I due recenti articoli sulle cartolarizzazioni sull’Economist rappresentano una tentazione irresistibile per un rapido commento.
Il primo articolo è un bello studio empirico di quelli neoclassici “alla vecchia”. La tentazione degli econometristi mainstream è sempre quella: estrarre leggi teoriche da modelli matematici. Gli austriaci non ci cascano e mettono in guardia il positivista incallito: l’economia teorica è una cosa (le leggi dell’economia vanno costruite in maniera logico deduttiva), la statistica per interpretare i fatti della storia un’altra.

Fatto questo preambolo dovuto, ecco il succo dell’articolo (cito testualmente): “Behind the mushrooming supply of home loans lay the boom in securitisation”

Ora, questo non solo è falso, ma è anche uno splendido esempio del fatto che la presunzione di derivare affermazioni scientifiche dal risultato di correlazioni econometriche fa spesso prendere granchi imperiali. E’ ormai accettato da tutto il mondo con un minimo di ragionevolezza e buona fede (una dimensione che esclude Krugman, Stiglitz e Greenspan) che il boom creditizio è stato causato dall’aumento di offerta monetaria operato dalla Federal Reserve lungo gli ultimi due decenni. Ricordiamo che un’offerta monetaria lasca (bassi tassi d’interesse = cheap money) incoraggia la domanda di credito di coloro che altrimenti non se lo sarebbero potuti permettere (i clienti sub-marginali). Questi per definizione sono i più rischiosi, perché quelli a più alto rischio di insolvenze.

Ma ipotizziamo per un attimo che l’offerta monetaria fosse rimasta costante. L’avvento di strumenti finanziari avanzati (la cosiddetta structured-finance) ha portato strumenti per la gestione e il controllo del rischio quali ad esempio le cartolarizzazioni (nella forma di mortgage-backed securities –MBSs-, collateralized debt obligations –CDOs-, e structured investment vehicles -SIVs). Questi strumenti per definizione consentono di allargare la base dei crediti concessi perché appunto il rischio viene gestito più efficacemente. L’articolo sostiene che l’introduzione delle cartolarizzazioni allarga la base oltre il limite dei clienti marginali (quelli che che costituiscono la soglia di rischio di insolvenza). Qui sta il granchione: si tratta di una congettura tutta loro il fatto che questo limite viene varcato.

Chi compra credito cartolarizzato, deve essere cosciente di ciò che compra, esattamente come l’acquirente di un’auto di seconda mano. L’acquirente di titoli cartolarizzati è tipicamente un investitore istituzionale. Se questi acquista incoscientemente prodotti di dubbia rischiosità, non è certo colpa di una structured-finance da Repubblica delle banane. Tale acquirente avrebbe dovuto valutare con maggiore oculatezza l’acquisto tenendo conto dei vari indicatori di rischio. Se le informazioni relative al rischio sono ambigue o assenti (badate che qui sta il dibattito sulle cartolarizzazioni) è chiaro che l’acquisto diventa più rischioso, e quindi sconsigliabile. Ma ciò non rappresenta una giustificazione.

Ma chiediamoci come sarebbe possibile dare maggiore trasparenza. L’idea sarebbe quella di avere un’informazione tracciata fra un portafoglio di prestiti originali (fonte di uno flusso di entrate future soggette ad un determinato grado di rischio) e lo strumento finanziario che gli rimpacchetta (la cartolarizzazione). Sembra un problema abbastanza banale, no? Qual’è allora il motivo di tanto contendere fra i mercanti di …”cartolerie”?

Il problema sta a monte, cioè nel prestito stesso concepito in un regime di riserva frazionaria. Quando la banca concede un prestito in regime di riserva frazionaria, rompre il link fra prestito e valore del sottostante. A questo punto il valore del prestito diventa volatile, succube delle fluttuazioni della moneta e fragile alle distorsioni del regime istituzionale bancario in qui questo si trova a galleggiare. Poi il prestito viene risucchiato in una cartolarizzazione e rivenduto mescolato assieme ad altri debiti con diversi gradi di rischio. Non e’ possibile ricostruire a ritroso il valore effettivo del pacchetto cartolarizzato. Ecco perché quando arriva il credit crunch, nessuno, neppure chi ha tre master in Ingegneria Finanziaria a Berkeley, è in grado di valutarne il valore.

La riserva frazionaria ha nel ciclo economico austriaco un meccanismo di compensazione. La crescita insostenibile, dopo aver percorso l’intera struttura produttiva, arriva al suo culmine per poi sgonfiarsi durante il sano periodo di recessione. Nel ciclo austriaco tradizionale sono le banche che hanno concesso il credito ai clienti sub-marginali (probabili luoghi di malinvestment) che subiranno le conseguenze del “bust”. Ma con le cartolarizzazioni, tale conseguenze vengono trasmesse a tutti coloro che hanno comprato e detengono gli strumenti finanziari che derivano da tale credito.

Possiamo ora rilassare l’ipotesi introdotta in precedenza e reintrodurre la “turbolenza” indotta dall’inflazione monetaria prodotta dalla banca centrale. La moneta si fa più economica, la base si allarga (ora si!) ai potenziali creditori sub-marginali, aumentando il rischio e mettendo quindi in moto la ricetta per le future insolvenze ed i futuri default.

In conclusione, le cartolarizzazioni non sono il problema, sono strumenti venduti volontariamente fra privati in regime di rispetto dei contratti. Il problema è la presenza della riserva frazionaria alla base della pila del credito; la sua presenza porta a due gravi conseguenze:

1. rompe la connessione fra riserve reali e stratificazione del credito rendendo impossibile il calcolo del valore degli strumenti ottenuti dall’operazione di cartolarizzazione
2. la purga della recessione, una volta che questa arriva, coinvolge non i prestatori che hanno concesso il credito che causa malinvestment, ma coloro che hanno comprato strumenti finanziari che derivano da una cartolarizzazione di tale credito.

ps: per completezza, ecco il secondo articolo.

Massimiliano Neri

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