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L’abbraccio mortale di Prodi a Walter: "Sarò al tuo fianco"

di Roberto Scafuri - domenica 17 febbraio 2008, 083


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da Roma

Autostrada per Fiumicino, svincolo della Nuova fiera di Roma, a bordo dell’auto della Farnesina. «Autista accelera, siamo in ritardo». «Lasci perdere... Prima saluta Romano».
Procedono senza alcuna fretta, le tre vetture e la moto che traghettano il ministro Massimo D’Alema e il senatore Nicola Latorre all’appuntamento con il Pd di Walter Veltroni, già sogno proibito di Romano Prodi. Attraversano con diplomatica flemma i cancelli e depositano il prezioso contenuto di esperienza politica proprio mentre Romano sta cominciando il suo intervento, l’ultimo dell’ultima serie. L’applauso della platea come l’onore delle armi: quanta gratitudine, quanto poco rimpianto. Il coriaceo combattente - due volte sugli altari, due volte nella polvere - non è nelle sue giornate migliori. Parte il motore diesel, il solito borbottio più o meno incomprensibile: «Cari democratici, care democratiche...». Il Professore s’è preparato una citazione tratta dal personale stato d’animo: «La pazienza è il rimprovero che ci rivolgono sovente come se significasse mancanza di volontà, come se non fosse la virtù più necessaria nel metodo democratico...».
Suspense, che voglia tirare un sassolino dalla scarpa? Ma no. «Risale a 60 anni fa, è di De Gasperi... Questa frase mi sembra tagliata per l’oggi». Proprio vero, se non fosse poco tagliata per l’oggi di Romano. I fotografi si accalcano sotto il podio (senza neppure la foga del passato, a dirla tutta), e il premier dimostra nei fatti quanto il paragone con Alcide proprio non regga. «Grazie, per favore», dice stizzito. Uno sbuffo alterato si staglia dai soliti: «E ora basta!». Lui si ferma, i flash gongolano, la platea si interroga. Che sta succedendo? Nulla, i gorilla fanno sgombrare i fotoreporter, Romano risbuffa: «Ci vuole proprio pazienza!».
L’abbraccio un po’ mortale di Prodi al Pd si consumerà sui risultati raggiunti dal governo: «Nelle condizioni date siamo stati proprio bravi», si imbroda. «Per due volte abbiamo vinto, ma non è bastato a risolvere i problemi», ammette. Poi qualcosa che assomiglia tanto a un sassolino, sul «delicato rapporto tra Stato e Chiesa», che da uomo vissuto «sotto il Concilio Vaticano Secondo davo per assodato». La laicità dello Stato è una «virtù», dice Prodi, da difendere di fronte al «riemergere di un attacco forte e violento: non ci sono solo integralismi, ma anche sfide etiche che meritano risposta. Mi chiedo perché prosegue un clima di scontro e io a questo non ho risposta. So solo che si procede da anni in modo sbagliato: da una parte si pratica la strategia dell’elogio e dell’ossequio alle autorità religiose, dall’altro non si affronta il problema solo per non pagarne il costo politico...». Stavolta lo sconcerto attraversa il tavolo della presidenza, e Veltroni sa che nella sua relazione non c’è una sola parola sul tema evocato (anche Prodi lo sa).
Sgambetti d’antica democristianitudine. Il momento più atteso arriva poco dopo, quando il Professore assicura di non ricandidarsi, «perché ritengo di avere compiutamente svolto il compito che mi ero proposto e la politica esige il rinnovamento delle persone e delle generazioni. Lo faccio per lasciarvi più liberi...». Sospiri di sollievo, attenuati quando il premier uscente conferma però anche che «sono al fianco di Walter» e «saremo ancora insieme, sarò ancora con voi». Già, a fare che? «Ci sta pensando, ha più di una strada in mente», sussurrano nel suo staff. Ma di sicuro, vista da Veltroni, un altro scoglio è superato. Il leader liberamente ora può correre a ringraziarlo, abbracciarlo, chiamare il partito alla seconda standing ovation. Tutti in piedi per esorcizzare un pericolo scampato. Persino D’Alema, ultimo della sala, alla fine decide di non potersi esentare dal saluto a Romano. Che i nipotini se lo tengano stretto e impegnato il più a lungo possibile.