Nell’ottobre 2005, Impregilo, a capo di una cordata di aziende internazionali, si aggiudicò la gara (con due soli concorrenti) per la realizzazione del ponte sullo stretto di Messina. Con la fine della passata legislatura e la nascita dell’esecutivo Prodi, l’opera, giudicata non prioritaria, fu “messa in sonno”. Il Ministro Di Pietro decise però di mantenere in vita, in attesa di tempi migliori, la società Stretto di Messina, costituita per promuovere e coordinare la costruzione del ponte e costata nel solo 2006 oltre 21 milioni di Euro a carico della collettività.

Oggi, in prossimità delle elezioni, si torna a discutere della grande opera che pare stare molto a cuore soprattutto al centrodestra. Tra le poche voci dissenzienti, quella di Gianluigi Paragone che, sulle colonne di Libero, ha scritto di non ritenere credibile la promessa che l’opera verrà realizzata con finanziamenti privati e di temere che, sempre che si riesca a completarla, a pagare il conto sarà, come sempre, il contribuente. Pietro Lunardi ha invece ribadito la propria convinzione sulla priorità dell’opera. Le ragioni portate dall’ex ministro suscitano però più di una perplessità. Il primo argomento citato è “di autorità”: il ponte si dovrebbe fare perché ha ricevuto il via libera da numerosi governi oltre che dal parlamento europeo. Se è per questo, l’enorme debito pubblico di cui è gravato il nostro Paese è in larga misura il frutto delle decisioni prese dal partito unico della spesa pubblica che ha sempre avuto maggioranze schiaccianti in parlamento. L’altra parolina magica usata da Lunardi è: “strategico”. Non si sa bene cosa significhi in concreto ma l’aggettivo è molto utile per troncare una discussione in mancanza di altri argomenti. Se una scelta è strategica, ad esempio, si possono tranquillamente ignorare i costi da sopportare per attuarla. Scrive poi l’ex ministro che il ponte consentirebbe la “costruzione di una nuova realtà urbana: una città lineare da Catania a Reggio Calabria” da cui dipenderebbero le magnifiche sorti dell’intero mezzogiorno. Ora, c’è un’isola in Europa che ha una collocazione geografica ancor più sfavorevole della Sicilia e che fino a pochi decenni fa aveva un reddito pro-capite di gran lunga inferiore alla media continentale. Quell’isola è l’Irlanda, un Paese con una popolazione analoga a quella della Sicilia (4 milioni di abitanti contro 5) e che è separata dalla Gran Bretagna da un braccio di mare largo oltre 40 km, dieci volte tanto la distanza che separa la Calabria dalla Sicilia. Forse per questo a nessuno è mai venuto in mente di progettare un ponte che la collegasse stabilmente, attraverso il tunnel sotto la Manica, con l’Europa. Ma, nonostante questo grave svantaggio geografico, grazie ad una drastica riduzione della spesa pubblica (dal 55% al 35% del PIL) e della pressione fiscale che grava sulle imprese, nell’arco di meno di vent’anni l’Irlanda è diventata il secondo Paese europeo in termini di reddito pro-capite alle spalle del solo Lussemburgo riuscendo contemporaneamente ad abbattere il debito pubblico dal 125% al 35% della ricchezza prodotta nel Paese. Il tutto senza nemmeno essere sfiorata da un “Corridoio” europeo. Corridoi che, per la verità, esistono solamente nella fervente immaginazione dei burocrati di Bruxelles: come non c’è un solo passeggero che per andare da Lisbona a Kiev utilizzerà mai il Corridoio V, così assai pochi sono i palermitani che per andare a Berlino prenderanno la strada del Corridoio I. Gli spostamenti di persone a lunga percorrenza avvengono in larga e crescente misura in aereo come ci testimonia proprio lo straordinario successo della compagnia irlandese a basso costo Ryanair che, senza gravare minimamente sulle finanze pubbliche, ha drasticamente migliorato la mobilità sulle lunghe distanze per gli irlandesi (e per i turisti europei diretti nell’isola verde). Per quanto concerne lo spostamento delle merci, la progressiva minor rilevanza delle infrastrutture per lo sviluppo economico trova spiegazione nel fatto che, nel tempo, cresce il valore aggiunto della produzione. Maggior valore aggiunto significa maggior valore delle merci per unità di peso (maggior “densità di valore”). Il che implica minore incidenza dei costi di trasporto sui costi di produzione totali. I primi, è evidente, incidono molto meno per abiti firmati o microchip che non per prodotti minerari o agricoli. Per questo motivo una crescita economica sostenuta può benissimo convivere, come nel nord-est, con elevati livelli di congestione. E, laddove servono davvero, le infrastrutture si ripagano da sole senza necessità di ricorrere all’intervento pubblico. Non pare essere questo il caso del Ponte sullo Stretto per il quale è previsto un investimento pubblico iniziale pari a 2,5 miliardi di euro cui dovrebbero assommarsi in un secondo tempo altri 3,5 miliardi da reperire sul mercato. Ma, ha ragione Paragone, non c’è molto da fidarsi. Come ha dimostrato lo studioso danese Bent Flyivbjerg, una caratteristica che accomuna tutti i grandi progetti infrastrutturali è la sottostima iniziale dei costi e la sovrastima dei traffici (e quindi dei ricavi).

Curiosamente, la ripartizione degli oneri ipotizzata per il ponte sullo Stretto, 40% a carico dello stato e 60% dei privati, è la stessa che era inizialmente prevista per la rete ferroviaria ad alta velocità. Abbiamo visto come è andata a finire: i capitali privati non sono arrivati ed i costi, cresciuti di tre volte rispetto alle stime iniziali, sono andati a gravare interamente sulla collettività. In una sola occasione l’impegno iniziale a non mettere di mezzo il contribuente nel caso le cose non fossero andate come previsto è stato mantenuto: il tunnel sotto la Manica. Ma in quel caso a tutelare i cittadini britannici (ed indirettamente quelli francesi) c’era Margaret Thatcher. Da noi, di signore di ferro non si vede nemmeno l’ombra. Meglio quindi non correre inutili rischi.

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