Lo strumento referendario non è uno strumento che si presta a risolvere questioni riguardanti il mondo del lavoro, naturalmente dalla parte dei lavoratori. Per il semplice motivo che si vanno ad intaccare interessi forti, quello del mercato capitalistico per intenderci, che con le mani e con i denti si tengono stretti i propri incassi e che ricorrono a tutti i sistemi per dissuadere l’ “opinione” dell’elettorato che, non dimentichiamolo, è un agglomerato interclassista e quindi non di parte.

La legge 30 è una legge voluta fortemente da tutto il mondo imprenditoriale e sostenuta dal mondo politico istituzionale con debole, incongruente, inefficace opposizione di Rifondazione (la quale si è limitata in sostanza alla grande adunata dello scorso autunno ma che, nei fatti, non ha determinato nulla sul terreno dell’organizzazione e della mobilitazione, perché non era nelle sue corde).

La legge 30 ha introdotto nel mondo del lavoro situazioni di forte precarietà e quindi di ricattabilità. Ciò ha favorito una situazione di rottura dell’unità materiale dei lavoratori e di conseguenza ha portato questi a vivere in un clima di concorrenza deleteria per la difesa delle proprie condizioni di lavoro, sia per quanto riguarda la parte retributiva sia per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro stesso. Non è un caso che gli incidenti sul lavoro siano fortemente aumentati negli ultimi anni.

La legge 30 ha inoltre determinato ripercussioni gravi anche fuori dell’ambiente del lavoro, in quanto ha contribuito a scardinare elementari principi di solidarietà sociale. Non dimentichiamoci che il mantenimento di un tessuto di solidarietà sociale è la “materia prima” della resistenza a tutti gli interventi del capitalismo sia in casa che fuori casa.

Se finora non si è stati in grado di osteggiare la legge 30 e la logica che la sostiene è “semplicemente” perché i rapporti di forza nella società sono stati nettamente a favore della parte avversa. Non è detto che debba essere sempre così. Ma per il momento è così. Prescindere da questi rapporti di forza non è segno di razionalità politica. E la razionalità politica è l’anima di una politica tesa a difendere le condizioni delle classi oppresse e, più in generale, tesa a contrastare il capitalismo e l’imperialismo. Questo significa rinunciare all’attività o peggio ancora assecondare il movimento “spontaneo” indotto dal capitale? Proprio per niente. È come dire che siccome l’imperialismo è così forte noi rinunciamo a svolgere un’azione antimperialista che all’oggi si basa principalmente sulla resistenza.

Chi propone oggi il referendum sulla legge 30 tende a ragionare così: in mancanza d’altro proviamo ad agire su un piano che ci mette a disposizione la Costituzione e forse così riusciamo ad ottenere qualcosa. Ve la immaginate voi, ammesso che si vada al referendum, la campagna mediatica che si scatenerebbe contro l’irresponsabilità di chi vuole mettere a repentaglio la possibilità di una ripresa dell’azienda Italia? Non è per fare la storia ma in situazioni più “forti” si sono persi dei referendum sulla carta molto ma molto più facili: quello sulla scala mobile (dove su trattava di difendere un meccanismo di recupero del potere d’acquisto del salario) e quello sull’estensione dell’art. 18 alle aziende medio-piccole. Una riflessione sull’esito di questi è stata fatta ma ho l’impressione che i promotori del referendum sulla legge 30 l’abbiano fatta al contrario.

Per concludere queste mie note: ho la sensazione -e qui divento malizioso- che determinate forze politiche vogliano “ripulirsi” e riproporsi come referente nella prospettiva di una sicura legnata elettorale. Volendo far dimenticare di essere stati al governo per quasi due anni. E per fortuna solo due e non quattro.

Per questo mi auguro vivamente che non si vada a questo referendum. Se si hanno energie da spendere si indirizzino nella direzione giusta: lavorare nei posti di lavoro, nella società, perché si ristabilisca l’ “ordine delle cose”. Cioè che torni ad essere “naturale” l’idea che le priorità sociali non devono essere dettate dal capitale ma dai bisogni della collettività umana che non ha nulla da spartire con il sistema capitalistico.