Hadot: la filosofia come esercizio spirituale e bene comune
di Nuccio Ordine - 29/02/2008

Fonte: Corriere della Sera

«Una filosofia che non si traduce in maniera di vivere diventa un astratto
edificio concettuale privo di qualsiasi rapporto con la vita e con
l'esperienza umana». Pierre Hadot, uno dei più grandi esperti di filosofia
antica, riprende con vigore e passione un tema che l'ha accompagnato nel
corso della sua lunga carriera di studioso. A quasi ottantasei anni —
coronati da un successo internazionale, da numerosi premi e dal suo
insegnamento al Collège de France — Hadot non rinuncia a considerare
inseparabili il discorso filosofico e la vita: «Nella filosofia antica si
percepisce con chiarezza il fatto che il vero filosofo non è solo colui che
parla ma anche colui che agisce. Il discorso filosofico (che si tiene nelle
scuole attraverso l'insegnamento) e la vita filosofica (la maniera che
maestro e discepolo hanno di comportarsi come cittadini nella loro comunità)
costituiscono due poli che debbono interferire tra loro. Quando ciò non
avviene è facile capire le critiche di chi sostiene che purtroppo "noi
abbiamo professori di filosofia e non filosofi" (Henry David Thoreau) o di
chi dice che spesso "la filosofia non si trova nelle classi dove si insegna
filosofia" (Charles Péguy)».

Nella bella casa di Limours — al centro della periferia sud di Parigi, dove
abitano diversi professori universitari — Pierre Hadot mi accoglie
sorridente in un grande studio invaso dai libri. Sulla scrivania campeggiano
le bozze del suo prossimo saggio che uscirà in aprile presso il prestigioso
editore Albin Michel. Il titolo è un inno alla vita: /Non dimenticare di/
/vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali/.
E subito dopo un fugace accenno alla necessità di mettere in luce una
tradizione lontana dal famoso /memento mori/ (ricordati che si muore), lo
studioso non nasconde il desiderio di raccontare il suo primo incontro con
la filosofia: «Nella mia biografia mia madre ha giocato un ruolo importante.
Aveva deciso lei stessa il destino dei miei due fratelli maggiori e il mio:
i suoi tre figli dovevano essere preti. Così la mia formazione iniziale,
dall'età di dieci anni, avvenne nei seminari di Reims, secondo le regole di
un'educazione religiosa. Ma leggevo anche, per interesse personale, autori
che poi hanno condizionato il mio pensiero: Montaigne, Bergson, Heidegger e,
naturalmente, l'esistenzialismo di Sartre e Camus».
Lentamente, il giovane Hadot percepisce il suo distacco da un mondo chiuso
che non permetteva nessun contatto concreto con la realtà esteriore. «Due
circostanze, una ideologica e l'altra privata, mi costrinsero a prendere
coscienza del mio allontanamento dalla Chiesa. Da una parte, la
pubblicazione dell'enciclica /Humani Generis/, nel 1950, che prendeva
posizione contro l'evoluzionismo dello scienziato-teologo Teilhard de
Chardin (e ci sarebbe tanto da dire anche oggi sulle interferenze delle
gerarchie ecclesiastiche in questioni relative alla ricerca scientifica!).
Dall'altra, una storia d'amore, iniziata nel 1949, che mi legava a colei che
sarebbe poi diventata la mia prima moglie. Non me la sentivo più di
rinnegare le mie convinzioni legate alla libertà della ricerca filosofica e
di costruire una doppia vita, come molti dei miei confratelli facevano,
giustificando le loro scelte con il motto luterano /Pecca fortiter et crede/
/fortius/, come se il credere con forza potesse cancellare ogni peccato».
Ma dove trovare il coraggio per abbandonare definitivamente la Chiesa? E,
soprattutto, quali conseguenze avrebbe avuto questa scelta nei rapporti con
la madre? Hadot decide di raccontare per la prima volta, con la discrezione
che ogni intimo segreto richiede, una circostanza che finora aveva preferito
nascondere. «La forza mi venne dall'esperienza di mio fratello, il secondo,
che aveva dieci anni più di me. Per liberarsi dalla Chiesa e per non
deludere mia madre, simulò una morte per annegamento. Un po' di tempo dopo,
mi venne a trovare la sua compagna e mi disse che mio fratello era vivo e
che avrebbe voluto rivedermi. Nessuno seppe la verità, tranne io. Quel gesto
estremo in nome della vita mi convinse che anch'io non avevo alternative.
Scrissi a mia madre e abbracciai il mio nuovo percorso di studioso».
Per designare l'attività filosofica Hadot, pensando alla filosofia antica e
anche ad autori come Foucault o Wittgenstein, usa volentieri la nozione di
«esercizio spirituale»: «Io credo che, in un ambito filosofico, l'"esercizio
spirituale" possa considerarsi come una /pratica volontaria, tutta/
/personale, destinata a provocare una profonda trasformazione
dell'individuo,/
/una profonda metamorfosi del sé/. Per alcuni filosofi antichi, questa
pratica potrebbe essere messa in relazione con il prepararsi ad affrontare
le difficoltà della vita: la malattia, la povertà, la mancanza del
necessario, la variazione improvvisa della fortuna impongono un esercizio
interiore che ci aiuta nella quotidianità e, nello stesso tempo, ci insegna
a ragionare e a interiorizzare il sapere. Sulla scia di Paul Rabbov, ho
mostrato che gli esercizi spirituali cristiani erano un'eredità della
filosofia antica».
Uno dei compiti principali della filosofia per Hadot non è tanto quello di
costruire «discorsi nuovi» o «edifici concettuali fine se stessi»: «La
filosofia — ci dice — deve soprattutto insegnarci ad andare al di là di noi
stessi, a superare il perimetro limitato del nostro io, e a farci prendere
coscienza del nostro appartenere alla grande comunità degli esseri umani.
Solo così pensiero e azione possono aiutarci a cercare il bene comune,
rinunciando a inseguire i piccoli egoismi e le miserie legate al nostro
particulare». Questa coscienza permette di vedere con occhi diversi la
realtà nella quale siamo immersi. «Si tratta di cercare una vita più
razionale che ci consenta di aprirci agli altri e di sentirci parte
integrante dell'immensità del mondo. Un processo che non prevede un punto di
arrivo. Siamo di fronte a una sfida infinita che, pur non producendo sempre
risultati di alto livello, ci aiuta comunque a misurarci con i grandi
misteri dell'esistenza».
Ma prima di salutarci, Hadot ci tiene a ricordare che per poter assolvere a
questa funzione di «formazione », /la filosofia non può essere al servizio/
/del mercato e del profitto/. «La morale stoica insegna che il culto del
profitto distrugge lentamente l'umanità. La vita filosofica impone invece
che ogni uomo sia leale, sia trasparente, sia disinteressato. Socrate era un
filosofo non perché insegnava filosofia. Lo era perché la sua maniera di
vivere, e poi di morire, hanno testimoniato cosa fosse per lui la vera
filosofia». Parole che dovrebbero far riflettere, in una «civiltà» in cui si
perde sempre più l'idea di bene comune.