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Notiziario del Campo Antimperialista – 11 febbraio 2008


Nei giorni 2, 3 e 4 febbraio scorsi si è svolta a Vienna la Conferenza internazionale del Campo Antimperialista.
Sono stati approvati, (1) un documento sulla situazione internazionale, (2) Tesi sul Venezuela, (3) Direttive sui compiti immediati del Campo, (4) un Documento di bilanicio dell’attivita’ nell’ultimo periodo. E’ stato infine eletto un nuovo Comitato Politico internazionale. Alla Conferenza hanno partecipato i delegati delle sezioni. Saluti e comunicazioni sono stati inviati da organizzazioni sorelle, in particolare dalla Palestina, dalla Turchia, dal Libano, dal Pakistan, dal Perù, dal Venezuela, dalla Grecia, dalla Norvegia, dall’Ungheria.
Tutti i documenti saranno presto disponibili sul nostro sito: http://www.antiimperialista.org

Questo Notiziario contiene:

1. L’INDIPENDENZA CHE?
Il Kosovo: da provincia autonoma della Serbia a protettorato NATO
2. PRIMA DELLA NUOVA TEMPESTA
La minaccia di attacco USA all’Iran e la questione irachena
3. DALLA NAKBA A GAZA
Le 60 ragioni per boicottare la Fiera del libro di Torino

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1. L’INDIPENDENZA CHE?
Il Kosovo, la Serbia e l’Imperialismo

«Carissimi,
respingere l'autodeterminazione dei popoli è sbagliato e non sta a voi decidere arrogantemente quali popoli hanno diritto all'autodeterminazione e quali no. Prendete esempio dai Baschi, che con tutti i distinguo del caso, sono comunque favorevoli all'autodeterminazione, anche del Kosovo, perché è un diritto inalienabile di tutti i popoli. Sul Kosovo, oltre a vaghi e fumosi distinguo, la verità è che siete schierati acriticamente con i serbi, che sono storicamente gli "imperialisti" dei Balcani. I diritti inalienabili valgono per tutti, non a sono a vostra discrezione... le eccezioni le fanno gli imperialisti, secondo ciò che loro conviene e... voi... ciò vi rende poco credibili secondo me.
Cordiali saluti».
Carmine C.

Questo telegrafico quanto fulminante giudizio ci e’ stato inviato da un nostro lettore a commento dell’ultimo Notiziario, in particolare al pezzo intitolato «L’ECCEZIONE E LA REGOLA. Perche’ siamo contrari alla secessione del Kosovo».

Tra pochi giorni, pare il 17 febbraio, per bocca del primo ministro in pectore Hashim Thaci (che se il Tribunale dell’Aja non fosse una pagliacciata avrebbe dovuto incarcerare come il numero un nella lista dei criminali di guerra balcanici), Pristina proclamera’ la sua indipendenza. Potra’ farlo perche’, in barba alla Risoluzione ONU 1244, Stati Uniti e Unione Europea, lo hanno spinto su questa strada.
Che l’autodeterminazione sia un diritto inalienabile di tutti i popoli è un principio sacrosanto, quanto il divorzio per un componente di una coppia che voglia decidere di andare per conto suo. A differenza di un semplice divorzio, che attiene ai diritti dell’individuo, l’autodeterminazione di una nazionalita’ (di cui l’indipendenza statale è solo una delle modalità possibili) chiama in causa interessi generali, riguarda la sfera geopolitica dei rapporti tra Stati e, quel che per noi piu’ conta, tocca le sorti della lotta globale all’imperialismo.

In generale noi pensiamo:
  1. Nessun principio democratico, per quanto legittimo in linea generale, puo’ essere considerato astrattamente, come fosse un sacro comandamento religioso.
  2. La rivendicazione di un diritto e il suo fattuale esercizio non sono la medesima cosa. Concedere un diritto non significa prescriverlo.
  3. Riconoscere un diritto in linea di principio non vuol dire ammetterlo in qualsiasi momento storico, a prescindere dalla concreta situazione politica.
  4. Esercitare un diritto alla autodeterminazione, e’ legittimo e lecito se e solo se la sua attuazione da parte di un popolo non pregiudica quello di altri.

Concretamente:
noi riteniamo che ove l’indipendeza di un popolo sia funzionale agli interessi generali dell’imperialismo, ove cioe’ essa aiuti il tiranno nella sua politica globale di oppressione di altri popoli e nazioni, l’esercizio di questo diritto, ovvero la fondazione di uno Stato, vadano respinti. Quando la parte confligge col tutto, la parte va subordinata al tutto. Se uno schiavo accettasse vantaggi dal proprio padrone a danno di altri schiavi, questo diventa in realtà servo non un uomo libero. Possono esserci popoli che attraverso dirigenti al servizio dell’Impero svolgono una funzione di crumiraggio? Sì, possono esserci. Il Kosovo è uno di questi casi sciagurati. Come quello dei curdi iracheni, che in nome della loro «libertà» non solo hanno appoggiato l’occupazione americana, ma hanno messo le loro milizie al servizio degli occupanti. E’ simile il caso del Kosovo a quello del Kurdistan iracheno? Si, lo e’.

Il Kosovo puo’ infatti pensare di secedere solo grazie alla presenza, di 17mila soldati della NATO, ovvero della piu’ potente coalizione militare di ogni tempo, braccio armato di nazioni imperialiste che campano grazie all’oppressione di gran parte dell’umanità. Svolge forse la NATO la funzione di garante e sentinella degli albanesi del Kosovo per amore della liberta’ e del pricipio di autodeterminazione? No! La svolge perche’ staccare il Kosovo dalla Serbia risponde ad un precisio disegno geopolitico di potenza, di controllo strategico dei Balcani.
Da questo punto di vista, il Kosovo è una pedina del grande gioco imperiale, mentre la Serbia svolge una funzione indiscutibile di contrasto.
Sorge la domanda: da che parte debbono stare gli altri popoli oppressi se quelli che li opprimono, dall’indipendenza del Kosovo, usciranno decisamente piu’ forti? Alle persone che vogliono davvero porre fine alla tirannide euroamericana, la (poco) ardua sentenza.
Se i baschi, la cui causa abbiamo notoriamente a cuore, sostengono la secessione del Kosovo, sbagliano. Sbagliano di brutto se pensano di ottenere qualche punto a favore dal fatto che è stato stabilito un precedente. Non conta che qualcuno abbia ottenuto un diritto, come come questo sia stato ottenuto. I baschi non otterranno alcun vantaggio da un popolo che si è messo al servizio dell’imperialismo e della NATO. Lo loro causa sara’ piu’ forte solo nel caso in cui un popolo ottenga con la lotta i propri diritti. O i baschi pensano di ottenere anche loro l’indipendenza chiedendo l’arrivo di 17mila o 50 mila soldati della NATO?
Quella del Kosovo è una finta indipendenza. Una finta indipendenza che dara’ vita ad una nazione fantoccio, ad un protettorato coloniale, ad una repubblichetta bananiera tenuta in piedi dai mercenari NATO.
Piu’ nello specifico.

In kosovo vivevano anche i serbi e, assieme loro altri minoranze nazionali. E’ vero o non è vero che sotto gli occhi degli occupanti a suon di pistolettate e bombe tutte le minoranze sono state espulse? E’ vero o non e’ vero che il Kosovo è diventata con la forza una enclave nazionalmente ripulita? Che fine fanno i diritti democratici delle minoranze cacciate via? Hanno o non hanno essi il diritto al ritorno come i palestinesi nella palestina occupata? Certo che ce l’hanno, ma gli albanesi, con l’appoggio occidentale, fregandosene altamente della democrazia e dei diritti degli altri, negano apertamente questo diritto e si vantano anzi della «bonifica» compiuta.

Nei casi di regioni con nazionalita’ coabitanti (e il Kosovo e’ uno di questi) il diritto all’autodeterminazione, se deve valere per tutti, puo’ solo essere applicato attraverso un sistema federale democratico e una convivenza reciprocamente rispettosa degli altrui diritti. Ove questo non sia possibile, e in Kosovo oggi non e’ possibile, non resta che dividersi, ma dividersi dando ad ogni nazionalità il dirito a decidere con chi eventualmente convivere.
Gli albanesi vogliono staccarsi dalla Serbia, che riconoscano allora ai serbi il diritto di restare con Belgrado. Non possono pretendere di prendersi sia il Kosovo che la Metohja. Un movimento di liberazione nazionale è democratico se riconosce al popolo da cui decide di separarsi lo stesso diritto ad autodeterminarsi. Se no diventa annessionista, ovvero antidemocratico. E questo è il caso dei kosovari.
Perche’ la NATO non riconosce questa elementare reciprocita’?
Semplice: perche’ dovrebbe ammettere la scomparsa dell’altro suo protettorato bosniaco, riconoscendo ai suoi due terzi di cittadini serbi la facolta’ di unirsi a Belgrado. Perche’ dovrebbe anche accettare di ridisegnare gli artificiali confini della Croazia e riconoscere il diritto al ritono dei serbi delle Kraijne e della Slavonia orientale cacciati a forza nella seconda meta’ degli anni ‘90.

Dicendo questo siamo forse troppo sbilanciati dalla parte della Serbia?
La verita’ e’ che ognuno ha dei fini e conduce una lotta per realizzarli. Questa lotta implica farsi dei nemici e avere degli alleati. Saremmo contro la Serbia se questa fosse una pedina della NATO se, come è accaduto solo un anno fa in Kosovo e Albania, fosse stata l’unico posto al mondo che invece di contestare Bush l’avesse osannato svetolando bandierine a stelle e striscie.

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2. PRIMA DELLA NUOVA TEMPESTA
La minaccia di attacco USA all’Iran e la questione irachena

La Repubblica Islamica dell´Iran, pur nell´avvicendarsi di governi diversi, rappresenta un ostacolo insormontabile alla realizzazione del «Grande Medio Oriente». Tehran, perseguendo il legittimo obbiettivo di sfuggire alla punitiva divisione internazionale neocolonialista del lavoro, non potrà trovare la via del proprio sviluppo economico e sociale senza difendere e consolidare la propria sovranità e questo, in un contesto segnato dalla supremazia dell´imperialismo, implica spezzare l´accerchiamento, costruire una cintura difensiva e quindi contrastare Israele, che resta la punta di lancia e la principale roccaforte della supremazia nordamericana.

La Repubblica islamica dell´Iran è dunque costretta a svolgere un ruolo antiamericano e antisionista ovvero, in questa fase, un ruolo antimperialista. Ciò è attestato dall’appoggio deciso di Teharan non solo ad Hezbollah in Libano ma pure ad Hamas in Palestina.
Gli Stati Uniti tenteranno in ogni maniera di ottenere quello che chiamano il regime change. Ove non vi riuscissero con le pressioni politiche, le cospirazioni interne in stile rivoluzione arancione, i ricatti, le minacce e le sanzioni, non v’è dubbio che essi sono pronti a scatenare un’attacco missilistico, senza escludere una vera e propria guerra d´aggressione.

Noi sosteniamo il diritto all`autodifesa dell’Iran, non solo in caso di guerra, ma anche contro eventuali sanzioni ed embarghi che sarebbero solo un modo di tenerlo sotto assedio al fine di fiaccarlo in vita del definitivo confronto militare.

Va animata una campagna internazionale allo scopo di costruire un movimento unitario e inclusivo contro lquesta minaccia. Non ci nascondiamo le grandi difficoltà di questa impresa. Abbiamo già a che fare con una martellante e insidiosa propaganda antiraniana tendente ad isolare non solo l´Iran ma ogni movimento contro la guerra. La difesa dell´Iran sarà linciata, diffamata e condannata in modo virulento.

Mentre appoggiamo in linea di principio l´indipendenza e l´integrità territoriale del paese e il suo diritto a difendersi da eventuali attacchi dell`imperialismo, condanniamo la politica interna del regime quando essa reprime con la forza i movimenti sociali di protesta, anzitutto quelli degli strati più oppressi, quando reprime i diritti delle minoranze nazionali, quando nega elementari diritti democratici e civili.

Le conseguenze della spinta americana a spostare e concentrare le proprie forze in vista del rovesciamento della Repubblica islamica iraniana si fanno sentire pesantemente in Iraq.

Washington non avrebbe potuto rovesciare il regime baathista e installare a Baghdad un regime fantoccio senza il lasciapassare e l’ausilio dell’allora governo dell’Aiatollah Mohammad Khatami. Quest’avallo che quel governo fornì ritenendo l’occupazione USA come preferibile rispetto alla sopravvivenza del regime baathista, resta una macchia indelebile nella politica iraniana.

La poderosa ascesa della Resistenza sunnita e il fallimento americano di debellarla con l’assalto frontale incrinarono la già traballante gestione condominiale degli affari iracheni. L’avvento al potere di Ahamdi Nejad (agosto 2005), e l’attacco criminale alla moschea di shiita di Samara (gennaio 2006), segnano simbolicamente l’avvio di una seconda fase per l’Iraq occupato. I due settori principali della Resistenza sunnita, quello «qaedista» da una parte e quello baathista dall’altra —il primo a causa del proprio takfirismo che condanna gli shiiti come apostati, infedeli e nemici giurati del vero Islam, il secondo a causa del cieco nazionalismo antipersiano che considera gli shiiti come safavidi—, hanno preso a colpire la comunità shiita come nemico principale. Lungi dall’indebolire l’occupazione questa strategia si è rivelata un vero e proprio suicidio.

Gli americani hanno prima fomentato lotta fratricida tra le due principali comunità religiose poi, ponendosi come arbitri, hanno chiamato ad una nuova alleanza per stroncare le formazioni guerrigliere «qaediste» da una parte, e le milizie shiite dall’altra. La mossa americana ha sortito i suoi effetti. La Resistenza sunnita, già incapace a unirsi in un fronte unito, si è divisa in maniera irreparabile. Dopo i primi scontri armati (primavera 2007) alcuni settori della Resistenza, allo scopo di contrastare le frazioni qaediste da una parte, e di combattere la «pulizia etnica» portata avanti da numerose milizie shiite dall’altra, decidono di collaborare con gli occupanti. In questo contesto gli americani non solo mettono sul loro libro paga migliaia di ex-guerriglieri ma obbligano il governo fantoccio a riabilitare gli ex-funzionari baathisti.

L’Iraq è dunque entrato in una nuova terza fase. Il governo di Tehran, deve contrastare ogni stabilizzazione dell’occupazione (necessaria agli americani in vista di un conflitto con L’Iran), non può dunque accettare che vengano annientate le milizie shiite, anzitutto quelle del Mahdi riconducibili alla zigzagante guida di Moqtada al-Sadr. D’altra parte il processo di ricomposizione della Resistenza sunnita, dopo la fase di disgregazione iniziata nel 2006, sotto l’incalzare degli eventi, produrrà i suoi frutti. E’ la determinazione americana a consolidare l’occupazione e a spazzare via la Repubblica islamica iraniana a fornire alla Resistenza radici profonde.

Il Campo Antimperialista continuerà a indirizzare tutti i suoi sforzi nel sostegno alla Resistenza irachena, augurandosi che essa sappia trovare forme e vie nuove, lasciandosi alla spalle il triste periodo del fanatismo religioso e del cieco nazionalismo. Il popolo iracheno, che ha il grande merito storico di aver mostrato al mondo che si può combattere la potenza imperiale più forte di tutti i tempi, non potrà infatti liberarsi contando solo sulle proprie forze. C’è bisogno di battere gli Stati Uniti, ci cacciarli dal Medio Oriente, e ciò richiede una lotta di lunga durata e l’unione più ampia dei popoli della regione.
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3. DALLA NAKBA A GAZA
Le 60 ragioni per boicottare la Fiera del libro di Torino

Con la decisione di invitare Israele come “ospite d’onore” alla Fiera del libro, che si terrà a Torino nella prima metà di maggio, le autorità politiche piemontesi (Regione, Provincia e Comune di Torino) hanno deciso di trasformare un evento culturale in un fatto politico mostruoso e inaccettabile: celebrare Israele nel 60° anniversario della Nabka, onorare Israele mentre con un embargo genocida stritola, affama e soffoca la popolazione di Gaza.

Boicottare una simile iniziativa è dunque un atto doveroso, se non vogliamo chiudere gli occhi di fronte ad un’iniziativa che mira a legittimare una volta di più uno Stato razzista fondato sull’apartheid.

Le pagine della stampa nazionale riportano i lamenti di chi denuncia il boicottaggio del libro e della cultura che si attuerebbe in questo modo. Ma, a parte il fatto che la cultura israeliana è tutt’altro che innocente rispetto all’occupazione ed ai suoi crimini, perché dovremmo considerare “culturale” un evento deciso attraverso trattative politiche tra l’ambasciatore israeliano a Roma e i dirigenti politici piemontesi? Vogliamo prenderci per i fondelli?

La verità è che il nostrano partito sionista ha colto questa occasione per portare il proprio mattoncino alla costruzione del “Nuovo Medio Oriente”, cioè al progetto imperialista di un Medio Oriente controllato dagli Usa, che per la Palestina prevede una pace cimiteriale, con una serie di bantustan chiamati in futuro “stato”, con la negazione di ogni elementare diritto a chi li popola.

Che questo sia stato pensato nell’anniversario della Nabka è un oltraggio di più alla storia ed ai quei valori umani cui dicono di rifarsi i difensori di cotanta “cultura”.

La Nabka, conseguenza della nascita dello stato di Israele e della sua innata tendenza espansionistica, significò la cacciata dalle proprie case per centinaia di migliaia di palestinesi, molti dei quali furono uccisi, le donne spesso violentate. Mentre a quei profughi, come a quelli provocati dalle successive aggressioni sioniste, ancora si nega il diritto al ritorno in nome della purezza etnica e religiosa dello stato israeliano.

Cosa ci sia da celebrare in tutto questo lo sanno solo gli organizzatori della Fiera, ai quali evidentemente anche l’embargo di Gaza pare acqua fresca.

Non c’è una sola ragione per boicottare la Fiera del libro; ce ne sono tantissime, diciamo almeno una per ogni anno dalla nascita di Israele. Ma oggi dovrebbe bastare la vergogna di Gaza, il crimine di un embargo omicida, a far alzare la testa ad ogni democratico.

Già, Gaza. Ma chi se ne accorge in occidente?

Per dieci giorni, rompendo il muro verso l’Egitto, il popolo della Striscia ha rotto momentaneamente l’embargo, anche quello mediatico. Oggi il muro si è richiuso a celare i patimenti di una popolazione sofferente ma resistente.

E’ a Gaza che si gioca oggi il futuro della Palestina. L’imperialismo e il sionismo hanno bisogno di schiacciare la Resistenza e questo significa oggi schiacciare in primo luogo Gaza.

La reazione imperiale all’egemonia di HAMAS ha comportato il completo stravolgimento dell’assetto politico risultante dalle elezioni, con l’imposizione in Cisgiordania del governo fantoccio a guida Fatah. Nella Striscia di Gaza ciò non è stato possibile, perché le forze popolari, nel giugno 2007, sono riuscite a difendere il loro diritto–dovere di governare. La legittima difesa armata ha provocato una risposta durissima da parte di Israele e dei suoi alleati, tra cui il medesimo presidente Abu Mazen.

La Striscia di Gaza, che prima del giugno 2007 era stata una prigione a cielo aperto, è ormai diventata un campo di concentramento perché l’isolamento va ben oltre le forme di embargo tradizionali; in Cisgiordania le manifestazioni a sostegno della popolazione di Gaza vengono duramente represse dal governo fantoccio; i governi dei paesi arabi non muovono un dito, se non per tenere sotto controllo le rispettive popolazioni schierate con la Resistenza dei loro fratelli palestinesi. La Conferenza di Annapolis e la successiva Riunione di Parigi, sotto le insegne della pace e dello slogan “due popoli, due stati”, hanno in realtà sancito l’assedio di Gaza, avallando il tentativo sionista di definitivo strangolamento.

Questa è la realtà dei fatti. Una realtà che richiede una duplice risposta: schierarsi con la Resistenza e dunque con Gaza, chiarire definitivamente l’insostenibilità della parola d’ordine “due popoli, due stati”.

Questa è la base per sviluppare adeguatamente le iniziative a sostegno della causa palestinese e per costruire una nuova unità tra tutti quanti si riconoscono in questo obiettivo.

Il comitato Gaza Vivrà ha lanciato, nella sua partecipatissima assemblea nazionale del 27 gennaio, una lettera aperta in tal senso rivolta a tutti gli organismi di solidarietà con la Palestina.

Registriamo che una settimana dopo è apparso un comunicato del Forum Palestina che non solo ignora deliberatamente quell’appello unitario, ma che evita accuratamente di pronunciarsi sui nodi dell’attuale situazione palestinese, in particolare tacendo sulle responsabilità storiche del governo collaborazionista di Abu Mazen.

Il Campo Antimperialista ritiene invece che una nuova unità sia non solo necessaria, ma anche possibile dato che la posizione dei “due popoli, due stati” è ormai minoritaria nel movimento italiano, avendo ormai perso ogni credibilità. Al comune sentire di tante persone che si riconoscono nel sostegno alla resistenza palestinese occorre dunque far corrispondere una capacità unitaria che ancora tarda a manifestarsi.
Nelle manifestazioni dei prossimi mesi – che noi auspichiamo assolutamente unitarie – misureremo i passi avanti di questo processo necessario. Che la Resistenza non venga schiacciata è il primo obiettivo per chi sta con la causa palestinese. Certamente lo è per noi, ma anche per la stragrande maggioranza di chi per la Palestina si mobilita e lotta.