di Raffaele Iannuzzi
Ogni volta che incontro Carlo Stagnaro, esponente del movimento libertario in salsa italiana, gli dico: “Carlo, io sono più libertario di quanto tu possa immaginare”. Non so perché ma sono convinto che Stagnaro interpreti questa mia uscita come una sorta di garbato risarcimento per tutte le volte che ho attaccato lui e i libertari in genere. Non è così. Il fatto è che anch’io, come moltissimi altri in questo benedetto e dannato Paese, possiamo dirci “libertari”, perché esserlo è a costo zero. E’ il famoso pasto gratis di cui i libertarians sanno quasi tutto. No allo Stato! Più mercato! Privatizziamo l’Alitalia! Le ronde padane sono venute prima di certi libertari nostrani con le agenzie private di sicurezza (vorrei vederle alla prova con gli attentati di Londra, con quell’11 settembre, di cui qualcuno scrisse: L’America se l’è cercata, era un libertario, se non erro, etc.). Roba da smercio facile, tutta pars destruens che funziona bene assai in questo giro di giostra italiota, inclusa l’antipolitica di turno, salvo poi convegnare con piacere sommo con tutti i politici di rango del Belpaese: bella l’Italia, anche quella dei libertari… Ecco perché anch’io sono “più libertario” di quanto Stagnaro possa immaginare. Che ci vuole?
Dopodiché riconosco, grato, il valore intellettuale di certe opere di Rothbard e leggo con piacere e profitto gli scritti della Rand e di Nock, tanto per fare due esempi di succulenti libertarians (e qui la reazione da setta indurrebbe i più “scafati” libertari de noantri a esclamare: la Rand! No! E’ minarchica! Meglio Hoppe, no, meglio Rothbard, ma poi c’è quel canadese…: dopo il marxismo e le sue sette, oggi abbiamo i libertari, questo è uno degli effetti del crollo del Muro di Berlino? Meditate gente, meditate…): eppure non ci siamo. E vengo al punctum dolens: Cofrancesco pone delle questioni gravi a Lottieri e il professore libertario, che ha scritto cose importanti che mi hanno aiutato a cogliere certi nodi della modernità, stavolta latita. Parte in quarta con la solita strategia retorica: perché non dovrebbe essere possibile che…Ovvio che è possibile: si può criticare a fondo la democrazia anche come forma in sé, sempre tenendo presente che in realtà l’oggetto delle critiche è lo Stato, di più la forma-Stato in quanto tale, di cui la democrazia è una propaggine e una concrezione dispotico-formale (“dispotismo legale”, avrebbe detto Merciére de la Riviére e, con lui, nientemeno che Althusser, lettore accanito di Montesquieu); si può, certo, e si può anche allargare la cerchia dei critici autorizzati della democrazia, includendo, indebitamente a mio avviso, Talmon. Si può tutto, ma non è una risposta a Cofrancesco, il quale domanda a Lottieri: se p, allora q, sii logico: se la democrazia è statalismo dispotico, allora qual è l’uscita storica da questa condizione? Perché, al fondo, questa è la domanda. Il resto è filologia al pari di quella marxiana, che mi sono sorbito quand’ero marxista ancora negli anni Ottanta: Marx sì, ma senza “Capitale”, “oltre Marx” con i “Grundrisse”, e nessuno o almeno pochissimi a riflettere sulle tragedia del comunismo realizzato di fatto, cioè dell’apice storico “da Marx al Gulag” (Pellicani). Qui rischiamo di replicare siffatto filologico furore ma senza interlocutori. La strada è quella effettuale, storica, logico-storica: dalla realtà alle forme di statualità ed alla democrazia. Ad esempio: leggendo seriamente Talmon, si capisce che il suo bersaglio polemico non è la democrazia in quanto tale, ma la deriva totalitaria della medesima a seguito dell’espansione della dimensione giacobino-statolatrica-dispotica. Qui in questione è il giacobinismo come forma mitica e storica insieme di ampliamento del dispotismo anche attraverso gli apparati formali ed istituzionali. Questo è il nodo vero. Di qui la cifra del messianismo politico immanente ad ogni forma di totalitarismo. Anche quello sedicente “democratico”, come le “democrazie popolari” e le esperienze così ammirate da Lukàcs delle democrazie a forte tasso di “socializzazione” (in sostanza: la società replica i comandi dello Stato perché non vuol diventare un dominio “borghese” dell’economia di mercato). Ma allora dobbiamo “complicare” per capire, se si fa di ogni erba un fascio è la notte in cui tutte le vacche sono nere e non si cava un ragno dal buco. Cofrancesco ha ragione: l’esperienza liberale è storicamente complessa e non è vero che si possa dire tutto e il contrario, è invece vero che si debba dire tutto ciò che sia sottoponibile a critica storica. Ripeto: l’effettualità storica è la guida della critica intellettuale. Invece Lottieri, come schematismo libertario dispone, produce idealtipi su idealtipi, cioè induce il primato dell’astratto sul concreto, finendo per lanciare una lunghissima sonda in avanti (ricordiamo l’approccio retorico iniziale: perché non si dovrebbe pensare che…): la conclusione del contributo di Lottieri è significativo: il futuro è aperto e “altre soluzioni”, che non sia quella democratica, sono possibili. Benissimo: quali? Silenzio totale. Lottieri ha scritto un bellissimo saggio, che cito spesso per la pars destruens di critica del dispotismo intellettuale anche di un certo democraticismo (che io non gradisco e che ho infatti sottoposto a critica proprio su una rivista libertaria, “Enclave”), in cui si propone di dimostrare che il libertarismo non sia un’utopia. Esito: nessuno. Il libertarismo appare come il marxismo rovesciato. Un costruttivismo alla rovescia. Il primato dell’ideale sul concreto storico. La pars construens è totalmente deficitaria. Di più: non si coglie neanche che le critiche alla democrazia sono già ammuffite quando giungono alla memoria dei libertari. Ha ragione Lottieri: non siamo solo noi a mettere in discussione la democrazia. Caspita! Che notizia! Certo che no: Mosca, Michels, Pareto, Gramsci, Lukàcs, Gentile, la scuola dell’organicismo tedesco, Weber, e potrei continuare per una pagina. E allora? Proprio la tenuta di strada della forma democratica dovrebbe indurre i costruttivisti libertari a non compiere l’operazione che compie improvvisamente Rothbard alla fine della sua “Etica della libertà”: elaborare una “strategia della libertà”. Un paradosso assoluto, corrispondente a chi ritenga come verità la massima hobbesiana “Auctoritas aut potestas non veritas facit legem”, siamo agli antipodi idealistici del libertarismo, ma la direzione di marcia metodologica è la medesima. Costruttivismo puro. Invece Mises, nel suo splendido saggio dedicato al liberalismo mette al bando qualsiasi forma di costruttivismo, in ciò allineandosi con von Hayek, incluse certe strategie politiche di libertà calata dall’alto. Forse è anche per questo che nel pensiero di Mises c’è posto anche per lo Stato, come ogni liberale sa. Rothbard, in quest’ultima sezione del suo saggio che contiene spunti anche magistrali, afferma: “Il libertarismo, dunque, è una filosofia che cerca una politica”. Dunque, stringe Rothbard, cerca una sua “strategia”, anzi, di più, per il pensatore libertario siffatta strategia sarebbe necessaria in quanto mai declinata (chissà perché, vien fatto di domandarsi…). Rothbard si infila in un ginepraio dal quale non esce fino al punto, anche un po’ penoso, in cui, corroborando la mia idea del settarismo libertario ormai non più in pectore, assevera con qualche malizia (a proposito: prima aveva chiarito che spetta al libertario spingere la comunità politica verso l’obiettivo più radicale, indovinate quale? Abolire lo Stato! Come a dire all’esercito: disarmati, roba incredibile): “Nella vita di qualsiasi movimento dedicato a un radicale cambiamento sociale nascono necessariamente, come hanno scoperto i marxisti (n.d.r.: appunto!), due tipi di “deviazioni” dalla corretta linea strategica (n.d.r.: che R., da buon “libertario” intende inculcare ai suoi discepoli, ovvio, no?!): l’ “opportunismo di destra” da un lato e il “settarismo di sinistra” (n.d.r.: Touché!) dall’altro. Queste deviazioni, spesso attraenti a prima vista, sono così rilevanti che di norma, nel corso del suo sviluppo, qualsiasi movimento è destinato prima o poi ad essere afflitto da una o da entrambe di esse. Tuttavia, la nostra teoria non può predeterminare quale tendenza trionferà in un movimento; il risultato dipenderà dalla visione strategica soggettiva che anima le persone che costituiscono il movimento. Tale risultato, quindi, è questione di libero arbitrio e di persuasione”. Dieci righe prima c’era la linea “corretta” da seguire, alla fine c’è il “libero arbitrio”: logica molto libertaria, sembra Feyerabend, “anything goes”, tutto è permesso, anche in logica. Bene. Queste citazioni e argomentazioni non vogliono costituire un attacco a priori alle teorie libertarie, ma vogliono raggiungere due obiettivi: 1) mostrare come i libertari siano costruttivisti alla rovescia, cioè marxisti del “free market”, teorici del terzo libro del “Capitale”, che oggi, non a caso piacciono molto anche a sinistra perché, dopo l’89, sono in perfetta linea per raccogliere le membra sparse con una casa accogliente e zeppa di stendardi amici; 2) fare un autentico scoop: Deleuze è come Rothbard, il quale somiglia molto all’altromondismo (infatti infuria assai il “benaltrismo”, cioè la questione è sempre un’altra…): Deleuze, in una splendida intervista del 1988-89 (appunto…), tutta riprodotta oggi in Dvd, rileggendo i significati decisivi a partire dalle lettere dell’alfabeto, giunto alla “G”, come “Gauche”, spara dritto: tutti sanno che le rivoluzioni falliscono, e allora? La sinistra ha un indirizzo postale diverso (sic!) dalla destra. Quest’ultima parte dall’individuo per arrivare alla famiglia, quindi allo Stato e infine al mondo. La Gauche pensa che vi sia prima di tutto l’”orizzonte” (quel che pensano oggi gli antagonisti dei movimenti, che infatti non hanno categorie sottoponibili a retta falsificazione: e chi lo falsifica un orizzonte?), cioè che i problemi dell’Africa siano più prossimi di quelli della mia ristretta famiglia. Tutto qua. La Gauche aspirerebbe alla politica (proprio come Rothbard), ma al governo non può starci, perché la macchina governativa, lo Stato, determina strettamente i criteri e le cose da fare, mentre il “divenire rivoluzionario” (il “movimento” chéz Rothbard) è permanente e trascende continuamente il presente e la politique politicienne. Deleuze come Rothbard e Rothbard come Deleuze. Non è uno scoop, questo? E non si dica ora che la “questione è un’altra”. Qui parliamo di “orizzonti”, dunque della stessa aria fritta.
L'Occidentale 22 Agosto 2007
Questo qua vi paragona ai marxisti, mica a persone qualunque. Comunque vi muove delle critiche; io non sono in grado di dire se e quanto siano consistenti o meno, lascio a voi la palla.