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    Predefinito Le emozioni, la ragione e la realtà

    Le emozioni, la ragione e la realtà

    MARIO CALABRESI

    La distanza tra la parte razionale e quella emotiva del cervello certi giorni appare immensa e insormontabile. Soprattutto se una parte dei cittadini, dei giornalisti e dei politici usa soltanto la prima e una parte consistente degli elettori invece va alle urne guidata dalla seconda.

    Ieri mattina le analisi del voto e del successo della Lega, che in cinque anni ha raddoppiato i suoi consensi, parlavano di federalismo, di protesta e di voglia di rottura. Le motivazioni di chi ha scelto il partito di Umberto Bossi appaiono invece completamente diverse e si richiudevano in tre parole: serenità, normalità, sicurezza.

    Questa distanza di percezione e interpretazione ci racconta che anche in Italia politici e analisti fanno riferimento solo ad una parte della nostra mente, quella più fredda, razionale e calcolatrice, cadendo così in errore e restando spiazzati di fronte ai risultati elettorali. Prima delle ultime presidenziali americane, Drew Westen, noto professore di psicologia e consulente politico, lo ha spiegato in un libro di successo. I conservatori, sostiene, sanno fin dai tempi di Nixon e poi di Reagan che la politica è soprattutto una «questione di racconto».

    I progressisti, aggiunge Westen, hanno perso elezioni a ripetizione concentrandosi solo su questioni astratte e razionali, che non chiamano mai in causa cuore e pancia. Un candidato emergente di nome Barack Obama ha preso appunti e mettendo a frutto la lezione di Westen è riuscito a trasformare le tematiche più «cerebrali» in una «narrativa» capace di coinvolgere i suoi concittadini. E ha vinto.

    I leader della Lega probabilmente non conoscono il professore americano, ma istintivamente ne hanno messo in pratica gli insegnamenti, mentre gli esponenti del centrosinistra, pur guardando ad Obama come a un esempio mitico, ripetono regolarmente gli errori storici dei democratici americani.

    Il successo della Lega non penso sia figlio delle battaglie sul federalismo, o almeno non in modo preponderante in questa fase, ma nasce dalla voglia di dare il consenso a una formazione politica che viene vissuta come più prossima, più vicina e che parla un linguaggio di certo assai semplificato ma diretto e comprensibile. Difficile ignorare che i toni e le battaglie contro gli immigrati e l’integrazione hanno creato apprensioni e disagio in molti, così come appare irritante una semplificazione della realtà che tende ad identificare il diverso come ostile, ma leggere la vittoria di Bossi come uno scivolamento del Paese nel razzismo sarebbe ingannevole e non spiegherebbe cosa è successo.

    La risposta alle politiche leghiste non può ridursi alla demonizzazione e a un nuovo allarme per la calata dei barbari, ma dovrebbe partire da un impegno reale sul territorio. La sede della Lega a Torino, il luogo dove è stata festeggiata la conquista del Piemonte, si trova a Barriera di Milano, in una delle periferie più difficili della città e gli arredi si limitano a foto di militanti sui muri e ad una serie di sedie di plastica verde. La piccola carovana leghista che dopo le due del mattino si è spostata in una deserta piazza Castello, per festeggiare la presa del potere, appariva fuori posto nel centro della città sabauda. Ma questa è sembrata essere la sua forza.

    La prima volta che ho incontrato Roberto Cota gli ho chiesto di spiegarmi quali erano le prospettive politiche della Lega in Piemonte e lui mi ha risposto parlandomi per un quarto d’ora sui danni della grandine. Mi sembrava un marziano, ma i risultati della Lega nelle campagne del Cuneese come in quelle del Veneto ci dicono che anche lì c’era uno spazio vuoto che da tempo aspettava di essere riempito.

    La teoria del cervello emotivo calza alla perfezione anche con Berlusconi: dopo un anno di scandali, feste dei diciott’anni, escort, processi, leggi ad personam, scontri sulla televisione, è riuscito a tenere in piedi la sua maggioranza e a portarla ad un’altra vittoria. Ha visto un calo dei suoi voti, ma la politica di alleanze che ha messo in piedi 16 anni fa - con la Lega al Nord, con gli eredi della Dc e dell’Msi al Sud - ancora regge e il suo potere di seduzione non si è esaurito. Non è certo tutto merito suo, ma anche della stanchezza di un elettorato che non vede maggioranze o progetti alternativi capaci di spingere ad un cambio di direzione.

    La mancata sconfitta di Berlusconi, date le evidenze degli ultimi dieci mesi, dovrebbe allora farci pensare che quei temi che domenica scorsa Barbara Spinelli ci indicava come cruciali - le regole, la legalità, l’indipendenza dell’informazione e i diritti - siano inutili e non efficaci? Non rispondano a esigenze fondamentali? Nient’affatto, dovrebbero far parte del dna dei giornali, delle forze politiche, dovrebbero essere lo sfondo condiviso di una democrazia e sarebbe troppo pericoloso ignorarli. Ma forse dovremmo convincerci, una volta per tutte, che non possono essere i temi esclusivi di un programma elettorale e che da soli non sono capaci di dare la vittoria. La differenza la fanno la capacità di intercettare i bisogni, i desideri e le paure degli elettori e, facendosene carico, dare risposte concrete in un quadro che abbia come riferimento proprio le regole, la legalità e la separazione dei poteri.

    Non si può pensare che una battaglia, per quanto corretta e incisiva, sulle firme, sui timbri o sulle procedure di presentazione delle schede sia capace di invertire il risultato di un’elezione, di rispondere ai bisogni dei cittadini.

    L’avanzamento della Lega anche in Emilia e in Toscana ce lo ricorda, così come lo sottolineano gli inaspettati successi delle Liste Grillo. Mercedes Bresso - lo ha candidamente confessato l’altra notte di fronte alle telecamere - non immaginava neppure che potessero conquistare un voto. Non era la sola: i giornalisti al completo (noi compresi) le avevano sottovalutate nella stessa misura.

    Ma non sarebbe stato impossibile capirlo: sarebbe bastato leggere con attenzione i giornali che produciamo ogni giorno. Non le pagine politiche ma quelle di società, ambiente e costume, dove parliamo degli italiani che si muovono in bicicletta, che chiedono più piste ciclabili, più verde e aria pulita per i loro figli, che si preoccupano per l’effetto serra, che comprano equo e solidale, che riducono i consumi di carne, fanno attenzione a non sprecare acqua e usano Internet e i social network. Nessuna delle forze politiche tradizionali si è però preoccupata di intercettarli, di dare loro rappresentanza, tranne un comico che, non per caso, è stato premiato.

    Le emozioni, la ragione e la realtà - LASTAMPA.it
    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
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  2. #2
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    Predefinito Rif: Le emozioni, la ragione e la realtà

    31/3/2010 (7:28) - REPORTAGE

    Gazebo e sezioni, così la Lega sfonda nel "cuore rosso"
    Nel paese di Bersani il Carroccio primo partito. Aperta la breccia nelle roccaforti del vecchio Pci


    MICHELE BRAMBILLA
    INVIATO A BETTOLA (PIACENZA)

    Quando si dice che nessuno è profeta in patria. A Bettola, il paese natale di Pier Luigi Bersani, nelle prime elezioni con Bersani segretario del Pd la Lega diventa, per la prima volta, il primo partito: 34,3 per cento davanti a Pdl (29) e Pd (22). Non solo. Bettola è il comune dell’Emilia Romagna in cui Anna Maria Bernini, la candidata alla presidenza della regione per il centrodestra, ha preso più voti: 62,07. Non solo. Il comune appena qui sopra, Farini, è quello dove la Bernini ha realizzato il suo secondo miglior risultato di tutta l’Emilia: 61,43. Non solo. La Bernini ha vinto in tutta la provincia di Piacenza.

    Dobbiamo continuare? Sembra di infierire ma continuiamo. In provincia di Piacenza la Lega è arrivata al 22 per cento, raddoppiando i voti del 2005. A Bobbio, nella vallata accanto, l’anno scorso il Carroccio – correndo da solo contro Pdl-Udc e contro un redivivo Ulivo – ha vinto le elezioni comunali. Sempre l’anno scorso il candidato leghista di Bobbio, Roberto Pasquali, è passato con il 44 per cento dei voti e adesso è presidente del consiglio provinciale di Piacenza. Infine: a Bettola, che oltre che essere il paese natale di Bersani è anche medaglia d’argento della Resistenza, il sindaco – Simone Mazza, avvocato – è del Pdl e viene da An, ha vinto nel 2007 con il 78 per cento e in giunta c’è perfino un assessore (Loris Magnani) di Forza Nuova.

    Dati e fatti che, se profetizzati alcuni anni fa, sarebbero sembrati usciti dalla testa di un pazzo ubriaco. Com’è potuto succedere? Che ne è dell’Emilia rossa? Soprattutto: come ha potuto sfondare anche qui un movimento in cui si parlava solo in dialetto lombardo o veneto? Le risposte a volte hanno anche origini apparentemente minute. Ad esempio. In piazza Colombo incontriamo due signori che hanno deciso da un po’ di votare Lega. Guido Cavanna ci racconta: «Negli anni Novanta è crollato un pilone del ponte sul Nure, qui in paese. È stato chiuso per quattro anni, durante i quali eravamo costretti a fare un giro di mezz’ora di macchina». Antonio Mizzi aggiunge: «Quando l’hanno infine riparato, è costato quattro miliardi e mezzo di lire. Quello nuovo di Carmiano, qui vicino, è costato in totale un miliardo e 800 milioni ed è lungo cinquanta metri in più». Che cosa c’entra tutto questo con la débacle di Bersani in casa sua? «Bersani era presidente della Regione e poi ministro – ci rispondono i due – ci aspettavamo che facesse qualcosa per noi».

    Nasce da qui, dalla sensazione di un distacco dalla gente e dal territorio, la disaffezione di molti emiliani nei confronti della classe politica un tempo indiscussa e indiscutibile. La Lega qui vince perché dà una sensazione di radicamento, di attenzione, di presenza capillare. Non certo perché ci siano problemi di immigrazione. «Sì, ci sono un po’ di extracomunitari – ci dice il sindaco Simone Mazza –. Ma non c’è delinquenza».

    Bettola è un paese molto carino, alle pendici dell’Appennino; tremila abitanti, si vive di artigianato, piccole aziende, agricoltura, l’industria più grande ha una cinquantina di dipendenti. I leghisti non hanno neppure una sede: si ritrovano all’albergo Agnello. Il segretario della sezione Val Nure della Lega Nord (che comprende i comuni di Bettola, Farini e Ferriere) si chiama Luigi Fogliazza ed è il preside delle scuole d’infanzia, elementari e medie. Spiega: «Quando c’è il mercato qui in piazza facciamo i gazebo e offriamo anche un piccolo ristoro. Serve per ascoltare i problemi della gente, le piccole e grandi questioni da risolvere. Noi ci attiviamo, e loro capiscono che non viviamo in un mondo lontano. La differenza con Bersani sta tutta qui: lui ha fatto cose molto buone a livello nazionale, ma ha trascurato il territorio». Sono più o meno le stesse parole del presidente provinciale Roberto Pasquali: «Il nostro Appennino si sta impoverendo di persone, l’età media si alza. Bisogna cercare di aiutare questa gente, creare nuovi servizi. Ho l’impressione che Bersani trascuri. Questa era una zona rossa, ora sta cambiando tutto, un motivo ci sarà».

    Nessuno qui parla male dell’uomo Bersani. Ma lo si percepisce come espressione di una politica non solo vecchia, ma ormai staccata dalla realtà quotidiana, piccola o grande che sia. L’ex Pci ha lasciato un vuoto, che la Lega riempie proprio con la stessa meticolosa attività «a porta a porta» del vecchio Pci. Così in Emilia sta cambiando il referente sul territorio. Già da qualche tempo: «Nel 2001 – racconta Massimo Polledri, deputato leghista piacentino – Bersani si candidò a Fidenza perché a Piacenza, dove ho vinto io, che pure ero solo un oscuro segretario provinciale, non si sentiva sicuro. Adesso perderebbe anche a Fidenza, che nel 2009 abbiamo conquistato alle comunali».

    C’è una specie di sciame sismico politico, insomma, di cui il Piacentino non è che uno dei tanti epicentri. La Lega ormai è al 6,5 in Toscana; al 6,3 nelle Marche; al 4,3 in Umbria. Le zone rosse di una volta. L’Emilia è la più colpita da questo terremoto: «Quando sono diventato segretario regionale emiliano nove anni fa – dice l’onorevole leghista Angelo Alessandri – eravamo al 3 per cento. Nel 2006 siamo passati all’6,5. Nel 2008 all’8,5. Nel 2009 all’11. E adesso siamo al 13,6. Questi non sono più voti di protesta. La Lega è un treno che non si ferma più».

    Gazebo e sezioni, così la Lega sfonda nel "cuore rosso" - LASTAMPA.it
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  3. #3
    Si legge NUAR!!
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    Predefinito Rif: Le emozioni, la ragione e la realtà

    batte forte il cuore leghista di eridano
    l'italiano ha un tale culto per la furbizia che arriva persino all'ammirazione di chi se ne serve a suo danno.

    jesus died for somebody's sins but not mine

  4. #4
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    Predefinito Rif: Le emozioni, la ragione e la realtà

    Citazione Originariamente Scritto da Noir Visualizza Messaggio
    batte forte il cuore leghista di eridano
    Non leghista ma padanista.

    Occhio alle bucce di banana.
    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
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  5. #5
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    Predefinito Rif: Le emozioni, la ragione e la realtà

    E NEL CARTELLONE DELLO STABILE VA IN SCENA GIPO FARASSINO CON LE SUE CANZONI IN DIALETTO

    Un’apertura di credito a Cota nella città del Risorgimento
    La sorpresa delle élites torinesi. Debenedetti: il tabù è caduto


    TORINO — La prima è martedì prossimo, al Carignano. Nel teatro di Carlo Alberto, oggi diretto da Mario Martone, artista da sempre impegnato a sinistra, va in scena Staseira, «stasera» in piemontese. Show di Gipo Farassino: canzoni in dialetto, cabaret e sei ballerine. La caduta di Torino nelle mani della Lega non poteva trovare un simbolo più efficace. Gipo Farassino è stato a lungo il proconsole di Bossi a Torino. Anni ricchi per il Carroccio in tutto il Nord, tranne qui: nel ’93 il candidato sindaco Domenico Comino fu eliminato al primo turno, al ballottaggio andarono il comunista Novelli e il riformista Castellani.
    Oggi la Lega è tornata in Piemonte sulle percentuali, tra il 15 e il 20%, di quando Forza Italia e Berlusconi non c’erano ancora. La Regione che ha fatto l’Italia, e si appresta a celebrare i 150 anni dell’unificazione, sarà governata da un presidente che considera il Risorgimento un mito da riscrivere. Torino, la città degli azionisti e dei comunisti, la capitale dell’intellighentsia progressista — e dell’immigrazione meridionale —, si consegna al Cavaliere e alla Lega. E la Regione della Fiat si affida al partito che contro la Fiat conduce una polemica ultradecennale. Il partito di Mario Borghezio, sino a due mesi fa molto più conosciuto del vincitore Cota.
    Eppure le élites torinesi non sono né sorprese, né maldisposte. A parlare con grandi banchieri e manager, che chiedono sabauda riservatezza, si ricava l’impressione di un’apertura di credito a Cota. Conseguenza anche della fine di una stagione, segnata dall’egemonia culturale prima che politica della sinistra. E più d’uno vede nella Lega non soltanto il partito di raccolta del voto operaio — non a caso a Mirafiori Bersani è stato accolto con freddezza —, ma anche l’erede del vecchio Pci: sia per il controllo del territorio, sia per l’aspettativa del cambiamento.
    «Non c’è il tabù della Lega. Neanche qui a Torino—dice Franco Debenedetti, una vita tra Fiat e Olivetti prima di approdare al Senato —. Innanzitutto Cota è il meno leghista dei leghisti, il più governativo, il più istituzionale. Il moderatismo cattolico ha preferito affidarsi a lui piuttosto che alla Bresso, nonostante la scelta dell’Udc». Chiamparino, è l’opinione comune, avrebbe vinto. «Ma si sarebbe dovuto dimettere da sindaco, esponendosi a una figuraccia. La verità — sostiene Debenedetti — è che pure il Piemonte risente della tendenza nazionale. Per quanto possa sembrare incredibile, gli italiani credono ancora a Berlusconi. Il Pd non lo vogliono neppure dipinto. Con il Cavaliere, Torino è sempre stata freddina; proprio per questo le classi popolari hanno votato volentieri un leghista».
    Non tutti gli intellettuali però accettano la vittoria di Cota; o, meglio, denunciano le responsabilità della sinistra. Per Giovanni De Luna, storico del partito d’Azione, «oggi si consuma il fallimento di una classe dirigente che ha regalato una Regione a una banda di lanzichenecchi». Ieri sera, alla libreria di don Ciotti, De Luna presentava il carteggio tra Bobbio e Viglongo, incentrato proprio sull’identità piemontese. «Bobbio attribuiva grande importanza al dialetto, alle radici, alla cultura locale — spiega De Luna —. Ma non la concepiva come qualcosa di statico, di definitivo; anzi, per lui l’identità piemontese era fatta dall’accostamento dei contrasti, Gianduia e Alfieri, Gozzano e Gobetti. Oggi tutto questo è finito. Torino era l’altra Italia. Il fascismo la considerava una Vandea: comunisti, valdesi, ebrei, massoni; operai e imprenditori impossibili da domare. Un’Italia moralista, rigorosa, seria, distante dall’Italia profonda, cattolica, conservatrice. Oggi Torino è una città come tutte le altre».
    Su questo è difficile dissentire da De Luna. Un tempo Torino era tutta giallina. Oggi è coloratissima. La città non è mai stata così bella, nel vecchio quadrilatero romano già quartiere degradato si aprono enoteche, hammam, scuole di recitazione, si cena per strada già a marzo attaccati alle stufe a forma di fungo come nelle città turistiche, per tacere dello sballo dei Murazzi. Torino ha cambiato umore e abitudini. Certo pesa meno di un tempo, in termini demografici, economici, politici. «L’eredità del Novecento è arrivata miracolosamente fino a oggi. Ora non esiste più» dice De Luna. La città che all’inizio del secolo scorso era divisa, con il passaggio a livello che Bobbio bambino non aveva il permesso di valicare in bicicletta perché separava la Crocetta da Borgo San Paolo, il quartiere borghese dal quartiere operaio, si era contaminata. «Il lavoro, le sezioni di partito, il sindacato, la fabbrica fordista erano fattori di integrazione. Lo slogan era: “Alla catena di montaggio siamo tutti uguali”».
    La vittoria leghista, secondo De Luna, ha una sorta di antecedente nel 1980, l’anno della marcia dei 40 mila che mise fine alla stagione delle lotte operaie e segnò il ristabilirsi dell’ordine a Mirafiori. «Allora fu il sociale che si organizzò, indipendentemente dalla politica. L’unico politico che si presentò alla marcia, Biffi Gentili, fu fischiato e allontanato. E i 40 mila erano tutti piemontesi, parlavano dialetto, avevano mansioni più qualificate di quelle dei meridionali. Pure oggi la Lega è il sociale che si organizza, e torna a costruire compartimenti stagni, a separare ciò che era unito». Anche De Luna è un immigrato: arrivò alla scuola di Bobbio e Galante Garrone da Battipaglia. «I meridionali votano Lega perché ormai si sentono torinesi, al punto da partecipare ai funerali di Agnelli, ma nello stesso tempo vivono nei quartieri più duri, da San Salvario alle Vallette, dove è più stretta la contiguità con lo spaccio e la delinquenza, gli stereotipi razziali e la paura dell’altro. Che la sinistra, di fronte a una sconfitta culturale di tale portata, se la prenda con Beppe Grillo, è ridicolo ».
    «È vero, la lontananza della sinistra è evidente» dice Evelina Christillin, presidente del Teatro Stabile («ma Gipo Farassino era in cartellone molto prima che si sapesse della candidatura di Cota...» sorride lei) e donna- simbolo delle Olimpiadi 2006. «Ma eviterei di gridare ai barbari alle porte. L’eredità culturale della grande storia torinese per me non è morta: i 150 anni dell’unificazione sono molto sentiti in città, alle lezioni su Bobbio c’è la fila fuori dal teatro. Questo non impedisce ai piemontesi di votare una Lega che peraltro è cambiata, ha moderato il linguaggio, si è data una classe dirigente, rappresenta l’unica forza ancora attiva sul territorio». E il partito più critico verso la Fiat. «Ma Cota in campagna elettorale si è mosso con molta prudenza — racconta la Christillin —. Ci siamo trovati insieme a discutere di Fiat in tv, a Tetris, e Cota non si è unito alla polemica contro l’azienda assistita, anzi. Non a caso è andato a visitare lo stand Fiat a Ginevra, e ha proposto di riportare il Salone dell’Auto a Torino. La Bresso ha lavorato molto bene, e meritava di più. Ma la mia impressione è che il nuovo governatore sarà rispettoso della tradizione della città e anche del suo establishment».

    Aldo Cazzullo
    31 marzo 2010

    Un’apertura di credito a Cota nella città del Risorgimento - Elezioni Regionali - Politica - Corriere della Sera
    Ultima modifica di Eridano; 31-03-10 alle 12:35
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