapporto di lavoro prevalente si è voluto costringere il movimento sindacale nei luoghi di lavoro ad abbandonare tematiche relative alla salute,ai diritti,all’organizzazione del lavoro,al controllo e contrattazione degli orari di lavoro di fatto,all’inquadramento professionale,alla formazione permanente (che fine hanno fatto le “150 ore”?) e concentrasi solo nella difesa o del posto di lavoro o del mantenimento del potere di acquisto,con quali risultati negativi è evidente ormai a tutti).

    Chi lotta contro i rischi di infortuni e di malattie professionali nei luoghi di lavoro è spesso lasciato solo dalle stesse organizzazioni sindacali.

    La strada della ripresa del conflitto è forse quella che intendono intraprendere le organizzazioni sindacali,in primo luogo la CGIL?.Non sembra.
    Anzi prevale la supremazia culturale della CISL.

    Voglio qui riprendere alcune considerazioni che faceva l’avvocato Dubini a Milano sabato scorso:

    Esiste un dato estremamente preoccupante sul quale nessuno si e' soffermato a riflettere,diceva l’avvocato Dubini.

    Mentre dibattiamo per migliorare la sicurezza del lavoro con i nuovi provvedimenti legislativi legati all'emanazione del Testo Unico e al contrasto del lavoro nero, l'articolo di Italia Oggi del 20 dicembre 2007 pagina 45, che riassume una conferenza congiunta Inps, Inail, Ministero del lavoro sull'attivita' di vigilanza sul lavoro aggiornata al 30 novembre 2007, attesta che gli ispettori del Ministero del Lavoro, Inps e Inail erano 2083 nel 2003 e sono 1356 al 30.11.2007, e che il numero delle ispezioni effettuate e' costantemente diminuito negli anni da 147.469 a 102.227 con la conseguente ovvia e correlata diminuzione in cifra assoluta delle situazioni iregolari accertate (mentre la percentuale di irregolarita' e' aumentata dal 59% all'80%).

    Contemporaneamente anche il numero totale dei tecnici della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di lavoro in servizio nelle ASL e' diminuito di 711 unita' negli anni dal 2001 al 2005 e continua costantemente a diminuire a causa del blocco delle assunzioni, provocando la paralisi delle attivita' in numerose ASL d'Italia per quanto riguarda l'attivita' ispettiva in materia di sicurezza e salute dei lavoratori

    Mi sembra,diceva ancora l’avvocato Dubini, una situazione indegna di un paese civile, ancor piu' dopo la tragedia della fonderia Thyssen Krupp di Torino, e in tal senso si dovrebbe rendere chiara la ragione di questo drastica riduzione dell'attvita' di vigilanza sulla regolarita' contributiva, retributiva e delle condizioni di lavoro.

    Inutile proclamare l'impegno per contrastare il lavoro nero e gli infortuni sul lavoro, quando vengono decimati gli organi ispettivi.

    E' chiaro che qui c'e' un problema gravissimo che deve essere tempestivamente affrontato da subito perche' il risultato effettivo della situazione indicata costituisce grave menomazione del diritto costituzionale dei lavoratori ad un lavoro salubre, sicuro e regolare, e un beneficio indubbio per chi utilizza lavoro nero e opera senza rispettare le norme di sicurezza e igiene del lavoro e di regolarita' contributiva e retributiva.

    La stessa cosa avviene con gli ispettori delle Asl, che a causa del blocco delle assunzioni nel pubblico impiego, sono diminuiti di centinaia di unita' negli ultimi anni.

    Non e' possibile far nulla,si domandava concludendo il suo intervento l’avvocato Dubini, per contrastare questo degrado continuo dell'attivita' di vigilanza?

    Oggi i temi della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro hanno valicato la soglia dell’industria manifatturiera e dei cantieri e sono arrivati, a causa delle nuove tecnologie,anche negli uffici, financo nei siti militari.

    Qui assistiamo a una carenza assoluta di controlli, di dispositivi di sicurezza.

    Le morti a causa dell’uranio impoverito, le malattie a causa del contatto con l’amianto sono un dato abbastanza costante che coinvolge il mondo militare.

    Ma a differenza degli altri lavoratori,pubblici e privati, i militari non possono denunciare un bel niente, perché verrebbero subito mandati al Tribunale militare con l’accusa di sedizione e di aver svelato segreti militari.

    Nei siti militari,nelle caserme, non possono entrare se non autorizzati né gli ispettori del lavoro né i medici del servizio di prevenzione delle ASL che sono anche ufficiali di polizia giudiziaria.

    Anche qui esiste tutto un movimento che silenziosamente,troppo silenziosamente ancora,rivendica diritti e democrazia,rivendica una democratizzazione delle strutture militari che ormai esiste in quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea.

    O per dire del fatto che i Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza,vengono in maggioranza nominati dai comandanti.

    E ancora,le autovetture delle varie polizie che circolano con gomme quasi liscie,con scarsità di freni, e lampadine non funzionanti.

    Con l’enorme quantità di soldi che si spendono per armamenti si potrebbero risolvere tantissimi dei problemi che attanagliano il nostro Paese, a partire dal rinnovo dei Contratti del Pubblico Impiego, aumentare le pensioni, rilanciare i settori pubblici dei servizi e dell’economia.

    Allora, a mio parere e concludo spetta ancora una volta ai/alle comunisti/e al PRC tutto,rimboccarsi le maniche e riorganizzarsi nei luoghi di lavoro per ricostruire quella coscienza sindacale e politica, per riportare una pratica concreta, un “saper fare” anche nell’attività sindacale, che è stata volutamente smantellata in questi anni per sostituirla con una bassa coscienza sindacale e politica di tipo inter-classista, che non individua nei padroni e nel sistema capitalistico la vera causa dei mali (disoccupazione,infortuni e malattie, basso potere di acquisto, aumento dell’età pensionabile,precarietà nei rapporti di lavoro,riduzione dello stato sociale,deficit pubblico,mobbing, discriminazioni retributive) ma che,appunto,individua nella “pacifica convivenza” “nella collaborazione di classe” il modo di essere “del moderno e democratico lavoratore del terzo millennio”come vorrebbe il PD di Veltroni, naturalmente i padroni e tanti saccenti editorialisti che dall’alto delle prime pagine dei giornali cosidetti “indipendenti” (indipendenti da chi??, se la grande maggioranza di essi sono lautamente finanziati da industriali, banchieri, immobiliaristi, tutti raggruppati da Confindustria, Confedilizia, Confcommercio,ABI eccetera) vorrebbero insegnare,dettare, le regole di come i lavoratori dovrebbero essere e vivere.
    Difficile? SI, come è sempre stato per i comunisti il loro agire: ma se le proposte,gli ideali,o progetti intercettano il sentire comune della base popolare a cui ci rivolgiamo,non lo sarà più di tanto.
    Certo, occorre lavorare, fare.
    E le condizioni a partire dai luoghi di lavoro ci sono ancora tutte.
    Nei giorni scorsi LIBERAZIONE ha pubblicato un’articolo sulla Confindustria,una delle organizzazioni del padronato privato ( e quindi mancano i dati della Confcommercio, Confagricoltura, Confedilizia, Associazione delle Banche e delle Assicurazioni e altre associazioni). E neppure sono ricompresse le strutture pubbliche e parapubbliche dello Stato e delle Amministrazioni locali.
    Ebbene i dati di Confindustria ci dicono che a quella associazione aderiscono 60 mila aziende con un totale di 1.600 mila addetti (che non sono la maggioranza dei lavoratori dipendenti, anzi)
    Di queste aziende,le medie imprese (100-500 addetti,quindi aziende rispettabili per le dimensioni occupazionali) sono oltre 2000 e occupano complessivamente 400 mila addetti.
    Poi vi sono altre 168 aziende medio-grandi, cioè con addetti che vanno da 500 a massimo mille, per un totale di 115 mila lavoratori dipendenti.
    Infine vi sono 122 aziende con più di mille dipendenti che occupano un totale di 350 mila lavoratori subordinati.
    Insomma,di materiale su cui lavorare per ricostruire, rilanciare e potenziare la nostra presenza organizzata nei luoghi di lavoro (circolo aziendale o interaziendale) c’è ne è a sufficienza,a mio parere: si tratta solo di cominciare la dove non si è mai fatto,ricominciare là dove si era iniziato e poi interrotto e potenziare il lavoro di organizzazione là dove si è continuato a farlo.

    http://www.esserecomunisti.it/index....Articolo=21197

 

 
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