Massimo Centini
UOMINI, ANIMALI O MOSTRI?
Bosch,
Trittico del fieno, particolare
Il mostro, da un certo punto di vista, è paradossalmente utile nella cultura dell’uomo: costituisce infatti una presenza che, proprio per l’anomalia insita in lui, fornisce alle creature più evolute un motivo per continuare a supportare quell’antropocentrismo tipico della nostra specie. La presenza del mostro si avverte già nelle culture neolitiche e ininterrottamente, anche se con fasi alterne che riflettono situazioni sociali molto precise (angosce collettive, dominio dei misteri esoterici da parte di alcune classi ecc.), è giunta fino ai giorni nostri coinvolgendoci, nostro malgrado, nelle sue spire fatte di paure e di terrori atavici. L’archetipo del mostro è comunque tra noi, qualunque sia il travestimento che si voglia dare per renderlo il più possibile diverso dall’essere umano; l’orrenda creatura, nata da conoscenze e da ignoranze a tratti paradossalmente simili, si annida nel nostro quotidiano e scivola tra le cose e le genti certa della propria vittoria. Oggi non si crede più alla Chimera o al Minotauro, ma ad altri esseri orrendi incredibilmente più piccoli, a tratti quasi invisibili, dotati di una potenza straordinaria e inarrestabile dall’uomo comune. I mostri hanno sempre svolto l’identico compito: testimoniare che, secondo la visione unilaterale dell’uomo, ciò che è «diverso» è negativo, terribile, da fuggire in quanto portatore del male, poiché figlio egli stesso del male. Questi mostri ci sono rimasti dentro, vivendo nell’ombra e nei dedali dei nostri incubi, infrangendo ogni barriera cronologica e ogni certezza acquisita nel corso di un’evoluzione non sempre così chiara come spesso saremmo portati a credere.
L’immaginario collettivo ha poi arricchito la figura del mostro con tutta una serie di elementi in cui zoologia, folklore e reminiscenze mitologiche convivono in osmosi. Con il mostro, con le più sorprendenti ibridazioni, l’uomo in qualche modo cerca, di riflesso, di elevare l'animale, assegnandogli due posizioni costantemente contese tra il bene e il male. Certamente alla notevole diffusione della tematica del monstrum, contribuì ampiamente l’iconografia, inserita senza alcun apparente apporto didascalico nella scultura romanico-gotica e caratterizzata quindi da spazi semantici molto vasti, frutto di quella civiltà dei segni che fu il Medioevo. In questi prodotti estetico-pedagogici, l’intreccio del racconto accentuò le proprie variabilità dialettiche, puntualizzando però sempre con notevole penetrazione la sua funzione psicogrammatica. In seguito andò sempre più estinguendosi l’ibridazione romanica, «consolidatasi sopra un terreno complesso, con i suoi mostri, i suoi prodigi antichi e orientali, formicolanti in una decorazione astratta e stilizzata» [1]; si affermò così un tentativo di maggiore regolarità iconografica, collegato a un’espressività fermamente intenzionata a diventare modello, concreta estrinsecazione del concetto innalzato a segno, a riferimento. Nella pittura e nella scultura il mostro trovò una propria canalizzazione, che gli concesse di entrare in segmenti sociali sempre più vasti: da improbabile essere mitico, testimone del rigurgito mai estinto del paganesimo e del male, diventò rappresentazione allegorica carica di significati impenetrabili, diamantina superficie per influssi esoterici destinati a trovare la propria apoteosi, alla fine del Rinascimento, con autori come Hieronymus Bosch: colui che può essere considerato uno dei maestri del tema tetramorfo nella cultura occidentale.
Bosch,
Trittico del giudizio, particolare
Il mostro descritto nella cultura popolare, che trovò forse in Bosch un capostipite, ci conduce verso una coscienza umana dove la paura e l’angoscia hanno da sempre trovato una loro collocazione dominante, una concretizzazione visiva determinata da un’unità narrativa che possiamo considerare ponte tra la cultura del Medioevo, terrorizzato da incertezze molteplici, e l’inizio di un mondo nuovo, già forte delle proprie umane certezze. I mostri inseriti in questo grande ballo iconografico che ha coinvolto l’arte, ora frutto di un’introduzione colta, ora generata da un’ironica dialettica paesana, non sono solo creature infernali, o figli di unioni orripilanti, ma rappresentano il superamento dei limiti umani, sono forse un tentativo, quasi magico, di porre sullo stesso piano realtà e irrealtà, universo mitico e macrocosmo collettivo. Scandito da un impianto segnato dalle volute della roboante danza di esseri sfuggiti da luoghi diversi e anche opposti, l’universo iconografico del mostro è, malgrado l’apparenza, «un mondo sistematico» dove le creature scaturite dal meraviglioso e dal fantastico finiscono col formare un insieme coerente. Uomini, vegetali e animali si amalgamano in un solo essere e danno vita a spaventose mutazioni senza fine, senza né alfa né omega; e quando il loro esasperante amplesso innaturale giunge al culmine, colpevoli e innocenti, carnefici e vittime raggiungono un livello intermedio, non più umano ma non ancora soprannaturale.
L’universo del mostruoso è totalmente pervaso da esseri che nella selva brulicante di angosce e di spasmi rimanda sempre ad altri mondi, nella maggior parte dei casi sconosciuti, dove operano entità maligne e benigne, dove le razionali certezze umane perdono la loro tradizionale consistenza. Animali reali e mitologici, parzialmente amalgamati a corpi violentati di esseri ormai perduti, e quindi incapaci di riacquistare la loro primitiva collocazione nel mondo del concreto, percorrono il territorio del probabile, dando vita a tante vicende che si consumano singolarmente, senza apparenti connessioni con quanto travolge gli altri componenti della messinscena. In alcune occasioni l’uomo e il mostro si identificano e si uniscono in una nuova creatura, costituita per rappresentare visivamente la babele che travolge la collettività; quindi anche per gli amplessi più assurdi e le unioni paradossali diventano una necessità per estrinsecare forse il vero significato della vita. Quel significato non sempre evidente nella normalità del quotidiano, quando ciò che non è riconducibile al piano dell’antropomorfismo tipico è identificato come bestiale e figlio dell’ombra, seguace del male. La vittoria sul mostro «è l’uscita del sole, il trionfo della luce sulle tenebre, della coscienza o dello spirito sul magma patetico» [2], di conseguenza la sconfitta è il ritorno allo stato primo, al caos che conduce a un livello infimo dominato da quanto c’è di peggio e di temuto. La mostruosità dell’Uomo Selvatico sta nel suo aspetto, ma soprattutto nella sua costante aderenza a modelli comportamentali che lo avvicinano sempre più allo spazio dell’animale, allontanandolo di conseguenza da quello dell’uomo. In questo essere frutto di una mitologia solo apparentemente naїf scopriamo quanto il confine fra uomo, animale e mostro è incerto; l’immagine che ne scaturisce «ha solo un vago rapporto con la realtà, non soltanto a causa di imperizia o eccessiva stilizzazione, ma perché caricato di altri significati».[3] La mostruosità della creatura descritta si enfatizza di conseguenza solo ai limiti della visione fugace o rubata, ma si arricchisce in base a quei modelli che hanno seguito la modificazione delle singole culture.
Bosch,
Trittico delle tentazioni, particolare
Il rapporto aristotelico tra forma e materia è alla base della formazione dell’essere vivente: il loro equilibrio determina la perfezione, la norma. Nella tradizione medievale l’infrazione della norma, quindi la diversità, determinava l’alterazione delle forme: unico parametro per definire la separazione tra una creatura e l’altra. In ogni caso, la forma era il criterio in base al quale si determinava ciò che era mostruoso (come in effetti registriamo ancora oggi nella tradizione popolare); e tuttavia «la valutazione del grado in cui questa o quella creatura era da considerarsi deviante rispetto alla forma stessa, era una questione puramente soggettiva». [4]
Nello stabilire la definizione entravano quindi in gioco molteplici elementi condizionanti, vincolati a sistemi socio-culturali eterogenei che quindi identificavano, in modo spesso irrazionale e influenzato da molteplici fattori esterni, quanto era «contro» natura o «al di là» della natura. L’unione anatomica tra uomo e animale si è sempre dimostrata un proficuo sistema per didascalizzare simbolicamente l'esasperazione del male scaturito da motivazioni imperscrutabili e divine, mediate da tutta una serie di creature ritenute, in virtù del loro aspetto, adepte di Satana. Nel noto Malleus Malefìcarum, tra le varie pratiche della stregoneria, si annota anche la trasformazione di uomini in animali, attraverso sistemi magici ottenuti, nella coscienza giuridica di allora, direttamente dal demonio. Il fenomeno è però sempre ascritto al repertorio delle mostruosità e delle anomalie: Alberto Magno, nel suo De Animalibus, esaminando la possibilità che i demoni o anche gli stregoni possano fare veri e propri animali, risponde che, con il permesso di Dio, possono fare solo animali imperfetti. Animalità, bestialità e mostruosità quindi si compenetrano, si sostituiscono, diventando esperienze intercambiabili che nella cultura popolare ancora oggi assumono significati molto simili se non addirittura identici.
NOTE
1. J. Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico, Milano 1979, pag. 35
2. J. E. Cirlot, Dizionario dei simboli, Milano 1985, pag. 254
3. R. Delort, L'uomo e gli animali, dall'Età della Pietra ad oggi, Bari 1987, pag. 71
4. C. Kappler, Demoni, mostri e meraviglie alla fine del Medioevo, Firenze 1983, pag. 187
Massimo Centini, L'Uomo selvatico (Oscar Mondadori, pag. 166)