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Risultati da 1 a 10 di 10
  1. #1
    uruguayo
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    Per una volta IBL alla ribalta nazionale

    PROTEZIONISTI E LIBERISTI

    Il paradosso di Tremonti



    di Angelo Panebianco

    Questione dell'aborto a parte, quella innescata da Giulio Tremonti su protezionismo e globalizzazione, con le reazioni polemiche che ha suscitato, è, almeno fino ad ora, l'unica discussione politico- culturale degna di questo nome della campagna elettorale. Investe un tema su cui l'intero Occidente è diviso e, plausibilmente, si dividerà ancor più nei prossimi anni. Una divisione che, per giunta, è impossibile ricondurre alla logora distinzione destra-sinistra. Si pensi, ad esempio, al fatto che il protezionismo è una delle bandiere del candidato alla nomination democratica Barack Obama.
    Tremonti, armato dell'intelligenza e dell'anticonformismo che tutti gli riconoscono, ha rotto lo schema classico che vede (dall'epoca reaganiana e thatcheriana in poi) i liberal- conservatori combinare anti-proibizionismo in economia e tradizionalismo nelle questioni etiche. Riprendendo temi che aveva già sollevato in passato e a cui ha dato veste più sistematica nel suo ultimo libro, Tremonti ripropone l'idea della necessità di una dura difesa europea, e occidentale, dalla concorrenza asiatica. Nel quadro di una rivolta, anche morale, contro la rinuncia della politica a guidare il mercato. Sarebbe facile (ma sbagliato) dire che in questo modo i «no-global», coloro che combattono il mercato globale, hanno trovato un campione, inaspettato ma anche molto più preparato di quelli che si erano scelti fino ad oggi. Sarebbe sbagliato perché Tremonti non è certo, a differenza dei no-global, un avversario del capitalismo e della libera impresa. Ciò che propone è una protezione del capitalismo occidentale dal dumping
    sociale, ossia dall'aggressione economica portata da Paesi nei quali le condizioni politiche garantiscono bassi salari e vantaggi competitivi. Una protezione che, nella visione di Tremonti, spetta agli statisti, a una politica di nuovo consapevole del proprio ruolo di comando, assicurare.
    Non c'è dubbio che una posizione come quella di Tremonti sia fatta per dividere trasversalmente gli schieramenti. Contrastata dai liberali del centrodestra (ben rappresentati da economisti come Renato Brunetta o Antonio Martino) può trovare orecchie attente nel sindacalismo, Cgil compresa. Può attrarre quella parte del ceto medio, per esempio il mondo artigianale, estraneo ai processi di internazionalizzazione dell'economia, ma può anche arrivare a spiazzare e imbarazzare la sinistra estrema .
    Non è certo l'unico, né il primo, Tremonti, a mettere in guardia contro la cosiddetta «faccia oscura della globalizzazione». In Occidente lo hanno già fatto molti altri prima di lui. Ma c'è una differenza. Tremonti occupa un ruolo politico di primissimo piano all'interno di uno schieramento liberal-conservatore e, se le elezioni daranno la vittoria al Popolo della libertà, sarà di nuovo alla guida dell'economia italiana. Ha ragione Alberto Mingardi quando, sul Riformista, osserva che Tremonti sembra proporre l'archiviazione del reaganismo, sinonimo (più nell'immaginario che nella realtà) di liberalismo economico senza vincoli, e il ritorno a forme di conservatorismo «sociale» come quello che fu incarnato in Europa dal generale De Gaulle.
    Come Francesco Giavazzi (su questo giornale), come Renato Brunetta, come Antonio Polito ( Il Riformista), come Fabrizio Onida ( Il Sole 24 ore), anche chi scrive pensa che la strada indicata da Tremonti non sia quella giusta, e che la concorrenza, anche quella drogata dei colossi asiatici, possa essere affrontata solo con riforme liberalizzatrici e con la lotta contro l'oppressione burocratico-statale dell'economia. E non mi sembra che questo sarebbe un compito indegno, o subalterno, da proporre alla politica. Per esempio, piuttosto che la creazione di istituti di credito, se non pubblici, comunque guidati dallo Stato, non servirebbe di più al nostro Mezzogiorno, come ha proposto l'Istituto Bruno Leoni, la sua trasformazione in una no taxation area per le imprese disposte ad investirvi?

    Pur non condividendo, riconosco tuttavia che quella di Tremonti è una posizione rispettabile e seria. E' quello, comunque, uno dei più importanti temi con cui gli occidentali dovranno confrontarsi nei prossimi anni. Nonostante il ruolo politico di Tremonti, tuttavia, non credo che, in caso di vittoria del centrodestra, la sua posizione culturale possa tradursi in immediata azione politica. Non solo perché nel centrodestra sono in molti a pensarla diversamente da lui. Ma anche, o soprattutto, perché chi avrà responsabilità di indirizzo economico nei prossimi anni sarà inevitabilmente «assalito dalla realtà», dovrà fare i conti, prima di ogni altra cosa, con la necessità, comunque, di liberalizzare l'economia, colpire le rendite politiche annidate al centro e alla periferia, fare insomma tutte quelle cose che piacciono ai liberali, a quelli che pensano che il mercato, meglio senza frontiere, non sia solo il mezzo più efficiente per creare e distribuire ricchezza ma sia anche garanzia di libertà (per chi ce l'ha) e di emancipazione (per chi vi aspira).

    08 marzo 2008


    http://www.corriere.it/editoriali/08...ba99c667.shtml

  2. #2
    uruguayo
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    Il dubbio

    SE LA POLITICA OCCUPA STATO E MERCATO

    di Piero Ostellino



    Il 13 e 14 aprile gli italiani eleggeranno (?) senatori e deputati che i partiti hanno già «nominato» con le liste bloccate. Di questi, solo una trentina - dice Berlusconi - faranno la politica nazionale. Gli altri resteranno a disposizione dalle 9 del mattino alle 9 di sera per votare quello che i 30 indicheranno loro. Ha ancora qualche senso andare a votare? Questa caricatura della democrazia rappresentativa spreca ogni anno 80 miliardi di euro. Su 40 miliardi che costa lo stato sociale, 20 sono sprecati. L' interposizione pubblica - la somma delle entrate correnti dello Stato e della spesa pubblica corrente primaria - sull' economia nazionale è arrivata all' 87% del Prodotto interno lordo. Il governo, quale ne sia il colore, non è il «comitato esecutivo della dittatura della borghesia» che Marx immaginava fossero i governi delle democrazie liberali. A differenza della borghesia liberale, che ha prodotto libertà e progresso, la dittatura di questa nomenklatura parassitaria e familista che è la classe politica ha prodotto l' ipertrofia e la degenerazione dello Stato e soffoca lo sviluppo del Paese. «Era l' ora/ della focomelia concettuale/ e il distorto era il dritto su ogni altro/ derisione e silenzio» (Eugenio Montale). Il Popolo della libertà e il Partito democratico hanno a fondamento dei loro programmi lo Stato e il mercato. Da un lato, essi ritengono che la soluzione dei problemi del Paese passi dallo Stato. Ma uno Stato che ha decine e decine di migliaia di leggi e, poi, viola esso stesso la legalità, che non assicura una Giustizia giusta, una scuola e un' università efficienti, la sicurezza, non è la soluzione. E' il problema. D' altra parte, la voracità della classe politica è tale che si fa «ricettazione di Stato», come ha fatto la Germania, per comprare da un ladro elenchi di contribuenti che hanno trovato rifugio nei paradisi fiscali. L'illegalità pubblica spacciata per regola etica. L' obiettivo, un' alta tassazione in tutta l' Ue. Dall' altro, Pdl e Pd individuano nel mercato il veicolo della modernizzazione del Paese. Ma ci credono così poco che, anche là dove si è privatizzato, il risultato è che c' è meno mercato di prima, più dirigismo, maggiore presenza della politica, meno efficienza. La privatizzazione dei servizi pubblici locali (riforma Bassanini), senza liberalizzazioni (mercato), ha generato aziende private monopolistiche che, al Nord, sono nelle mani di amici dei partiti e, al Sud, della criminalità organizzata. Non c' è neppure più bisogno della corruzione e della concussione; l' occupazione politica è istituzionale «per via privata». Invano, l' onorevole Lanzillotta, moglie di Bassanini, sta cercando da tempo di riparare i danni compiuti dal marito, introducendo un minimo di concorrenza nei servizi locali. «Oggi - scrive Luca Ricolfi nel suo ultimo libro (Ostaggi dello Stato, ed. Guerini e Associati), ricco di dati sulle «origini politiche del declino e dell' insicurezza» - siamo ostaggi dello Stato, esattamente come siamo stati, per secoli, sottomessi allo straniero». Da leggere.




  3. #3
    uruguayo
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    Il dubbio

    Se il mito dell' operaio vince di nuovo sull' idea di persona

    di Piero Ostellino



    Ma chi si credono di essere quei quattro gatti di liberali che continuano ad auspicare la riforma anche (e soprattutto) della Prima parte della Costituzione, che elimini l' anacronistico richiamo a un' astrazione collettiva (il Lavoro) quale fondamento della nostra democrazia e ne metta al centro l'individuo, la Persona, come è nelle democrazie liberali più mature? Che cancelli i condizionamenti «sociali» (l' interesse collettivo, il bene comune) al diritto di proprietà e al libero mercato, come accadeva nelle Costituzioni totalitarie (che condizionavano l' esercizio delle libertà individuali all' edificazione del socialismo o al primato della razza)? Se il Lavoro, in un sistema capitalistico e di mercato, non è una merce - come diceva persino Marx - ma un diritto, è «normale» che ci si opponga all' eliminazione dell' articolo 18, che si chieda l' abolizione della legge Biagi, che l' idea del «posto» garantito prevalga su quella di meritocrazia. Se la proprietà è un privilegio sociale, e non un diritto naturale come negli ordinamenti democratico-liberali, è «normale» che si chieda la requisizione degli appartamenti sfitti e diventino legittimi persino gli espropri proletari. Non si sono accorti, quei quattro gatti di liberali, che - con l' elezione a presidenti delle due Camere di due antichi sindacalisti e con un presidente del Consiglio nipotino di Dossetti (con Togliatti, uno dei grandi costituenti) - l' Italia ha fatto, culturalmente e politicamente, un salto indietro di sessant' anni, e che se la possono scordare la riforma della Costituzione? Ma in che Paese credono di vivere quei quattro gatti di liberali che si chiedono dove siano finiti i riformisti del centrosinistra? Convinti, come sono, che «lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un' istanza burocratica che non può assicurare l' essenziale di cui l' uomo sofferente - ogni uomo - ha bisogno: l'amorevole dedizione personale; che «non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto» (Benedetto XVI)? Se, nel suo discorso di insediamento, il presidente della Camera - peraltro degnissima e amabilissima persona - saluta «le operaie e gli operai» (quasi scomparsi), è «normale» che si continui a regolare il mercato del lavoro, invece che in sintonia con la società del terziario, con le logiche fordiste delle grandi unità produttive (la mitica fabbrica, laboratorio sociale e politico, che non c' è più) e che si consideri ancora lo sciopero - che danneggia più gli altri lavoratori dei «padroni» - uno strumento di lotta e di rivendicazione. Non si sono accorti quei quattro gatti di liberali che - con l' elezione a presidenti delle due Camere di due antichi sindacalisti e con un presidente del Consiglio nipotino di Dossetti (con Togliatti, uno dei grandi costituenti) - l' Italia è ripiombata, dal XXI secolo (quello del primato dell' individuo), al XX, quello del primato della collettività «etica»; che si è messa in moto una restaurazione conservatrice, e che se la possono scordare la modernizzazione del nostro Paese? Non fasciamoci la testa prima che ce l' abbiano rotta. Ma se è dalla cultura politica dei governanti che si giudicano i governi, non è da questo mattino che si vede il buon giorno.

    postellino@corriere.it

    http://archiviostorico.corriere.it/2...60506343.shtml

  4. #4
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    Il dubbio

    di Piero Ostellino


    Spesa pubblica alta e pressione fiscale non sono democrazia


    Siamo proprio sicuri che la sinistra sia per l' eguaglianza e dalla parte dei più deboli? Proviamo a ragionare in termini empirici. Da noi, una volta arrivata al governo, la sinistra ha aumentato la spesa pubblica e la pressione fiscale. Ségolène Royal ha detto che, se diventerà presidente dei francesi, farà lo stesso. Ma chi le paga le tasse? In Italia, innanzi tutto, la grande massa di lavoratori a reddito fisso, ai quali sono prelevate direttamente alla fonte dal datore di lavoro. Anche volendolo, non potrebbero sottrarvisi. Poi, le pagano piccoli artigiani, commercianti e professionisti. Probabilmente, non in misura corretta rispetto al proprio reddito reale avendo la possibilità di sottrarvisi almeno parzialmente; forse, quanto le pagherebbero se il nostro Paese avesse una pressione fiscale più bassa, analoga a quella di altri Paesi. Infine, le pagano coloro i quali hanno un reddito elevato e hanno l' interesse e l' opportunità di utilizzare le misure che la legge offre loro per evitare di pagare in proporzione ai loro guadagni: la costruzione, con l' aiuto di esperti fiscalisti, di strutture societarie attraverso le quali «eludere» del tutto legalmente una parte delle tasse che altrimenti dovrebbero pagare. Sono la categoria di italiani che, meno di ogni altra, si lamenta del fisco e partecipa a manifestazioni di protesta contro di esso. Forse perché se ne sente meno tartassata? Mi attengo anche qui a una rilevazione strettamente empirica. Molti di costoro votano a sinistra. Poiché non sono ideologizzati come molti lavoratori a reddito fisso o autonomi, e non votano, quindi, per senso di appartenenza di classe, è probabile, dunque, che lo facciano per convenienza. Votano a sinistra perché costa fiscalmente meno di quanto non renda loro sul piano mondano qualificarsi tali. Insomma, perché è chic e conviene. Ritengono «sociale» la spesa pubblica, anche se elevata. Ma non sono mai saliti su un autobus; non mandano i loro figli alla scuola statale; a meno di non esserne stati costretti dalle circostanze, non sono mai finiti in una corsia d' ospedale; si curano in cliniche private, all' estero. In compenso, si scandalizzano, ostentando una moralità fiscale pelosa, se l' idraulico non fa fattura. Non si chiedono se quella manifestazione così palesemente illegale non sia una forma di individuale autodifesa o addirittura il corrispettivo della loro legale, e meno palese, elusione per interposta abilità del fiscalista. Non auspico che «anche i ricchi piangano». Non credo che l' accumulazione di ricchezza individuale sia un gioco a somma zero: tutto ciò che guadagna l' uno lo perde l' altro. Perciò, non mi chiedo neppure se sia giusto che la legge consenta ai più abbienti di attenuare parzialmente i rigori del fisco. Mi pare, anzi, una legittima difesa contro la sua voracità. Vorrei solo che chi è esposto a un fiscalità più occhiuta e implacabile non fosse preso per i fondelli con la balla della redistribuzione della ricchezza e dell' eguaglianza (peraltro controproducenti anche se fossero vere). La spesa pubblica oltre il 50 per cento del Pil è il luogo dove si sperpera in inefficienze e sprechi la ricchezza nazionale; dove prospera il parassitismo. E' la riserva di caccia delle oligarchie politiche al governo che su di essa mettono le proprie mani. L' elevata pressione fiscale è lo strumento di dominio di tali oligarchie. E' lo Stato etico che pretende di saper disporre dei soldi del cittadino meglio di quanto non saprebbe lui stesso. Spesa pubblica e pressione fiscale elevate non sono la democrazia. Sono la prova del suo fallimento.



  5. #5
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    Il dubbio

    L' idea liberale e i cittadini sudditi


    di Piero Ostellino


    Un automobilista va all' Aci per pagare il bollo dell' auto. Ma non lo può pagare perché «la macchina è sotto fermo amministrativo». L' automobilista si precipita allora all' Equitalia-Esatri per conoscere la propria situazione amministrativa. Le auto sotto fermo sono due e c' è un' ipoteca su una delle sue case (ma non sanno dirgli quale). La causale: multe e tassa sui rifiuti non pagate, Irpef sotto indagine. Il malcapitato - che ha cambiato residenza - non ricorda di avere ricevuto notifica delle sanzioni al nuovo indirizzo. Ma se paga una multa di 5400 euro, gli addebiti saranno cancellati, le auto dissequestrate e tolta l' ipoteca sulla casa. Il contribuente inadempiente, ma benestante, paga. Chi si fosse trovato nella stessa situazione, ma non fosse stato in grado di pagare, o avesse voluto impugnare le sanzioni, avrebbe potuto fare ricorso. Però, con scarse probabilità di successo. Dice l' articolo 21-octies della Legge n. 15 dell' 11 febbraio 2005, che modifica e integra la legge n. 241 del 7 agosto 1990: «Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell' avvio del procedimento qualora l' amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Dice l' articolo 21-ter: «1. Nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l' adempimento degli obblighi nei loro confronti (...) Qualora l' interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all' esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge. 2. Ai fini dell' esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro si applicano le disposizioni per l' esecuzione coattiva dei crediti dello Stato». Il provvedimento è sempre esecutorio perché - dice il mio amico Giovanni Cofrancesco, docente di Diritto amministrativo all' Università di Genova - la Pubblica amministrazione, a differenza dei cittadini che devono ricorrere al giudice ordinario per far valere le proprie ragioni patrimoniali, ha una «corsia preferenziale» per far valere le proprie. Eppure, già nel 1600, ricorda Cofrancesco, Ugo Grozio diceva che quando la P.A. agisce iure gestionis è come il cittadino, mentre diverso è il caso di quando agisce iure imperii. Grozio, chi era costui? Se il centrodestra fosse davvero quel movimento liberale che dice di essere, dovrebbe, una volta al governo, promuovere un Codice per le sanzioni amministrative, abolire l' esecutorietà del provvedimento amministrativo, porre fine al foro speciale della P.A. Dovrebbe. Se la legge n. 15 del 2005 non l' avesse approvata il governo Berlusconi...



  6. #6
    uruguayo
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    IL «MANIFESTO DEI VALORI» DEL PD

    UN TUFFO NEL PASSATO

    di Piero Ostellino


    La lettura dell' odierno «Manifesto dei valori» del Partito democratico, redatto da Alfredo Reichlin, (ri)suscita nello studioso di filosofia e di scienza politica un irrefrenabile moto di ammirazione per il «Manifesto del partito comunista» di Karl Marx (e Friedrich Engels) del 1848. Tanto gli strumenti concettuali utilizzati da Marx erano la punta più avanzata della cultura della sua epoca, quanto quelli utilizzati da Reichlin appaiono la retroguardia della cultura di oggi. Più che il frutto del pensiero filosofico e politico contemporaneo, il Manifesto del Pd sembra il risultato di uno scavo archeologico nel socialismo utopistico, ieri degenerato storicamente nel comunismo, oggi parzialmente mitigato dalle «dure repliche della storia», la vittoria della democrazia liberale, del capitalismo e dell' economia di mercato. Il Pd, «un partito aperto», «un laboratorio di idee e di progetti», nasce dalla necessità di «interpretare i processi storici e culturali in atto». Parrebbe una riedizione, per quanto tarda, del socialismo scientifico del giovane Marx del Manifesto del 1848, come «sociologia del capitalismo». Invece, è filosofia della storia, provvidenzialismo, modello teologico, nella (hegeliana) convinzione che la storia proceda verso un fine ultimo e che compito della politica sia quello di prevederne il cammino e di gestirlo, mentre la storia procede secondo la regola della «prova e dell' errore». Esigenza primaria del nuovo partito è, dunque, «il governo delle conoscenze». Negazione, questa, del concetto di «dispersione delle conoscenze» che è alla base della sociologia moderna (Max Weber), dell' individualismo metodologico (Friedrich von Hayek) e della società aperta (Karl Popper), cioè del processo attraverso il quale gli uomini, nella libertà, producono «inconsapevolmente» benefici pubblici attraverso comportamenti individuali non prevedibili e programmabili. Per il Pd, «la libertà deve essere sostanziale e non puramente formale». È l' anacronistica riedizione della convinzione dei marxisti che solo con l' abolizione dei rapporti di produzione capitalistici e la sconfitta della democrazia liberale sarebbe nata la piena libertà. In che cosa, poi, consisterebbe tale libertà «sostanziale» il Manifesto del Pd non lo dice chiaramente. Sembra di capire si tratti (genericamente) della libertà cosiddetta sociale di cui già Isaiah Berlin ha fatto giustizia nel saggio Le due libertà. Quella negativa (liberale), come «non impedimento» per l' Individuo; quella positiva (democratica), come interferenza collettiva nella vita degli individui, con le sue ricadute totalitarie. In realtà, l' aggettivo «formale» certifica la superiorità della libertà borghese rispetto ai regimi che hanno preceduto la democrazia liberale e a quelli comunisti che le sono succeduti. Un processo politico è descrivibile solo se individua momenti in cui le regole del gioco sono formalizzate. In caso contrario, non si può parlare di evoluzione del processo, ma di «stato di natura» (ciascuno fa quello che gli pare e vince il più forte). Il «Principe» cioè, oggi, lo Stato e chi lo controlla, è legibus solutus, non è esso stesso sottoposto a regole del gioco (pre)definite. «L' individuo, lasciato al suo isolamento - dice a questo punto il Manifesto del Pd - non potrebbe più fare appello a quella straordinaria capacità creativa che viene non dal semplice scambio economico, ma dalla memoria condivisa, dall' intelligenza e dalla solidarietà, dai progetti di domani». E ancora: «Noi vogliamo non una crescita indifferenziata dei consumi e dei prodotti, ma uno sviluppo umano della persona, orientato alla qualità della produzione e della vita». Qui siamo alla traduzione dell' etica in politica, anticamera della dittatura. Poiché in Marx non c' è una vera teoria dello Stato, questa volta è Lenin di Stato e rivoluzione a venire in soccorso dei redattori del Manifesto del Pd. Che pasticcio... Potrei continuare. Ma mi fermo qui. Non perché quello del Manifesto sia un programma pericoloso. Figuriamoci. Solo perché a me pare unicamente il frutto di una memoria politicamente ripudiata, ma culturalmente non ancora dimenticata.


    http://archiviostorico.corriere.it/2...80111104.shtml

  7. #7
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    Ostellino è praticamente l'unico motivo per cui vale la pena sfogliare il Corriere. I liberali son quattro gatti anche nella sfera del giornalismo...

  8. #8
    uruguayo
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    Eh già non si leggono spesso cose incoraggianti, non dico libertarie, ma almeno un po' liberali.

    Da quando ho imparato a usare la funzione "Archivio storico" del Corriere della Sera, ho deciso di deliziarvi con brani scelti di Ostellino, anche se gli avrete già letti..

  9. #9
    uruguayo
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    CLASSICI Come rileggere «La società libera», una bibbia antitotalitaria che ha gettato le basi giuridiche del mercato

    Il nome della *** Libertà

    Von Hayek, torna il grande liberale con cui l' Italia non vuole fare i conti

    di Piero Ostellino



    Gli italiani hanno un forte pregiudizio nei confronti del liberalismo semplicemente perché non lo hanno mai conosciuto e non sanno che cosa sia. Non abbiamo avuto la Riforma protestante, che ha aperto la strada al concetto di responsabilità individuale. Siamo figli di tanti cattivi padri. L' Illuminismo razionalista francese che - a differenza di quello empirico scozzese di David Hume e Adam Smith - ha imprigionato il processo sociale nella gabbia della Ragione e mira alla sua prevedibilità e al suo controllo. L' Idealismo tedesco, che ha subordinato la libertà, e le istituzioni del costituzionalismo, allo «Spirito della Storia» e per il quale essere liberi significa accettare, adattarsi e sottomettersi alle sue variabili leggi. Razionalismo e Idealismo hanno gettato le basi dei grandi totalitarismi del XX secolo. Il positivismo giuridico, che ha sostituito al Diritto la legislazione la quale è, insieme, dittatura della maggioranza - la volontà generale di Rousseau, denunciata da Tocqueville e da Constant - e mortificazione dell' universalità della Legge attraverso l' arbitrio legislativo di cambiare le leggi secondo convenienza da parte di chi, di volta in volta, conquista il potere. Infine, gli intellettuali del secondo dopoguerra, muse cortigiane del «nuovo Principe» gramsciano per viltà morale e per convenienza politica, che hanno bloccato per decenni la pubblicazione dei classici del liberalismo contemporaneo da parte delle case editrici per le quali lavoravano. Così, anche ora che tutti si dicono liberali, i diritti di libertà individuali sono sinonimo di egoismo, che farebbe il danno di una «collettività» non meglio identificata, come se la collettività non fosse una pluralità di individui; la libertà economica è sinonimo di sfruttamento dellìuomo sull' uomo, mentre è una manifestazione delle libertà individuali, che trovano i loro limiti nel diritto di ognuno a goderne nella stessa misura; il mercato è assimilato allo stato di natura, mentre è un processo di individuazione e soddisfacimento degli interessi di tutti. La libertà liberale non è anarchia, ma si sostanzia e si manifesta all' interno di un quadro normativo perché è anche un concetto giuridico, non solo politico o economico. Godiamo delle libertà individuali, che attribuiamo alla democrazia, mentre esse sono figlie del liberalismo. Che è il costituzionalismo, lo Stato di diritto, il governo della Legge. Dei pregiudizi nei confronti del liberalismo - la sola dottrina dei limiti del potere, quale esso sia, politico, economico, sociale, ideologico - fa giustizia questa bella edizione, tradotta e curata da Lorenzo Infantino, di uno dei capolavori del pensiero politico del ' 900, La società libera di Friedrich A. von Hayek. Il liberalismo, ricorda Hayek, muove dal riconoscimento dei limiti della conoscenza umana, della dispersione della conoscenza di tempo e luogo e, quindi, della fallibilità degli uomini. Perciò nessuno può pretendere di essere depositario di un punto di vista privilegiato e di imporlo agli altri, bensì tutti dobbiamo poter concorrere liberamente a scoprire e a proporre punti di vista diversi e alternativi. Solo il mercato e la concorrenza - anche, ma non solo, economica - provvedono a mobilitare e valorizzare tali risorse e tali opportunità che concorrono tutte, e inconsapevolmente, a creare la «Società libera». La libertà liberale è, dunque, non impedimento, assenza di costrizione, è la sfera entro la quale ciascuno può agire senza essere ostacolato da altri. E' «libertà negativa», «libertà da», che un altro grande pensatore liberale, Isaiah Berlin - nel celebre saggio sui «Due concetti di libertà» - ha contrapposto alla «libertà positiva» democratica, la «libertà di». Non ci sarebbe, del resto, libertà democratica, «libertà di partecipazione», senza libertà liberale, «libertà dalla costrizione» con tutto il suo patrimonio di diritti individuali, di coscienza, di parola, di associazione. Inoltre, nel passaggio dall' empirismo liberale - l' individualistica aspirazione dell' uomo a essere padrone dei propri sentimenti, dei propri desideri, delle proprie emozioni, della propria vita - al razionalismo democratico, l' aspirazione dell' uomo a vivere secondo Ragione, il rischio è di passare dalla Libertà all' Obbedienza nei confronti di chi meglio di noi sa che cosa sia la vita «buona», come agire virtuosamente. Nel binomio democrazia-liberale, è più importante l' attributo «liberale» del sostantivo «democrazia». Hayek ci aiuta a non dimenticarlo.

    http://archiviostorico.corriere.it/2...71014090.shtml

  10. #10
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    continua teo......grande ostellino e panebianco

 

 

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