L'Italia ha tradito le nuove generazioni?
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di alberto bisin, 27 Febbraio 2008
Tito Boeri e Vincenzo Galasso pensano di sì. Il loro libro, Contro i giovani, Mondadori 2007, lo argomenta con dovizia di particolari. È un libro ambizioso e importante. Ambizioso perché aspira a una diagnosi coerente dei mali del paese. Importante perché Tito e Vincenzo rappresentano le nuove teste pensanti della sinistra nel paese.
In questo articolo recensisco brevemente il libro ma soprattutto colgo l'occasione per dire la mia sulla questione della diagnosi dei mali del paese. [Disclaimer (così fa il New York Times, che fa aristocrazia del giornalismo): Tito e Vincenzo sono due amici - Tito lo conosco addirittura dal liceo, anche se lui è più vecchio ]
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Il libro ha una struttura originale e complessa. Inizia citando Nietzsche il quale dichiara che solo 34 generazioni lo separano da Catone, così dimostrando di pensare in termini di generazioni successive e non sovrapposte. Una generazione deve cessare di esistere prima che un'altra le succeda: metafora di un mondo in cui i vecchi accentrano potere fino alla propria morte. Continua con storie di vita "da mediano"; mediano nel senso statistico (che ha metà della popolazione sopra e metà sotto), mediano nel senso della scienza politica (l'elettore mediano è quello che, proprio a causa della sua posizione nel senso statistico del termine, è centrale nella determinazione dein risultati elettorali), e mediano nel senso della cultura pop (da Vasco Rossi). Queste storie di vita, sei storie, sei generazioni, dai nati all'ombra del Giro d'Italia del '32 fino ai nati negli anni '80, gli anni della Coppa del Mondo ZoffBergomiCabriniCollovatiGentileScirea - respiro -OrialiTardelliContiGrazianiRossi, occupano una trentina di pagine e introducono la discussione sulla struttura economica e sociale che si è venuta a creare nel paese negli ultimi 70 anni. Forse questa parte è troppo lunga. O forse sono io che non riesco a leggere trenta pagine di storie, per quanto paradigmatiche, senza una sostanziale dose di analisi. Aggiungo una nota stilistica: le metafore sportive, specie calcistiche e ciclistiche, si sprecano qui come nel resto del libro; può piacere o meno; a me non dispiace.
Il cuore del libro è il Capitolo II, Una generazione di perdenti? È il cuore perché i) documenta il declino del paese, ii) ne analizza le cause e le manifestazioni; in altri termini, dai disturbi alla diagnosi della malattia. Il Capitolo III presenta una diagnosi ulteriore, non alternativa, ma in certo senso più profonda, in termini di caratteristiche culturali dell'identità nazionale. Il Capitolo IV indica le cure per fermare il declino. Infine il Capitolo V contiene raccomandazioni sul sistema politico, incapace di selezionare una appropriata classe dirigente.
In questa recensione cercherò di essere il più schematico e analitico possibile. Questo perché la mia ambizione qui è di scoprire "il modello", il modello economico degli autori che funziona da supporto logico e analitico dell'analisi. Non è cosa facile. Il libro non è scritto per un economista e l'operazione di de-costruzione e' complessa assai. Comunque ci provo.
Il declino dell'economia italiana è facilmente documentato. Nel Capitolo II si citano un po' di indici aggregati (si potrebbe essere più sistematici, ma tutto sommato l'immagine un po' impressionistica che si deriva da questi indici è abbastanza corretta, forse un po' generosa..... ma non siamo troppo pignoli): i) il tasso di crescita medio tra il 1990 e il 2004, dell'1.4%, meno della metà di quello spagnolo, meno di un quarto di quello dell'Irlanda, e comunque di alcuni decimi inferiore al tasso di crescita di Francia e Germania ; ii) la produttività del lavoro, che addirittura decresce ultimamente in Italia, unica in Europa; iii) il tasso di occupazione (il rapporto tra occupati e abitanti in età lavorativa) è strutturalmente basso, oggi al 57%, contro il 65% della media OCSE; iv) il capitale umano, misurato dalla percentuale della popolazione con educazione universitaria, è anch'esso strutturalmente inferiore rispetto al resto d'Europa.
Quali sono le cause del declino italiano? (Beh, tutto quello che segue nel libro c’è, ma c’è anche un po’ di mio specie nella analisi dei canali attraverso cui operano le varie cause del declino.)
1) Prima fra tutte il mercato del lavoro inflessibile e la contrattazione salariale centralizzata che: i) riduce la produttività perché non permette il turn-over che seleziona le combinazioni più produttive di lavoro e capitale, ii) è causa della scarsa partecipazione, specie delle donne, al mercato del lavoro, perché le donne in età fertile abbisognano di entrare e uscire dal mercato con facilità, iii) riduce il rendimento dell'educazione universitaria, perché favorendo la redistribuzione comprime i salari, iv) induce una redistribuzione a favore delle generazioni in età avanzata, attraverso il sistema pensionistico.
2) E poi i mercati finanziari inefficienti perché non concorrenziali, che rendono difficili strutture proprietarie di dimensione efficiente e strutture di governance delle imprese a proprietà diffusa (ed ecco che abbiamo la lunga lista di imprese gestite da "figli di" senza particolare merito, a pagina 69).
3) Ma anche le restrizioni alla concorrenza specie nelle professioni, che abbinate a dinamiche dei salari compresse e distorte a favore delle generazioni in età avanzata, limitano i rendimenti dello studio.
4) Infine, un sistema universitario di bassa qualita' e un pessimo sistema politico e istituzionale che genera la casta.
Nel libro si fa poi notare che, per quanto il declino del paese sia essenzialmente per definizione un fenomeno aggregato, le cause del declino che abbiamo identificato tendono ad agire soprattutto sui giovani. Si argomenta che sono i giovani a pagare i costi maggiori del declino del paese. In effetti, la rigidità del mercato del lavoro ha effetti soprattutto sui lavoratori non protetti dai sindacati, cioé i giovani. La recente difesa sindacale della pensione a 58 anni è esempio calzante. Allo stesso modo, le inefficienze dei mercati finanziari, le rendite nelle professioni, non facilitano il ricambio generazionale e quindi anch'esse colpiscono i giovani in maniera particolarmente accentuata. Infine, l'università allo sbaraglio,....., beh, è ovvio. È quindi corretto, io credo, notare ed evidenziare che c'è una una generazione nel paese che sta pagando cari gli errori di politica economica di questi passati decenni. Beh, in effetti questa generazione, i quarantenni e i cinquantenni, siamo noi (Tito, Vincenzo, io,...). Si suggerisce che, il fatto che i quarantenni ed i cinquantenni siano quelli che più sembrano perdere dalle politiche economiche passati e presenti, ed il fatto che i quarantenni ed i cinquantenni siano anche minimamente rappresentati nelle posizioni di potere della classe dirigente, privata e soprattutto pubblica, non è forse un caso.
Qual'è la diagnosi profonda dei mali del paese? Il Capitolo III contiene una analisi a questo proposito. Questa analisi è difficile da riassumere in breve. È un misto di riferimenti a una sorta di inconsapevole accettazione della situazione da parte della cittadinanza, che non capisce né si interessa molto a cosa avviene, e al "familismo amorale," inteso come caratteristica peculiare della cultura italiana, che giustifica la mancanza di interesse per la situazione economica del paese. Il “familismo amorale” inoltre induce le famiglie a operare trasferimenti a favore delle nuove generazioni opposti e contrari a quelli che avvengono a livello di politica economica del paese. In questo modo quindi il “familismo amorale” fa si’ che la politica economica del paese sia accettata nonostante essa "stia tradendo le nuove generazioni". Insomma, ognuno si occupa dei propri figli, ma non dei figli degli altri, ripetono gli autori. Ci sarebbe moltissimo da discutere su questa analisi; specie da uno come me che su queste cose ci ha costruito una, seppur minima, carriera. Ma tralascio, perché la recensione sta diventatndo più lunga del libro, e perché tutto sommato, queste sono questioni di lungo periodo (forse anche lunghissimo -il libro di Banfield che per primo usa l'espressione "familismo amorale" si riferisce alla provincia di Potenza non molto dopo la guerra). Il declino del paese non si ferma cambiando la cultura dei cittadini, semplicemente perché non sappiamo come farlo. Bisogna agire su cause meno profonde, operando poi perché (o lasciando che) la cultura si aggiusti.
Quali sono le cure quindi per i mali del paese? Per fermarne il declino? Lasciamo stare cose tipo: Fermare il familismo e il conseguente consociativismo che proiettano i giovani all'interno della famiglia invece che "fuori", in società. In pratica, il familismo e tutte le altre terribili caratteristiche della cultura italiana si manifestano nella struttura del mercato del lavoro, dei mercati finanziari, eccetera, come abbiamo visto sopra. È lì che dobbiamo agire. Allora, in pratica, che fare?
Il libro, ci fa piacere notare, non si limita ad analisi vaghe sulla cultura degli italiani, ma contiene una lista di proposte concrete. Riporto la lista:
i) "Pagare di più gli insegnanti migliori, quelli più capaci, più preparati"; sottomettere gli studenti "periodicamente a test oggettivi", e favorire altre forme di meritocrazia nella scuola secondaria; favorire la meritocrazia nell'attribuzione dei fondi per la ricerca all'università, e in generale introdurre competizione nelle università.
ii) Riformare la struttura contrattuale del mercato del lavoro per istituire un contratto unico, a tempo indeterminato, con le seguenti caratteristiche: sei mesi di prova (alla fine del quale il licenziamento è possibile senza particolari costi), un periodo di inserimento, fino ai tre anni dall'assunzione (in cui il lavoratore è tutelato contro il licenziamento disciplinare e discriminatorio e riceve una indennità in caso di licenziamento per ragioni economiche), periodo di stabilità (in cui la tutela contro il licenziamento si estende anche a quello per ragioni economiche, suppongo secondo le linee di quello che succede oggi ai contratti a tempo indeterminato).
iii) Assicurare un reddito minimo garantito a tutte le famiglie, come rete di assicurazione sociale generalizzata.
iv) Varie forme di sussidio alla natalità, dalla costruzione di asili nido al credito d'imposta per le donne, che copra alcune categorie di spesa, previa documentazione, per i figli.
v) Deregolamentazione delle libere professioni, con una ristrutturazione a favore della trasparenza delle tariffe dei professionisti.
vi) Riforma pensionistica a favore del metodo contributivo, cioé a favore di pensioni a capitalizzazione, e con abolizione delle pensioni di reversibilità.
vii) Liberalizzare taxi e trasporti pubblici, contenere il traffico urbano mediante misure tipo il ticket d'ingresso.
E poi, più in generale, si ritiene che sia fondamentale dare spazio ai giovani nella economia e nella società. Argomentazioni a questo proposito sono sparse un po' per tutto il libro, e sono poi anche concentrate nell'ultimo capitolo, che discute di come garantire più rappresentatività e qualità della classe dirigente politica.
Chi avesse iniziato la lettura cercando di farsi un'idea del libro evitandosi le sue 158 pagine, si può fermare qui. Io però continuo con le mie opinioni, sulla questione delle cause del declino del paese e soprattutto sulle cure. Provo a coordinare il tutto in una serie di commenti.
Commento 1: Peccato di moderazione. Partiamo dale cause del declino: mercato del lavoro inflessibile, mercati finanziari inefficienti e non competitivi, generalizzate restrizioni alla concorrenza, mercato universitario inefficiente. Tutte queste sono cause importanti del declino del paese, a mio parere; concordo pienamente con gli autori. (Il lettore può guardare alla nuvola di parole di NFA per vedere quanto abbiamo scritto su questi temi, tutti, a prova che non solo io sono d'accordo, ma, essenzialmente, lo siamo tutti).
Il libro pero’, riguardo al mercato del lavoro, mette in evidenza piu’ l’inefficienza della contrattazione centralizzata che non la mancanza di flessibilita’. Dopo tutto gli autori sono consci che “precarieta’” e’ una brutta parola. Io e gli amici di NFA abbiamo argomentato altrove, che e’ proprio molta ma molta piu’ precarieta’ che serve al mercato del lavoro italiano. (Certo, la chiamiamo flessibilita’ che suona meno peggio di precarietà). E’ necessario per i lavoratori e per le imprese che entrare ed uscire dal mercato del lavoro sia facile e rapido. Il lavoro nero, la scarsa occupazione delle donne, l’eccessiva disoccupazione giovanile, specie al sud, i bassi salari per i giovani, sono tutti fenomeni causati in parte rilevante dalla mancanza di flessibilita’. Confrontiamo la nostra situazione con quella del Regno Unito, dove il mercato del lavoro è molto più flessibile (riprendo da un vecchio articolo a firma di tutta la redazione).
Nel Regno Unito il tasso di occupazione medio è di circa 17 punti percentuali superiore all'italiano: 74% verso il 57%! Questo significa che il cittadino inglese medio ha molte più opportunità di lavoro di quello italiano. Ma le cose in Inghilterra sono particolarmente migliori per i settori più 'a rischiò del mercato del lavoro, quelli particolarmente esposti al rischio di inoccupazione. Il tasso di attività delle donne da 20 a 24 anni è quasi del 70%, in Italia è appena sopra il 30%. Il tassi di attività per le donne è, per ogni gruppo di età, almeno di 10 punti percentuali più alto nel Regno Unito. La situazione delle donne è la stessa di quella dei giovani. Da 30 a 55 anni il tasso di attività in Italia e Regno Unito è pressoché lo stesso. Il divario grande è nel mercato del lavoro dei giovani, le vere vittime del sistema italiano. La differenza è di 25 punti percentuali per il gruppo da 20 a 25 anni di età: nel Regno Unito oltre il 70% lavora, mentre in Italia solo il 45%. Il nostro problema è tutto qui. Questa è la differenza tra un mercato del lavoro (e quindi una società) dinamico e vivo e uno ingessato e necrotico! Se guardassimo a questi dati per il Sud del paese, dove la rigidità, la contrattazione collettiva nazionale ed il posto pubblico fisso la fanno da padroni, le cose sarebbero ancora più drammatiche.
A mio avviso questo non è detto in modo abbastanza chiaro e forte, nel libro. Un confronto tra il mercato del lavoro italiano e quello del Regno Unito o dell'Irlanda (che sta attraendo i giovani migliori dalla Francia - 20 mila immigrati francesi in Irlanda, negli ultimi anni - e dal resto dell’Europa a causa della vitalità della sua economia e delle sue politiche liberiste nel mercato del lavoro) sarebbe stato molto utile ad argomentare a favore della flessibilità.
Commento 2: Peccati di omissione. Ma a parte la questione del mercato del lavoro, ci sono due peccati di omissione nella diagnosi del declino contenuta nel libro. A mio avviso sono due peccati di omissione gravi: non si parla di tasse ne’ di mezzogiorno.
Il paese e’ tassato a livelli altissimi. Una idea delle tasse in percentuale del PIL, in media, per diversi paesi viene dal rapporto di Citizens for Tax Justice, ed è contenuta qui. È vero, alcuni paesi del Nord Europa e la Francia hanno tasse più elevate, ma in Italia nel 2005 le tasse in percentuale del PIL erano sopra al 40%; circa il 5% in più che in Spagna, 10% in più che in Irlanda, e 15% in più che negli stati Uniti. Le tasse sulle imprese – non compensate da efficienti servizi pubblici - le rendono meno competitive sui mercati internazionali. I dati sul cuneo fiscale, la differenza fra quanto un lavoratore costa all'impresa e quanto il medesimo lavoratore guadagna dall'essere impiegato, fanno impressione: il 38% in Italia, il 35% in Spagna, il 25% nel Regno Unito, il 19% negli Stati Uniti, l'11% in Irlanda. E la situazione peggiora drammaticamente. L'articolo di Andrea e Thomas Manfredi sulla oppressione fiscale documenta con chiarezza la mancata crescita del reddito disponibile delle famiglie dovuta all'aumento dell'imposizione fiscale.
E non è tutto qui. i) La spesa pubblica, come sappiamo, è spaventosamente inefficiente: questo significa che il cittadino e le imprese ricevono poco, relativamente ad esempio alla Francia, in cambio per le tasse; e ii) l'evasione è elevatissima e concentrata per professioni (sappiamo bene che i lavoratori dipendenti contribuiscono in misura sproporzionata al gettito fiscale): questo significa che i costi di inefficienza e distorsione del sistema fiscale sono enormi.
Inoltre il mezzogiorno riceve da cinque decenni trasferimenti e risorse nette. Le pensioni di invalidità, la sovra-rappresentazione delle popolazioni meridionali negli impieghi pubblici, gli immensi trasferimenti per la sanità al Sud sono gli esempi più ovvii. Un solo esempio: la spesa sanitaria rispetto al PIL ha il suo valore massimo in Campania – dati 2004 – pari al 9,89% più che doppio del valore minimo, registrato in Lombardia, pari a 4,46% (i dati provengono dal Rapporto Osservasalute 2007 pubblicato dall'Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane che ha sede presso l'Università Cattolica di Roma). Sorprendentemente, al Sud è anche concentrata una frazione molto elevata della evasione fiscale. Ad esempio abbiamo qui notato come dai dati della Agenzia delle Entrate sulle stime dell'evasione fiscale IRAP risulti che l'intensità dell'evasione (Media 1998-2002 base imponibile evasa / dichiarata) sia ad esempio del 13% in Lombardia, del 22% in Emilia Romagna, cioé al livello per esempio della Francia; mentre sia superiore al 50% in buona parte del Sud, ad esempio del 60% in Campania e in Puglia, del 65% in Sicilia, e addirittura del 93% in Calabria.
Una parte sostanziale (difficile da quantificare per ovvie ragioni, ma non credo di sbagliarmi nel definirla sostanziale) delle risorse distribuite al Sud sono distribuite attraverso la criminalita’ organizzata e una classe politica ad essa funzionale. Tali trasferimenti e risorse hanno reso il mezzogiorno completamente dipendente dal resto del paese, senza riuscire affatto – anzi – a chiudere la distanza tra il Nord e il Sud in termini di reddito e di ogni variabile socio-economica che si voglia utilizzare come indice di qualita’ della vita. La questione meridionale è viva e vegeta come ai tempi di Sidney Sonnino e poi di Gramsci.
Il declino italiano deriva in modo fondamentale, a mio avviso, dalla combinazione tra la eccessiva e distorta pressione fiscale e la questione meridionale. L'analisi del declino che omette tasse e mezzogiorno è necessariamente parziale, a mio avviso, per una ragione fondamentale: Il paese non ha piu’ margini di manovra per alcuna politica economica di sostanza. Ad esempio, una vera flessibilità del mercato del lavoro richiede seri (e costosi) ammortizzatori sociali, per ammortizzare appunto gli effetti di breve periodo di un mercato del lavoro flessibile. Ma non c'è spazio per nulla di simile, nel bilancio. Le tasse sono troppo elevate, non si possono alzare per finanziare gli ammortizzatori sociali. Non resta che tagliare la spesa altrove. Ma nessun sistema democratico taglia agilmente la spesa. Ed in Italia significherebbe tagliare soprattutto al mezzogiorno, dove la spesa è maggiore e più improduttiva. E quindi siamo bloccati.
Eppure tagliare le tasse è fondamentale, come abbiamo sostenuto altrove. (Qui non siamo in Amerika, dove c'è un dibattito serio tra coloro che pensano che le tasse vadano tagliate e coloro che pensano di no; il dibattito è serio in Amerika perché lì la pressione fiscale è al 30%; ai nostri livelli, oltre il 45%, non c'è storia, il paese è imbalsamato e le tasse vanno tagliate). Le tasse sul reddito individuale limitano l’offerta di lavoro. Chi fa straordinari e’ solo chi puo’ evadere la tassa marginale, che per redditi tipici da professionista, e’ ben superiore al 50%. Ancora una volta, guardiamo all’Irlanda, ma anche al Regno Unito. Il mezzogiorno potrebbe essere l’Irlanda, crescere a ritmi 4 voltre superiori al resto dell'Italia per recuperare la stagnazione dei decenni (secoli) passati. Certamente la criminalita’ organizzata non aiuta nel confronto, ma i trasferimenti assistenziali passano ben da li’: non aiutano il mezzogiorno, soffocano il Nord, e in compenso aiutano la criminalita’ organizzata che li controlla.
Non c’e’ via d’uscita, a mio parere. Queste sono cause primarie del declino del paese. Il declino del paese è legato in modo fondamentale all’eccessiva tassazione che soffoca le imprese produttive e l’offerta di lavoro, all’evasione che concentra la tassazione tra i lavoratori dipendenti e al Nord, alla spesa pubblica onnivora, inefficiente, che produce assistenzialismo al Sud e arricchisce di denaro e potere la criminalita’ organizzata. E quindi, se si parla di cure, non si può fare a meno di mettere in evidenza, meno spesa, meno tasse, più responsabilità fiscale al mezzogiorno (ebbene sì, federalismo fiscale, Michele e Aldo Rustichini ne hanno parlato da tempo). E poi certo, la rigidita’ del mercato del lavoro che penalizza i giovani specie al Sud, e le donne dappertutto, i mercati finanziari che falliscono nell’obiettivo di finanziare e supportare l’imprenditorialita’ e la produttivita’; e la mancanza di concorrenza e l’universita’ in fallimento, certo, anch'esse non aiutano il paese.
Commento 3: Peccato di retorica. Il libro mette molto in evidenza quanto della situazione economica del paese i giovani paghino un costo elevato e soprattutto relativamente superiore ai cinquantenni e ai sessantenni. È chiaro che in un mercato del lavoro come il nostro i giovani faticano a trovare lavoro a tempo indeterminato. Costringere l'impresa ad assumere o a breve o a tempo indterminato (come in effetti oggi è il caso in Italia) significa trasformare quelle posizioni a medio termine in contratti a breve possibilmente rinnovati fino al raggiungimento del "medio termine" (con ogni sorta di inefficienze nel frattempo, comprese tante delle lamentate forme di precariato). È chiaro che in un mercato finanziario inefficiente e in mancanza di forme di concorrenza un po' dappertutto, le imprese non crescono, sono passate di padre in figlio, e i giovani non "figli di" fanno fatica a intraprendere qualunque cosa. È chiaro che in un mercato delle professioni molto poco concorrenziale, i giovani spendono anni in inefficienti forme di praticantato.
Ma la riposta a questi problemi deve essere strutturale, nel senso che deve agire sulle cause strutturali di questa situazione, non sugli effetti superficiali. Presentare la crisi economica del paese come una questione distributiva, i giovani perdono e i vecchi vincono, è forse retoricamente utile ma analiticamente controproducente. Si finisce per argomentare a favore di "quote per i giovani" o a favore di un "ricambio della classe dirigente", mentre deve essere chiaro che non di questo c'è bisogno, ma di una liberalizzazione del mercato del lavoro, così come di molti (quasi tutti) gli altri mercati (ne abbiamo discusso anche qui). Gli autori del libro, quando producono analisi, non cadono affatto nella tentazione di propugnare posizioni tipo "quote per i giovani" o "ricambio della classe dirigente"; ma la retorica è presente, fin dal titolo e questo ha motivato il mio commento.
Infine, anche se la questione fosse puramente re-distributiva, e cioé anche le la questione fosse che le politiche economiche favoriscono i vecchi, la questione non sarebbe così grave come spesso si pensa. I vecchi muoiono e lasciano di solito molto ai figli, e spesso lo fanno anche prima di morire. Molti dei giovani italiani se le sono già spese le pensioni dei propri genitori, da cui si sono fatti comprare la casa in cui vivono, da cui si fanno finanziare gli anni di praticantato e precariato, con le cui tasse si pagano la scuola che frequentano, e così via. Con questo non voglio certo sostenere che non fa differenza se si distribuisce a favore dei vecchi o dei giovani, la differenza c'è eccome. Ma non è così grave come distribuire a favore dei ricchi: i ricchi non hanno l'abitudine di dare i soldi ai poveri, né in vita, né in morte. I vecchi invece sì, danno soldi ai giovani, in forma di figli. (Gli economisti hanno anche un nome per questo tipo di argomentazione, Ricardian equivalence, che ci ricorda che l'argomento è vecchio come la teoria economica).
Commento 4: Peccato di omeopatia. Il lettore si sarà già chiesto, guardando alla lista delle politiche praticamente suggerite dagli autori, che relazione abbiano con la diagnosi del declino, come possano curare il declino. A mio avviso questo è il punto più debole del libro. Le cure nella lista sono minimali, cure omeopatiche per malattie mortali, e nemmeno poi tanto appropriate rispetto alla diagnosi.
Il reddito minimo garantito è politica discutibilissima da un milioni di diversi punti di vista, soprattutto in termini degli incentivi perversi che potenzialmente genera (si pensi alle pensioni di invalidità così ampiamente distribuite specie al Sud). Ma soprattutto non se ne vede la funzione di cura delle cause del declino; anzi! Lo stesso vale per la proposta del contratto unico, strutturato per legge nei tempi e nei modi. Pare, ed è, misura opposta all'aumento della flessibilità del mercato del lavoro. Lo stesso argomento si può fare per i sussidi alla natalità. Onestamente non capisco. Sembrano politiche indipendenti. Certo, coi sussidi alla natalità forse nascerebbero più bambini, ma non si ovvierebbe in alcun modo ai disincentivi strutturali alla fertilità, disincentivi che ad esempio stanno nel mercato del lavoro, come abbiamo argomentato. Mi pare che queste politiche siano un modo di gettare soldi/finanziamenti ai problemi, senza utilizzare l'analisi delle cause dei problemi, che pure appare nei capitoli precedenti. Sulle altre politiche, deregolamentazione delle libere professioni, riforma pensionistica a favore del metodo contributivo, liberalizzazioni varie, naturalmente sono d'accordo (anche se, nel caso delle pensioni, non vedo cosa c'entri la specifica questione delle pensioni di reversibilità: il metodo contributivo risolve la questione di per sé). Ma comunque sono proposte di cura minimali.
Tito e Vincenzo, io credo, hanno elaborato queste proposte, che io ho definito minimali, nella convinzione che nulla di più possa essere approvato oggi in Italia. Hanno probabilmente ragione: loro conoscono il vincolo politico del paese infinitamente meglio di me. Ma Tito e Vincenzo sono economisti e io credo che avrebbero fatto un miglior servizio al paese propugnando le politiche economiche più efficaci, necessarie a fermare il declino, senza internalizzare i vincoli politici.
In conclusione, la mia risposta all domanda del titolo:
L'Italia ha tradito le nuove generazioni? Si', ma non è questo il punto.