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  1. #1
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    Filmato della fucilazione Aschieri, Palesse, Tedeschi 30/4/1944

    Santa Maria Capua Vetere 30 aprile 1944
    fucilazione di Franco Aschieri studente liceale milanese paracadutista RSI, Italo Palesse 22 anni operaio de L'Aquila, Vincenzo Tedeschi 19 anni di Napoli.

    Per vedere il filmato

    mms://media.fastweb.it/WM9/raiclick/FMVRAI04000001005087.wmv?idCnt=5528&path=RaiClickW eb^Storie^Home

    altrimenti cliccare su Combat Film al sito:
    http://www.raiclicktv.it/raiclickpc/...llo.srv?id=156

  2. #2
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    Clamorosa «beffa» a Brescia a un convegno sulla Resistenza
    Un giovane missino ha letto all'assemblea levatasi in piedi e che l'applaudiva,
    l'ultima lettera di un caduto della RSI

    Un clamoroso episodio si è verificato nel corso del convegno regionale sulla "Resistenza e scuola", che si è svolto alla Camera di commercio di Brescia, organizzato dalle autorità locali e da un apposito comitato comprendente esponenti dei vari partiti politici, alla presenza del sottosegretario agli esteri on. Pedini. Nel corso del convegno uno studente universitario, che si era iscritto come altri suoi coetanei a parlare, è andato al microfono ed ha dichiarato che sentiva il dovere piuttosto che di usare molte e inutili parole, di leggere «l'ultima lettera di un martire della seconda guerra mondiale». Quindi ha invitato l'assemblea ad ascoltare in piedi la lettura del documento; e così tutti si sono alzati in piedi e hanno ascoltato in silenzio.
    Era l'ultima missiva inviata da un giovane ufficiale condannato a morte alla madre. Alla fine un commosso, scrosciante applauso è partito dagli astanti; ma a questo punto il giovane universitario, che si chiama Ezio Torchiani, ed è segretario del gruppo giovanile del MSI di Brescia, riprendendo la parola ha esclamato: «Quella che avete applaudito, è la lettera del diciottenne Franco Aschieri, volontario della Repubblica sociale, fucilato a Santa Maria Capua a Vetere nel 1944». Sbalordimento sul podio mentre buona parte degli studenti presenti al convegno prolungavano polemicamente i loro applausi. Lo sconcerto fra i rappresentanti ufficiali della «resistenza» lombarda è stato grande. Nessuno infatti si aspettava un colpo a sorpresa del genere, tanto più che sino a quel momento il convegno si era svolto secondo l'ordine prestabilito, con l'intervento di relatori che avevano dato della Resistenza stessa varie interpretazioni in senso storico, sociologico, militare svolgendo temi a senso unico che avevano prodotto -sia detto senza offesa per nessuno- una sorta di stato soporifero nell'assemblea.
    La commovente lettera di Franco Aschieri alla madre prima di venire fucilato, ha avuto l'effetto di uno choc. Se in quel momento fosse scoppiata nella sala dove si svolgeva il convegno una bomba, la reazione sarebbe stata la medesima. C'è stato un battibecco fra gli studenti ed alcuni esponenti di sinistra, si è avuto qualche isolato tafferuglio.
    Così si è concluso il convegno "Resistenza e scuola". Le cronache «ufficiali», naturalmente, non hanno dato alcuna notizia dell'episodio, che però, risaputo in città, è stato molto commentato. Franco Aschieri il giovane fucilato, faceva parte del gruppo dei «fazzoletti bianchi», una sezione del Servizio Segreto della Repubblica sociale italiana che agiva al di là delle linee americane in operazioni di sabotaggio. Aveva 18 anni. Catturato in Campania venne processato e condannato a morte e fucilato insieme a molti altri giovani della RSI da un plotone di «MP» americani in una cava di pozzolani presso Santa Maria Capua a Vetere.

    (pubblicato anche da "il Tempo", 17-4-70)

  3. #3
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    http://www.italia-rsi.org/farsiservs...licapuavet.htm



    La lapide posta a Sant'Angelo in Formis, a ricordo dei 13 giovani volontari della RSI fucilati dagli angloamericani, porta scritte le seguenti parole: "Nel gigantesco scontro del "sangue contro l'oro" qui, tra Gennaio e Maggio del 1944, nella visione di una più grande Italia in un'Europa unita, caddero fucilati dagli invasori angloamericani, i giovani soldati della RSI.

  4. #4
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    «SABOTATORI» DELLA RSI FUCILATI DAGLI ALLEATI Furono trattati come spie degne di disprezzo e presto furono dimenticati: in realtà furono dei puri eroi
    Filippo Giannini


    Nell'estate 1944 aerei angloamericani, insieme alle bombe, lanciarono dei «volantini» che annunciavano l'avvenuta esecuzione di giovani «sabotatori» appartenenti ai «Reparti Speciali» della RSI.
    Insieme alla logica del «bombardamento a tappeto», il lancio di questi «volantini», rientrava nella tecnica alleata della «guerra del terrore».
    Infatti il padre di uno di questi giovani (Alfonso Guadagno) apprese in questo modo incivile l'avvenuta esecuzione del figlio. Interessante, dal punto di vista storico, il testo di questi «manifestini», da uno dei quali ne stralciamo una parte. Su un lato del foglio erano stampate le foto dei giovani giustiziati, sul retro venivano indicati i loro nomi, il luogo e la data di nascita. Il testo così continuava:
    «Prima di loro altre spie sono state passate per le armi, benché nei loro casi non furono buttati manifestini. Inoltre, altri ancora sono stati già catturati e finiranno davanti ai plotoni d'esecuzione alleati (... ) Ma gli Alleati non possono essere generosi in casi di tale gravità. La legge internazionale ammette la pena di morte quale punizione dei reati di spionaggio e sabotaggio. Le Nazioni Unite intendono applicare questa legge (... )».
    Il messaggio continua con altre minacce rivolte a quei giovani che avessero voluto seguire l'esempio dei catturati e candidati alla fucilazione.
    La «legge internazionale», alla quale gli Alleati nel loro «volantino» fanno riferimento, è quella dell'Aja, aggiornata poi con quella di Ginevra: «(Art. 4) Gli illegittimi combattenti vengono dovunque perseguiti con pene severissime e sono generalmente sottoposti alla pena capitale. Nella guerra terrestre i franchi tiratori che operano nelle retrovie nemiche, infiltrandosi alla spicciolata sotto mentite spoglie, vengono passati per le armi in caso di cattura, lo stesso dicasi per i sabotatori».
    Quindi, quei giovani appartenenti ai «Reparti Speciali» della RSI, se catturati dagli Alleati «sotto mentite spoglie» (non in uniforme regolamentare) erano passibili della pena di morte. E nulla abbiamo da eccepire su tutto ciò. Solo una rapida e semplice considerazione: passibili della stessa pena, perché il reato era identico, lo erano anche «i partigiani» nella RSI. In realtà il governo della RSI agì con moderazione, perché la gran parte dei franchi tiratori fu rinchiusa in prigione (i più pericolosi considerati ostaggi a difesa di attentati), molti altri, dietro loro richiesta e previo formale impegno a non nuocere più alle Unità della RSI, venivano inviati come «lavoratori militarizzati» nei «Battaglioni Complementi». Nella maggioranza dei casi, questi mantennero il loro impegno sino alla fine delle ostilità.
    Dopo il disastro dell'8 settembre '43, la resistenza contro le forze occupanti angloamericane, nel Sud d'Italia, fu condotta da elementi fascisti. Queste erano piccole formazioni clandestine che operavano isolatamente, ma delle quali sarà opportuno fare la storia.
    Nel Nord, in seno alla nascente RSI, si formarono «Servizi Speciali», nei quali operavano giovani volontari, di entrambi i sessi che, superato il periodo d'addestramento, venivano paracadutati o sbarcati da sommergibili o, ancor più semplicemente (ma audacemente) attraversavano le linee del fronte per operare con azioni di sabotaggio e raccolta di informazioni. Il loro numero era di circa 4000 volontari e di questi, tra i 70 e i 100, furono catturati e passati per le armi.
    La testimonianza di coloro che furono accanto a questi giovani negli ultimi istanti della loro breve vita, può offrire un quadro della fine stoica di alcuni di loro.
    In questi anni di grande confusione morale è bene ricordare che quei ragazzi, come vedremo, provenivano da ogni regione d'Italia, dal Nord al «profondo» Sud.
    I primi:
    Mauro Bertoli nato a Massa Apuania il 23 giugno 1925 e Luigi Cancellieri nato a Monteroni di Lecce l'l1 gennaio 1925. Entrambi reagirono con sdegno all'armistizio dell'8 settembre e presentatisi alle autorità della RSI, espressero il desiderio di essere arruolati nei «Servizi Speciali» dell'Esercito repubblicano. Iniziarono immediatamente le missioni loro assegnate. Nell'ultima di queste, furono catturati dagli inglesi nel dicembre 1943. Sottoposti a sevizie non rivelarono nulla che potesse compromettere le missioni degli altri componenti del loro «Gruppo».
    La mattina del 21 gennaio 1944 vennero caricati su un camion e trasportati sul luogo dell'esecuzione, in una cava di S. Angelo in Formis. Così don Nacca, parroco di S. Erasmo, che li assistette sino all'ultimo, li ricorda:
    «I supremi valori della fede cattolica furono per essi il viatico sicuro per affrontare sereni e coscienti la realtà ultraterrena (un'ora prima della morte essi consumarono il pranzo rituale con un tal senso di giovialità da far pensare a me che tra la vita terrena e quella celeste per essi non c’era alcun distacco(...). Il Duce era per essi qualcosa di sacro e perciò meritorio della loro immolazione. Ricevuto l'ordine di uscire di cella per essere tradotti al posto dell'esecuzione, mi raccomandarono ancora una volta: - Padre, dica alle nostre mamme che il nostro cuore non morirà, ma sarà sempre vivo e bruciante d'amore per esse (...). Affrontarono la morte senza scomporsi, con la fronte alta e senza paura (...)».
    Marino Canteli, nato a S. Giovanni in Persiceto (Bo) il 21 giugno 1922 ed Enrico Menicocci, nato a Marsiglia il 19 marzo 1924.
    Dopo la cattura, gli interrogatori e il giudizio, furono condotti anche loro, il 16 aprile 1944, nelle cave di S. Angelo in Formis. Don Umberto Piccirillo, parroco di Portico, lasciò questa testimonianza:
    «Il 16 aprile 1944 Monsignor Beccarini, arcivescovo di Capua, mi ordinò di recarmi nel carcere di S. Maria Capua Vetere per portare la parola di conforto ai giovani fascisti, Cantelli e Menicocci, ambedue condannati a morte nel marzo '44 (...). Un nodo mi stringeva la gola. Dopo quasi otto mesi mi trovavo di nuovo dinanzi ai rappresentanti della vera Patria che dagli invasori venivano considerati come traditori, ma dalla gente bennata erano considerati come veri e degni figli d'Italia. Li abbracciai in carcere e li confessai. (... ) Alle ore 9,45 siamo usciti dalle celle. Nel carcere, per ogni dove, si sentivano le grida degli altri carcerati che piangevano per la triste sorte dei loro fratelli (...). Alla cava di pietra, ai due paletti già pronti, furono legati con una fune. Una benda copriva i loro occhi ed un mirino venne posto sul loro cuore. I giovani avrebbero voluto essere liberati dalle bende per guardare ancora una volta, come essi dicevano, in faccia i loro giustizieri, perdonarli forse e morire, ancora una volta guardando e salutando il bel cielo d'Italia, per la quale avevano tanto sofferto e lottato».
    Una scarica di otto fucili li fulminò all'istante».
    Il 30 aprile 1944 fu la volta di:
    Italo Palesse, nato a Cavalletto d'Ocre (Aq) il 10 ottobre 1921; Franco Aschieri, nato a Milano il 26 aprile 1926; Mario Tapoli, nato a Roma il 4 giugno 1925; Vincenzo Tedesco, nato a Napoli il 14 aprile 1925.
    Di questo gruppo, Italo Palesse, a seguito di una recente trasmissione televisiva (Combat Movie), è noto perché su di lui si scagliò una menzogna comunista, poi smascherata.
    Franco Aschieri, figlio di un noto architetto, quando fu catturato, essendo poco più che diciassettenne, fu portato in un campo di prigionia algerino, poi, appena compiuti i diciotto anni, riportato in Italia per essere fucilato.
    Ecco come li ricorda don Giuseppe Ferriero in uno stralcio delle sue memorie:
    «Li trovai che cantavano. Appena mi videro stettero zitti, e quando il cancello di ferro si aprì, mi si strinsero intorno... Il milanese e il romano erano biondi, quello di Aquila bruno, robusto, con un'aquila sul petto; il napoletano bassotto con i calzoni da ufficiale (...). Un militare della M.P. mi disse che avevo altri due minuti di tempo. - Siamo già pronti - fu la risposta. Li volli accompagnare sul luogo del supplizio... Uscii con due di loro fra quattro M.P. americani armati. Il pianto dei carcerati ci accolse alla uscita del corridoio (...). I due, il romano, studente in medicina, e il napoletano risposero inneggiando all'Italia fascista (...). Arrivammo. Due pali in una partita di grano verde, dietro una cava di pozzolana (...). Eccoli vicino al palo, il romano si toglie la camicia. Mi dice che non vuol farsela bucare. Gli legano le mani. E’ sorridente (...). Passo al napoletano, sorridente, bruno, carino. Mi raccomandano le lettere che hanno scritto ai loro cari (...) . Due soldati caricano i dodici moschetti. Un comando secco; puntano il fucile; un terzo comando ancora; parte la raffica. Vidi cadere i cari giovani, mi avvicinai a loro recitando tre Requiem e un De Profundis per ciascuno (...) Si vanno a rilevare gli altri due, che arrivano alle 11,45. Appena mi vedono mi sorridono; hanno trovato un viso amico che è lì per confortarli. Quello di Aquila si toglie anche lui la camicia. Lo legano, desidera una sigaretta (...). Mentre lo legano, il milanese grida tre volte: - Viva il Duce - e l'altro risponde: - Viva - E ancora: - Dio stramaledica gli inglesi! - Io lo guardo e lui capisce: avevo detto loro di non odiare il nemico. Poi i soliti comandi secchi. Li vidi piegarsi pian piano. Ascoltai il loro rantolo: i colpi non erano stati precisi come la prima volta. Che strazio al mio cuore (...)».
    Per la notevole carica di spiritualità contenuta nell'ultima lettera scritta da Franco Aschieri alla madre, è doveroso citare, almeno, i passi più toccanti:
    «Cara mamma, con l'animo pienamente sereno mi preparo a lasciare questa vita che per me è stata così breve e nello stesso tempo così piena e densa di esperienze sensazionali (...). Ti prego, mamma, fa che il mio distacco da questa vita non sia accompagnato da lacrime, ma sia allietato dalla gioia serena di quegli animi eletti che sono consapevoli del significato di questo trapasso. Ieri, dopo che mi è stata comunicata la notizia, mi sono disteso sul letto ed ho provato una sensazione che avevo già conosciuta da bambino: ho sentito cioè che il mio spirito si riempiva di forza e si estendeva fino a divenire immenso (...). Non ho alcun risentimento per coloro che stanno per uccidermi perché so che non sono che degli strumenti scelti da Dio (...). Io resterò vicino a te per sostenerti e aiutarti finché non verrai a raggiungermi; perché sono certo che i nostri spiriti continueranno insieme il loro cammino di redenzione (...). In questo momento sono lì da te e ti bacio per l'ultima volta, e con te papà e tutti gli altri cari che lascio. Cara mamma termino la lettera perché il tempo dei condannati a morte è contato fino al secondo. Sono contento della morte che mi è destinata perché è una delle più belle, essendo legata ad un sacro ideale. Io cado ucciso in questa immensa battaglia per la salvezza dello spirito e della civiltà, ma so che altri continueranno la lotta per la vittoria che la Giustizia non può che assegnare a noi. Viva il fascismo. Viva l'Europa. Franco».
    Il 6 maggio 1944, a S. Maria Capua Vetere furono portati davanti al plotone d'esecuzione:
    Alfredo Calligaro, nato a Campolongo (Ud) il 16 agosto 1918; Domenico Donnini, nato a Urbania (Ps) il 19 febbraio 1919; Virgilio Scarpellini, nato a Ronica (Bg) il 22 gennaio 1925 e Giulio Sebastianelli, nato a Cupramontana (An) il 13 agosto 1915.
    Anche il «Comitato per le Onoranze ai Caduti della RSI» di S. Angelo in Formis (come più avanti avremo modo di ricordare), nulla sa dei primi due, ma è accertato che tutti appartenevano alla Xa MAS.
    Di Virgilio Scarpellini si sa che dopo varie missioni, svolte con esito positivo, l'ultima affidata riguardava la polveriera di Aversa. Scarpellini riuscì a far saltare il deposito ma, mentre tentava di raggiungere il sommergibile che lo avrebbe riportato nelle proprie linee, fu catturato.
    Gli Alleati tentarono per 18 giorni di farlo parlare, ma non riuscirono ad infrangere la ferma decisione del giovane. Portato davanti al plotone d'esecuzione, accompagnato da don Alfredo Contini (che dopo pochi giorni morì) intonò l'Ave Maria di Schubert. Al momento del «nunc et in hora mortis nostrae» fu fulminato dalla scarica di dodici moschetti.
    L'ultima lettera fu inviata ai fratelli:
    «Muoio con l'animo tranquillo perché ho la coscienza di aver dato tutto, con slancio e devozione, alla mia Patria, che ho amato più di me stesso, della mia famiglia e, forse, di Dio. Fratelli cari, non maledite la mia idea né il mio gesto: ho fatto quello che ogni italiano aveva il dovere di fare (...)».
    Ed ora un fatto che disonora l'etica militare degli Alleati: essi requisivano, per svolgere i loro interrogatori, alcune villette isolate nei pressi di Napoli. Qui essi usavano torturare i giovani dei «Servizi Speciali» che cadevano nelle loro mani. Paolo Poletti, nato a Firenze il 26 ottobre 1919, subì sevizie tanto atroci che impazzì. I1 giovane fu ammanettato e rinchiuso in cella, ma urlava in continuazione, si strappava i vestiti di dosso, si graffiava. Gli americani escogitarono la soluzione «Yankee»: un giorno il Poletti, sempre in preda al delirio, poggiò le mani contro la porta della cella che «stranamente era stata dimenticata socchiusa». Il povero giovane, sempre urlando, uscì nel corridoio ingiuriando la guardia, la quale gli scaricò contro la sua pistola d'ordinanza. Il tentativo di fuga fu la giustificazione per eliminare un testimone pericoloso. Il suo corpo fu portato di nuovo in cella ove rimase per due giorni; dopodiché fu «pigiato con forza» in una cassa troppo stretta per contenere agevolmente la sua taglia.
    Alfonso Guadagni, nato ad Afragola (Na) il 7 aprile 1925; Ennio Viviani, nato a Verona il 18 settembre 1926 e Vito Bertolozzi, luogo e data di nascita ignoti per questi due ultimi, ma tutti e tre furono fucilati il 31 maggio 1944 a Nisida. Andarono alla morte con ammirevole dignità. Ennio Viviani, data la sua giovane età non avrebbe dovuto essere portato davanti al plotone d'esecuzione. Condotto nel luogo del martirio «morì cantando gli inni della Patria e inneggiando al Duce».
    21 giugno 1944 a Nisida è la volta di Pietro Brambilia, nato a Milano l'l1 dicembre 1916: «Pregò e si fece legare al palo, affrontando la morte con coraggio e con spirito di sacrificio».
    Silvio Bartolini, nato a Piacenza il 29 gennaio 1920, venne fucilato il 24 agosto 1944. «Fatto sedere incappucciato su una sedia morì gridando Viva l'Italia».
    Carmelo Fiandro [*1 nota di italia-rsi], fucilato insieme ad altri tre; si ignorano i nomi di questi ultimi e il luogo dell'esecuzione.
    I Caduti sopra citati, riguardano i fucilati nell'Italia centro meridionale. Ma man mano che il fronte si spostava verso Nord, l'attività dei Servizi Speciali si ripeteva quasi senza soluzione di continuità, quindi la cattura e, purtroppo, le esecuzioni.
    Il 26 novembre 1944 alle Cave di Majano (Fi) venne fucilato Ruy Blas Biagi. Sempre a Firenze, il 6 dicembre 1944, Luigi Piras e Franco Berselli. L'l1 gennaio 1945 fu la volta di Angelo Lencioni. Mario Martinelli e Giuseppe Boni furono fucilati il 30 gennaio 1945. Goffredo Agostini, Raffaele Venturini e Giorgio Simino caddero il 14 febbraio 1945. Domenico Muscatiello e Ermete Benvenuti vennero fucilati alla vigilia di Pasqua pochi giorni prima della fine della guerra.

    Roma 1944. I fascisti Sabelli e Testorio condannati per attività clandestina, salutano romanamente il plotone d'esecuzione britannico [*2 nota di italia-rsi]. E' interessante sapere che nei primissimi mesi del 1998 l'apertura di archivi dei servizi speciali britannici ha rivelato che nell'immediato dopoguerra agenti inglesi, fuori dalle regole internazionali, continuarono a cercare e ad uccidere i comandanti tedeschi ritenuti responsabili della fucilazione di agenti britannici infiltratisi in Germania e scoperti.

    NOTE di italia-rsi:
    [*1 nota di italia-rsi] Nella sezione Cyberamanuensi della antologia italia-rsi abbiamo raccolto una memoria di un familiare del Caduto Carmelo Fiandro che riporta la relazione (completa di altri nomi) scritta dal sacerdote che seguì la vicenda e che la famiglia Fiandro ha ricevuto, al Cairo, dopo un anno dall'accaduto:
    memoria sul Caduto Carmelo Fiandro
    [*2 nota di italia-rsi]
    Purtroppo siamo stati successivamente informati che il plotone di fucilazione dei giovani Sabelli e Testorio, rivestito con le divise dell'invasore, era composto da italiani delle truppe collaborazioniste dell'esercito degli Alleati.

    Franco Sabelli e Armando Testorio entrambi romani furono gli ultimi ad affrontare il plotone d'esecuzione. L'8 settembre '43 non accettarono la resa e si arruolarono nelle SS. Quando Roma cadde sotto l'occupazione alleata, i due restarono in città per svolgere azioni di disturbo e trasmettere informazioni. Identificati, furono condannati a morte e fucilati il 26 giugno 1945. L'esecuzione avvenne a Forte Bravetta; prima della scarica mortale alzarono il braccio al saluto romano e intonarono «Giovinezza». Questo fatto, già di per sé drammatico, si arricchì di un altro episodio sublime: poche ore dopo l'esecuzione, la giovane moglie di Testorio, Nella, si uccise gettandosi da una finestra della sua abitazione. Sul suo corpo venne trovata una lettera il cui testo riportiamo integralmente:
    «Il 26 giugno 1945. Raggiungo mio marito al di là. Mai più nessuno potrà fucilarmelo, mai più nessuno potrà dividerci: in ciò i signori comunisti sono impotenti. E voi, ministro Togliatti, che fino all'ultimo siete voluto essere vigliacco, come tutti i vostri degni compagni, allungando inutilmente lo spasimo di due vite che vivevano l'una per l'altra, possiate essere maledetto. A me spetta l’eterna felicità, egli mi attende. Desidero che siano rispettati tutti i desideri di mio marito, e che vengano con me le foto del nostro adorato bimbo e dell'unico uomo che nella mia vita ho amato. Gualtieruccio caro, mamma e papà veglieranno sempre su di te. Nella Testorio. A morte il comunismo!»
    Una valida testimonianza è offerta da un volume, ormai introvabile e scritto nel dopoguerra, dal titolo: «Madre Lotta» di Rico Covella di Bari. Questi faceva parte dei «Servizi Speciali», fu catturato e scampò al plotone d'esecuzione perché, all'epoca, appena diciassettenne. Conobbe molti giovani rinchiusi con lui nelle carceri di S. Maria Capua Vetere e ci ha lasciato preziosi ricordi. «Madre Lotta», pagg. 36-37:
    (...) Ma ecco ancora rumore di chiavistelli ed il cancello si apre: è il rancio speciale per Rico, minorenne (...). Il cancello si riapre, entra un ufficiale americano e consegna ai tre, dei fogli di velina, uno per uno: sono i fogli di comparizione in giudizio e contengono i capi di imputazione che sono uguali per tutti. La causa è fissata a quattro giorni dopo (...). Il difensore, un capitano dell'esercito inglese arriva il giorno prima del processo: - Siete stati arrestati in divisa? - Chiede - No - risponde Mauro (Mauro Bertoli ndr) - Eravamo in borghese - Allora non c'è alcuna speranza- Replica l'inglese e si accomiata.
    Il processo comincia l'indomani in un'aula del Tribunale di S. Maria Capua Vetere a porte chiuse e dura due giorni.
    Un interprete dell'esercito americano traduce in uno sgradevole italiano: - Siete condannati a morte per fucilazione a mezzo moschetto - Vi è un moto impercettibile di Mauro verso Rico - Sta su - gli sibila senza girarsi - Sta tranquillo è passata - gli risponde Rico, immobile anche lui.
    I tre giovani vengono accompagnati all'uscita e, su una camionetta, ricondotti in carcere.
    La camerata, solitamente fredda, ha un tepore accogliente quella sera.
    - Scusami per un momento fa - dice Mauro a Rico appena soli - ma ti ho visto impallidire-.
    - Avevo capito già prima - spiega Rico - avevo afferrata la parola «dead», ma quel porco di interprete l'ha detta in un modo!... ho dovuto farmi forza per non vomitare - .
    (...) - Speriamo che ci facciano scrivere a casa - dice Mauro - vorrei preparare mamma (...)
    (...) Sono in attesa Mauro e Gino (Luigi Cancellieri ndr) silenziosi, alla finestra della cella numero 1. Nel cortile sostano chiacchierando fra loro gruppi di ufficiali, americani, inglesi, italiani ed alcuni civili. La porta di accesso al cortile si apre per lasciare entrare un nuovo gruppo di ufficiali alleati: sono insieme per una ragione. Attraversano tutto l'atrio e si avviano all'ingresso dell'ala che ospita i ragazzi. Rico sente, dai loro passi che oltrepassano la porta della sua stanza: sono diretti alla stanza n. 4; vi entrano ed un interprete traduce a Mauro e Gino, in piedi, il dispositivo della sentenza che sarà eseguita quella mattina.
    Due preti si sostituiscono agli ufficiali.
    - Sei pentito di quello che hai fatto?
    - Non ho nulla da pentirmi, se fosse necessario tornerei a servire l'Italia allo stesso modo
    -Desiderate qualcosa in particolare? - domandano prima di accomiatarsi.
    - Se fosse possibile una buona mangiata - dice Gino - è quasi mezzogiorno! Ma non ho più alcun appetito
    Quando un sergente americano arriva con un grande vassoio, aiutato da Mauro, Gino raccoglie tutto nelle scodelle del carcere e le depone sulla brandina di Rico, poi si fruga le tasche, ne estrae le poche sigarette che gli hanno offerto quella mattina e le depone accanto alle scodelle, coi cerini. Quando li portano via, passano dinanzi alla porta della cella n. 1, ma sono ormai lontani da ogni cosa; dietro la porta della cella, Rico è appeso col corpo abbandonato, con le mani serrate sulle sbarre della finestrella. E’ un bene che non abbia avuto la forza di tirarsi su, forse avrebbe gridato, forse avrebbe urlato, forse avrebbe turbato i suoi fratelli.
    Riesce ad arrivare alla finestra del cortile e li vede andare, dritti come uomini, ognuno fra quattro nemici.
    Legati al palo, Mauro si affloscia solo dopo la scarica.
    A Gino, prima del «fuoco», manca la forza fisica nei ginocchi; il capo, incredibilmente ricciuto, è eretto (...)

    * * * * * * * * * * * * * * * *


    Nello svolgere le ricerche per questo lavoro, con rammarico ho notato che mancano notizie delle identità, del luogo di sepoltura e ogni altra informazione riguardanti tanti giovani dei «Reparti Speciali» che affrontarono la morte ad opera degli angloamericani. Alcune salme di questi militari della RSI sono state recuperate grazie all'ammirevole dedizione del «Comitato Sezionale per le Onoranze ai Caduti della RSI fucilati dagli angloamericani a S. Angelo in Fortis nel 1944», con sede in S. M. Capua Vetere. Ma la nobile iniziativa sostenuta dal capitano Vittorio Corradini, dalla famiglia Sparaco, dalla signora Monticelli, dal dott. Piccirillo, dal dott. Acquaroli e da tutti i componenti il «Comitato» deve essere sostenuta da organismi che dispongano di maggiori poteri. In caso contrario la memoria di tanti ragazzi che con tanto amore hanno donato la loro vita, andrà perduta.


    STORIA VERITA’ N. 17 Settembre-Ottobre 1993. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

  5. #5
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    Non è possibile ritrovare copia del testo della lettera?

  6. #6
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    Io ho trovato solo questi estratti, se qualcuno trova la versione integrale la iserisca.

    Per la notevole carica di spiritualità contenuta nell'ultima lettera scritta da Franco Aschieri alla madre, è doveroso citare, almeno, i passi più toccanti:

    «Cara mamma, con l'animo pienamente sereno mi preparo a lasciare questa vita che per me è stata così breve e nello stesso tempo così piena e densa di esperienze sensazionali (...). Ti prego, mamma, fa che il mio distacco da questa vita non sia accompagnato da lacrime, ma sia allietato dalla gioia serena di quegli animi eletti che sono consapevoli del significato di questo trapasso. Ieri, dopo che mi è stata comunicata la notizia, mi sono disteso sul letto ed ho provato una sensazione che avevo già conosciuta da bambino: ho sentito cioè che il mio spirito si riempiva di forza e si estendeva fino a divenire immenso (...). Non ho alcun risentimento per coloro che stanno per uccidermi perché so che non sono che degli strumenti scelti da Dio (...). Io resterò vicino a te per sostenerti e aiutarti finché non verrai a raggiungermi; perché sono certo che i nostri spiriti continueranno insieme il loro cammino di redenzione (...). In questo momento sono lì da te e ti bacio per l'ultima volta, e con te papà e tutti gli altri cari che lascio. Cara mamma termino la lettera perché il tempo dei condannati a morte è contato fino al secondo. Sono contento della morte che mi è destinata perché è una delle più belle, essendo legata ad un sacro ideale. Io cado ucciso in questa immensa battaglia per la salvezza dello spirito e della civiltà, ma so che altri continueranno la lotta per la vittoria che la Giustizia non può che assegnare a noi. Viva il fascismo. Viva l'Europa. Franco».

  7. #7
    davidege
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    toccante a dire poco.

    e mi da ancora di più da pensare rispetto alla gente che oggi si dice, in alcuni casi, erede di questi ideali ed alle beghe nelle quali a volte si perdono.

  8. #8
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  9. #9
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    Onore!

  10. #10
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    S.Angelo: un crimine degli alleati

    www.lariflessione.it/pagine/perconte.html

    di Alberto Perconte Licatese
    Dopo l'8 settembre 1943, l'azione bellica nei territori occupati dagli anglo-americani fu condotta dall'organizzazione clandestina, formata da fascisti residenti nella Italia meridionale, e dai servizi speciali, composti da agenti segreti da inviare nelle zone occupate, con l'incarico di svolgere attività di informazione e di sabotaggio ai danni degli alleati. Di essi, che impiegarono oltre quattromila agenti, uomini e donne, quasi tutti giovani e tutti volontari, facevano parte i tredici soldati della Repubblica Sociale Italiana catturati, giudicati con rito abbreviato e condannati a morte da un tribunale alleato, tradotti nelle carceri di S.Maria C.V.
    Il 21 gennaio 1944, nella cava di S. Angelo in Formis, i primi ad affrontare la morte furono Mauro Bertoli da Massa e Luigi Cancellieri da Monteroni. Fuggiti da Bari, i due si erano arruolati volontari nelle file repubblicane, con l'intenzione di entrare nei servizi speciali; erano alla loro quinta missione quando, nel dicembre 1943, gli inglesi li catturarono. La mattina, su un camion furono trasportati sul luogo dell'esecuzione: un campicello alle falde del Tifata, nascosto da una propaggine tufacea della collina, il "vallone del sangue italiano", come lo definì don Angelo Scarpellini. Colà, legati a pali, caddero fulminati dalle raffiche dei mitra britannici.
    Don Lorenzo Nacca, all'epoca parroco di S. Erasmo, che li assistette fino all'ultimo, così si espresse: "I supremi valori della fede cattolica furono per essi il viatico sicuro per affrontare sereni e coscienti la realtà ultraterrena... Consumarono il pranzo con tale giovialità da far pensare a me che tra la vita terrena e quella celeste per essi non c'era alcun distacco. Luigino mi chiese la corona del Rosario, che baciava spesso fino al momento della morte. La Patria aveva per essi un valore degno di essere collaudato col sangue, il duce era per essi qualcosa di sacro e meritorio della propria immolazione. Tradotti al posto dell'esecuzione, mi raccomandarono le madri: 'Dica loro che il nostro cuore non morirà, le conforti'. Affrontarono la morte senza scomporsi, con la fronte alta e senza paura".
    Li seguirono nella triste sorte, il 16 aprile, Marino Cantelli da S. Giovanni in Persiceto ed Enrico Menicocci da Marsiglia. Li assistette don Umberto Piccirillo, parroco di Portico che lasciò questa testimonianza: "L'arciv. Salvatore Baccarini mi ordinò di recarmi nel carcere di S. Maria C.V. per portare la parola di conforto ai due giovani fascisti. Alle sette, mi trovavo nel carcere e bruciavo dal desiderio di avvicinare subito i giovani, per dire la parola della religione ad essi che erano in procinto di spiccare il volo per l'eternità. Un nodo mi stringeva la gola. Li abbracciai e li confessai, i sacramenti loro amministrati furono la mia edificazione. Alle ore 9,45 uscimmo dalle celle, su tre macchine ci accompagnarono alla cava; a due paletti già pronti, furono legati con una fune. Una scarica di otto fucili li fulminò all'istante".
    Il 30 aprile, furono fucilati Italo Palesse da Cavalletto d'Ocre, Franco Aschieri da Milano, Mario Tapoli da Roma, Vincenzo Tedesco da Napoli. Sulla fine di questi quattro agenti speciali abbiamo la commossa testimonianza di don Giuseppe Ferriero, allora parroco di S. Pietro, della quale riporto stralci: "Li trovai che cantavano. Appena mi videro, stettero zitti e mi si strinsero intorno. Dissero che si erano già confessati, feci recitare l'atto di dolore e li comunicai. Il pianto dei carcerati ci accolse all'uscita del corridoio, i due risposero inneggiando all'Italia fascista. Salii con loro sulle jeep. Arrivammo, il romano si toglie la camicia nera, non vuol farsela bucare, passo al napoletano, bruno, carino, ha sul capo una bustina bianca con un'aquila nazista. Mi raccomandano le lettere che hanno scritto ai loro cari... Bacio i due, che rifiutano di essere bendati. I soldati caricano i dodici moschetti. Tre comandi secchi, vidi cadere i cari giovani... Si vanno a rilevare gli altri due, appena mi vedono sorridono, quello di Aquila si toglie anche lui la camicia, lo legano, desidera una sigaretta, un capitano gliela dà e accende. Lo stesso fa per l'altro, il milanese, simpatica figura di giovane buono. Infondo loro coraggio, poi i soliti comandi secchi, li vidi piegarsi. Ascoltai il loro rantolo: i colpi non erano stati precisi come la prima volta. Che strazio nel mio cuore!"
    Alle spalle del Cimitero di S. Maria C.V., il 6 maggio furono fucilati Alfredo Calligaro da Campolongo, Domenico Donnini da Urbania, Virgilio Scarpellini da Ranica, Giulio Sebastianelli da Cupramontana. Appartenevano tutti alla "X Mas". Il sacerdote che li volle assistere, don Alfredo Contini, cappellano del carcere di S. Maria, morì poco dopo l'esecuzione a causa dell'emozione, per cui non risultano testimonianze. Nulla si conosce dei primi due; quanto a Scarpellini, egli, ritornato a casa dopo l'armistizio, non rassegnandosi all'idea della sconfitta della Patria, appena costituita la RSI, corse a Bologna ed ottenne di far parte dei servizi speciali.
    Infine, Paolo Poletti da Firenze, fu ucciso il 19 maggio, nel carcere di S. Maria C.V. Gli alleati usavano procedere agli interrogatori in villette isolate presso Torre Annunziata, dove torturavano le spie che cadevano nelle loro mani. Il Poletti fu seviziato tanto ferocemente che impazzì. Tradotto nel carcere di S. Maria, il ragazzo urlava e si strappava i vestiti; ingiuriando gli americani, nel delirio si avvicinò al cancello della cella, lasciato stranamente aperto, e fece alcuni passi nel corridoio, quando il sergente americano scaricò la pistola contro il prigioniero.
    Sarebbe troppo lungo riferire i particolari della ricostruzione triste vicenda, che senza dubbio sarebbe stata obliata, come tante altre. Mi limito a dire che il 4 novembre 1966 (il giorno dell'alluvione di Firenze) un comitato partitico cittadino, del quale mi onoro di aver fatto parte, pubblicò un opuscolo ed appose una piccola lapide sul luogo della testimonianza della fedeltà, del patriottismo e dell'olocausto della vita, di cui tutti gli italiani dovrebbero essere fieri o, quanto meno, memori.
    Dopo che andò in onda in televisione, nell'aprile del 1994, la trasmissione "Combat film", che proponeva le agghiaccianti sequenze di alcune di quelle esecuzioni, volli ascoltare di nuovo (per l'ultima volta) le parole dei reverendi Lorenzo Nacca ed Umberto Piccirillo (allora gli unici testimoni viventi, qualche anno dopo passati a vita migliore) nelle rispettive abitazioni di S. Andrea e Portico. Entrambi mi confermarono le dichiarazioni rilasciate all'epoca, aggiungendo particolari sconvolgenti e toccanti e, mentre essi parlavano, ancora con forte commozione dopo mezzo secolo, di quelle atroci esecuzioni, forse sproporzionate ai reati contestati, io presi appunti, che con cura conservo.

 

 
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