14.5 Il “genocidio politico e culturale” del movimento radicale
Nei sessantanni di Repubblica, dunque, le condizioni generali della vita politica istituzionale rendono sempre più difficile il “conoscere per deliberare”, principio base della vita democratica. In particolare, il controllo dei mezzi di comunicazione, dei temi come dei soggetti ammessi, fa si che non vi sia spazio per un partito che voglia concorrere, come vuole la Costituzione, alla determinazione della politica nazionale esclusivamente con le proprie proposte ideali e programmatiche. Proprio per la sua capacità di incardinare lotte istituzionali e politiche sui temi più popolari del paese, ancorati al vissuto dei singoli, il Partito radicale è dapprima marginalizzato dalla radiotelevisione, poi leso nella sua immagine e identità e infine cancellato.
Lo attestano quarant'anni di provvedimenti e di riconoscimenti provenienti dai massimi organismi istituzionali, giurisdizionali, politici e culturali.
La prima competizione elettorale cui il Partito radicale partecipa nel 1976, è preceduta da una trasmissione ad esso riservata quale simbolica riparazione riconosciuta dallo stesso Direttore generale della Rai per gli anni di ingiusta e totale assenza dalla televisione.
Due anni prima, dopo essere stati protagonisti insieme con la Lid della battaglia popolare per ottenere la legge sul divorzio, venivano del tutto esclusi dalle tribune referendarie precedenti il voto. E’ Pier Paolo Pasolini a rompere il muro di silenzio che circonda l’iniziativa nonviolenta di sciopero della fame di Marco Pannella , con un articolo sul Corriere della sera nel quale sostiene che il motivo per cui “il mondo del potere – Governo e opposizione – ignora, reprime, esclude Pannella, fino al punto di fare, eventualmente, del suo amore per la vita un assassinio” è legato alla “sua prassi politica realistica. Infatti è il Partito radicale, la Lid (e il loro leader Marco Pannella) che sono i reali vincitori del referendum del 12 maggio. Ed è per l’appunto questo che non viene loro perdonato da nessuno”.
Nello stesso anno l'appello con cui i radicali convocano la prima marcia contro la Rai è sottoscritto da artisti ed intellettuali del calibro di Arrigo Benedetti, Alessandro Galante Garrone, Tinto Brass, Adriano Buzzati, Ignazio Silone, oltre a Pasolini.
Il 28 settembre del 1995, durante uno sciopero della sete di Marco Pannella di fronte al silenzio del sistema dell’informazione nei confronti della campagna referendaria in corso, ben 485 deputati e senatori sottoscrivono un appello al Presidente della Repubblica per denunciare che “è in corso un attentato ai diritti politici del cittadino” e per chiedergli di intervenire.
Il 19 novembre del 1997, la Commissione parlamentare di vigilanza, visionati i dati e “rilevata la pressoché totale assenza dai dibattiti e dai confronti televisivi di temi sollevati con molteplici iniziative dal Movimento dei Club Pannella e dai suoi leader”, chiede alla Rai “di inserire tempestivamente nella programmazione televisiva trasmissioni di dibattito e di confronto su quei temi”.
Di fronte ai dati di presenza addirittura peggiori di quelli precedenti, la Commissione il 10 marzo 1998 dichiara che la Rai non ha “ottemperato agli indirizzi della Commissione. Infatti, dall’approvazione della risoluzione dello scorso 19 novembre, la Rai non ha programmato neppure un dibattito televisivo sul finanziamento pubblico dei partiti e sulla riforma elettorale, ed ha fatto partecipare in modo saltuario gli esponenti della ‘Lista Pannella’ alla gran parte dei dibattiti dedicati al tema delle droga.”
Il 15 maggio del 1998, in una lettera indirizzata all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - da poco istituita con il compito di garantire il rispetto delle norme sull'informazione politica -, il Presidente della Commissione di vigilanza, Francesco Storace, denuncia il comportamento della Rai come “un’operazione che non esito a definire di autentico genocidio politico-culturale.”
Dal 1998 al 2009, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni accerta, praticamente in maniera ininterrotta sebbene sempre su denuncia di parte, squilibri editoriali e violazioni di legge perpetrate dalle tre emittenti Rai a danno dei Radicali, per un totale di 40 provvedimenti aventi ad oggetto 47 diversi programmi. Altre decine di provvedimenti riguardano le emittenti Mediaset.
Questi comportamenti contra legem si verificano sia nei telegiornali che nei cosiddetti programmi di approfondimento e persino nelle tribune politiche, nei momenti decisivi dei periodi elettorali e con lunghe assenze nei periodi non elettorali.
Se si considera il triennio 2006-2008, il Tg1 è condannato cinque volte per comportamenti a danno dei Radicali, il Tg2 e il Tg3 quattro volte. Le principali trasmissioni di approfondimento vedono invece Porta a Porta subire sette volte provvedimenti per il danno arrecato ai Radicali; Ballarò cinque volte; Primo Piano e Telecamere tre volte; i programmi di Santoro due volte. Matrix, principale trasmissione di Mediaset, cinque volte.
Infine, l’intera programmazione informativa della Rai è oggetto di richiamo per squilibri nei confronti dei Radicali da parte dell’Autorità nel 1999, nel 2001 e nel 2006, da parte della Commissione parlamentare di vigilanza nel 1997, nel 1998, nel 2001, nel 2002 e nel 2007. Si tratta di un unicum nel panorama italiano e forse mondiale: non esiste infatti altro soggetto politico che possa in modo anche parziale avvicinarsi per numero, gravità, varietà e durata degli accertamenti di squilibri editoriali e violazioni degli obblighi di informazione. Parimenti, non esiste caso di leader politico che sia così marginalizzato come Marco Pannella, agli ultimi posti delle classifiche di presenza sia nei telegiornali che nelle trasmissioni di approfondimento, nonostante l'oggettiva straordinaria rilevanza della sua attività politica.
Nel marzo 2009, di fronte all'evidenza di questa strutturale e sistemica mancanza di apertura nei confronti della forza politica e culturale radicale, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, per la prima volta, contesta alla Rai, ai sensi dell'articolo 48 del Testo unico della radiotelevisione, l'inadempimento degli obblighi di servizio pubblico.
14.6 Il compiuto attentato ai diritti civili e politici
La radio prima e la televisione poi sono state asservite all’esigenza di circoscrivere gli argomenti ammessi alla pubblica conoscenza e di predeterminare i soggetti cui consentire l’accesso, con l’obiettivo di abolire l’agenda reale del paese ed imporre protagonisti ed antagonisti di regime.
Un obiettivo perseguito e raggiunto innanzitutto impedendo concorrenza e libertà di impresa, difendendo il monopolio pubblico della Rai ed il successivo monopolio privato di Mediaset anche contro le sentenze dei massimi organi giurisdizionali nazionali ed europei. Facendo del servizio pubblico il luogo di spartizione partitocratica, dapprima a uso esclusivo delle forze di governo e successivamente oggetto di scientifica lottizzazione da parte dei maggiori partiti.
Ogni qualvolta poi sono conquistate regole democratiche che assicurino ai cittadini informazione e conoscenza, esse sono sistematicamente violate nella certezza della totale impunità, garantita dal costante rifiuto all’esercizio dell’attività giurisdizionale da quella stessa magistratura che rappresenta da anni la ragione sostanziale della mancata tutela dell’onore e della reputazione in Italia.
Lo strutturale asservimento dei più popolari mezzi di comunicazione si è da subito legato con la forte limitazione del diritto alla libertà di espressione, sancito dall’articolo 21 della Costituzione, realizzata con l’istituzione nel 1963 dell’Ordine dei giornalisti e subordinando la liceità di ogni pubblicazione all’iscrizione all’albo dei giornalisti del suo direttore responsabile (a questo proposito è tuttora in corso il processo a Pippo Maniaci, direttore della tv Telejato, combattuto dalla mafia e contestato dall’Ordine dei giornalisti perchè “non iscritto”). Una norma illiberale, che ha origine nel periodo fascista e non trova eguali negli altri stati democratici, sottoposta a referendum nel 1997 per iniziativa dei Radicali dopo che gli stessi hanno tentato di vanificarne gli effetti offrendosi come direttori responsabili delle principali testate dei movimenti extraparlamentari. La maggioranza dei votanti si esprime per l’abrogazione dell'Ordine dei giornalisti, ma dopo una campagna elettorale silenziata dal sistema dei media non è raggiunto il quorum.
Su tutto questo, sul sistema radiotelevisivo e sulle modalità con cui garantire la circolazione delle idee e rendere possibile la conoscenza, in 60 anni il paese non può mai avere un pubblico dibattito.
L’unica eccezione si ha nel 1995, in occasione del voto su quattro referendum, quando vengono a confrontarsi due alternative opposte di intervento sulla legislazione radiotelevisiva. Da una parte i Radicali, che individuano nella Rai il nodo centrale da sciogliere per arrivare a una riforma complessiva, chiedendone la privatizzazione e l’abolizione della pubblicità (quest’ultimo quesito non ammesso dalla Corte costituzionale), dall’altra i “progressisti”, che vogliono colpire il monopolio del settore privato in mano alla Fininvest per meglio proseguire l’occupazione partitocratica del servizio pubblico. Gli italiani votano a favore solo del referendum radicale, ma negli anni seguenti il Parlamento ignora l’indicazione espressa dal corpo elettorale.
La funzionalità di tale assetto di potere a un sistema politico che per sopravvivere è costretto a violare la propria legalità, trova conferma nel fatto che su questo tema nessuna grande manifestazione è mai convocata da chi ne ha la possibilità effettiva. Solo il Partito radicale tenta di investire l’opinione pubblica del problema informazione, a partire dalla prima marcia contro la Rai che si tiene il 20 settembre 1974 e che porta alle dimissioni di Ettore Bernabei, il Direttore generale che ha governato per vent'anni la Rai a monocolore democristiano.
I pochi strumenti scientifici di monitoraggio della democrazia, del “quarto potere”, vengono ridotti all’impotenza dopo che per anni se ne era impedita l’esistenza. È il caso del Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva, il primo e più autorevole centro di monitoraggio televisivo che, proprio in ragione della sua indipendenza ed autorevolezza scientifica, nel 2008 è stato privato dei contratti con l’amministrazione pubblica e costretto a interrompere le sue attività. Si elimina così persino la possibilità effettiva di conoscere la realtà del sistema radiotelevisivo.
L’interesse è impedire che ai cittadini italiani giunga una informazione completa e imparziale del reale dibattito politico, come quella ad esempio assicurata dal servizio pubblico di Radio Radicale, che dal 1976 porta nelle case degli italiani dibattiti che avvengono in Parlamento e nei congressi di partito.
Da decenni i Radicali agiscono come attivatori di legalità, dei diritti di libertà costituzionali, attraverso la conquista di regole e la lotta per il rispetto delle leggi vigenti.
Proprio per questo, sono l’unica forza politica che da cinquant’anni viene costantemente ostracizzata, diffamata, cancellata, nel timore che dando accesso ai Radicali si aprano spazi di conoscenza su argomenti scomodi al regime e potenzialmente generatori di aggregazioni politiche e sociali alternative.