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    Mé rèste ü bergamàsch
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    Predefinito Il Grande Gioco in Asia centrale

    Il Grande Gioco in Asia centrale



    Con la vittoria del filo-russo Janukovič alle elezioni presidenziali ucraine, svoltesi lo scorso mese, Mosca ha ritrovato un probabile alleato nello scontro energetico ingaggiato dalle grandi potenze in Asia centrale e meridionale. Il petrolio vicino-orientale non basta a soddisfare il fabbisogno di idrocarburi di Europa e Stati Uniti, che spinti alla ricerca di nuovi canali di approvvigionamento, hanno finito per posare gli occhi sulle riserve caspiche e caucasiche. L’estrazione e l’esportazione di queste risorse sono da tempo sottoposte al rigido monopolio del colosso russo Gazprom che, con una serie di condutture che attraversano il territorio ucraino, rifornisce i mercati occidentali.

    Nel tentativo di contrastare questo chiaro “leverage” della politica estera russa, Washington, di concerto con alcuni paesi europei, ha approntato alcuni importanti progetti. Pensiamo al gasdotto Nabucco (il tragitto nella foto) o all’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che permettono agli idrocarburi asiatici di viaggiare in direzione ovest scavalcando la Russia a sud. Allo stesso modo deve essere analizzato il proposito di costruire delle condutture che, attraversando le acque del Mar Nero e collegando Supsa, in Georgia, con Odessa, in Ucraina, permetta agli idrocarburi azerbaigiani, turkmeni e kazaki di raggiungere l’Europa, senza passare per il territorio di Mosca. Inizialmente il Cremlino aveva potuto ostacolare questo progetto grazie alla collaborazione del governo ucraino, con a capo il filo-russo Kučma. In seguito alla rivoluzione arancione che si era ultimata, nel 2004, con la nomina a presidente del liberale Juščenko, l’Ucraina si era mostrata favorevole ad aderire al disegno occidentale, manifestando chiare intenzioni di entrare a far parte della Nato e attirandosi così le dure critiche della classe dirigente russa. Nel febbraio scorso, Janukovič ha riportato, in seguito ad elezioni contestate dalla rivale Timošenko, un’importante vittoria che potrebbe cambiare gli assetti degli schieramenti impegnati in quella frenetica competizione, tesa all’accaparramento delle risorse energetiche, conosciuta come il Grande Gioco del XXI secolo.


    Contesto storico del Grande Gioco

    L’Asia centrale e meridionale ha sempre rivestito un’importanza fondamentale nello scacchiere internazionale. Considerandola come il cuore della “World Island”, cioè della massa continentale che comprende Eurasia e Africa, H. Mackinder, padre della geopolitica moderna, aveva scritto: “Who rules East Europe commands the Heartland; who rules the Heartland commands the World-Island; who rules the World-Island controls the world”. In queste tre semplici frasi, il noto studioso raccoglieva il succo della sua teoria dell’Hertland, destinata ad avere grande successo nei secoli successivi e ad essere sottoposta anche a diverse rielaborazioni1. La teoria di Mackinder ha trovato riscontro pratico nel corso dell’Ottocento in relazione al cosiddetto “Grande Gioco”, il lungo ed estenuante conflitto che vide impegnati lo Zar e Sua Maestà nel tentativo continuo di imporre il proprio dominio in Asia centrale e meridionale.

    La regione che Mackinder definisce “Terra cuore”, si identificava, nel corso della seconda metà dell’800, con il territorio sottoposto al controllo russo. Inaccessibile dal mare, ricca di petrolio e gas naturale, quest’area faceva dell’impero zarista lo stato perno dello scacchiere internazionale. Con una rottura dell’equilibrio di potenza, originatosi con il congresso di Vienna del 1814 in seguito alle sconfitte napoleoniche, lo Zar avrebbe potuto condurre l’esercito imperiale verso la conquista dei territori periferici dell’Eurasia. Successivamente, sfruttando le ingenti risorse energetiche della regione, San Pietroburgo avrebbe potuto dotarsi di una immensa flotta, capace di concorrere con quella britannica per il dominio dei mari. Proprio lo sbocco al mare ha costituito una delle priorità dell’agenda zarista nel corso dell’Ottocento. Due in particolare erano gli obbiettivi si San Pietroburgo: il Mediterraneo e l’Oceano Indiano. L’interesse per il primo fu parzialmente spento in seguito alla sconfitta nella Guerra di Crimea2 (1853-1856), che comportò un cambiamento di rotta nella politica estera zarista. La Russia puntava ora ad estendere la propria influenza nei khanati in Asia centrale, e da qui, procedendo verso sud, avrebbe potuto garantirsi uno sbocco sull’Oceano Indiano.

    Naturalmente, le mire espansionistiche di San Pietroburgo andarono presto incontro alla dura opposizione britannica. Difatti, in Asia meridionale vi era l’India, considerata dalla regina Vittoria la gemma del suo impero coloniale. Il continuo avanzamento delle truppe zariste nei territori centro-asiatici costituiva una grande minaccia che bisognava debellare. In particolare, il Foreign Office aveva individuato nell’Afghanistan un’ottima base strategica che le truppe russe avrebbero potuto utilizzare per infliggere duri attacchi alla prediletta fra le colonie della regina. La necessità di contenere l’espansionismo zarista, facendo dell’Afghanistan uno stato cuscinetto contro le pretese egemoniche di San Pietroburgo, diede inizio ad un esasperante conflitto che si ripercuoterà nel corso dei secoli, giungendo prorompente sullo scenario internazionale attuale.


    L’importanza strategica dell’Asia centrale oggi

    Questa regione ha assunto un’importanza strategica considerevole nel contesto internazionale odierno. Le motivazioni sono evidenti. In primo luogo, significativa è la questione energetica. Secondo il parere di geologi ed esperti, l’intera area trabocca di idrocarburi. Vero è che tali riserve non sono quantitativamente comparabili a quelle del Golfo Persico. Ciononostante, sono in grado di saziare, almeno per il momento, gli ingordi appetiti energetici delle grandi potenze, comportandosi come un ottimo succedaneo agli idrocarburi vicino-orientali, la cui fruizione è sempre soggetta a continue oscillazioni dovute al fondamentalismo islamico e al terrorismo internazionale. I giacimenti più ricchi li rinveniamo nel bacino caspico, nonché in Azerbaijan, Turkmenistan, Kazakistan, Uzbekistan e Iran. In Azerbaijan, l’estrazione di petrolio è aumentata da 180.000 barili al giorno (barrels per day bbl/d) del 1997 a 875.000 bbl/d nel 2008. Apprezzabili anche le riserve di gas naturale, la cui produzione ha raggiunto, nel 2008 572 btc (billion cubic feet). Un altro importante produttore è il Turkmenistan, che nel 2008 ha raggiunto i 189.400 bbl/d di oro nero e 70.5 miliardi di metri cubi di oro blu. Considerevoli anche le riserve uzbeke, che nel 2008 ammontavano a 67.6 miliardi di metri cubi di gas e 83.820 bbl/d di petrolio. Le coste caspiche kazake garantiscono un ottimo approvvigionamento di petrolio, con una produzione di 1,45 milioni di barili al giorno nel 2007. Infine l’Iran, che solo nel 2008 ha esportato 2,4 milioni di barili al giorno, sia verso l’Asia che verso i paesi europei facenti parte dell’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development)3.

    In secondo luogo, vi sono anche consistenti motivazioni di carattere commerciale che non bisogna sottovalutare. Fin dai tempi antichi, infatti, questa regione aveva assunto il ruolo di crocevia di itinerari terrestri, marittimi, fluviali che, mettendo in comunicazione la Cina con il Mediterraneo, consentiva alle carovane di mercanti di vendere i pregiati ed esotici prodotti orientali sui mercati occidentali. Questo corridoio commerciale fu chiamato, dal geologo e geografo tedesco Ferdinand von Richthofen “Seidenstrabe” (via della seta). La classe dirigente zarista prima, poi quella sovietica e infine quella russa, ha sempre considerato l’Asia centrale come una regione strategica per Mosca. In particolare, nel corso del secondo conflitto mondiale e poi successivamente durante la guerra fredda, questo territorio fungeva da bacino energetico per la potente macchina bellica comunista. In seguito al collasso dell’Unione Sovietica nel 1991, come scrive Zbigniew Brzezinski, si generò un buco nero, che successivamente finì per ridimensionare la presenza russa nel territorio. L’erosione del controllo moscovita fu accelerata dall’indipendenza politica dell’Ucraina nel 1991, dai continui tentativi della Turchia di accrescere il proprio peso in Georgia e Armenia, dalla rinascita del fervore nazionalista e musulmano nelle ex-repubbliche centro-asiatiche, continuamente impegnate nel porre fine ad una soffocante dipendenza economica, dal sapore marcatamente sovietico, nei confronti di Mosca.

    Di conseguenza, fin dai primi anni novanta, l’esigenza di diversificare i propri partner politici ed economici ha assunto una significativa importanza per questi paesi, che, nel conseguimento di quest’obbiettivo, hanno incontrato non poche difficoltà. L’adozione di un approccio liberale classico, esplicatosi in questo caso in una maggiore collaborazione economica fra i paesi centro-asiatici, preludio ad un’integrazione di carattere politico, ha mostrato serie difficoltà nella sua applicazione pratica. In primo luogo, l’implementazione iniziale di politiche liberali da parte delle ex-repubbliche sovietiche ebbe dei seri risvolti negativi. Il Kirghizistan entrò a far parte, nel 1998, del WTO, mentre Uzbekistan, Tagikistan, Kazakistan, Afghanistan, Iran ne divennero osservatori. Ben presto questi paesi si accorsero che le loro deboli economie, scarsamente diversificate, non potevano reggere contro l’inondazione delle esportazioni straniere, in particolare quelle cinesi, più convenienti e vantaggiose. Per salvaguardare l’economia nazionale era quindi necessario adottare, almeno inizialmente, politiche protezioniste, e solo dopo aver sviluppato solide basi, concorrere con le altre potenze su un piano mondiale. In secondo luogo, allo scopo di incentivare una maggiore integrazione economica e finanziaria, i fragili paesi centro-asiatici avevano bisogno degli investimenti stranieri per promuovere la costruzione di infrastrutture funzionali alla realizzazione di profittevoli scambi commerciali in Eurasia. Da qui la frenetica competizione delle grandi potenze, in una lotta diplomatica senza esclusione di colpi, tesa ad una spartizione della torta asiatica che le favorisca.

    Come scrive Joseph Nye4 siamo ormai catapultati in una realtà sempre più interdipendente, frutto di una globalizzazione a diversi livelli, economico, politico, socioculturale, religioso. Il ripristino di corridoi multimodali, funzionali al commercio e al trasporto di idrocarburi, si presenta inevitabile, garantendo la possibilità, agli stati della regione, di diversificare i propri partner energetici, finanziari, commerciali, politici, militari. Ed è così che la Cina, gli Stati Uniti, l’Unione Europea prendono parte ad un interessante affare che per più di cinquant’anni è stato dominio esclusivo di Mosca. Un nuovo “Grande Gioco” è scoppiato quindi in Asia centrale e meridionale. Nuovi paesi recitano, sul proscenio internazionale, uno scontro, di kiplingiana memoria, che deciderà i destini dell’equilibrio mondiale. Washington, Pechino, Mosca, Bruxelles, nel perseguire ciascuno i propri obiettivi nella regione, non potranno assolutamente sottovalutare le esigenze delle piccole e medie potenze dell’area che, lungi dall’essere semplici spettatori passivi, rivendicano un ruolo da protagoniste attive nel decidere le sorti del futuro assetto geopolitico internazionale.

    * Marco Luigi Cimminella, laureando in Relazioni internazionali e diplomatiche (Università l’Orientale di Napoli), collabora con la redazione di “Eurasia”

    9 marzo 2010
    Ultima modifica di Bèrghem; 07-04-10 alle 19:58
    Dato che questa è una Magnum 44, cioè la pistola più precisa del mondo, che con un colpo ti spappolerebbe il cranio, devi decidere se è il caso. Dì, ne vale la pena? ("Dirty" Harry Callahan)

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    Predefinito Rif: Il Grande Gioco in Asia centrale

    I protagonisti del Grande Gioco: 1. La Cina



    I protagonisti del Grande Gioco: 1. La Cina | eurasia-rivista.org

    Il progetto del governo cinese di realizzare una rete ferroviaria ad alta velocità, che permetta di collegare l’Estremo Oriente con l’Asia centrale e l’Europa, si inserisce perfettamente nello scontro fra le grandi potenze teso all’accaparramento delle risorse energetiche caspiche e caucasiche. Il piano, la cui implementazione è prevista entro il 2025, previo consenso dei paesi coinvolti, propone una rivisitazione in chiave contemporanea dell’antico Orient Express, nel tentativo di unire l’Occidente con l’Oriente, in un’acerrima competizione con la Transiberiana, la storica ed imponente rete ferroviaria russa che attraversa l’Eurasia e funge da ponte di collegamento fra Siberia e Russia europea. I treni superveloci non sono destinati al solo trasporto di passeggeri. Le motivazioni fondanti sono, in realtà, la nascita di nuovi poli industriali, la velocizzazione dei traffici di merci e la riduzione dei costi di trasporto ma soprattutto una maggiore facilitazione nel processo di approvvigionamento delle primizie energetiche. La strategia di Pechino è semplice e al contempo ben congegnata. Beijing sta cercando di allargare la partecipazione e la collaborazione al maggior numero di paesi, in Asia centrale e meridionale, nonché nel Sud est asiatico. La Repubblica popolare ha deciso di adottare lo sperimentato “metodo africano”, dotando di ferrovie e treni tecnologicamente avanzati i ricchi governi dei paesi produttori della regione centro-asiatica, ricevendo in cambio materie prime, quali petrolio e gas naturale, indispensabili al nutrimento del gigante asiatico. Il piano naturalmente è foriero di profonde minacce al monopolio energetico che Gazprom detiene nell’area, un monopolio che sta faticosamente cercando di difendere contro gli attacchi, segnatamente geoeconomici e geopolitici, di matrice cinese ed americana, che si esplicano in progetti di gasdotti e oleodotti alternativi a quelli russi.

    Gli interessi cinesi in Asia centrale e meridionale

    L’agenda politica mandarina rivela, nei confronti dell’area centro-asiatica, due importanti priorità:

    1. garantire l’integrità fisica della Repubblica popolare e la sicurezza dei confini nazionali, promuovendo la stabilità regionale.
    2. Usufruire delle ingenti risorse energetiche delle ex-repubbliche sovietiche centro-asiatiche, intessendo profittevoli e duraturi legami economici con le stesse.

    Nel corso della guerra fredda, la Cina di Mao non riuscì a ritagliarsi una propria sfera di influenza in Asia centrale e meridionale, territorio sottoposto ad una soffocante reggenza di stampo sovietico. La situazione mutò sensibilmente dall’inizio degli anni ottanta, quando la classe dirigente mandarina adottò un nuovo approccio nelle relazioni internazionali: il cosiddetto “Mulin Youhao”, relazioni di buon vicinato. Da quel momento, numerosi furono gli sforzi di Pechino di intavolare un dialogo con gli stati vicini, inizialmente con la Russia, con la Mongolia, con l’India, con le due Coree e successivamente anche con Indonesia e Singapore. E quando, nel 1991, l’implosione dell’Unione Sovietica decretò la fine dell’equilibrio bipolare, che per tanti anni aveva fatto da contrafforte alla traballante impalcatura diplomatica che reggeva l’ordine internazionale, si verificò un terremoto geopolitico in Asia centrale, che generò una sorta di buco nero di cui la dirigenza comunista cinese subito cercò di approfittare. Difatti, Pechino iniziò a conchiudere rimarchevoli accordi di carattere commerciale, politico e militare con Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan. Nel corso degli anni novanta, il volume degli scambi fra Repubblica popolare e Asia centrale aveva raggiunto i 465 milioni di dollari nel 1992 e i 7.7 miliardi nel 20041. In particolare, in seguito all’accordo raggiunto nel 1998 con il Kazakistan sulla disputa riguardante i confini nazionali, Pechino incentivò una maggiore cooperazione bilaterale di carattere economico, soprattutto fra l’ex repubblica sovietica e la regione dello Xinjiang, turcofona e sensibilmente più aperta ai traffici con le realtà politiche centro-asiatiche.

    I rapporti economici che Beijing ha intessuto con i paesi dell’area sono stati facilitati dalla complementarità delle loro economie. Con il “metodo africano”, la classe dirigente mandarina ha calato sul tavolo di gioco un ottimo poker strategico che le consente di soddisfare gli obiettivi che ha sempre coltivato nella regione. In primo luogo accaparrarsi il gas naturale e il petrolio che trabocca da questi territori. Il governo cinese ha infatti investito ingenti risorse tese alla costruzione di infrastrutture che permettano la trivellazione, la produzione e la raffinazione degli idrocarburi caspici e caucasici. Attraverso poi un sapiente gioco di condutture multimodali, queste materie prime giungono in Cina, bypassando la Russia a sud, per saziare le necessità nutritive del gigante mandarino. La cooperazione economica regionale e la differenziazione delle rotte per l’esportazione delle risorse costituiscono un ottimo strumento per combattere il monopolio energetico russo cha ha da tempo assurto alla funzione di leverage della politica estera del Cremlino. Attraverso questa chiave di lettura bisogna interpretare il progetto del TAPI (trans-Afghan pipeline) che, supportato dalla Cina e dall’Asian Development Bank, auspica il trasporto degli idrocarburi turkmeni verso Pechino, passando sul suolo afgano, pakistano e indiano. A questo bisogna aggiungere i diversi accordi energetici bilaterali che la China National Petroleum Corporation ha stipulato con i vari paesi produttori2. Inoltre, la costruzione di strade e ferrovie che rendono più veloci e meno costosi i collegamenti fra Cina e vicini centro-asiatici, ha permesso la letterale inondazione dei prodotti agricoli e manufatti cinesi nei mercati uzbeki, turkmeni, kazaki, afgani, pakistani. Naturalmente, l’integrazione economica non è fine a se stessa, ma costituisce un preludio ad una più profonda e feconda integrazione di carattere politico e militare.

    La sicurezza e la stabilità regionale sono infatti un’altra considerevole priorità per il dragone cinese. Pechino, impegnato nel garantire l’integrità e la coesione nazionale, ha promosso una maggiore collaborazione, su un piano multilaterale, con i paesi della regione, per contrastare la diffusione dei fenomeni del separatismo, terrorismo ed estremismo. In particolare, la preoccupazione precipua del governo cinese è impedire che le forze separatiste e i movimenti estremisti dilaghino a macchia d’olio nell’area del Turkestan e dello Xinjiang. La diffusione poi del fondamentalismo islamico in Asia centrale e meridionale contribuisce a dipingere un quadro angoscioso, presciente di un’irreversibile crisi che mostra reali potenzialità di minacciare quella stabilità regionale che costituisce la pregiudiziale fondamentale per l’ottemperamento degli obiettivi dei decisori cinesi. Sotto questa lente d’ingrandimento bisogna quindi leggere l’accordo che ha permesso la costituzione della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS) che, realizzando una maggiore cooperazione di carattere economico e militare, cerca di combattere il cancro che travaglia la regione: il radicalismo islamico e il terrorismo3. Se scostiamo il velo di Maya della politica, notiamo come la lotta al terrorismo e la necessità di garantire la stabilità regionale non sono una necessità etica da soddisfare in maniera incondizionata per il “quieto vivere” generale, ma costituiscono delle condizioni che il governo di Pechino non può eludere nel tentativo di imporre il proprio primato nella regione. Difatti, in seguito all’11 settembre, la bushiana lotta al terrore, che ha visto le truppe americane insediarsi stabilmente in Uzbekistan, in Kirghizistan, in Tagikistan, in Afghanistan, ha spinto la classe dirigente cinese ad attribuire una connotazione marcatamente anti americana alle politiche attuate dalla OCS. Per imporre la propria influenza economica e politica nella regione, la Cina ha dovuto e dovrà necessariamente contrastare le pretese che Washington nutre nei confronti dell’area e quell’antico dominio esclusivo, di sapore zarista e sovietico, che Mosca ha sempre rivendicato nei confronti del territorio.

    * Marco Luigi Cimminella, laureando in Relazioni internazionali e diplomatiche (Università l’Orientale di Napoli), collabora con “Eurasia”

    16 marzo, 2010
    Dato che questa è una Magnum 44, cioè la pistola più precisa del mondo, che con un colpo ti spappolerebbe il cranio, devi decidere se è il caso. Dì, ne vale la pena? ("Dirty" Harry Callahan)

  3. #3
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    Predefinito Rif: Il Grande Gioco in Asia centrale

    I protagonisti del Grande Gioco: 2. La Russia



    I protagonisti del Grande Gioco: 2 La Russia | eurasia-rivista.org

    L’energia riveste ormai un ruolo sempre più importante nella geopolitica del XXI secolo. La regione centro-asiatica, ricca di idrocarburi, ha sempre assunto una rilevanza precipua nell’agenda politica del Cremlino. Fin dai tempi dell’autocrazia zarista, la Russia aveva puntato ad estendere i propri confini imperiali in Asia Centrale e Meridionale. Spingendosi dai ghiacciai siberiani fino al Caucaso, aveva potuto fruire dei considerevoli approvvigionamenti di petrolio e gas naturale presenti soprattutto nel Mar Caspio, considerato per secoli come un lago interno russo. Almeno fino al 1918. Difatti, insieme ai massacri e alle tremende devastazioni che la Prima Guerra Mondiale portò con sé, vi era anche l’insegnamento per cui gli imperi multinazionali non durano per sempre. Al termine del primo conflitto mondiale si assistette al collasso non solo degl’imperi tedesco, austro-ungarico e ottomano, ma pure di quello zarista: inevitabilmente si ridusse la presa russa sulla regione centroasiatica. Anche se solo temporaneamente.

    Malgrado le prime promesse della rivoluzione bolscevica, soprattutto dopo l’ascesa al potere di Stalin le etnie e nazionalità dell’impero videro frustrate le velleità indipendentiste, trovandosi soggette ad un nuovo impero, questa volta sovietico. Stalin sfruttò gli ingenti approvvigionamenti di petrolio e gas naturale per alimentare la costosa e imponente macchina bellica russa che si apprestava ad entrare in conflitto contro la minaccia tedesca prima e quella statunitense poi. Fu proprio nel corso della Guerra Fredda che, nel tentativo di primeggiare, in termini economici, tecnologici e militari, sulla rivale superpotenza occidentale, il regime stalinista impose una divisione del lavoro che ridusse le diverse repubbliche dell’Asia centrale a semplici fornitori di materi prime.

    Successivamente, però, le debolezze intrinseche all’impero di Stalin (i difetti dell’economia pianificata, lo sfruttamento indiscriminato degli stati satelliti, i costi sociali dell’industrializzazione) furono rivelate nella loro drammaticità dopo la morte del dittatore comunista e l’inizio del processo di destalinizzazione. Inizialmente con Chruščëv, poi con Gorbačëv, fu consentita una limitata devoluzione di poteri da Mosca ai vari governi nazionali, lasciando spazio forse inevitabilmente alla crescita dei movimenti indipendentisti e, in Caucaso ed Asia Centrale, dei gruppi radicali islamici che, con fervore e spesso con violenza, reclamavano la possibilità di autodeterminarsi1. L’infiacchimento dell’Unione Sovietica si riverberò ben presto sull’intera area centroasiatica. Zbigniew Brzezinski parla di una sorta di “buco nero” che si creò nella regione con la disintegrazione dell’URSS. L’indipendenza di Ucraina, Georgia, Armenia e Azerbaigian ha indebolito la posizione russa sul Mar Nero, ostacolando qualsiasi tentativo di Mosca di mantenere o ricostruire un impero euroasiatico. Inoltre, le ex repubbliche sovietiche centroasiatiche, sfruttando il sostegno politico ed economico di Turchia, Iran, Pakistan e Arabia Saudita, hanno tentato di liberarsi dai vincoli residui della reggenza sovietica2: ed è così che la Russia ha cominciato una condivisione forzata delle ingenti risorse energetiche del bacino caspico con gli Stati dell’area, i quali, contando sul contributo finanziario delle potenze occidentali (e, nella direttrice orientale, della Cina), hanno potuto esportare gas e petrolio attraverso corridoi multimodali alternativi a quelli russi, come l’oleodotto Baku-Tblisi-Ceyhan, giocando un ruolo importante nei piani statunitensi di indebolimento della leva energetica che Mosca detiene nella regione attraverso il colosso Gazprom.

    Gli interessi russi in Asia Centrale e Meridionale

    Gli interessi principali che la Russia nutre in Asia centrale e Meridionale sono di diversa natura. Un primo obbiettivo riguarda la sicurezza. Un interesse condiviso con la Cina che teme la proliferazione e la diffusione a macchia d’olio di movimenti indipendentisti e di gruppi islamici radicali. Il fondamentalismo religioso, unitamente al traffico di armi e stupefacenti, costituivano e costituiscono una minaccia non solo per i paesi centroasiatici, ma anche per Mosca, che fin dall’inizio degli anni novanta ha stanziato le sue truppe in Tagikistan, per impedire un effetto di traboccamento dei movimenti radicali dall’Afghanistan.

    Un secondo interesse è di carattere energetico e strategico. Mosca è decisa a mantenere un ruolo centrale nell’estrazione, raffinazione ed esportazione degli idrocarburi caspici e centroasiatici in Europa. Nel momento in cui dovesse venire a ridursi la quota di risorse fornita da Gazprom ai paesi europei, verrebbe meno anche quel vincolo energetico che costituisce forse la pregiudiziale ineludibile della loro reciproca amicizia. In effetti, il “South Stream” e il “Nord Stream” devono essere interpretati come strumenti per contrastare “l’offensiva” atlantica. Inoltre, conscia del fatto di non poter affrontare da sola l’ambizione egemonica statunitense in Asia Centrale e Meridionale, palesatasi soprattutto nella dottrina Bush e nella “guerra al terrore” proclamata dalla presidenza repubblicana in seguito all’attentato delle Torri Gemelle, Mosca ha cercato degli “alleati” rivolgendosi a quegli stati che potessero manifestare una certa comunità di intenti, anche solo parziale.Tra questi vi è la Cina: l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai ne è una esemplificazione4.

    In questi ultimi tempi, le relazioni fra Washington e Pechino si sono deteriorate. Pensiamo alla questione di Google, alle critiche statunitense sulla “manipolazione” dello yuan e all’accordo fra Taiwan e Stati Uniti per la vendita a Taipei di 60 elicotteri Black Hawk, 114 missili Patriot e sofisticati sistemi di comunicazione. Allo stesso tempo, qualche settimana fa il vicepresidente cinese Xi Jinping si è recato a Mosca, dove ha incontrato sia Medvedev che Putin, ricordando che “le buone relazioni e i caratteristici rapporti di partenariato strategico dei nostri paesi, non sono cambiati”. Difatti, i due paesi hanno stipulato da poco alcuni profittevoli accordi al fine di incentivare la cooperazione bilaterale in ambito finanziario ed industriale5. Naturalmente, non bisogna dimenticare i rapporti che legano gli Stati Uniti con il gigante asiatico: i primi sono i principali acquirenti dei manufatti cinesi, mentre il secondo costituisce il principale creditore del considerevole debito pubblico nordamericano. In più, nel tentativo di placare il proprio appetito energetico, Pechino, in competizione con il monopolio russo, ha conchiuso accordi bilaterali con i paesi che compongono l’area centroasiatica. A titolo esemplificativo, pensiamo all’oleodotto Atasu-Alašankou, la cui continua espansione permetterà di collegare Kumkol, nell’area centrale del Kazakhstan, con Kenkiyak, nella regione più occidentale del paese, consentendo alla Cina di mettere le mani sugli abbondanti approvvigionamenti energetici delle acque del Caspio. Allo stesso modo bisogna interpretare il patto sulla cooperazione energetica siglato dalla China National Petroleum Corporation e dalla compagnia petrolifera dello Stato uzbeko6. Accordi che sono espressione di una rivalità di fondo fra due paesi che, mettendo da parte le proprie diatribe, mostrano però quella lungimiranza necessaria a collaborare per un fine comune: indebolire la presenza statunitense in Asia.

    * Marco Luigi Cimminella, laureando in Relazioni internazionali e diplomatiche, collabora con la redazione di “Eurasia”

    5 aprile, 2010
    Dato che questa è una Magnum 44, cioè la pistola più precisa del mondo, che con un colpo ti spappolerebbe il cranio, devi decidere se è il caso. Dì, ne vale la pena? ("Dirty" Harry Callahan)

  4. #4
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    Predefinito Rif: Il Grande Gioco in Asia centrale

    Sei l'autore Berghem?

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    Predefinito Rif: Il Grande Gioco in Asia centrale

    Citazione Originariamente Scritto da Combat Visualizza Messaggio
    Sei l'autore Berghem?

    Il buon Berghèm è un verace bergamasco, sarei molto stupito se di cognome facesse Cimminella ! xD Mi pare poi che lui studi a Pavia ... ?

  6. #6
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    Predefinito Rif: Il Grande Gioco in Asia centrale

    Citazione Originariamente Scritto da Combat Visualizza Messaggio
    Sei l'autore Berghem?
    l'autore pare che sia napoletano.

  7. #7
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    Predefinito Rif: Il Grande Gioco in Asia centrale

    Citazione Originariamente Scritto da Combat Visualizza Messaggio
    Sei l'autore Berghem?
    No, li ho solo riportati qui dal sito di Eurasia.

    Citazione Originariamente Scritto da Manfr Visualizza Messaggio
    Il buon Berghèm è un verace bergamasco, sarei molto stupito se di cognome facesse Cimminella ! xD Mi pare poi che lui studi a Pavia ... ?
    In effetti
    Comunque studio a Malano
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  8. #8
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    Predefinito Rif: Il Grande Gioco in Asia centrale

    Ok, grazie comunque.

  9. #9
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    Predefinito Rif: Il Grande Gioco in Asia centrale

    Kirghizistan, la fine della rivoluzione dei tulipani e la guerra tra Russia e Stati Uniti
    IRIB 08 Aprile 2010

    Solo due giorni dopo l’inizio della nuova ondata di proteste in Kirghizistan le notizie che giungono dalla Repubblica dell’Asia centrale sono sempre più imprevedibili.

    Mercoledì si sono succedute notizie sempre più negative per il governo; prima le decine di morti e feriti negli scontri tra polizia e manifestanti; nelle prime ore del mattino il coprifuoco del governo che tentava di controllare la situazione col pugno di ferro; poi il pestaggio del Ministro dell’interno ad opera della folla infuriata, la conquista del ministero dell’intelligence, la presa della radio e della tv di stato ad opera dell’opposizione, la fuga del presidente Bakiyev e infine la proclamazione del governo ad interim da parte dell’opposizione. Insomma una giornata molto movimentata che rievoca la primavera del 2005, quando la rivoluzione dei tulipani pose fine al governo di Askar Akayev. La realtà amara sul paese dell’Asia centrale è che si trova alle prese con forti problemi economici; la povertà esercita una pressione notevole sulla gente e ad accrescere la rabbia popolare, la corruzione diffusa negli uffici governativi; erano problemi dell’era Akayev che sono rimasti, anzi si sono intensificati durante l’era Bakiyev e quindi prima o poi un rovesciamento del governo era pure prevedibile. Inutile è perciò l’accusa rivolta dal governo di Bakiyev alla Russia circa la veicolazione delle proteste; la gente è veramente arrabbiata e insoddisfatta. Non per questo comunque possiamo respingere completamente un coinvolgimento russo; è certo che il governo Bakiyev non stava tanto simpatico a Mosca e ciò perchè si muoveva in base alle direttive ricevute da Washington. Gli Stati Uniti che avevano favorito proprio la famosa rivoluzione dei tulipani, dal 2005 in poi hanno messo su la base aerea di Manas per dare sostegno alla campagna in Afghanistan e con il loro uomo di fiducia Bakiyev avevano pure messo su contratti per la costruzione di altre basi sul territorio del paese. La protezione degli americani al governo Bakiyev, dice l’opposizione, aveva dato a lui la possibilità di soffocare le critiche e di agire in maniera despotica; ora però la gente ha deciso di voltare pagina e così Russia e Stati Uniti ora si dovranno giocare nuovamente la partita di potere nell’ex Repubblica sovietica. Quello che è poco ma sicuro è che per gli americani le cose si mettono male e chissà se riusciranno a mantenere la base di Manas.
    Ultima modifica di sitoaurora; 08-04-10 alle 19:55

  10. #10
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    Predefinito Rif: Il Grande Gioco in Asia centrale

    Bene

 

 

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