DAL CAPITALISMO DI STATO DEL PCI ALLE MUNICIPALIZZATE DEL PARTITO DEMOCRATICO

di G. Duchini

I governi di Centro-Sinistra dei primi anni Sessanta inaugurarono con il “piano Pieraccini” (1966-70) l’inizio ufficiale di una politica di “Programmazione Economica” in modo da correlare esigenze generali della collettività al funzionamento dei poteri pubblici. L’ingresso successivo del Pci nel “Compromesso Storico” del ‘73 con la Dc (una sostanziale condivisione politica con una particolare attenzione alle regole di spartizione sulle nomine dei dirigenti pubblici, si pensi a questo proposito all’ascesa di Prodi a Presidente dell’Iri), fu accompagnato da una intensa campagna ideologica di intese e mediazioni sul piano della politica dei redditi, attraverso “la Programmazione Democratica”. Si trattava di decentrare la rigida gerarchia pubblica concentrata nelle Partecipazioni Statali, nella Cassa del Mezzogiorno, nell’Enel, nel sistema bancario,…(l’insieme cioè del Capitalismo di Stato), attraverso “forze produttive intermedie antimonopolistiche, enti di settori, organi che presiedono alla attività creditizia.”
In pratica, si andava denunciando la rigida gerarchia del potere decisionale del Capitalismo di Stato come effetto perverso dello svuotamento della rappresentatività del potere elettivo parlamentare e democratico; evocazione quest’ultima, per l’avvento di una maggiore democrazia economica-politica, facendo appello al concorso partecipativo di tutti i partiti (secondo l’art. 49 della Costituzione).
Si voleva introdurre, da parte del Pci, (vedi convegno del Pci sulla “Riforma dello Stato” del 1968) la realizzazione di un decentramento del potere decisionale dell’economia a gestione pubblica (statalista) da realizzarsi con gli enti locali, insieme ad associazioni e sindacati: “il funzionamento delle istituzioni non esaurisce tutti i canali attraverso cui si esprimono i cittadini… soltanto con un nuovo ordinamento politico e giuridico” derivante da una democrazia nuova (aperta al socialismo), da realizzarsi con “Le Riforme delle Strutture attraverso il peso crescente di nuovi istituti, si può concretizzare il potere dei lavoratori”. Da questi principi discende l’idea che gli enti pubblici sono "strumenti di manovra della collettività organizzata a Stato, strumenti di operatività per certi compiti, (poiché l’organo del governo locale è munito della rappresentanza globale degli interessi politico-economici nascenti sul territorio su cui opera, incaricato dell’esecuzione di specifici compiti attribuitigli dai piani regionali e comprensoriali).
Ma quelle lontane speranze di cambiamento del controllo statale dell’economia dal basso, attraverso l’Ente Locale, andarono drammaticamente deluse. Parallelamente allo smantellamento della struttura industriale dell’Iri, con l’ inizio di “Mani Pulite” (dopo il crollo del muro di Berlino), apparve un Neostatalismo delle Municipalizzate: una diffusione locale di società per azioni a controllo assoluto del Comune, una specificità tutta italiana che diede vita ad un ‘Localismo Statalista’: luogo privilegiato per ri-partizioni partitocratriche e sindacali della Spesa Pubblica. Dalle ceneri delle Partecipazioni Statali nacquero le“Municipalizzate,” insieme ad un nuovo paradigma di Spesa Pubblica Comunale che rinnovò le clientele partitiche sopravvissute “a mani pulite” (a prevalenza diessina), andando a sostituire quel Capitalismo di Stato che aveva comunque svolto un importante ruolo produttivo durante il fascismo e nell’immediato dopoguerra. Le Municipalizzate concentrarono ed estesero il loro campo di intervento nei servizi pubblici (trasporti, sanità, energia, acqua..), sempre più scadenti e più cari.
L’epopea romana di Veltroni Sindaco, può essere assunta a simbolo nazionale di questo strapotere delle municipalizzate. Attraverso la gestione del “Gruppo Società Comune di Roma”, il sindaco di Roma ha controllato risorse finanziarie e potere economico nella Capitale. La complessa struttura societaria del “Gruppo Comune di Roma” è così raffigurata e comprende circa 41 società tra spa e srl , con l’Acea quale capogruppo di 54 società e l’Ama capogruppo di 13 società; complessivamente oltre 100 società sono sotto il controllo del Comune di Roma con decine di migliaia di occupati



















Si resta perplessi e basiti dinanzi alla imponente struttura di servizi (tra i più vari e diversificati) gestiti dal Comune di Roma; non vengono considerati, ovviamente, quelli dati in appalto, in gran parte a cooperative (rigorosamente di sinistra) diffuse capillarmente in tutto il territorio comunale e regionale. I componenti dei Consigli di Amministrazione delle società sopra rappresentate sono quasi tutti diessini (ora “pedèini”). Gli alti dirigenti (i city manager) prendono compensi cospicui che non sono certo collegati alla reale produttività di questi servizi spesso carenti. Gli intrecci finanziari che presiedono alle composizioni patrimoniali delle società, derivano non solo dai poteri localistici, veri dominus finanziari del tipo di “Caltagirone” (segnalato come “grande risorsa per Roma”) o all’altro noto palazzinaro “Toti” (favorito da Veltroni con il nuovo piano regolatore della capitale), quanto e soprattutto perché nella Capitale tende a gravitare, come luogo privilegiato e conflittuale di mediazione politica-affaristica, tutto il capitale finanziario nazionale (e internazionale), si pensi a Bazoli presidente di “Intesa” che finanzia la rassegna del cinema di Roma.
I provvedimenti del veltroniano Causi, assessore alle politiche economiche, finanziarie e di bilancio del “Gruppo delle Società Comune di Roma” sono la sintesi di una cosiddetta politica di rigore nella gestione del bilancio comunale per realizzare gli obbiettivi principali della capitale: lotta all’evasione fiscale, sviluppo dei servizi, massimizzazione delle risorse finanziarie destinate agli investimenti, in ossequio ad un sistema di governance delle politiche delle entrate fiscali (si chiama proprio così) che permette non solo di “garantire una diretta corrispondenza tra gestione operativa della azienda, attività amministrative svolte dagli Uffici comunali e indirizzi politici, ma soprattutto quello di assolvere al fabbisogno finanziario del Comune. Ovvero come cioè procurare i finanziamenti per fare fronte agli investimenti in spese correnti, le maggiori entrate del Comune con Ici, Irap, Irpef, danno un gettito complessivo di oltre 2 miliardi di euro l’anno (senza considerare le multe che a Roma vanno oltre i trecento milioni di euro), a fronte di uscite di ammontare corrispondenti; l’Ici, si attesta ormai alla metà del gettito fiscale complessivo, con la possibilità di un suo incremento derivante da un avviato programma di revisione delle rendite catastali, e guarda caso, in concomitanza con nuovi piani regolatori pronti per il sacco edilizio sopra menzionato. Il programma di realizzazione delle opere pubbliche è stato finanziato con mezzi di diverso tipo: risorse proprie derivanti da alienazioni di beni patrimoniali, dal condono edilizio, dalle concessioni edilizie, risorse derivanti da trasferimenti di capitali da parte dello Stato e Regioni, dal ricorso all’indebitamento, dai mutui, dai prestiti obbligazionari, dai prodotti finanziari. Proprio da questi ultimi nasce il grande “buco finanziario” del Comune di Roma arrivato a 7 miliardi di euro e fatto oggetto continuo di monitoraggio da parte delle agenzie internazionali di Rating e dalle Banche d’affari americane.
Il paradigma finanziario della Spesa pubblica, attraverso le Municipalizzate, ha permesso il “cambio di pelle” del vecchio Pci, permeando tutta la realtà economica-politica italiana a copertura, soprattutto, di interessi inconfessabili legati ai mandanti finanziari nazionali in dipendenza di quelli più forti d’Oltreatlantico.


G.D. febbraio ‘08



P.S.
Su Libero Mercato, del 15/02/8, c’è un intervista del ministro Lanzillotta (del Pd) per gli Affari regionali a proposito della riforma delle utility (servizi) negli Enti locali, come passaggio chiave per una crescita economica dei sistemi locali e dei salari con riduzione delle tariffe; sembrerebbe una prova generale di concertazione con il Partito delle Libertà per il dopo elezioni. Il ministro, dopo avere espresso la coesione di tutto il Pd sulla riforma da varare per essersi liberato della sinistra radicale, pone la priorità della liberalizzazione del settore idrico sulla gestione della distribuzione dell’acqua, lasciando al monopolio pubblico-locale il controllo delle risorse, a maggior vantaggio del Meridione che presenta grandi sprechi d’acqua. Sembrerebbe che la proposta della Lanzillotta vada nella direzione di una più spinta liberalizzazione (almeno per quanto riguarda l’acqua), con incentivi concessi alle amministrazioni locali (Municipalizzate), rispetto a quella di Schifani (Pdl) che propone soltanto di privatizzare (privatizzazione senza liberalizzazione, senza cioè disfarsi delle imprese sotto controllo delle municipalizzate) i servizi pubblici locali, e far affluire così, la tassazione delle imprese che gestiscono il servizio pubblico nelle casse degli Enti Locali.

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