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    Il mito delle origini. Religione dell'eroe e della terra nella cultura tedesca

    Le tradizioni prendono forma col procedere del tempo e con il progressivo allontanamento dall’Inizio. E’ allora che l’Origine diventa mito dell’origine, dando vita a immagini simboliche che contengono il significato e il suo opposto, la norma e il suo rovescio. E’ così che in terra tedesca si accentrano su Odino-Wotan, ancestrale modello archetipico gravato di occulto, tutte le contraddizioni, rendendolo vaso contenitore di estremi; egli stesso, anzi, manipola e impone gli eccessi. La regalità odinica veicola un topos germanico che non avrà requie se non a seguito del più abissale scatenamento del tragico, vissuto retrospettivamente come colpa collettiva pressoché inespiabile. Odino è figura sovrana, solare, molto simile al Giove olimpico, si presenta con elmo d’oro e corazza e nella mano destra reca l’infallibile Gungnir saettante; è insieme il burrascoso e il bonario, il terribile e il sapiente, è dio dell’amore e della guerra, sa trasformarsi in aquila e atterrire nelle notti di tregenda, quando col suo esercito di spettri rompe l’aria di ululati per recarsi alla caccia selvaggia della Wildfrau; è il padre pietoso di tutti, ma anche colui che impone sacrifici cruenti in suo onore; è mago e poeta, in una parola: è dio del bene e del male.
    Wotan è rappresentazione cosmica delle esasperate possibilità della natura e della vita e come tale ha potuto incombere a lungo sulla psiche tedesca. In qualità di Allvater, poi, è stato anche visto come un annunciatore dell’idea monoteistica, benché sovrano di un pantheon popoloso1. Principio regale e principio tellurico convivono in lui, nel momento in cui le sue energie demiurgiche si dispongono ora alla distruzione ora invece a regolare l’ordine delle cose; eroe solare o mago lunare, la sua è la funzione sovrana dell’onnipotenza. Secondo Carl Gustav Jung, l’archetipo «Wotan» è un fattore psichico in grado di produrre «effetti collettivi» manifesti o riposti, che sposandosi al kàiros, il tempo propizio, può esplodere fragorosamente o implodere occultamente, come fosse una «epilessia latente»2.
    Siamo dunque oltre la mitologia, al cospetto di un mito vivente. Il mito eroico si accompagna pertanto alla concretezza del reale, non è affabulazione onirica ma precipitato di significati vivi, a contatto diretto con la storia. E a contatto pure col vissuto materiale, con la terra percepita nel suo ruolo di madre, ventre sempre fecondo da cui scaturisce la vita. Mythos e logos, secondo Walther Friedrich Otto, sono già in Omero parole univoche ed entrambe si intrecciano al terreno accadere: «Mythos è la “storia” nel senso dell’accaduto o di ciò che sta accadendo» e come tale non va tradotto ma accettato, rendendolo creativo attraverso l’agire, ad esempio «grazie alla mano» che erge la colonna e dà forma al sacro3. In questo senso, il mito germanico presenta la stessa struttura di quello greco, veicola una paideia-Bildung, impone un destino e si inscrive nella volontà d’azione. L’eroe omerico conosce la sua più elevata stilizzazione nell’eseguire con onore il codice di casta che esige il compimento dell’opera fino al sacrificio di sé. Prende vita così una concezione esistenziale fondata sul grandioso e sul tragico, per il quale vi è vittoria solo nella fedeltà al destino. «Lotta e vittoria […] rappresentano non solo il trionfo fisico sull’avversario, ma la conferma dell’areté strappata alla natura con dura disciplina»4.
    Questo ergersi dell’eroe a protagonista che non subisce ma pretende il destino, in qualunque sua forma, giunge alla fine di una struttura psicologica che è quasi una cerca del suicidio, alimentandosi a un tempo di hybris semidivina e di ardente megalopsychos, aristocratico orgoglio di ascendere all’onore perpetuo. In nulla diverso è l’eroe germanico: egli lotta con le potenze infauste – esemplificate dalla corruzione apportata dall’oro, quello nibelungico, quello dei Volsunghi -, primeggia in valore, reclama la lotta, non rifugge quando occorra dall’inganno (vi ricorre lo stesso Sigurd) e tantomeno dalla rovina: Hagen uccide Sigfrido per tener fede al patto, non per malvagità, ma per compiere la volontà del destino. Forze oscure e luminose, telluriche e celesti confluiscono su eventi e personaggi tanto nell’epica greca quanto nella saga nordica. Esse costituiscono i contorni di una memoria che è ricordo dell’origine, del momento iniziale in cui l’uomo arcaico sperimentò per la prima volta gli abissi della vita e della mente. E in seguito ne fece monito (che equivale a monstrum) a saper fronteggiare l’eccesso e l’estremo limite con la volontà e il giuramento di fedeltà a se stesso. Il modello più esorbitante di tale attitudine è proprio Odino, il dio che sacrifica se stesso a se stesso, il dio dei suicidi5.
    La convivenza di valori eroici e ctonii, di cui è così a fondo intriso l’archetipo botanico, non è prerogativa germanica, la si ritrova in tutto l’ambito indoeuropeo, a svolgere la trama di una Tradizione in fondo unitaria. Basti pensare all’eroe-antenato, cui si attribuiva un culto che in area ellenica abbìna la solarità del personaggio alle relative pratiche cultuali, tipicamente ìnfere, comprensive di sacrifici notturni, olocausti di nere vittime, devozione magica al tumulo da cui si diparte un’aura fausta per l’intera comunità di appartenenza.
    Sappiamo che l’eroe divinizzato era l’ampliarsi su sfera religiosa di precise personalità storiche, date per realmente vissute, il cui retaggio costituiva patrimonio primario del gruppo, con tutti i suoi valori, spirituali come materiali, olimpici come tellurici. E’ sufficiente l’esempio dell’argonauta Anfiarao, uno dei Sette contro Tebe, che col suo carro solare sprofondò tra le viscere della terra e che venne divinizzato in qualità di nume divinatore. Procedimento non dissimile, nel suo significato di fondo, ha avuto nella cultura tedesca il passaggio di personaggi archetipici da reali a mitici, da concreti a teofanici: ne fa fede l’Imperatore dormiente nel santuario turingio del Kyffhäuser, luogo di culto dei valori comunitari, in cui ciò che si mitizza è tanto il Barbarossa storico quanto l’impersonale sovrano che segna una maestà senza tempo.
    Una così evidente riattualizzazione dell’evento storico associato al cominciamento atavico ebbe nell’Ottocento tedesco un risveglio improvviso, associabile anche alla crisi politica in atto dal 1948. E, accanto a una schiera di storici e poligrafi minori, fu Wagner a recitare la parte dell’ispirato suscitatore di virtù primordiali, chiamate a rivelarsi di nuovo. In un suo scritto giovanile, anticipatore della tetralogia nibelungica, dedicato ai Wibelungen, Wagner operò un’identificazione tra il dio solare Sigfrido e il Barbarossa, che di quello doveva essere stato la reincarnazione e il proseguimento principiale, così come l’oro del Reno poteva essersi tramutato nel Santo Graal attraverso un principio di traslazione compiuto dall’inconscio collettivo tedesco. I Wibelungen – termine immaginoso che stava per «Ghibellini» e «Nibelunghi» allo stesso tempo – assurgono a garanti di una sacralità che trasferisce sugli Hohenstaufen – e quindi sugli Hohenzollern, quando sapranno rivelarsi i restauratori dell’antica dignità germanica – il ruolo di stirpe eletta votata al dominio, secondo la tradizione. Il biografo R.W.Gutman così tratteggia il mitologema wagneriano:

    Wagner sostiene che tale tradizione si è preservata tra il Popolo anche durante i periodi di degenerazione. Grazie alla loro discendenza dal dio-eroe Siegfried, i grandi imperatori germanici gli erano subentrati nel diritto di lottare simbolicamente per l’oro nibelungico e per il suo potere di dare il dominio sul mondo. Questi eredi del tesoro dovettero compiere grandi imprese, poiché la vittoria sul drago da parte del dio-eroe andava ripetuta sempre di nuovo; la conquista, il possesso e la conservazione dell’autorità divennero un rituale per questi regali eredi di Siegfried, votati alla simbolica riconquista del pegno6.


    Il mito autentico, insomma, nasconde la capacità di reincarnarsi nelle epoche. Come in Grecia, è la storia pensata nel senso del sublime, sia idillico che tragico7.
    A fianco e al di sotto della potente ricreazione dell’opera wagneriana, si agitava nella Germania imperiale – come fosse una energia incubatrice di future sintesi politiche – tutta una cultura incentrata sul recupero storico del mito e del risveglio delle origini. Dalla riproposta di un nuovo germanesimo, arcaico e insieme moderno, effettuata ad esempio da un Felix Dahn, storico e narratore che scriveva saghe eroiche alla maniera degli antichi scaldi8, fino agli anni venti del secolo XX ed oltre, fu una così intensa riemersione di tematiche neogotiche e mitiche, primordiali e völkisch,che ricorrere solo a qualche spunto potrebbe non bastare per rendere la valenza di cultura popolare diffusa, penetrata a fondo nel conglomerato ereditario tedesco in epoca moderna. Ma facciamo ugualmente alcuni esempi. Un caso paradigmatico fu certamente quello di Guido von List, l’erudito esoterista che fece scuola nel suo sforzo di recuperare cimeli linguistici antico-germanici e nella sua teoria che l’arcaico wotanismo era scorso incorrotto per secoli al di sotto dello strato esteriore imposto dalla religione cristiana ufficiale; così che nella scultura, nella pittura, nella grafica, nei resti archeologici, un po’ ovunque si celerebbero i segni certi della presenza pagano-germanica. Glifi, simboli, nomi, geometrie araldiche, una volta letti alla luce di una precisa volontà di sapere, non mancherebbero di rivelare la perdurante potenza e presenza della religiosità odinica, le cui rune magiche si erano dovute ritirare nel mondo segreto della conoscenza esoterica9. Ma questo mistico ricercatore – il cui approccio antiscientifico è stato da G.L. Mosse definito «metodo storico intuitivo» - diceva di più. Così come nel corso dei tempi il vero sapere germanico era divenuto patrimonio forzato di cerchie esclusive – il «tribunale nascosto» della Santa Vehme, i Minnesänger, le varie gilde medievali – ad altri cenacoli doveva nel tempo presente riservarsi il compito storico di custodire l’avìta religione per poi, in virtù di qualche augurabile e fatale accadimento, rivelarla a tutto il popolo, finalmente riconsacrato.
    Era, questa di List, l’idea dell’Armanenschaft, sodalizio sacerdotale di devoti a Wotan: idea non rara in un’epoca ricca di tendenze settarie di ispirazione teosofica, ma assai rivelatrice in quanto riproposta, sotto rinnovate spoglie, di memorie antichissime, riferite al concetto di scuola filosofica e, ancor più, a quello di associazione culturale e operativa legata alla religione degli eroi: affiliazioni di questo tipo in Grecia vigevano di norma. Sotteso a un programma simile, oltre al tentativo di sviluppare in chiave moderna il retaggio tradizionale delle fratrìe – che, nel germanesimo primevo, corrispondono ai Berserkir, i gruppi di guerrieri-ossessi a sfondo iniziatico – innestandolo in quello tipicamente tedesco dei Männerbunde, c’era anche e forse soprattutto il disegno di inserire queste tematiche culturali nel vivo tessuto dell’attualità politico-sociale, col fine di influire sui fatti, nel senso di promuovere la restaurazione di una comunità popolare tornata agli obliati valori delle origini.
    Questo è il momento in cui la Kultur diventa politica e l’ideale pazientemente coltivato per intere epoche da pochi veggenti si apre all’azione, diviene di nuovo, come un tempo, storia in atto. Come è stato esattamente sottolineato a proposito del pensiero rivoluzionario-conservatore di Hofmannsthal, l’ordine antico può essere visto come utopia mitica che si realizza nella Kultur «oggettivata», cioè appunto nella Politica10.
    La valorizzazione del ruolo svolto dalle società segrete virili rituali – a suo tempo studiate dal Dumézil e dagli studiosi accettate come tipiche ma non esclusive del mondo germanico – finì poi per consegnare al Nazionalsocialismo un coltissimo strumentario antropologico-culturale, sul quale non fu difficile innestare il filone ideologico più interno di quel movimento politico, recante anch’esso l’omaggio all’elezione di cerchie privilegiate, nel senso di un sistema a gerarchia aperta, destinata alla produzione delle sempre rinnovate aristocrazie di popolo: dapprima le “populiste” SA, in seguito le più esclusive SS. Ma, le une e le altre, ideologicamente in stretto contatto con la memoria delle antiche società occulte germaniche. Gli studi svolti negli anni trenta del Novecento da eruditi quali Otto Höfler e Lily Weiser sulle associazioni iniziatiche maschili, furono il risvolto ideologico e politicizzato di un’eredità ancestrale mantenuta vitale dalla cultura tedesca, incentrata sulla coppia rappresentata dall’Eroe e dalla Madre Terra, poli solo esteriormente in opposizione tra di loro, in realtà l’uno necessario e funzionale all’altro. Alfred Baeumler considerò il Männerbund una forma «inscindibile della manifestazione di vita di tipo eroico» che al tempo stesso scaturiva dalle intimità del mondo contadino11.
    Quando viene evocata la saldatura rivoluzionaria fra la Germania mitica e quella reale del Reich a venire, ciò che si compie è il prodigio speciale dell’utopia tradizionalista, il raccordo, cioè, spontaneo e per nulla inibito da circostanze anche le più avverse, tra origine e momento attuale. L’eroe è un simbolo regale e potrebbe apparire a qualcuno in netta contrapposizione con immagini di dionisismo sacerdotale; eppure nell’eroe frenetico, nel Berserkir rapito da furor guerriero, i due elementi si accoppiano e l’inveterato dualismo che grava sulla Tradizione (giorno-notte, sole-luna, maschio-femmina, fermezza-deliquio ecc.) in realtà stempera l’antitesi, in nome di una necessaria complementarietà. Nell’uomo-orso, oppure nell’uomo-lupo della schiera di Odino, scatenati nell’eccitazione animalesca, noi leggiamo una facoltà psicologica che è propriamente medianica ed estatica, il che riporta alle considerazioni dedicate da Schelling alla malattia sacra di Eracle, «vale a dire l’epilessia, giacché quest’espressione è estesa a tutti i mali connessi con una perdita di sé, con la catalessi, con stati estatici. La malattia di cui soffre colui che è dato originariamente per la salvezza dell’umanità era certamente una ierà nòmos, una malattia religiosa, un morbus sacer, perché proveniva da uno stato estatico della coscienza»12. Eracle, l’eroe per eccellenza, è eminente in tutti i dominî, anche in quello ctonio, da lui conosciuto per aver lungamente combattuto con Thanatos, la morte. Eracle, eroe solare, è nondimeno archetipo misterico e magico. Eracle è un Berserkir.
    La connaturata giustapposizione di motivi discendenti e ascendenti non ci pare debba riferirsi al discusso passaggio dalla condizione matriarcale a quella patriarcale: il potere rimane nelle mani dell’elemento virile, ma è il potere visibile, essoterico; l’altro potere, quello riposto della possessione e dell’incontro con l’ignoto, rimane anch’esso sovrano sulla parte, pericolosa ma ineludibile, che è rivolta all’enigma e al misterioso. I contrari si completano a vicenda e sfuggono ad antitesi intellettualizzate se portati sul terreno della vita autentica, a contatto dell’uomo, che è fatto di spirito come di materia. I contrari convivono se fecondati da un mito vero e non artefatto, da un mito che è sangue e storia e non ipotesi di lavoro o materiale di ricerca. Questo lo sapeva assai bene un ricercatore del rango di Bachofen, «l’unico studioso che identifica mito e storia, se escludiamo alcuni suoi molto cauti precursori ottocenteschi»13 e che conosceva tutte le pieghe dell’umana compiutezza, da lui una volta richiamata anche con l’esempio del duplice amore di Psiche, quello lascivo afroditico e quello gioioso consumato con Eros. Ma, precisava Bachofen, nonostante che qui si compia un passaggio dal carattere tellurico a quello uranico, «Psiche viene elevata dalla terra ctonia a quella celeste»14, senza che si verifichino particolari ascensioni nel puro trascendente. E’ viva e rimane esempio di vita.
    Forse per questo Bachofen fu riscoperto proprio dai Cosmici monacansi, i «filosofi della vita». Di questi, Klages fu forse l’ingegno maggiore. Egli introiettò la convinzione bachofeniana che il culto arcaico dei morti, giunto a noi nelle sovrabbondanti simbologie funerarie dei sarcofagi, delle lapidi, dei sepolcreti, lungi dall’essere la manifestazione di una paura psicotica della morte, era al contrario celebrazione dello svolgersi della vita al di là della temporalità materiale, era un canto al superamento di ogni barriera e alla possibilità umana di esperire una dimensione di eternità. Klages affermò che la trascuratezza per le anime dei trapassati, invalsa nella Modernità quale sincope della Tradizione e rinnegamento del legame psichico che crea la catena degli avi e degli eredi, era la causa prima della caduta dell’uomo privo di centro nel perenne stato di angoscia, afflitto da quel senso di vuoto esistenziale che pervade chiunque non sappia vivere una dimensione ulteriore rispetto a quella logico-positiva dell’effimero.
    I morti allora diventano vampiri:


    Le anime dei morti che l’egoistica freddezza dei vivi ormai non nutre più divengono vampiri assetati di
    sangue, ed è vano cercare di placarle con ecatombi di animali e di uomini. Nervo cardiaco del presente
    di tutti coloro che sono caduti nella pazzia della fede nel futuro è l’angoscia: angoscia di fronte alla
    morte, angoscia di fronte al domani, angoscia in generale, e angoscia per il prossimo minuto, angoscia
    per il delittuoso lasciarsi sfuggire la vita15.


    Il culto dei morti, altrimenti esprimibile come rispetto per la Tradizione, fedeltà al passato che garantisce il futuro, è dunque in realtà un culto della vita, è un culto eroico, è anzi il culto eroico per antonomasia, se solo si pensa a quel particolare rituale arcaico che era l’incubazione, in cui le spoglie dell’eroe venivano deposte a diretto contatto con la madre terra, con le potenze racchiuse nelle sue viscere, celebrando così un matrimonio mistico fra il cielo e la terra, le cui energie riunite erano viatico sacrale e augurale.
    Alle spalle di tutto ciò vigeva il senso dell’Essere che domina sul Divenire, il Sein che sovrasta il Werden, da cui scaturisce quel sentimento di Ehrfurcht, la deferenza per i valori tradizionali della stirpe, di cui ad esempio ha parlato G.Cambiano a proposito del patrimonio collettivo dorico considerato da K.O. Müller un vertice insuperabile delle potenzialità culturali e politiche umane16. Un patrimonio che tutti gli ingegni anti-moderni, tedeschi e non, considerarono che ormai poteva dirsi appartenente al passato, a causa dello sfrenamento vorticoso dell’ultima arma in mano al nichilismo logico-razionale, cioè la tecnica, o meglio il tecnicismo: inerte materia non guidata da alcun valore d’ordine superiore. Una macchina che Klages giudicò costruita dalla voracità di ciò che egli chiamava Geist, loSpirito, la ragione calcolante, brutale annientatore dell’Anima che invece, per millenni, aveva fatto pulsare l’Eroe all’unisono con la Magna Mater. Un nemico vittorioso, le cui insidie maggiori egli diceva provenire proprio dalla sua abilità nel farsi riflessivo e “ragionevole” e quindi credibile. Ciò che Heidegger, col medesimo significato, definiva come «ragione nemica del pensiero»17.
    Il «cosmo divenuto uomo» nel senso di Klages – e di Stefan George, e di tutti i portatori del pensiero mitico, Nietzsche compreso – volge all’ascendenza e alla coincidenza tra umano e sovrumano, così da riannodare i dispersi legami di un sentimento daimonico della vita, alla cui frantumazione lavorò fra i primi il Cristianesimo, questa «religione nemica della vita». Pagano per noi non significa una parte di storia, ma la fede nella «realtà extrapersonale dell’attimo fiammeggiante», scrisse Klages18. Il concetto di «realtà extrapersonale» è in stretta relazione con quello di Mutter Erde, è la terra avvolgente bacino di potenze arcane acquisibili in stati di particolare ricettività psichica. Ma non si tratta di qualcosa di assolutamente impersonale, se lo stesso Klages ebbe a scrivere: «Dobbiamo quindi distinguere con precisione il contenuto dell’ebbrezza e le condizioni del suo presentarsi. Anche se queste possono essere nell’unione di una folla, sia per una festa, sia per gli usi di un culto, l’ebbrezza può nondimeno appartenere alla specie di quelle proprie del singolo», così da ingenerare quell’intenso moto dell’anima che è l’Eros che si compie19.
    Il momento estatico della trance pulsionale è una vittoria dell’Io che si compie col concorso del Cosmo: antica certezza, questa, presente in terra tedesca già nel valore interiore dell’esperienza mistica quale atto conoscitivo personale, secondo il pensiero “ereticale” di Meister Eckhart: «Perché chi vuole penetrare nel fondo di Dio, in ciò che esso ha di più intimo, deve prima penetrare nel suo fondo proprio, in ciò che esso ha di più intimo. In effetti, nessuno può conoscere Dio se non conosce prima se stesso»20. La fede non solo come atto misterico, ma come atto eroico. E’ stato detto che Paul Natorp – il filosofo che seppe cogliere meglio di altri il rapporto moderno tra l’individuo e la funzione sociale – scorse in Meister Eckhart «il fondamento della individualità che, basata sulla interiorità, non nega la comunità, ma, anzi, dando luogo alla vera “università”, rende possibile un più profondo rapporto con chi ci circonda»21.
    L’eroismo della fede si confonde con quello della comunità, l’uno, che «è il cielo, il creativo», si sposa col due, che «è la terra, il femminile e il ricettivo»22, testimoniando in questo modo con quale profondità la cultura tedesca tradizionale seppe assumere in sé il duplice mito degli eccessi, dall’ordine aristocratico-regale a quello magico-orgiastico, dalla devozione alla luce a quella per l’occulto. Questi temi, radicalizzati e portati alle estreme conseguenze negli anni delle ideologie rivoluzionarie, li ritroviamo integrati e inseriti nel mito politico comunitario del Nazionalsocialismo, dalla cui ideologia più interna fu compiuta l’ardita saldatura tra la modernità faustiana e i primordiali mitologemi, tanto gli eroici quanto i tellurici.
    Se pensiamo infatti al doppio binario su cui corse quella ideologia – eroico e, ad un tempo, materno – noi vediamo che il cerchio si chiude dalle origini al moderno, costituendo un percorso parabolico. Nell’ideologia nazionalsocialista, lo scatenamento prometeico dell’Eroe, oggettivato nell’Io collettivo della razza come nella figura del Führer visto quale provvidenziale salvatore, si salda in modo pieno e complementare con l’affidarsi alla matrice misteriosa del Blut edel Boden,in qualità di scrigni di tutte le virtù più segrete e preziose del Volk.
    Meister Eckhart piacque ad Alfred Rosenberg, che ne parlò estesamente ne Il mito del XX secolo; gli piacquero la sua coscienza aristocratica, il suo orgoglio eroico, quasi superomistico, la sua concezione della morte come semplice episodio della vita:


    Da questa massima consapevolezza filosofica risulta per uno spirito libero come Eckhart anche la
    necessaria conseguenza antiecclesiastica, che la morte non è il soldo del peccato, come ci vogliono
    dare ad intendere gli scribi prendenti le mosse da una dimostrazione di tremebonda paura, bensì un
    evento naturale e in fondo poco importante che non tocca ciò che vi è in noi di eterno, che era
    prima e dopo continuerà ad essere. Con magnifico gesto Eckhart grida al mondo: «Io sono la causa prima di me stesso»23.


    Ma anche altrove, noi riconosciamo simili attitudini. In Hölderlin, ad esempio. Sua è la celebrazione di un tempo primevo segnato dalla pànica assonanza di valori umani e divini, sullo sfondo di una natura che farà da scenario alla rappresentazione del mito tragico24; sua è anche la volontà di dotare l’anima di una sempre crescente scorta di potere, fino a padroneggiare la coscienza al di là del bene e del male: «E’ una grande risorsa dell’anima che lavora in segreto il fatto che essa, giunta al più alto grado di coscienza, eviti la coscienza e, prima ancora che il dio presente effettivamente la afferri, lo fronteggi con un linguaggio temerario, spesso addirittura blasfemo e conservi così la sacra vivente possibilità dello spirito»25.
    Sono parole chiare e gravi, da poeta che conosce il linguaggio degli dèi e lo rivolge al suo popolo. Hölderlin definiva le saghe «la voce del popolo», l’attimo creativo in cui «un popolo è memore della sua appartenenza all’ente nel suo insieme» - secondo quanto scrisse Heidegger – guidato sulla via della memoria e del destino dalla figura pontificale del poeta26. Se per Hölderlin origine, natura e sacro coincidono, dobbiamo però sottolineare che non si tratta per lui di disegnare un quadretto di maniera: l’Ellade cui il poeta pensò come all’originario alveo dell’Essere, e di cui la Germania era lo specchio, è un luogo di passioni veritiere, il tragico non è cupa ossessione di rovina ma il risvolto problematico della chiarità mediterranea, sulla quale indugiarono un po’ i rètori e gli esteti alla Winckelmann, innamorati come neoclassicisti di una Grecia a volte da stampa d’epoca, trascurando la vera Grecia, che fu sì apollinea, ma anche dionisiaca.
    Hölderlin è un parametro essenziale per distinguere il filo rosso che unisce l’ancestrale wotanismo ai miti ideologizzati del Novecento. Le sue esclamazioni titanistiche - «ho vissuto una volta come gli dèi: e di più non occorre», scrisse nella poesia Alle parche– sono la voce di un poeta fattosi eroe della parola e traduttore dell’indicibile nella lingua del popolo. La natura sacra, prima e dopo Hölderlin, rappresenta a un tempo il barbaro e il virginale, la sfrenatezza e la purezza, e alla natura insieme solare e lunare si rivolgono spesso tanto gli spiriti mistici, quanto i raziocinanti.
    Non erano state soltanto individualità particolari come Paracelso o come Jakob Böhme a proclamare che «l’uomo come anima è analogo alla natura»; anche in Goethe il mito dell’identificazione primaria uomo-natura è fondamentale, e stabilito in una eguale capacità di creare27, cosicché soggetto biologico e soggetto ontologico sono indistinguibili nella loro perenne integrazione. A questo si aggiunga che la stilizzazione di forme culturali eroicizzanti, quali Prometeo, Egmont e Goetz von Berlichingen, operata da Goethe, completa il quadro del discorso nel senso da noi proposto, unificando l’universo naturistico della Madre con quello volontaristico dell’Eroe28. E c’è chi ha visto in Goethe, e anche in Beethoven, al di là del loro sbrigliato titanismo, due cultori della fedeltà al patto fatale che lega l’uomo al suo destino29. La cultura tedesca è attraversata in lungo e in largo dal sentimento panteistico della natura, ciò che sotto forma di Sehnsucht lascia scaturire un eterno anelito di smarrimento e insieme di compenetrazione col Tutto cosmico: sensibilità pagana, frutto di quella «introversione obiettiva» che Hermann Keyserling disse connaturata all’indole nordica.
    Dal momento che il trauma moderno è consistito nel distacco dalla natura, che ha prodotto la scissione morale generatrice di angoscia diffusa30, ciò che è accaduto nel frattempo è stato l’abbandono dei referenti magici in ossequio al contro-mito sradicante divulgato dalla civilizzazione. Mago Merlino – uno dei simboli, tra l’altro caro a F.Schlegel, della fusione simbiotica col ciclo mutevole ma eterno della natura – è stato per così dire abbandonato nella foresta sacra, il tempio vivente dei Germani. Il contatto primordiale si è interrotto nella coscienza e nella mente. E’ ciò che intese rilevare Wagner nel tratteggiare la figura di Erda, la tenebrosa Grande Madre Terra dalle nere chiome che compare nell’Anello dei Nibelunghi. E’ il grembo che chiama, è l’origine. Finché non diventò la voce del sangue, una voce cui non è dato sottrarsi senza rinunciare alla personalità e all’identità.
    La discendenza della religione della Madre dallo spirito della terra – anche intesa, questa, in senso geologico – è troppo nota perché vi si indugi. Ciò che importa accennare è che il mito arcaico ebbe un rapporto fisiologico e viscerale con gli accadimenti tellurici dell’epoca preistorica e ne riportò impressa la memoria, leggibile nei reperti terminologici e mitografici giunti fino a noi. Il contatto col grandioso prodursi di enormi fenomeni sismici fu con tutta probabilità all’origine del mito dei Giganti, che in area tedesca spesso troviamo in competizione con Wotan, e i cui nomi tradiscono la provenienza da un’immaginazione fortemente traumatizzata: Ymir è il tonante, Logi cela un ètimo che significa fiamma, Beli è il boante, ecc. Giganti, Titani, Centomani, Ciclopi, sono i protagonisti di una teogonia cui lo stesso Esiodo prestò i contorni di evento caotico fondatore dell’ordine31. In base a un sincretismo simbolico assai esplicito, Helios, dio del sole, è generato dal Titano Iperione e dalla Titanessa Tea, identificata con la Luna, il che ne fa un frutto delle nozze tra la terra e il cielo, ma invertiti di ruolo rispetto alla tipologia maschio-femmina abituale: qui la Luna è celeste e il Titano è tellurico, sindrome traspositiva che ritroviamo nel genere femminile del vocabolo tedesco Sonne, che torna maschile solo nel suo aspetto funzionale, der Sonnengott. Questi intrecci semantici ci interessano per sottolineare in che modo l’antica polarità degli opposti non costituisse affatto un dualismo irrisolvibile, nonostante la loro conflittualità che, come sempre, anche qui, è parte integrante dell’ordine. Non c’era una virilità buona e positiva che inibisce e osteggia una femminilità perversa e negativa – secondo un refrain tardo-antico su cui hanno insistito a lungo vari studiosi, come ad esempio Neumann o Evola – ma al contrario c’era il fruttuoso interagire, paritetico in dignità religiosa e simbolica, di due elementi, lo spirituale e il corporeo, egualmente necessari per dare completezza alla visione delle cose del mondo.
    La loro è una lotta tra eguali, né questa lotta ha esiti che stabiliscano priorità morali. Ha scritto K.Kerény che «la battaglia tra natura e spirito ha avuto inizio e continuerà a essere combattuta finché esisterà l’uomo europeo, erede dello spirito greco»32. Gli studi di Franz Altheim, tra gli altri, hanno dimostrato la decisiva importanza della presenza del siriaco Sol Invictus (per altro di provenienza caldaico-iranica) nel tardo pantheon romano, accolto come identificazione del prisco e autoctono Sol Indiges e portatore di una solarità multiforme, dove il lato femminile e quello virile giungevano a tale compenetrazione da farsi talora indistinguibili. Ad esempio, Altheim riporta il caso delle pratiche di guerra in uso presso la dinastia mediorientale di Emesa, devota ai culti solari, durante le quali le donne – come accadeva in talune tribù germaniche - con le loro grida erano solite spronare i guerrieri sul campo di battaglia, così da far loro raggiungere lo stato di «entusiasmo estatico» necessario a conseguire la vittoria33. Il germanesimo non ebbe bisogno di attendere influssi orientali per far salire al livello del conscio il dato acquisito che la divinità eroica era in simmetria e non in opposizione con quella materna. Questa ne era anzi il presupposto, in qualità di ventre fecondo e, al tempo stesso, ne era la destinazione: la tomba. La Mutter Erde germanica, l’Alma Dei Mater dei Latini, la nostra sopravvissuta Madre Natura, anche quando messa in ombra dall’invasivo e più tardo Padre Onnipotente di matrice biblica, è sempre stata una presenza costante, se pure riposta e, alla fine, circonfusa di una greve aura di “peccato”. Ma non si tratta tanto della primitiva Grande Madre pre-indoeuropea, la genitrice animalesca, sanguinaria, protagonista delle ère paleolitiche presso quei sostrati umani ancora oscurati dall’incultura. La Madre tradizionale è invece quella figura femminile che entra nei pantheon delle civiltà greca, latina, germanica con i tratti ingentiliti ma naturali dell’istinto atavico, del ricordo memoriale della stirpe, del prezioso forziere genetico in cui viene preservata la fecondità del ceppo. Albrecht Dieterich, lo storico delle religioni che ebbe non poco influsso sull’antropologia culturale tedesca del Novecento, scrisse:


    Sarebbe strano che l’antica fede in una divina Madre Terra, che dall’antichità aveva sempre agitato l’intimo dell’umanità, venisse distrutta completamente nel momento in cui la religione vittoriosa instaurava la preghiera al Padre Nostro. Ma non è stato così: il più profondo credo religioso nella Madre Terra, sulle orme di Demetra e di Iside, non è affatto morto. Esso continua a vivere, a vibrare e a tessere nel profondo, per assicurarsi di nuovo vita e forma34.


    L’esatta coscienza che l’Eroe non è veramente tale se non posto alla prova con la sua origine prima, che colloca la genesi di tutto nella femmina e nel complesso di enigmi che essa sottende in maniera irrisolvibile, la sensazione cioè che non vi è compiutezza se non nel confronto con l’ignoto interiore, ha nel tempo generato incantamenti di poeti, misteriosofie, estasi malinconiche di ogni sorta dinanzi all’insondabile: nulla di tutto ciò ha però tolto energia al decisionismo prometeico che il genio – sia individuale che collettivo - percepisce ora come anelito all’essere e al sapere, ora come più quieto adattamento all’ordine delle cose, ora invece come scatenamento di energie conquistatrici. L’alta cultura come la cultura popolare tedesche vivono sia la volontà titanica che il segreto della femmina, che si esprime anche come operosità, armonia col creato. La vicinanza col «dio oscuro», col «dio ignoto» - sensazione già greca - è in Hölderlin, in Nietzsche35, come in Gottfried Benn, ma la ritroviamo anche nella devozione irriflessa del contadino, attento alle stagioni, ai cicli, agli influssi astrali, e come tale cultore naturale di divinità locali, prossime, domestiche, legate alla terra su cui vive e da cui trae alimento.
    Col confluire di tutti questi apporti dapprima nel pensiero rivoluzionario-conservatore e quindi nell’ideologia nazionalsocialista, avviene un fenomeno di sintesi che potremmo definire come la versione politica di un procedimento alchemico. Il fine dell’alchimista è quello di liberare la materia per liberare lo spirito. Jung parlò di «ripetizione dell’abbraccio cosmico di nous e physis», l’evento che permette di assicurare all’eroe, di cui esiste il mito alchemico, la forza d’animo che occorre per affrontare il viaggio nel «fuoco occulto» infero e di lì tornare col pegno, che è la vittoria sulla morte. Il fine più interno del Nazionalsocialismo, il suo fine metapolitico, fu per l’appunto di provocare la nascita di un nuovo mito, risorto dalla coniunctio oppositorum fra la volontà eroica e aristocratica dell’Io, espressa col simbolo della ruota solare sovrana, e il mondo primordiale del Noi comunitario, la fertilità biologica, la razza, di cui era simbolica rappresentazione la triplice runa della memoria, in uso presso le SS. E su tutto si agitava, anche qui, il mito dell’immortalità, del dominio sulla morte. Nella gloria eterna dell’Eroe, e nel suo ingresso nel pantheon memoriale del popolo, si ha un classico tipo di vittoria sulla morte e sulla caducità della vita. E, ugualmente, nella ciclica eternità della stirpe legata alla terra e alla figura generatrice della Madre, si ha il trionfo sull’effimero e la morte stessa torna ad essere nulla più che un episodio della vita. Nella mistica nazionalsocialista del sangue, dunque, noi vediamo ricongiungersi la coppia composta da Held e Mutter, in qualità di cardini del patrimonio immaginale comunitario. L’interpretazione del nuovo mito come «valenza libera» posta a basamento di una religiosità risorta dagli albori, è il risvolto ideologico della «funzionalità sociale dei valori di legame – di una “fratellanza” colorata anche misticamente»36. L’eroe non è mai solo, non lo è mai stato. L’eroe è popolo, appartiene a una stirpe, ha una Heimat; prima o poi, come Odisseo, come Odino il viandante, torna a casa.
    Vivere la linea femminile-materna nel senso della terra nativa, del paesaggio che plasma il carattere e del focolare che è il nido del ceppo familiare e quindi la cellula della stirpe, vuol dire riconsacrare la terra, riscattare il mito tellurico dal gravame demonico impostogli dalle falsificanti trascendenze sopravvenute nella storia, considerarlo parte della vita che è in noi e, anche quando dà spazio al misterico, farne in ogni caso un motivo di riaffermata saldezza interiore, che tanto più solidifica l’Io, quanto più questo viene esposto al pericolo dell’illimite. Questo certo non significa abbandonarsi ai deliqui disintegratori dell’intimo centro immobile necessario a ogni matura rappresentazione coscienziale. L’oscuro, il male, il brutto sono altrove, sono nelle energie negative – che possono essere tanto spirituali quanto materiali – che aggrediscono la personalità, sia quella individuale che quella collettiva, privandola del dono di un’identità certa e relegandola nel dis-ordine innaturale. Questi argomenti erano presenti nella cultura e nella pubblicistica nazionalsocialiste. Possiamo menzionare un caso particolare, ma non isolato: quello del filosofo Ernst Bergmann. Titolare della cattedra di filosofia a Lipsia fin dal 1916, la mantenne anche durante il Terzo Reich, di cui divenne uno degli intellettuali più noti. Egli poté sviluppare addirittura una teoria sul primato del sesso femminile, che solo la lotta per la vita avrebbe ridotto ad un rango di subalternità sociale. Sebbene osteggiato da altri studiosi, in Germania e fuori – e tra di loro vi furono Rosenberg e Evola – Bergmann affermava che nel campo dei valori ultimi la donna conserverebbe un ruolo di preminenza fin dai tempi più lontani («il dio della bestia umana è, parlando concretamente, la donna»), assicurandosi una maestà spirituale anche nell’ambito della religione ufficiale del medioevo germanico, «dove la divinità gotica era una madre, personificante il vivo grembo materno del mondo nella figura dell’Alma Dei mater»37.
    Il mito della potenza della razza aria non era dunque il bozzetto superomistico della propaganda storiografica post-bellica, ma qualcosa di più complesso che, svincolando l’ideologia dalla retorica, ogni volta comprendeva il fatto che un inno alla sanità della vita – quale, nietzscheanamente, intendeva essere il Nazionalsocialismo – è per forza un inno a tutta quanta la vita, in tutti suoi aspetti, dai luminosi agli oscuri, dai gioiosi ai tragici, dagli eroici ai materni. E proprio lo stato di grazia, l’illuminante percezione intuitiva del divino, era dal Bergmann ricondotto alla tensione verso il divino, la «volontà di indïamento», che opera la trasfigurazione: «L’uomo è veramente e veracemente Dio. Rendi questo divino in te ardente, deifica te stesso…»38. Il femminino, nell’universo immaginale prevalso in Occidente a seguito delle degradazioni prima confessionali e poi borghesi, è sceso al rango di mero strumento di seduzione, quando non di sabba stregonesco, e ciò è avvenuto a partire da talune violente forzature psicologiche attuate nella lotta per il potere in cui si è cimentata per secoli soprattutto la religione cristiana. Ma si è trattato di una trasposizione demonizzante puramente strumentale. In realtà, il regno del magico legato alla terra è sempre stato un appannaggio delle caste superiori, regali o sacerdotali, e nelle epoche pagane ha sempre avuto dignità sacrale.
    I segnacoli di sopravvivenza che riemersero nella cultura esoterica e anche in quella esprimente il culto del suolo, che il Nazionalsocialismo veicolò, non furono altro che il tentativo politico di ripensare l’origine, compiendo un atto di riqualificazione tradizionale in epoca moderna: «Ricominciamo a sognare i nostri sogni originari», sono parole di Rosenberg. Come è stato correttamente osservato, «il problema tedesco è fondamentalmente un problema di identità», il che conduce la volontà di natura verso la «volontà di differenziazione, di distinzione, di individuazione»; vita dello spirito e vita della materia si equilibrano, poiché «il rapporto “mistico” col mito è qualcosa che ha a che fare con l’esperienza vissuta»39.
    La presenza di un nucleo magico-misterico – diretta filiazione del rinnovato rispetto per i valori legati alla terra – all’interno di un’ideologia della potenza e dell’eroismo non è affatto una novità storica, poiché la ritroviamo in molte civiltà tradizionali del passato. La «sublime chiarezza» del mondo omerico era, secondo Rilke, un paesaggio confacente alla «bufera dionisiaca»: ecco qui riuniti i due valori fondanti della nostra civiltà indoeuropea, l’apollineo e il dionisiaco, una volta di più accomunati in armonia di proporzioni esistenziali coincidenti. Il “sublime” e la “bufera” sono i due aspetti di un unico essere primordiale connaturato al mondo dorico, che impresse sulla civiltà d’Europa un sigillo plurimillenario. Rilke vide la lotta protostorica come un annuncio di quell’ordine in cui la luce e l’ombra avrebbero convissuto al medesimo ritmo: «Dopo il crepuscolo di lotta con cui ebbe fine la notte titanica, bellicosa, giunse il mattino di Omero, che diede alle cose confini divini. E il suo sole recò in fronte alle cose sublime chiarezza. Ma tutto questo ordinamento parve creato soltanto come un bel paesaggio per la venuta della bufera dionisiaca»40.
    In base a svariate testimonianze, noi veniamo a sapere che Hitler considerava il Nazionalsocialismo qualcosa di più di una religione, la «volontà di creare il Superuomo» e sappiamo che egli mise in campo allo scopo la vasta organizzazione degli Ordensburgen, in cui si forgiavano gli uomini nuovi padroni della dottrina segreta del Movimento, al fine di creare un Ordine scelto, in linea con la tradizione delle società iniziatiche germaniche sopra ricordate. Secondo Hermann Rauschning – una fonte controversa, ma su questo punto convergente con molte altre – l’indirizzo educativo voluto da Hitler andava nel senso di attivare nell’Io delle giovani generazioni una disciplina dell’ascesi: «La sola scienza che io esigerò da quei giovani – affermava Hitler – sarà il dominio di se stessi. Essi impareranno a domare la paura. Ecco il primo grado del mio ordine, il grado della gioventù eroica. Di qui sorgerà il secondo grado, quello dell’uomo libero, dell’uomo che è la misura e il centro del mondo, dell’uomo creatore, dell’Uomo-Dio»41. Ma, nonostante questo spirito eroicizzante al massimo grado, Hitler era una sorta di mago, lui stesso segnato con lo stigma del morbus sacer, avendo per di più sempre avuto al suo fianco cerchie di esoteristi, o isolati ricercatori più o meno bizzarri che si occupavano di scienze occulte. Nella figura di Hitler sono dunque presenti tanto l’accezione eroica del Capo predestinato quanto quella sciamanica del posseduto da energie telluriche di tipo magico, esprimentesi attraverso la via intuitiva e istintuale, che così spesso governava le decisioni politiche del Führer.
    Ma il demiurgo faustiano che esplora l’ignoto non rimane da solo, divulga al popolo certi gradi del sapere: nacquero così le liturgie di massa, il cerimoniale di una nuova sacralizzazione civile, il teatro cultuale e le sacre rappresentazioni religioso-popolari. Il drammaturgo Hanns Johst, ad esempio, uno dei maggiori intellettuali del regime, parlava del dramma come di cosa estranea all’interpretazione borghese, essendo esso piuttosto «il luogo cultuale del sentimento eroico»42, qualcosa da diffondere come espressione dei due poli opposti ma interagenti del Führer, cui si innalza il culto mistico dovuto all’Eroe43, e della Terra che dona la vita alla «nuova nobiltà di sangue e suolo»44. Poiché, così si pensava, vivere sulla terra e per la terra era metafora di innalzamento, di redenzione-rinascita (Erlösung era una delle parole-chiave del lessico nazionalsocialista) e ciò non nascondeva alcun attentato all’integrità personale dell’uomo, ma anzi ne presupponeva il potenziamento. In una poesia di Joseph Weinheber, poeta völkisch divenuto nazionalsocialista e suicidatosi nel 1945, così si esprimeva questa virtù redentoria della terra: «La terra che un giorno ci partorì / di nuovo ci accolse per purificarsi / E come ci inginocchiamo, al tuo servizio / la sua polvere ci donerà ali per divenire uomini»45.
    L’avvento del Nazionalsocialismo come religione civile di massa provocò l’assunzione di soggetti arcaici, quali appunto l’Eroe e la Terra, all’interno del patrimonio valoriale del popolo, infrangendo il diaframma che ancora agli inizi del Novecento esisteva tra sodalizi esoterici e formazioni politiche della comunità allargata. Si venne a formare la ricreazione di una mitopoietica tradizionale al cui centro era posta, in un protagonismo assoluto, l’individualità collettiva del popolo. La letteratura del periodo nazionalsocialista – ma, già in precedenza, nel periodo del primo dopoguerra - è illuminante in proposito. Essa ci mostra che gli archetipi dell’Eroe e della Terra vennero assunti a pari titolo sul vertice della piramide ideologica, sotto le forme del romanzo di guerra e del romanzo contadino. Questi furono i generi di gran lunga più diffusi nella narrativa dell’epoca, ebbero vastissima popolarità, con tirature massicce: e in essi riappare una volta di più, in versione socializzata, modernamente tradizionale, il duplice tema di cui ci stiamo occupando, sotto forma del valoroso combattente e del suolo patrio. Spesso, poi, questi due referenti venivano unificati nel soggetto del soldato-guerriero che torna a casa e vi ritrova l’ordine immutabile di sempre, nel quale si reimmerge come in un caldo nido accogliente. Ma anche quest’ultimo topos, il romanzo del ritorno, era ben conosciuto dalla cultura tedesca precedente. Basta pensare alla poesia Arrivo a casa di Hölderlin, che Heidegger lesse come un mitico incontro col destino della patria46.
    La capacità ideologica del Nazionalsocialismo di risalire al mito facendone il retroterra di un titanismo tecnologico è stata variamente interpretata47 e la presente rievocazione non è il luogo per ripercorrere un itinerario composito, non ancora scandagliato con la profondità e la competenza scientifica che meriterebbe. Ciò che vogliamo segnalare è il fenomeno di una reale continuità mitica, corrente dalla Tradizione primigenia fino all’ideologia di un moderno movimento di massa, alla fine sfociata nella simbologia insieme mobilitatoria e quietistica dell’Übermensch e del Blut und Boden. Si è trattato dunque di un organico sistema di «identificazione simbolica» che ha eretto con il Nazionalsocialismo «la forma più compiuta di esibizione dei caratteri fondamentali di questo processo di identificazione»48.
    L’idea di fondo, dopotutto, era quella di fronteggiare lo straniamento e l’oblio, la perdita di identità provocata dalla civilizzazione illuminista, con un atto di volontà traboccante che sapesse ricondurre alla sorgente dei valori. Scrisse Nietzsche che col mito tragico «è lecito sperare tutto e dimenticare il dolore più angoscioso», provocato dalla diffusione in Germania di un pensiero estraneo e incongruente: «Ma per tutti noi il dolore più angoscioso è la lunga abiezione in cui il genio tedesco, straniato dal focolare e dalla patria, visse in servitù dei nani maligni»49. Alla luce di queste parole di Nietzsche, possiamo dunque interpretare il disegno nazionalsocialista di riguadagnare gli arcaismi simbolici e sacrali delle epoche tradizionali, appunto come il tentativo di imporre nell’epoca moderna la rivoluzionaria volontà politica di porre fine all’abiezione.

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    Gran bel post!

  2. #32
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    L'articolo è lungo ma merita veramente di essere letto

  3. #33
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    Eccellente. In rilievo


    Consolato - Damiano - Di Dario - Di Vona - Gatta - Pacilio - Rimbotti - Valerio
    Il gentil seme. L’idea di Europa: radici e innesti
    Collana Paganitas
    Edizioni Ar http://www.edizionidiar.com/
    € 14,00
    I contributi raccolti ne Il gentil seme costituiscono una preziosa summa per definire il perimetro dell’idea di Europa, ricordandone la genealogia. Filosofi, classicisti, esperti di religioni comparate, trovano il loro punto di accordo nella certezza che il seme da cui la pianta europea è fiorita sia stato lo stile e il pensiero pagano: quello, cioè, della classicità pre-cristiana.

  4. #34
    Ignis
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    Esatto il libro il gentil seme l'ho divorato in un mese!

    Comunque e vero che le radici che stanno in superfice sono solo sterpaglie secche le nostre vere radici affondano nella notte dei tempi sono legate agli dei patrii di roma e delle genti italiche, ed indoeuropee...

  5. #35
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    “Nella lunga serie dei secoli, dalla fondazione della chiesa di Roma in poi, il papato, sempre e poi sempre, è stato il naturale nemico di Roma e d’Italia”. (A. Reghini)
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    Un altro scritto molto importante è quello contro il globalismo giuridico.
    Appena lo trovo lo posto !

  6. #36
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    Citazione Originariamente Scritto da Civis Romanus Visualizza Messaggio
    Un altro scritto molto importante è quello contro il globalismo giuridico.
    Appena lo trovo lo posto !

    Eccolo, purtroppo l'avevo salvato su Word e non ho più il link originale.


    Il diritto dei popoli di sottrarsi ai "diritti dell'uomo"
    di Luca Leonello Rimbotti

    L'uomo astratto e universale è un detrito del peggior kantismo illusionistico. Universalismo intellettuale, forzato umanismo, moralismo generico. Queste le depotenziate categorie di pensiero che hanno partorito il più meschino dei cyborg: un essere inesistente, falso, impoverito di tutte le naturali doti umane: l'uomo universale. Quest'uomo irreale, mai esistito da nessuna parte, uscito fuori dalle divagazioni concettuali di qualche aristocratico dei secoli XVII e XVIII, quest'uomo non di carne e sangue, non vivente di appartenenza, destino, storia e cultura, ma frutto di immaginazione, di odio per la natura, di passione insana per la costruzione artificiale, quest'uomo è un semplice concetto come tanti. Eppure, è in nome di questo androide immaginario che da un paio di secoli l'umanità è costantemente investita dalle paranoie e dalle intolleranze giacobine, che non la smettono di voler sovrapporre il loro mondo di concetti astratti al mondo reale, imponendo la loro inesistente "umanità" ai popoli quali sono e quali sono sempre stati. L'ideologia dei "diritti dell'uomo", in questo modo, da trovata estemporanea, da costruzione artefatta del concettualismo illuministico, è divenuta la protagonista assoluta di tutte le politiche democratiche: la chiave di volta propagandistica del partito unico universalista. E' il ponte su cui corre veloce la globalizzazione, che di spersonalizzazione, di genericità e di annullamento identitario si nutre. Gli Stati Uniti d'America, sulla scorta del loro morboso messianismo universale di conio biblico-puritano, sono i tragici esecutori materiali di alcuni diktat ideocratici che, se non fossero quotidiani portatori di morte, sarebbero esilaranti. Tra di essi, apici dell'assurdo come il proclamato "diritto alla felicità", ci danno testimonianza di quanto lontano si sia spinta l'adolescenziale immaturità degli utopisti: se non fosse che questi argomenti, da risibili che sono, diventano drammatici se posti in mano a quella sorta di bambino criminale che sono gli USA, da sempre abituati a maneggiare giocattoli di morte: dal fucile Winchester adoperato contro gli inermi Pellerossa alla bomba atomica. Il cieco fanatismo dei rieducatori del genere umano è un disegno di sterminio per tutti coloro che non credono allo storico inganno di una democrazia, i cui liberali diritti si espandono nel mondo con l'eloquente parola evangelizzatrice dei missili. Si nasconde in tutto questo la regressiva utopia di un nuovo e distorto diritto naturale basato sulla concezione privata e individualistica della società, volto a demolire i secoli e i millenni di diritto positivo che, da Aristotele a Machiavelli, da Hobbes a Hegel a Schmitt, avevano inteso di portare disciplina etica nella convivenza umana, adoperandosi per una conciliazione civile tra legge di natura e ordine tecnico-razionale della società: non contratto individualistico, dunque, ma ordine organico totale, sintesi etica di un superiore senso della giustizia comune. Non quindi l'assolutismo dell'individuo astratto, ma la totalità delle persone reali, non disgiungibili dal loro patrimonio giuridico comunitario ereditario. E' per tenere in piedi quel fantoccio virtuale che è "l'umanità", partorito dalla fantasia di alcuni allucinati utopisti, che da duecento anni si umiliano i popoli, iniettando nelle loro vene il veleno del dubbio su ogni antica e sudata certezza. Spingendoli verso il tradimento di sé, questi utopisti cosmopoliti ottengono dai popoli esattamente ciò che desiderano: l'abbandono progressivo dell'identità, la sovversione delle necessità vitalistiche, organiche e naturali, soppiantate da un prontuario di sciocchezze elevate al rango di indiscutibili totem. Nella realtà del mondo, non esiste alcuna "umanità". Esistono uomini, ben riconoscibili tra loro in quanto nobilitati dalle differenze, in base alle quali essi appartengono alla comunità, che fa di loro qualcosa di prezioso, di unico e di irripetibile. L'uomo vero è fatto di bios e di techné, di natura e di cultura: cioè di gene ereditario e di apprendimento comunitario. Quest'uomo esiste, è sempre esistito: è l'uomo eterno, che veicola un sapere intessuto dalla vicinanza, dalla quotidianità, dalla reciprocità che intrecciano nei secoli immaginazione, fantasia, mitopoiesi, psiche e corporeità, creando lo stupefacente patrimonio delle culture, della diversità inesauribile che è lo stigma delle grandi creazioni del genio individuale, come di quello comunitario. Un Michelangelo privato della sua struttura di appartenenza bio-storica, privato della sua natura di erede, non avrebbe potuto esprimersi ai suoi livelli: sia le tecniche apprese in un determinato contesto, quello in cui è nato ed è vissuto, sia l'immaginativa, sia il talento individuale sia quello di stirpe, nel suo caso sono apparsi concentrati in un unico uomo: ed ecco il genio. Un Lao-tsu non sarebbe pensabile al di fuori del contesto taoista, è inimmaginabile come "uomo universale" privo di cultura di riferimento, privo di referenti metafisici, linguistici, storici, tradizionali etc., che in lui si sono manifestati, e non potevano non manifestarsi, in quel momento e in quel luogo… Sempre l'individualità d'eccezione è l'altra faccia della realtà comunitaria di un popolo. L'uomo non è l'inesistente "uomo di natura" pensato da Rousseau in qualcuno dei suoi numerosi momenti di appannamento: l'inganno dei "diritti dell'uomo" deriva ancora da quell'immaturo abbaglio di credere all'esistenza di un archetipo da laboratorio - il famoso "buon selvaggio" - che gli illuministi settecenteschi pensarono di aver trovato in uomini che invece, e più ancora degli europei, erano legati alle loro arcaiche strutture di appartenenza tribale, familiare, di stirpe. Questa fissazione illuminista ha causato non poche sciagure nel suo dilagare per il mondo, e ancora non si stanca di distribuire il suo carico di odio per la vita e di inganno ideologico. L'uomo come individuo trae la sua più alta nobilitazione dal senso dell'appartenere. L'apolide non è nessuno, poiché non si riferisce a nessuno. Egli incarna l'idea di uomo universale, cioè una non-esistenza: non è nessuno, poiché pretende di essere e rappresentare tutti. E l'idea di "tutti" è talmente generica, che non esiste nell'oggettivo realismo della mente umana, non può trovar posto nella realtà pensabile e rappresentabile, ma solo in quella macchina di invenzioni cerebrali che, allo stesso modo, può liberamente fantasticare di marziani, giganteschi o lillipuziani Gulliver, società perfette, città ideali, paradisi, nuove Sion e così via…L'uomo vero, l'uomo creato dal gene della vita e non dal pensiero, non vive di genericità immaginativa, ma di solida realtà e di potenti miti, dalla stessa realtà scaturiti come fonti di rappresentazione delle forze e delle dinamiche eterne di natura. L'uomo non conosce "l'uomo" e neppure "l'umanità", ma il prossimo: e persino Gesù ammoniva ad amare il prossimo, cioè l'altro vivo e vero, colui che vive accanto veramente, che possiamo toccare e con cui parliamo, e non sobillava affatto ad amare una generica "umanità": concetto inesistente presso tutti i popoli in tutte le epoche, e presente solo nei trattati illuministi e nelle costituzioni massonico-puritane della Francia e degli USA. Diceva Maurice Barrés che "i popoli sono uguali nella loro incompatibilità". Quando sono sani, i popoli sono sempre incompatibili. Entità vigorose non si corrompono aprendosi a casaccio all'altro-da-sé, così come si apre una casa vuota in cui non ci sia più nulla da proteggere, così come si apre la valva morente. Entità marce, all'opposto, usano negare se stesse, attraversate da un intimo brivido di dissoluzione, e per sentirsi vive si aggrappano al surrogato delle categorie intellettuali universali. L'innesto dell'intera concezione politica mondiale sulla retorica dei "diritti dell'uomo" non è che l'ennesima maschera dietro a cui si nasconde l'eterna volontà di rapina di quanti aspirano alla dominazione del mondo. Parlano di umanità, in modo da non dover essere costretti a fare i conti con rocciose e resistenti realtà, i popoli. Parlano di diritti, in modo da non dover fare i conti con i doveri, i propri e quelli che ogni nazione ha verso se stessa. Solo chi tradisce i doveri straparla di diritti. E noi sappiamo che ogni matura comunità si edifica prima di tutto sui doveri, che sono il cardine della reciprocità e della vera solidarietà. E l'universalismo non è affatto nobiltà di sentimenti umani, ma il più comodo mezzo su cui viaggia il concretissimo mercantilismo internazionalista, che non conosce popoli, ma masse. Masse di umanità rimescolate e private di anima: "L'umanità - ha scritto Carl Schmitt - è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell'imperialismo economico". Questa nitida fotografia scattata da Schmitt a quell'epocale stortura che è la "filosofia" dei diritti dell'uomo strappa la maschera dal volto di quanti, negando l'oggettivo relativismo differenzialista di uomini e popoli, negano la vita, la natura e la storia. E così, proprio i teorici del materialismo, i guru dell'oggettività, diventato i patetici portatori dell'illusione, del bluff, dell'utopia, tutte ingannevoli affabulazioni messe al servizio dei conti di cassa degli speculatori cosmopoliti. La legittimità della volontà nazionale-popolare, in quanto volontà individuata, basta da sola a togliere di mezzo le pretese ideologizzanti dei falsi egualitarismi. E il vero e unico umanesimo - che è l'opposto dell'umanismo illuministico - poggia sul diritto di natura che ogni comunità umana sana deve rivendicare, nel senso di confidare nella forza dello sguardo sul mondo circostante proprio ad ogni popolo: questo crea la cultura, il comune sentire, la fratellanza tra simili che insieme condividono fatica e progetto, vita e morte. Come è possibile che quella innominabile ragnatela psichica che è la modernità poggi ancora i suoi contorti "diritti" su impotenti polluzioni letterarie, come la "società generale" dei vari Diderot, devianze razionaliste già date per morte e sepolte due secoli fa? Come è possibile ancora oggi, che il mondo è in pasto al conflitto cronico scientificamente programmato, pretendere l'asservimento dei popoli nel nome di un'utopia di assolutismo che è gestita dagli stessi artefici dell'etnocidio in serie? Il diritto di ogni popolo consiste nella protezione e nel potenziamento della sua vita biologica e mitica. Questo diritto è tutta quanta la cultura. Il vacillare su questo punto è un invito all'avanzare della malattia mortale dell'universalismo, con tutti i suoi demoni dell'oblio, del rinnegamento, della divisione parcellizzante fino all'ultima e più povera, più disperata e più inerme cellula: l'individuo solo. Davanti al nulla rappresentato dai "diritti dell'uomo" sta la massiccia oggettività del diritto che ogni popolo ha di veder riconosciuti in faccia al mondo la propria specificità, la propria identità, il proprio prezioso patrimonio ereditario di cultura, di tradizione, di con-vivenza col suolo che è lo spazio geo-storico del proprio unico e ineguagliabile destino. La legge della bio-diversità distribuisce per natura ad ogni popolo talenti in misura diseguale, ma sempre tali da assegnare ad ognuno il diritto a veder riconosciuta una particolarità in cui risiedono il valore, la fierezza e l'onore di un legame non equiparabile a nessun altro. Il diritto dei popoli è essenzialmente legame, il diritto di veder protetto il reticolo di quei preziosi vincoli che creano la solidarietà tra uomini che con-vivono e con-dividono un destino. I generici diritti dell'uomo, al contrario, sono essenzialmente la sanzione di uno scioglimento. I legami spezzati sciolgono, avviano all'abbandono, disperdono in un vagare privato di ancoraggi: ab-soluti, cioè per l'appunto sciolti, assoluti e assolutisti, sono quei diritti che agli uomini non promettono altro che il disperante tradimento della relazione comunitaria. La massa mondiale di individui così sciolti e spezzati, a questo punto, non avrà più da pretendere alcun diritto, neppure alla vita. Già lo vediamo. Ad esempio, gli attacchi della tecnoscienza, che notoriamente lavora per lo più al servizio degli interessi cosmopolitici, già avanza crescenti minacce alla stessa integrità dell'uomo non più solo etica o psico-fisica, ma biologica. Essi non sono che l'avanguardia di ciò che aspetta al varco i popoli, rintanato dietro la retorica dei "diritti": assalto diretto alle basi stesse della vita, demolizione finale di ogni struttura di resistenza al caos mondialista. Una resistenza è possibile solo con l'organizzazione, e l'organizzazione è di nuovo organismo, comunità, socializzazione tra uomini entro sistemi di appartenenza: nazioni, Stati, comunità solidali, aggregazioni in gruppi, fino alla tribù, fino alle più minute tradizioni locali. Oggi, di fronte al pericolo di morte che è ìnsito nel disegno di trasformare i popoli del pianeta in una indifesa poltiglia umana indifferenziata, esiste un solo diritto: quello di lottare per ogni frammento di identità, facendo di ogni legame - dalla famiglia alla terra patria, dalla cultura etnica alla solidarietà di popolo - una linea di resistenza, sempre più tenace, sempre più risoluta.



 

 
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