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  1. #11
    Omia Patria si bella e perduta
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    Predefinito Che cos'è una nazione? Parte VII

    IV.- La comunità degli interessi è un legame potente tra gli uomini


    Gli interessi, tuttavia, sono sufficienti per fare una nazione? Non lo credo. La comunanza degli interessi fa i trattati di commercio. C’è nella nazionalità un lato di sentimento; è anima e corpo allo stesso tempo; uno Zollverein non è una patria.


    V.- La geografia, quello che chiamiamo le frontiere naturali, ha certamente una parte considerevole nella divisione delle nazioni.

    La geografia è uno dei fattori essenziali della storia. I fiumi hanno unito le razze, le montagne le hanno fermate. I primi hanno favorito, i secondi hanno limitato i movimenti storici. Si può tuttavia dire, come lo credono certi partiti, che i limiti di una nazioni sono scritti sulla carta e che questa nazione ha il diritto di aggiudicarsi quello che necessario per arrotondare certi contorni, per raggiungere quella montagna, quel fiume, a cui si attribuisce una capacità limitativa a priori? Non conosco una teoria più arbitraria e funesta. Con questa, si giustificano tutte le violenze. E, anzitutto, quali sono queste montagne o meglio quali sono i fiumi che formano queste pretese frontiere naturali? E’ incontestabile che le montagne separano, ma i fiumi riuniscono piuttosto. E poi non tutte le montagne servono a dividere gli stati. Quali sono quelle che separano e quelle che non separano? Da Biarritz a Tornea, non c’è un imbocco di fiume che abbia più degli altri il carattere di confine. Se la storia lo avesse voluto, la Loira, la Senna, la Mosa, l’Elba, l’Oder avrebbero, così come il Reno, quel carattere di frontiera naturale che ha fatto commettere così tante infrazioni di quel diritto naturale che è la volontà degli uomini. Nulla è assoluto; è chiaro che alcune concessioni andavano fatte alla necessità. Ma non bisogna che queste concessioni vadano troppo lontano. Altrimenti tutto il mondo richiamerà le sue convenienze militari, e sarà la guerra senza fine. Non, la terra non fa una nazione più della razza. La terra forma un substrato, il campo di lotta e di lavoro; l’uomo fornisce l’animo. L’uomo è tutto nella formazione di quella cosa sacra che chiamiamo popolo. Niente di materiale è sufficiente. Una nazione è un principio spirituale, risulta da complicazioni profonde della storia, una famiglia spirituale, non un gruppo determinato dalla configurazione del suolo.

    Abbiamo visto quello che non è sufficiente a creare un principio spirituale: la razza, la lingua, gli interessi, le affinità religiose, la geografia, le necessità militari. Che cosa la crea allora? Come conseguenza di tutto quello che ho detto prima non dovrò ormai più domandarvi a lungo la vostra attenzione.

  2. #12
    Omia Patria si bella e perduta
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    Predefinito Che cos'è una nazione? Parte VIII

    Capitolo III


    La nazione è un’anima, un principio spirituale. Due cose che, a dire il vero, fanno tutt’uno, costituendo questa anima, questo principio spirituale. L’una è nel passato, l’altra nel presente. L’una è il possesso comune di un ricco lascito di ricordi; l’altra è il consenso attuale, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a far valere l’eredità che si è ricevuta indivisa. L’uomo, signori, non si improvvisa. La nazione, come l’individuo, è il risultato di un lungo passato di sforzi, di sacrifici e di dedizione. Il culto degli antenati è tra tutti il più legittimo; gli antenati ci hanno creati così come siamo. Un passato eroico, di grandi uomini, di gloria (intendo la vera), ecco il capitale sociale su quale poggi un’idea nazionale. Avere delle glorie comuni nel passato, una volontà comune nel presente; aver fatto delle grandi cose insieme, volerne fare ancora, ecco le condizioni essenziali per essere un popolo. Si ami in proporzione ai sacrifici fatto, alle pene sofferte. Si ama la casa che si è costruita e che si trasmette. Il canto spartiate: “Noi siamo quello che voi foste; noi saremo quello che siete” è nella semplicità dell’inno il sunto di tutta la patria.

    Nel passato, un’eredità di gloria e dei rimpianti da dividere, nell’avvenire un programma da realizzare; aver sofferto, gioito, sperato insieme, ecco quello che vale più delle dogane comuni e delle frontiere conforme alle idee strategiche; ecco quello che ci unisce malgrado le diversità di razza e lingua. Dicevo prima: “aver sofferto insieme”; sì, la sofferenza in comune unisce più della gioia. In fatto di memoria nazionale, i lutti valgono spesso più dei trionfi, perché impongono dei doveri, spingono a uno sforzo comune.

    Una nazione è dunque una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici che si è fatto e da quelli che si è disposti a fare ancora. Presuppone un passato; si riassume però nel presenta con un fatto tangibile; il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una nazione è (perdonatemi la metafora) un plebiscito di tutti i giorni, come l’esistenza di un individuo è un’affermazione continua di vita. Oh! Lo so,questo è meno metafisico del diritto divino, meno brutale di un diritto ritenuto storico. Nell’ordine di idee che io vi presente, una nazione non ha più diritto di un re di dire a una provincia: “Tu mi appartiene, io ti pretendo”. Una provincia, per noi, sono solo i suoi abitanti; se qualcuno deve essere consultato, sono gli abitanti. Una nazione non ha mai l’interesse di annettersi un paese o di trattenere un paese suo malgrado. La volontà delle nazioni è, in definitiva, il solo criterio legittimo, quello al quale bisogna ogni giorno ritornare.

    Noi abbiamo cacciato dalla politica le astrazioni metafisiche e teologiche. Che cosa vi rimane ancora? Vi resta l’uomo, i suoi desideri, i suoi bisogni. Le secessioni, mi direte voi, e, a lungo andare, lo sbriciolamento delle nazioni sono la conseguenza di un sistema che si mette questi vecchi organismi alla mercé di volontà spesso poco chiare. E’ chiaro che in questa materia alcun principio dovrà essere spinto all’eccesso. Le volontà umane cambiano; ma che cosa non cambia mai? Le nazioni non sono qualcosa di eterno. Cominciarono, finiranno. La confederazione europea, probabilmente, la rimpiazzerà. Ma questa non è la legge del secolo in cui viviamo. All’ora presente, l’esistenza delle nazioni è buona, necessaria perfino. La loro esistenza è la garanzia della libertà, che sarà perduta se il mondo non avesse che una legge e un padrone.

    Per le loro caratteristiche diverse, spesso opposte, le nazioni servono l’opera comune della civilizzazione; tutte apportano una nota al grande concerto dell’umanità, che, in fine, è la più alta realizzazione a cui arriviamo. Isolate, non sono che parti caduche. Mi dico spesso che un individuo che avesse i difetti che le nazioni ritengono delle qualità, che si nutrisse di vana gloria, che fosse fino a quel punto geloso, egoista, litigioso; che non potesse sopportare nulla senza brontolare, sarebbe il più insopportabile contro gli uomini. Ma tutte queste dissonanze sono un dettaglio che sparisce nell’insieme. Povera umanità, che hai sofferto! Quante prove ti attendono ancora! Possa il tuo spirito di saggezza guidarti per preservarti dagli innumerevoli pericoli di cui la strada è disseminata!

    Mi riassumo, signori. L’uomo non è schiavo né della razza, né del sangue, né della religione, né del corso dei fiumi, né della direzione delle cime delle montagne. Una grande aggregazione di uomini, sano spirito e calore del cuore, crea una coscienza morale che si chiama nazione. Finché questa coscienza morale prova la sua forza con i sacrifici ed esige l’abdicazione degli individui nei confronti della comunità, è legittima, ha il diritto di esistere. Se dei dubbi emergono sulle sue frontiere, consultate le popolazioni interessate. Hanno ben il diritto di dare la loro opinione sulla questione. Ecco ciò che farà sorridere i trascendenti della politica, che avranno pietà della nostra semplicità. “Consultare le popolazione, sia dunque! Che ingenuità! Ecco queste deboli idee francesi che pretendono di sostituire la diplomazia e la guerra con dei mezzi di una semplicità infantile”. –. Può essere, che dopo i loro tentativi infruttuosi, ritorneranno alle nostre modeste soluzioni empiriche. Il modo per aver ragione nell’avvenire è, in certi momenti, saper rassegnarsi ad essere démodé.

  3. #13
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    OMNIA SUNT COMMUNIA


    COMUNISMO E LIBERAZIONE NAZIONALE
    Popolo e nazione
    Una delle contraddizioni apparentemente più inspiegabili di questi anni è la coincidenza tra crisi delle grandi visioni del mondo globali e ideologiche, con le relative appartenenze politico-culturali, e il manifestarsi di ondate nazionaliste che ripropongono una forte appartenenza etnico-culturale e una riproposizione delle "radici" di individui e collettività territorialmente fondate.
    Di fronte a questa contraddizione che assume caratteri così inediti la sinistra ha certamente necessità di una rifondazione che riguardi anche l’analisi del problema nazionale ed etnico-culturale.
    Non sono del tutto persuaso che a questo proposito il vero limite della cultura marxista sia quello di essersi limitata a un approccio di classe ed economicista. I diversi movimenti che si sono ispirati al socialismo e al comunismo hanno avuto impostazioni complesse e differenziate sul tema nazionalitario, ed è troppo facile ridurre il marxismo alla sua vulgata superficiale o propagandistica.
    Il comunismo prima di Marx rifiutava il concetto di nazione (vedi Fourier) perché lo identificava con gli Stati borghesi allora esistenti, divisi e belligeranti. Veniva contrapposto un universalismo dei popoli che si opponeva ai patriottismi. In seguito, con Marx ed Engels viene sottoposta a critica la "triviale retorica" della fratellanza universale dei popoli, e si sceglie una analisi che storicizza il rapporto tra i popoli e tra popolo e nazione, legandolo al contesto dei rapporti sociali. Nello stesso tempo i fondatori del socialismo scientifico erano convinti che gli antagonismi nazionali dei popoli fossero un fenomeno arcaico, destinato a scomparire con lo sviluppo della borghesia, e ancor di più con il dominio del proletariato.

    Operai senza patria
    Il comunismo marxista ha quindi accolto plurali interpretazioni del concetto di nazione. Innanzitutto vi è la convinzione che gli operai non hanno patria. Le lotte nazionali (contro la borghesia nazionale del proprio paese) sono per il "Manifesto del partito comunista" decisive per sconfiggere l’avversario di classe, ma in un contesto "internazionalista".
    Nell’Ottocento di Marx le nazioni tendono a coincidere con confini decisi dai ceti dominanti e "forti" dei paesi capitalistici, e lo scenario che si propone allo sguardo è quello di guerre nazionali con evidenti motivazioni economiche1.
    Per il marxismo classico, dunque, le nazioni coincidono con le frontiere statali (distinguendo, poi, tra nazioni storiche e non), e l’attenzione è rivolta solo marginalmente all’appartenenza etnico-culturale dei popoli. Inoltre, Marx aveva grande ammirazione per il delinearsi di un pianeta in comunicazione complessiva, affascinato da un mondo che poteva entrare in collegamento da un continente all’altro: di qui l’enfatizzazione, "storicamente determinata", dell’internazionalismo, più che del nazionalismo2. Ma, non va dimenticato, alla parola internazionalismo veniva aggiunto, nella vulgata leninista, il termine "proletario", ad indicare non un privilegio del contatto/incontro tra Stati, ma tra classi subalterne dei vari paesi. Un afflato unificante che aveva un esplicito contenuto di "modernizzazione", contro vecchi e sanguinosi colonialismi, contro le politiche imperiali del capitalismo, contro le frontiere artificiosamente costruite dalle borghesie nazionali.
    È quasi banale ricordare come oggi la situazione assuma contorni profondamente nuovi. Lo Stato-nazione è in declino, si propone con forza l’interdipendenza o l’ipotesi di un governo mondiale. Ma, al contrario di quanto auspicava il marxismo e il comunismo, questo declino degli Stati-nazione e questo collegamento universale tra paesi avviene tutto in un contesto di omogeneizzazione e di tendenziale cancellazione delle differenze e delle diversità, sotto il dominio del più forte (i paesi maggiormente industrializzati e dotati di un potente e sofisticato armamento bellico).

    Per un territorio autogovernato
    I movimenti di liberazione nazionale diventano oggi una forma decisiva del conflitto contemporaneo proprio perché mettono in discussione non sono il dominio sul e nel proprio territorio, ma anche i confini nazionali prodotti da guerre e rapporti di forza nel corso della storia. Viene recuperato un pezzo dell’identità collettiva (l’appartenenza etnico-culturale) e ciò in contraddizione con le frontiere nazionale/statali date.
    Indubbiamente vi è qualcosa di ambiguo e di pericoloso in una enfatizzazione del nazionalismo, anche in chiave di liberazione. I movimenti nazionalitari possono essere la premessa (e in passato è spesso stato così) per ulteriori ostilità anche armate tra gruppi vicini in contrapposizione atavica, oggi comode pedine per gli stravolgimenti degli equilibri mondiali scossi dal crollo del blocco sovietico.
    Esiste un approccio reazionario e regressivo al nazionalismo, ed esiste un approccio dinamico e fecondo (la rivendicazione di un territorio autoregolato, autogovernato, autocentrato). Il rispetto e la valorizzazione delle differenze culturali, talora legate alle questioni etniche, può scivolare facilmente in una moderna forma di razzismo, che frammenta e disgrega ulteriormente, che risveglia attriti facilmente strumentali a giochi di potere e di classe. L’ombra di un neo-fascismo e di un neo-nazismo (magari sotto altre spoglie e colori) che muova da una radicalizzazione delle contrapposizioni etnico-nazionaliste non è affatto improbabile o fantastica.
    Eppure, in una prospettiva comunista, sarebbe assolutamente inadeguato un giudizio liquidatorio od unilaterale sui fenomeni nazionalitari di questi anni. Né si può evitare di distinguere tra Stato-nazione e nazione come aggregato etnico-politico-culturale. L’Intifada palestinese, come ha scritto il noto cronista di "Time" Lance Morrow, dal 1987 non è riuscita a conquistarsi uno Stato, ma sta costruendo una nazione: un significativo esempio della portata di lotte e movimenti su base etnico-culturale.

    L’incontenibile ricchezza delle diversità
    Le potenzialità positive di un rinnovato espandersi di movimenti di liberazione nazionale sta anche nella controtendenza rispetto alla dissoluzione delle regole del diritto internazionale e alla crisi delle Nazioni Unite. Da tempo si pone il problema di rifondare il diritto internazionale e la stessa ONU, e tanto più è urgente oggi dopo che il tracollo economico-militare, e poi lo scioglimento dell’Unione Sovietica ha fatto saltare unilateralmente Yalta con la motivazione, imperdonabilmente ingenua, di favorire una nuova prospettiva di pacifici ed equilibrati rapporti internazionali. In realtà al mondo di Yalta si è sostituito un mondo in cui l’occidente a guida statunitense ripropone la sua tradizionale politica di potenza sotto le spoglie di un governo mondiale, sulla pelle di popoli e culture, adducendo in molti casi il pretesto del destino del pianeta (destino energetico, economico, politico: così è stato con la guerra del Golfo). Un governo mondiale già operante, che marginalizza completamente le opposizioni nazionali e sostituisce all’idea (pur discutibile e limitata) di un "parlamento mondiale" la pratica di un esecutivo planetario degli esecutivi nazionali. È dunque di piena attualità ridiscutere di autodeterminazione dei popoli, di movimenti di liberazione nazionale, di internazionalismo.
    Una rifondata critica comunista può valorizzare anche in quest’ambito il meglio del proprio patrimonio e saper mutare rigidità e vecchi schemi assumendo temi e fondamenti di altre culture e altri movimenti. Mentre una sinistra omologata e perdente propone di contrapporre alle disintegrazioni nazionaliste l’integrazione in organismi sovranazionali come la Nato, una sinistra capace di superare le compatibilità esistenti e la subalternità al dato deve stimolare e accogliere le controtendenze che promuovono la ricchezza delle diversità, incontenibili e irriducibili, in un quadro di rapporti pacifici e non violenti tra popoli ed etnie.

    Fabio giovannini
    1 Vedi su questi aspetti il saggio di Luigi Cortesi, Il socialismo e la guerra, in Aa.Vv., Guerre e pace nel mondo contemporaneo, Istituto Universitario Orientale, Napoli, 1985.
    2 Vedi Renato Monteleone, Marxismo, internazionalismo e questione nazionale, Loescher, Torino, 1982.

    ARDITI NON GENDARMI

  4. #14
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    OMNIA SUNT COMMUNIA

    Marxismo ed etnicita'

    Posto questo illuminante contributo di Michel cahen che tra l'altro raccomanderei a tutti coloro che negano l'importanza della questione nazionale e la sua supposta incompatibilita' con una corretta visione marxista.

    L'ETNIA E LA RIVOLUZIONE (*)
    UN INTERVENTO DI STRAORDINARIO INTERESSE RELATIVO AL RAPPORTO ESISTENTE TRA MARXISMO ED ETNICITA'


    --------------------------------------------------------------------------------
    febbraio 2001, di Michel Cahen (**). Traduzione di Andrea Vigni



    Nelle correnti marxiste, comprese quelle antistaliniste, l'etnicità è spesso esorcizzata sempre collegata a drammi spaventosi o, nel migliore dei casi, sottostimata o associata a un'epoca trascorsa. Ci si attiene all'idea, assai contestabile, della 'falsa coscienza': solo la coscienza di classe sarebbe pertinente e portatrice di movimenti sociali emancipatori. In base a questo, le correnti rivoluzionarie non tentano nemmeno di prendere la testa delle mobilitazioni etnico-nazionali, abbandonandole alla destra (come in Yugoslavia o in Casamancia). Tuttavia, proprio perché l'etnicità è l'aspetto interclassista di una comunità umana, essa può essere un potente fattore di mobilitazione e di liberazione: ma ciò dipende appunto dall'attitudine nei suoi confronti del movimento operaio, tanto nei paesi del terzo mondo che del Nord. I marxisti devono dunque rinunciare esplicitamente ad associare sempre la questione nazionale a una tappa della rivoluzione democratico-borghese. La questione nazionale è effettivamente un problema per la democrazia, ma può essere un aspetto di tutte le rivoluzioni: in altri termini siamo tutt'ora all'epoca delle rivoluzioni nazionali e la 'nazione' non è affatto superata quando è sentita. Si è fatta troppa confusione fra internazionalismo e antinazionalismo. Un africanista è al suo posto in un incontro sul Bund e le comunità ebraiche europee? Senza alcun dubbio, poiché l'identità ebraica è stata, per lo meno in certi contesti, una forma di etnicità. Ora il concetto di etnicità e di etnia è oggi molto spesso riferito ai paesi selvaggi, ai paesi violenti ricordiamoci come la stampa ha abbandonato l'espressione 'problemi delle nazionalità' per quella di 'conflitti inter-etnici' in occasione della guerra civile yugoslava o lasciati, quanto a umanità, sostanzialmente ai margini. Ad esempio, non scandalizzerò probabilmente nessuno se parlo di etnie africane, ma rischio di farlo se parlo dell'etnia francese Si deve dunque affermare con forza che non c'è un'etnicità dei Neri, un'etnicità degli Orientali, un'etnicità dei Bianchi. C'è un'etnicità umana attinente ad un movimento sociale generale delle identità che beninteso si coniuga in forme diverse secondo i contesti storici e geografici. Quindi, utilizzando certamente considerazioni derivate spesso dal mio campo professionale la storia contemporanea dei paesi africani sortiti dalla colonizzazione portoghese tenterò qui di utilizzare la ricerca africanista in una prospettiva generale. Peraltro, interamente fedele al marxismo, io cerco di sviluppare una critica marxista del marxismo, tante sono le scorie giacobine o staliniste da spazzar via quando si tratta in special modo dell'appoccio all'identità. Tuttavia, in quanto africanista storico del politico, non è affatto l'etnicità per l'etnicità che mi interessa, ma il rapporto di questo fenomeno soggettivo con il politico. Parto dal politico per andare verso l'etnicità. Illustrerò questo passaggio con una breve descrizione del mio percorso professionale.

    Garofani per i partiti unici
    Nel 1974, quando si manifestò in Portogallo la Rivoluzione dei Garofani provocata in larga misura dalle guerre di liberazione in Africa dopo il 1961, i militari antifascisti che abolivano il partito unico a Lisbona non videro alcun inconveniente ad accettarlo a Maputo, Bissau, Praia o anche a Luanda. Bisogna dire che all'epoca, per una specie di "paternalismo progressista", una schiacciante maggioranza di intellettuali di sinistra in Europa e nei paesi anglo-sassoni non avevano niente da ridire sui partiti unici di sinistra (sotto questo aspetto c'è stata una sorprendente contraddizione con il loro atteggiamento verso le dittature latino-americane a partito unico: è vero che ad eccezione di Cuba quei partiti unici erano di destra). Si trattava, in Africa, della "tappa della creazione della nazione" che comportava partiti unici "antitribalisti": era l'idea che si potesse innescare un processo di modernizzazione autoritaria per creare da zero la nazione a partire dallo Stato. Sono stato per la prima volta in Mozambico nel 1975, proprio dopo l'indipendenza e, essendo per principio ostile ai partiti unici, anche di sinistra, mi ponevo alcune domande che altri giovani stranieri simpatizzanti non si ponevano affatto (o rimuovevano). In effetti, fino dai primi mesi del nuovo Stato, si notavano gli effetti deleteri prodotti dall'unicità settaria e dalla fusione partito-Stato, che impediva al movimento sociale africano, urbano e rurale, di esprimersi. Il partito unico prendeva semplicemente il posto del vecchio apparato statale coloniale, questa volta sotto spoglie marxisteggianti. Ma già da allora si poteva riconoscere che la politica di modernizzazione autoritaria senza però le risorse di una Terza Repubblica francese socialmente propulsiva, nell'intento di creare rapidamente una nazione moderna di tipo europeo e giacobino, si avviava per forza a determinare un atteggiamento quanto mai ostile alle espressioni etniche, cosa che, di rimando, avrebbe pesantemente favorito la ribellione sostenuta dalla Rhodesia e dall'apartheid. In altri termini, il nazionalismo di stato si faceva passare per lo Stato-nazione, peraltro inesistente, con la negazione delle identità reali. Tutto ciò si manifesta sotto la doppia natura dell'antirazzismo e dell'antitribalismo dei nazionalisti al potere. Nonostante che queste caratteristiche abbiano loro valso molto spesso una persistente simpatia in Europa, non si è mai abbastanza notato che si trattava anche del disprezzo della diversità culturale ed etnica e del divieto della loro espressione organizzata. Non c'erano più Bianchi, Neri, meticci, Indiani, Cinesi, ma neanche più Macondi, Yaos, Cianganesi, Ndaus; solamente dei nuovi uomini Mozambicani omologati: dalla negazione delle comunità si passò immediatamente alla repressione delle loro forme di organizzazione sociale.
    C'era dunque una relazione stretta fra l'assenza di democrazia politica e il disprezzo dei fenomeni etnici, che lascia senza risposta il problema della costruzione integrata dell'etnicità e della democrazia politica. Una volta individuato in Africa, questo problema è evidentemente reale anche altrove: la possibile democrazia politica attraverso, e nient'affatto contro, l'identità etnica. Il problema in Africa era e resta tanto più cruciale in quanto si sarebbe dovuto pur constatare che, a più d'un secolo dal Congresso di Berlino (1884-85) e la conquista effettiva dei territori, dopo un secolo di Stato moderno coloniale e post-coloniale, d'industrializzazione, di urbanizzazione, di proletarizzazione o "plebeizzazione", l'etnicità, la cui intensità avrebbe dovuto "logicamente" diminuire, manteneva una bella vitalità. Non c'era stato alcun legame meccanico fra modernizzazione e declino delle etnicità, anche se, evidentemente, quest'ultime erano state prepotentemente stravolte dalla colonizzazione e lo sono oggi dalla mondializzazione. In ciò è sempre viva una scommessa enorme per la democrazia politica, che tante correnti di sinistra e antirazziste che demonizzano l'etnicità, rischiano di trascurare.

    I guasti della demonizzazione etnica.
    La demonizzazione etnica è forte nella tradizione marxista francese, e parigina in particolare, a diversi livelli: dalla sottostima alla pura denuncia di principio l'etnia quasi sempre citata fra virgolette è stata sistematicamente supposta manipolata dal colonialismo, dall'imperialismo, dallo stalinismo, sempre da qualcosa di estraneo alle società di riferimento. Poco o tanto, generazioni di marxisti hanno vissuto con l'equazione "tribalismo = reazione" nella testa.
    Ora questo approccio ostile, o per lo meno a ritroso, influisce pesantemente per un verso sull'analisi dei fenomeni etnici (cfr. infra), ma per un altro anche sui fenomeni stessi. Infatti, qualificando come reazionari i fenomeni etnici o tribali, li si respinge nelle braccia di reazionari autentici, non si permette a un normale operaio, socialista, di venirne a capo.
    La sinistra francese dovrebbe riflettere sulla deriva dei nazionalismi corsi o basco. Ora l'etnicità, cosi come il tribalismo, può essere fattore di liberazione come altri movimenti sociali. Ma ciò dipende appunto dall'atteggiamento nei loro confronti delle correnti rivoluzionarie. Citerò alcuni esempi volutamente disparati. L'evoluzione attuale dell'ETA basca non era fatale. Nel 1973 (ancora sotto il franchismo) una corrente socialista (vicina al trotskymo) ne aveva preso la direzione. Il miglior collegamento fra nazionalismo e socialismo che ci si sarebbe potuto attendere tuttavia non si verificò, perché la nuova direzione adottò da subito un orientamento di fatto "spagnolista" sotto forma d'internazionalismo: la soluzione del problema basco sarebbe venuta dalla democratizzazione della Spagna, ma per contro, divenendo la Spagna socialista, senza dubbio l'indipendenza non sarebbe stata più,necessaria. L'ETA non era più un movimento espressione del nazionalismo basco, ma un partito socialista insediato nei paesi baschi.
    Il risultato fu immediato: la vecchia direzione si scisse e riconquistò il grosso dei militanti, scivolando da quel momento verso un puro nazionalismo militarista. La corrente socialista proseguì la sua evoluzione, esemplificando bene il fallimento del legame fra nazionalismo e socialismo: la LKI (cioè, in basco, Lega comunista internazionalista) oggi non è più che un gruppuscolo. Anche l'esempio del dramma della Krajina dovrebbe fare riflettere. Questi territori "di confine", integrati alla Croazia nella Yugoslavia di Tito, erano abitati per il 70% da Serbi. Ciò nonostante la Croazia titoista non era uno Stato-nazione, ma lo "Stato dei Croati e dei Serbi di Croazia". Una volta indipendente la nuova Croazia si proclama croata, riducendo i Serbi nella condizione di minoranza e, in pratica, cacciandoli dall'esercito e dalla funzione pubblica. Tuttavia la sinistra democratica yugoslava ed europeo-occidentale non difese affatto il diritto della Krajina a votare la sua riunione alla Serbia, col pretesto che si sarebbero rimesse in causa le frontiere e che in Krajina vi erano anche dei non Serbi. Si contrappose disastrosamente la multi-etnicità all'autodeterminazione, ciò che fornì una base sociale ai militari guerrafondai estremisti, in tal modo promossi a soli difensori dell'identità serba di Krajina. I non-Serbi dei confini furono allora cacciati, mentre si sarebbe potuto difendere i loro diritti di minoranza molto meglio nel quadro del diritto all'autodeterminazione, piuttosto che contro questo diritto. In seguito l'offensiva militare croata sostenuta dagli Stati Uniti riconquistò la Krajina e la ripulì dei Serbi.

    L'evoluzione dell'ANC in Africa del Sud è anche interessante. Per lungo tempo esso mantiene l'orientamento: "For the Nation to live, the Tribe must die" ("affinché la nazione viva, la tribù deve morire", n.d.t.). Ora contrariamente all'obbiettivo dichiarato, questo atteggiamento era fomentatore di tribalismo, dal momento che le "tribù" che si sentivano più prese di mira erano evidentemente quelle meno rappresentate in seno all'ANC, allora accusato di essere legato agli Xhosas. Il fututro dirà se sono state messe le basi di un nuovo approccio positivo, ma Nelson Mandela, diffondendo l'immagine della "Rainbow Nation" ("nazione arcobaleno", n.d.t.), ha fatto un passo in questo senso.
    Tuttavia altrove in Africa, il rifiuto del riconoscimento delle identità si manifesta, per esempio, nell'approccio strettamente "sociale" della sinistra di Dakar all'analisi dell'endemica ribellione casamancese e diola: se la Casamancia si sviluppa (e vengono liberati i prigionieri politici), la guerriglia diola cesserà, si dice in questi ambienti. Ora, l'amministrazione francese non ha risolto la guerra d'Algeria installando gli scarichi fognari nella casbah: non può esserci trattamento puramente sociale dell'identità. A questo proposito, è chiaro il fallimento completo della Repubblica francese nella gestione della questione rom. Nella migliore delle ipotesi essa è un surrogato della politica adottata nei quartieri difficili o con gli immigrati: il "trattamento sociale" (limitato numero di allievi per classe nei quartieri dove si raccolgono, terreni attrezzati da municipalità comprensive, etc.). Ma queste comunità non hanno alcun diritto legale di farsi carico di sé stesse, di avere scuole (pubbliche e laiche) comunitarie, terreni di competenza di una "regione non territoriale" autogestita, il proprio collegio elettorale, etc. Vorrebbe dire ammettere l'esistenza di minoranze nazionali nel santuario giacobino che non accetta nessuna categoria intermedia fra lo Stato e l'individuo. Frattanto il risultato è che queste comunità, in situazione di declino di ogni spazio vivibile per l'economia nomade, sono respinte verso l'arte di arrangiarsi e i traffici di tutti i generi, ciò che evidentemente rafforza il razzismo di cui sono vittime e quello che esse stesse esprimono nei confronti dei "forzati" (i non-rom). Su un altro piano, si è potuto constatare che l'ostilità al trattato di Maastricht di una parte della sinistra e dell'estrema sinistra è stata fondata unicamente sulla sua denuncia in quanto disegno capitalista delle borghesie europee, mentre le stesse correnti affermano contemporaneamente che "in ogni caso la nazione è un concetto superato" e, così facendo, ignorano totalmente i problemi d'identità indotti dalla tendenza all'uniformità dell'Europa.

    Eppure i grandi scioperi dell'autunno 1995 in Francia hanno bene evidenziato il nesso fra lotte di classe e lotta per la difesa etnico-nazionale: la difesa della Sicurezza sociale e degli altri servizi pubblici è stata percepita non solo da un punto di vista di classe, ma anche della difesa di un'idea consolidata della Francia a fronte delle conseguenze della mondializzazione nel passaggio rappresentato da Maastricht. Questo aspetto "nazionalista" delle lotte di classe nell'autunno 1995 in Francia fu anche contestato da certi intellettuali di sinistra, mentre era proprio l'incontro fra la coscienza di classe e la coscienza etnico-nazionale ad aver permesso l'ampiezza di quella mobilitazione sociale.
    Infine, per chiudere questa serie di esempi, riprenderei le situazioni post-coloniali. Generalmente si sottostima l'aspetto culturale della colonizzazione: la denuncia contemporanea del neo-colonialismo stigmatizza soprattutto l'imperialismo come fenomeno di sfruttamento e di oppressione economica. Lo Stato neo-coloniale sarebbe quindi uno Stato che lavora in favore degli interessi materiali dei vecchi colonizzatori. Si dimentica che questo stesso Stato è semi-coloniale, nel senso di semi-francese, semi-portoghese, semi-inglese in ogni sua forma d'espressione.

    Questa sottostima della natura culturale del neo-colonialismo ha molte conseguenze e, in particolare comporta una visione semplicistica delle correnti islamiche. Queste ultime sono tuttavia per un verso molto diverse (dai pazzi assassini alla sinistra democratica) e per un altro incomprensibili senza ricorrere all'intera storia della dipendenza, del fallimento degli Stati post-coloniali (nel mondo arabo spesso laici e con partiti unici "progressisti") e della chiusura della parentesi coloniale. Così il dramma algerino non è una lotta fra la civilizzazione e la barbarie, o fra Stato e "terroristi", ma una vera guerra civile. La sbrigativa assimilazione dell'islam politico al fascismo è del tutto inappropriata nelle condizioni storiche della periferia del capitalismo.

    La guerra dei concetti.
    Nel dibattito sulle identità è come essere all'interno delle identità stesse, ossia in un campo assai mutevole dove il senso delle parole cambia a seconda dei paesi e degli autori. Si noterà subito che la parola 'ethnicité' non si trova nei dizionari francesi! Ma 'ethnicité' in francese (o in portoghese 'etnicidade') non vuol dire esattamente la stessa cosa che 'ethnicity' in inglese, che esprime il complesso dei problemi delle razze, e l'americano 'ratian relations', impensabile in Francia. Allo stesso modo 'tribu' e 'tribalisme' in francese non vogliono affatto dire la stessa cosa che 'tribe' e 'tribalism' (molto vicini a 'ethnie' e 'ethnicité').
    In Francia si nota che resta predominante l'antico significato della parola 'ethnie', con un senso quasi biologico, certamente culturale, ma dove la cultura è seconda natura e si trasmette col sangue, donde il suo aspetto "inassimilabile" per l'estrema destra. Le correnti di sinistra, denunciando, per esempio a proposito della Yugoslavia, l'etnicità con argomenti antirazzisti, dimostrano di mantenere la visione razziale dell'etnia e di ignorarla come comunità dell'immaginario. Così facendo rispondono con la negazione etnica al senso antico dell'etnia e si rivelano incapaci di un approccio dinamico ed efficace all'identità. Si è addirittura contro l'idea di etnia serba perché si è contro il razzismo dei capi guerrafondai serbi. Anche il termine nazione è molto cambiato. Mentre in Francia è strettamente legato al diritto del suolo, la parola deriva tuttavia dal latino nascor, nascere, quindi legato al sangue. Si conoscono anche gli svariati significati del concetto di nazionalismo. Tradizionalmente si è fatto differenza fra due nazionalismi, quello dei regimi oppressori (pangermanesimo, panslavismo, panetiopismo degli Amari, sionismo di Stato, etc.) e quello dei popoli oppressi (nazionalismo polacco, movimenti di liberazione del terzo mondo, etc.). Ma questa distinzione, per quanto mantenga la sua utilità, è del tutto insufficiente. Infatti il nazionalismo polacco del XIX secolo è l'espressione politica della nazione polacca esistente, è prodotto dal movimento sociale di quel paese. Il nazionalismo mozambicano non esprime alcuna nazione esistente, è il progetto di una piccola élite europeizzata, imposto al dibattito politico, e ha a che fare con il movimento sociale anticoloniale africano. Questo nazionalismo ('nazionismo', come ha sritto un collega mozambicano per esprimere questa "fabbrica di nazioni") è conseguentemente minoritario, elitario, all'interno di un movimento sociale anticoloniale di massa. Ma condanna tutte le espressioni etniche dell'anticolonialismo.
    Si è anche parlato di "lotta di liberazione nazionale" in Africa: perché "nazionale"? Si tratta in realtà di una legittimante assimilazione alle lotte di liberazione nazionale in Europa nel XIX e all'inizio del XX secolo. Ma è anche una tardiva convenzione staliniana: in effetti, nella vulgata kruscioviana o brezneviana, in Africa si trattava in realtà di una tappa della rivoluzione democratico-borghese. Solo che, volendo stabilire dei legami con i movimenti anticoloniali, era più legittimante parlare di lotta di liberazione nazionale che di tappa della rivoluzione borghese. Il risultato è tuttavia che in Africa nera si è assegnato valore di vittoriose formazioni di nazioni a ciò che fu la creazione di stati post-coloniali contro le nazioni e le etnie africane esistenti. Queste considerazioni non rimettono affatto in causa la legittimità delle lotte anticoloniali: vogliono solo puntualizzare che i movimenti anticoloniali in sé non erano portatori della nascita di nazioni nel quadro immutato delle frontiere coloniali. Per uscire dall'impasse occorre imboccare risolutamente la strada di una visione soggettiva dell'etnia, quella che del resto è anche di Ernest Renan (quando non viene falsata), basata sui sentimenti reali delle genti. In questo modo non è un'etnia atemporale e primordiale che definisce l'etnicità, bensì l'etnicità del giorno d'oggi che delinea l'etnia. La formulazione marxista di "idea socialmente organizzata" è significativa a questo riguardo. L'etnia sarà dunque, a un certo momento, una cristallizzazione identitaria totalizzante. Totalizzante *per niente totalitaria* nella misura in cui essa ha influenza sulla totalità degli aspetti della vita, quali che siano gli ambienti sociali e purché non dipendano, contrariamente alla coscienza di classe, da categorie orizzontali.

    L'etnia è per definizione interclassista: il che la rende peraltro sospetta a svariate correnti marxiste. Ma la visione "soggettiva", che faccio mia, non significa per niente che l'etnia galleggi a mezz'aria, rendendo impossibile ogni analisi materialista: essa è il risultato del confronto fra i rapporti sociali d'oggi e la memorizzazione culturale dei rapporti sociali del passato. In questo senso essa è vicina all'identità religiosa o di casta, ma non riposa sugli stessi livelli dell'immaginario. Tuttavia occorre riprendere questa questione dell'immaginario. In realtà, se questo concetto mi sembra indispensabile, esso è spesso frainteso, specialmente nei testi in lingua francese. Vi si parla di "comunità immaginarie", di "invenzione della tradizione" come "illusione identitaria", cosa che si spiega perfettamente se e solo si dà a "immaginario" il significato di "riguardante l'immaginario" e non quello di "immaginifico"; se e solo si smette di confondere l'immaginario con l'inesistente, cosa che hanno fatto e continuano a fare numerose correnti marxiste, con il concetto di "falsa coscienza" e altre giacobinate. Eppure gli stessi che parlano di "invenzione della tradizione" parlano del ruolo dello Stato, cioè delle élites, nell' "invenzione della nazione", che sembrerebbe un fatto ben reale. Ma può un'élite inventare una nazione senza l'esistenza almeno di un substrato identitario? Un esempio di questo problema è la polemica tutta francese sulla "creazione della Francia" in occasione delle prossime commemorazioni del 1989 ("tesi": il bicentenario della Rivoluzione) e 1996 ("antitesi": il millecinquecentesimo anniversario del battesimo di Clodoveo). Le due date sono, la prima per la sinistra, la seconda per la destra, quelle presunte per la "creazione della Francia".
    Beninteso, l'una e l'altra sono fuori tema poiché una nazione non è mai "creata", ma è un lento processo storico di cristallizzazione identitaria. Sarebbe lo stesso che cercare la "data" della "creazione" della lingua francese. Quando il re Francesco I promulga il famoso editto di Villers-Cotteret nel 1539 che fa del francese la lingua ufficiale dello Stato, "crea" la nazione francese o ratifica il fatto che essa già esiste? In realtà egli si rendeva pragmaticamente conto che era più pratico che i testi dello Stato fossero in francese, perché una parte del suo regno e la maggioranza dei suoi gruppi dirigenti parlavano quella lingua: in altri termini si era in pieno processo di espansione della nazione Francia in seno al territorio del regno. Questa espansione ha proseguito fino al nostro secolo. La difficoltà di comprensione di questo processo e la ricerca di una "data della creazione" rivelano in realtà la confusione paradigmatica fra Stato e nazione, e in particolare fra Stato e Stato-nazione, o fra cittadinanza e nazionalità. Questa concezione mira a "oggettivare" la nazione, valutandola col metro dello Stato e non dei sentimenti collettivi. Viene allora negato il valore culturale dell'identità, cioè del valore etnico, della nazione per non farne altro che un'identità politica. Con l'occasione si nega anche il rapporto storico fra identità etnica e espressione politica del movimento sociale.

    Per esempio, nel corso di una spiacevole polemica, Samir Amin mi ha rimproverato di vedere nella rivolta kikuyu dei Mau-Mau nel Kenia (anni cinquanta) una rivolta etnica, mentre secondo lui si trattava di una rivolta di "un popolo di contadini contro il colonialismo che li aveva spogliati". L'equivoco di S. Amin va benissimo per la dimostrazione. In realtà egli ha pienamente ragione nella sua affermazione e pienamente torto nella sua opposizione: si trattava chiaramente di una rivolta di contadini depredati delle loro terre (radice sociale), ma che si espresse secondo i modi d'identificazione disponibili e da tutti conosciuti, etnici in questo caso. Per cui questa rivolta non ha generato la "Lega del Proletariato rurale del Kenia" che avrebbero auspicato le élites terzo-mondiste marxisteggianti (e a mio avviso poco marxiste), pensando che la coscienza di classe avrebbe rimpiazzato ogni altra forma d'identità, ma un movimento sociale generatosi a livello identitario, guidato dalla difensa dall'identità etnica kikuyu e dai miti della foresta (1). La radice è limpidamente sociale, ma è l'etnicità che ha permesso la mobilitazione politica: distrutti dal colonialismo britannico i fondamenti dell'economia contadina, la comunità si è difesa in quanto tale.

    Se si fa una chiara distinzione fra Stato e nazione, mettendo al centro dell'analisi i sentimenti reali dei popoli, si comprende facilmente che non c'è alcuna differenza concettuale fra nazione e etnia, malgrado l'evidente e frequente gerarchizzazione fra le due. Occorre ritornare su questa gerarchizzazione semantica prima di chiedersi se il mantenimento di due parole distinte (nazione, etnia) può risultare utile. Si ritiene normalmente che l'etnia sia più "piccola" della nazione. Questo aspetto cade al primo esame, essendo l'estensione della nazione danese infinitamente più ristretta di quella dell'etnia Macua (nord Mozambico). Si ritiene correntemente che l'etnia sarebbe "culturale" e la nazione "politica". Così la nazione francese sarebbe "politica e di cittadinanza" e la nazione tedesca "etnica e culturale". Ciò è evidentemente legato alla confusione già ricordata fra nazione e Stato e riguarda più le teorie sulla nazione in questi due paesi che i sentimenti nazionali dei popoli, perfettamente comparabili. Allo stesso modo una nazione non ha sempre bisogno d'espressione politica. Così l'antica nazione africana Congo *i Portoghesi ne rilevano la forte identità fin dal loro arrivo nell'estuario del fiume Congo nel XV secolo- ha avuto una forte espressione politica nel 1975, facendo blocco dietro il FLNA. In un contesto sconvolto, in occasione delle elezioni angolane del 1992 si è visto questa nazione dividersi completalmente in svariate formazioni (anche formazioni dominate da altri gruppi etnici) e non avere più alcuna peculiare espressione politica. Era scomparsa in quanto nazione? Nient'affatto: semplicemente non aveva bisogno, in quel momento, di esprimersi politicamente per assicurare la sopravvivenza della propria identità.
    Al contrario si possono vedere delle cristallizzazioni etniche instabili prendere una forte espressione politica: il grande insieme etnico-linguistico Macua non aveva alcuna coscienza comunitaria nel 1974. Dopo vent'anni di potere marxisteggiante "nazionalista", e in realtà sudista e ciangano (etnia del sud), questa identificazione è evidente e l'espressione politica è stata netta, con dei riferimenti impressionanti all'antica ribellione.

    Molti antropologi e storici notano a ragione che la rivendicazione delle "origini", nel dibattito etnico, non tiene il passo della ricerca e che dominano le "logiche ibride" (indovinata espressione di Jean-Loup Amselle). Ma partendo da questa considerazione l'etnia primordiale non esiste essi tendono a deligittimare le espressioni politiche attuali: poiché l'etnia non è in realtà che un percorso all'interno di continui rimescolamenti, la rivendicazione di una eventuale espressione politica non potrebbe discendere che da minipolazioni. Ora poco importa sapere se gli Zulu o gli Ebrei hanno un'origine lontana o vicina, legittima o meno: se qualcuno si riconosce Zulu o Ebreo, è oggi Zulu o ebreo ed è controproduttivo rilevarne l'eventuale espressione politica. Infatti, se è vero che storicamente l'identità è un percorso e non una condizione, non è meno vero che gli individui che ne sono portatori la percepiscono, a un dato momento, come una condizione, e questo ha effetti politici. L'etnia, infine, sarebbe il prodotto dell'umanità emarginata, dei reietti della mondializzazione. È l'idea secondo la quale i popoli felici non hanno etnia, in altri termini una visione precaria dell'etnicità. Allora non si capisce più niente dell'etnicità piuttosto "felice" di Catalani, Scozzesi, Fiamminghi e perché no Valloni! Infine, poiché la nazione è una caratteristica dei paesi protagonisti della storia del XIX e XX secolo, l'etnia sarebbe una sopravvivenza del passato e le guerre inter-etniche attuali eredità delle rigidità staliniane o post-coloniali. Queste rigidità fanno evidentemente parte dei contesti storici da considerare, ma si nega così che possano esserci dei processi di produzione etnico-nazionale attualmente in corso e che ciò sia in realtà una tendenza costante della dialettica dei movimenti sociali.

    Allora, si deve riunificare le due parole nazione ed etnia? Concettualmente di sicuro, e la nazione Francia che non vuol dire tutti gli abitanti e nemmeno tutti i cittadini della Repubblica francese è un'etnia allo stesso titolo della nazione Zulu. Ma da un punto di vista storico si possono individuare delle sfumature. In effetti, in seno alla categoria generale "etnicità", si hanno fenomeni di cristallizzazione di durata e intensità variabile. La storia ha evidenziato l'intensità e la durata delle cristallizzazioni identitarie polacche o congolesi. Viceversa la cristallizzazione identitaria macua è recente e lo storico non può che aspettare per capire. In altre parole è l'etnia che dovrà essere il concetto generale, e la nazione un caso particolare di esistenza dell'etnia. Peraltro la difesa del concetto di etnia non dovrà far dimenticare che l'identità raramente è unica: si può essere un proletario senza patria, ma anche un basco che ne ha una e che d'altro canto è cattolico. Questo Basco può sentire di far parte della nazione basca, ma anche sentirsi parte della nazione francese o spagnola. Una nazione può essere una nazione di nazioni. La nazione di nazioni è differente dalla federazione di nazioni nel senso che essa è anche un'identità etnica e non una costruzione politica. Il miglior esempio mi sembra trovarsi in Gran Bretagna. La storia delle nazioni inglese, gallese e scozzese ha prodotto un gioco d'incastri verso l'alto che, senza per niente compromettere l'intensità delle cristallizzazioni identitarie precedenti, ha dato luogo ad una nazione britannica. Continuando a distinguere attentamente la nazione la comunità immaginaria e la struttura politica lo Stato, per esempio si comprende bene che non c'è affatto contraddizione fra mondializzazione e sopravvivenza delle nazioni. La mondializzazione come ieri la colonizzazione rimescola le identità ma non le fa scomparire. Possono manifestarsi livelli identitari più ampi (una futura nazione Europa), ma questo non significa la sparizione dei livelli più circoscritti (nazione Francia), che possono anche essere rivitalizzati (la Guascogna di fronte a Parigi e Bruxelles). Un grado di etnicità non scaccia l'altro e non c'è un'evoluzione lineare dell'umanità dal "più piccolo antico" verso il "più grande moderno", verso la a-nazione mondiale. Al contrario la nazione non è che una delle possibilità storiche.

    Gli Stati senza nazione in Africa.
    Il nazionalismo programmatico, già ricordato, ha fatto confondere il nazionalismo di Stato con la supposta esistenza dello Stato-nazione in Africa. Ciò non è stato soltanto un'ideologia giacobina applicata all'Africa, ma anche una quotidiana politica anti-etnica: con l'alfabetizzazione unicamente nella lingua coloniale (raramente in una, ma in quel caso una sola, lingua aficana), con la nomina di funzionari incapaci di parlare la lingua locale, con confini regionali senza rapporto con le realtà etniche, con un'iper-concentrazione degli investimenti nella capitale, etc. Ora, alla periferia del mondo, lo Stato non è socialmente propulsivo e non dà niente in cambio del suo anti-etnismo, come aveva potuto fare una Terza Repubblica francese. Ciò è aggravato dal fatto che questo totale anti-etnismo dello Stato si combina con pratiche etnico-clientelari dei settori al potere, che favoriscono il più delle volte l'etnia della capitale (o in ogni caso l'etnia del capo dello Stato. Tutto ciò provoca reazioni di difesa anti-statale. Per questo io ripeto sempre che Senghor "In Africa lo Stato ha anticipato la nazione" si è sbagliato: in Africa il nazionalismo di Stato non costruisce la nazione, ma distrugge lo Stato. Peraltro la distinzione netta della nazione (aspetto particolare dell'etnia) dallo Stato comporta anche di rendersi conto che l'esistenza di una nazione non implica, di per sé stessa, l'esistenza o l'esigenza di uno Stato, anche se questa nazione è chiaramente definita territorialmente. Se una nazione vive bene senza uno Stato proprio, non ha alcuna ragione di rivendicarlo. L'esempio della nazione Kongo è ancora una volta utile: l'area d'insediamento dei Bakongo è oggi divisa in quattro territori: il sud della Repubblica del Cango (Brazaville), l'ovest della Repubblica democratica del Cango (ex-Zaïre), le provincie settentrionali dell'Angola e l'enclave (riunito all'Angola) di Cabinda. C'è un movimento indipendentista cabindese e c'è stata una rivendicazione per ricostituire il regno Kongo nell'Angola settentrionale, ma non c'è mai stata una reale rivendicazione pan-etnica kongo per uno Stato-nazione riunificatore, rimettendo in causa le frontiere coloniali. Questo può venire in seguito e dipenderà massimamente dai contesti. Al momento c'è solo da prendere atto che i Bakongo utilizzano la frontiera come una risorsa economica, e quindi la considerano più come una "saldatura" che come una divisione.
    Infine, beninteso, riconoscere le identità non statali non vuol dire per niente schedare gli individui. L'appartenenza a una collettività attiene ad un sentimento individualmente espresso. Anche in un sistema costituzionale che tenesse conto dell'etnicità (cfr. infra), non c'è alcuna ragione di registrare l'etnia sulla carta d'identità. Detto questo, chi vede in questa prassi una delle cause del dramma ruandese si sbaglia. Ci sono ben altri modi di riconoscere l'Altro, come la prova della "R" a Luanda, dove gruppi armati davano la caccia ai Bakongo originari dell Zaïre e non di fonia portoghese, quindi incapaci di pronunciare correttamente il termine portoghese 'arroz' (riso), e li massacravano.

    L'etnicità nella mondializzazione.
    Se si rifiuta la concezione marginalizzante dell'etnicità, ci si accorgerà che essa può rappresentare una nuova scommessa rivoluzionaria. Troppo spesso si parla della mondializzazione come se si trattasse di un fenomeno "oggettivo" e neutro. Invece la mondializzazione, pur se oggi si accelera, è un fenomeno che viene da lontano e la sua forma attuale è quella della dittatura mondiale del capitale finanziario. Solo i capitali viaggiano alla velocità della luce, mentre le merci restano tributarie dei mezzi fisici e i movimenti umani sono sempre più costretti. Si ha dunque una contraddizione crescente, e che può diventare esplosiva, fra i movimenti di capitali e quelli di uomini. Per il capitalismo finanziario rendere il mondo uniforme (che non vuol dire renderlo aperto) sarebbe, globalmente e tendenzialmente, la cosa più pratica *anche se la speculazione utilizza evidentemente le disparità, finché esistono* per far cadere tutti gli (ultimi) ostacoli legali ai movimenti monetari e per imbrigliare i movimenti sociali che emergono in difesa delle conquiste storicamente ottenute dalle nazioni. Però, di fronte a questa situazione, le identità non sono docilmente a disposizione della dittatura mondiale. Da qui, se (e dico: se) le correnti progressiste sono capaci d'intervenire nella tendenza delle identità stesse, esse possono acquisire un nuovo potenziale di sovvertimento. Allora, certamente, i percorsi per i quali potrà esprimersi l'etnicità in un quadro di democrazia politica varieranno enormemente secondo i contesti.
    Inoltre occorre diffidare di certi discorsi che fanno appello (nel testo registrato manca la fine del periodo, n.d.t.).
    In Africa certe élites parlano molto di federalismo, che sarebbe in realtà una pessima soluzione: prima di tutto esso presupporrebbe la possibilità di far esistere più livelli di Stato, mentre si è lontani dal riuscirne a farne esistere uno solo; secondariamente l'eterogenietà etnica delle regioni da federare riproporrebbe, al loro interno, gli stessi problemi di quelli a scala di tutta la Repubblica e potrebbe provocare delle azioni di pulizia etnica da parte di gruppi locali tesi ad assicurarsi l'egemonia; in terzo luogo non è attivo alcun movimento popolare in tal senso, perché solo gruppi elitari fanno di questa rivendicazione una forma di lotta contro lo Stato centrale o per attivare più facilmente reti clientelari.
    In altri termini, la territorializzazione politica dell'etnicità è molto difficile, quindi molto pericolosa da mettere in atto, per il semplice fatto che la distribuzione territoriale delle etnie realmente esistenti somiglia più a un puzzle croato-bosniaco che a una spazio omogeneo.
    Un altro modello in discussione è quello, di origine anglo-sassone, del "diritto dei gruppi", che, spinto alle estreme conseguenze, approda a un federalismo giuridico: ogni comunità, qualunque sia la sua localizzazione territoriale, è dotata di un Diritto particolare e di proprie istituzioni. l'Impero ottomano, ai suoi tempi, aveva parzialmente funzionato in tal modo. In realtà questo diritto dei gruppi è impraticabile per almeno due ragioni: da una parte crea conflitti fra i gruppi nella vita economica, sociale e privata (proprietà comune della terra, difficoltà dei matrimoni misti, etc.); da un'altra gli individui non sono soltanto membri di questa o quella comunità, ma anche cittadini della loro Repubblica: nascono allora conflitti permanenti fra il diritto delle comunità e il diritto della Repubblica, a seconda che il singolo cittadino abbia interesse a utilizzare l'uno o l'altro (3). Ne discende dunque che il ricorso alla legge generale *la stessa legge per tutti* risulta la migliore salvaguardia delle identità. In Africa nera la legge generale potrebbe prevedere un'alfabetizzazione nella lingua materna e non in quella coloniale, imporre che i funzionari nominati in un certo luogo parlino almeno una delle lingue locali, ridisegnare i confini regionali facendoli meglio corrispondere alle realtà etniche (anche se non si otterrà mai l'omogeneità), organizzare le elezioni in modo che la metà dei deputati siano eletti sulla base di collegi etnici (definiti con semplice censimento elettorale sulla base di un numero minimo di iscritti, senza menzione sulla carta d'identità), ciò che indurrebbe nell'Assemblea legislativa una "attenzione" per i problemi etnici e delle comunità senza che peraltro sia assegnato alcun potere specifico ai collegi etnici, etc. Tutto questo merita riflessione e analisi concreta nelle condizioni reali. L'idea è di affermare il diritto alla differenza contro la differenza del diritto. La ricerca delle scienze sociali sulle questioni identitarie, soprattutto la ricerca politica, è rimasta molto segnata dal paradigma statale, unico barometro di legittimità autorizzato. Ne risulta la sopravvivenza di un'ideologia di quello che chiamerei il "linearismo" dell'evoluzione storica, dal più piccolo antico al più grande contemporaneo e futuro, respingendo fuori delle categorie della modernità le rivendicazioni delle nazioni piccole e recenti, stigmatizzandole come arcaismi, mentre si tratta della rivendicazione della modernità attraverso l'identità. Ne è risultato anche, soprattutto nella tradizione marxista e in particolare bolscevica (compresa la sua eredità trotskista), una "gradualità" che mette sempre insieme rivoluzione democratico-borghese e rivoluzione nazionale, il che significa circoscrivere la questione nazionale ad un aspetto della sola rivoluzione borghese invece di farne un momento possibile di tutte le rivoluzioni storicamente concepibili, in particolare della rivoluzione socialista. Conclusa la tappa delle rivoluzioni borghesi, lo sarebbe anche quella delle rivoluzioni nazionali, tranne che per i paesi che hanno subito la colonizzazione. Ciò ha comportato, e secondo me comporta tuttora, una sottovalutazione sistematica delle correnti marxiste * che si traduce in denuncia * per le lotte a carattere nazionale in Europa (4). Torna in mente un giovane Engels e i suoi infelici argomenti sulle "piccole nazioni arcaiche e reazionarie". Solo la liberazione di classe risolverebbe automaticamente gli altri problemi (5).

    Si è fatta troppa confusione fra l'internazionalismo (inter-nazionalismo) e un semplice antinazionalismo, mentre altro non è che solidarietà dei nazionalismi. Si è troppo confuso l'internazionalismo proletario con un semplice interclassismo proletario, mentre non può trattarsi che della solidarietà fra nazionalismi di cui il movimento operaio ha preso la direzione. Di fronte alla mondializzazione nei suoi caratteri attuali *la tendenza all'uniformizzazione della dittatura mondiale del capitale finanziario* il nazionalismo puro dei particolaristi conduce in un vicolo cieco. Ma mi sembra che lo faccia altrettanto l'universalismo astratto di un certo marxismo tendente all'economicismo, che gonfia il significato della coscienza di classe a scapito delle altre identità di cui è portatore il movimento sociale. Non dovremmo fare nostra la massima dello scrittore portoghese Miguel Torga: 'L'universale è il locale a meno dei muri'?


    (1) Su questa polemica cfr.:
    M. Cahen Samir Amin à l'assaut des ethnies.
    S. Amin e J. Vansy L'ethnie à l'assaut des nations, Yougoslavie et Ethiopie, Paris, L'Harmattan, 1994, p. 155, in 'Histoire et Anthropologie', Strasbourg,Éditions Histoire et Anthropologie/Association des Taverniers cosmopolites, n°11, luglio-dicembre 1955, pp. 126-134.
    S. Amin Le délire ethniciste, H&A, n°12, gennaio-giugno 1966, pp. 130-131.
    M. Cahen Nationalismes,ethnicités, démocratie: pour une polémique sérieuse, H&A, n°13, luglio-dicembre 1966, pp. 126-134
    S. Amin Le délire ethniciste,suite et fin, pp. 135-136.
    Per una riflessione interessante sull'identità etnica Mau-Mau vedere anche:
    John Lonsdale Ethnicité morale et tribalisme politique, Politique Africaine, Paris, Karthala, marzo 1996, pp. 98-115.

    (2) Questo testo non si occupa specificamente della questione degli Hutu e Tutsi, non solamente perché occorrerebe dedicarle un intero capitolo, ma soprattutto perché essa non mi sembra riguardare l'etnicità, bensì un fenomeno massificato di casta. Categorie di persone con la stessa lingua, la stessa religione, gli stessi raggruppamenti politici, etc. fanno a pieno titolo parte della stessa etno-nazione storicamente creatasi attorno a migrazioni antiche. Per contro le immagini del loro inserimento sociale erano diverse: agricoltore o considerato tale, allevatore o considerato tale, etc. Si tratta quindi d'identità che, nella polemica storiografica sul problema, sono state, come altrove l'etnicità, spesso negate (per esempio dalla sinistra vallona) per venire catalogate fra le manipolazioni coloniali e cattoliche (preferibilmente fiamminghe). Ma non per questo non si tratta della tragica scissione fra due caste in seno alla stessa etnia/nazione e non del contrasto di due "società compiute" che avrebbero costituito due distinte etnie.

    (3) Conflitti di questo tipo sono frequenti negli Stati Uniti e in Canada in funzione dell'azione propositiva (discriminazione positiva) o della politica delle "minoranze visibili".

    (4) (manca nel testo l'inizio del periodo, n.d.t.) dall'ostilità di Rosa Luxembourg all'indipendenza polacca alla condanna del PCF di ogni nazionalismo corso, passando per la difficoltà delle sinistre belghe ad affrontare i problemi delle comunità o, viceversa, la tragica opposizione della sinistra democratica tedesco-orientale alla riunificazione della nazione germanica, da quel momento lasciata alla destra.

    (5) Si noterà con interesse che un ragionamento dello stesso tipo è stato a lungo fatto a proposito delle lotte delle donne. Numerosi marxisti hanno negato la necessaria autonomia di questa lotta, vista come semplice sottoprodotto della lotta di classe.


    (*) Conversazione tenuta in occasione del seminario sul centesimo anniversario del Bund, organizzato nel novembre 1997 dall'Unione dei progressisti ebrei di Bruxelles
    (**) Michel Cahen è ricercatore CNRS presso il Centro studi per l'Africa nera di Bordeaux, redattore della rivista 'Lusotopie/Enjeux contemporains dans les espaces lusophones'.



    ARDITI NON GENDARMI

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    OMNIA SUNT COMMUNIA


    Marx e la questione nazionale: dibattito.
    "Non possiamo considerarci marxisti senza sostenere in Francia il diritto all'autodeterminazione dei Kanaki della Nuova Caledonia, in Israele quello dei Palestinesi, in ex-Jugoslavia quello degli Albanesi del Kosovo, in Iran, Irak, Siria e Turchia quello dei Kurdi". Michael Löwy propone un interessante approccio critico alla teoria di Marx ed Engels sulla questione nazionale. Traduzione dal francese di Andrea Vigni e Lucia Bisetti. Aprile 2001.
    1. La maggior parte degli storici (marxisti o no) sottolineano l'incompletezza e i limiti degli scritti di Marx e Engels sulla questione nazionale. La critica della teoria di Engels sulle "nazioni senza storia" * una critica formulata per la prima volta all'inizio del secolo da Otto Bauer, nell'opera monumentale Die Nationalitäutenfrage und die Sozialdemokratie (1907), poi sviluppata in modo più sistematico e rigoroso dallo storico marxista ucraino Roman Roldolsky dopo la Seconda Guerra mondiale * è oggi definitivamente acquisita dalla letteratura marxista contemporanea sulla questione nazionale. In generale, gli storici marxisti tendono a considerare la questione nazionale come una delle principali lacune della costruzione teorica di Marx e Engels e hanno analizzato in particolare il concetto di "popoli senza storia" (geschichtlosen Völker) in quanto contraddittorio alla base con i fondamenti del marxismo.
    Tuttavia, opponendosi a questo punto di vista, Ephraim Nimni, un ricercatore marxista nord-americano noto per i suoi lavori sulla questione nazionale, ritiene che "Marx e Engels hanno una visione coerente della questione nazionale, anche se nel loro corpus non esiste un'opera specifica che esponga le loro teorie in proposito in modo diretto e esplicito". Secondo lui, questa coerenza si basa su tre "paradigmi" fondamentali del materialismo storico: 1° una teoria dell'evoluzione, cioè una visione della storia come "una successione di trasformazioni successive attraverso tappe universali e gerarchicamente definite"; 2° una teoria determinista cha analizza * per mezzo di una specie di "riduzionismo economico"- tutte le modificazioni sociali come risultato automatico della crescita delle forze produttive; 3° infine, una visione "eurocentrica" del mondo che sarebbe conseguenza necessaria e inevitabile dei due primi "parametri teorici". Con queste premesse, il lettore potrebbe certamente pensare che questo studio miri ad una critica generale del marxismo; al contrario, alla fine dell'esposizione, ci si rende conto che Ephraim Nimni si ritiene marxista e si attribuisce un "materialismo storico" depurato dall'"eredità fuorviante del marxismo europeo". Comprendiamo le lodevoli intenzioni di Nimni, ma troviamo la sua attitudine assai contraddittoria. Se noi fossimo convinti che la teoria di Marx si fonda su una forma di evoluzionismo e di determinismo economico che sbocca inevitabilmente in una visione del mondo eurocentrica, saremmo certamente antimarxisti. In realtà, i paradigmi del saggio di Nimni rinviano ad una caricatura del pensiero di Marx e sarebbero più adeguati per caratterizzare le Weltanschauungen materialiste molto differenti elaborate da Kautsky, Plekhanov e Boukharine. Diversi scritti di Marx ed Engels, in primo luogo il Manifesto del partito comunista, contengono sicuramente aspetti di tendenze evoluzioniste o economico-deterministe nell'interpretazione della storia. Tuttavia, è totalmente sbagliato ridurre l'insieme del pensiero di Marx a una visione della società e della storia risultante dalle leggi naturali dello sviluppo delle forze produttive, o a una serie di tappe ricalcate sul modello europeo. Alcune osservazioni critiche di Nimni sono effettivamente pertinenti * per esempio, quando constata che Marx ed Engels non avevano compreso i movimenti nazionalisti che non erano né desiderosi né in grado di stabilire uno Stato nazionale -, tuttavia la sua analisi resta troppo spesso estremamente unilaterale, esegue generalizzazioni a partire da passaggi isolati e tende qualche volta a presentare una caricatura che ha ben poca somiglianza con le idee di Marx.

    2. Alcuni passaggi del Manifesto del partito comunista possono essere letti come autentiche apologie del lavoro storico del capitalismo come distruttore dell'ordine feudale e, in generale di tutte le forme sociali arcaiche. Marx ed Engels attribuivano un carattere "rivoluzionario" al capitalismo in sviluppo all'esterno delle frontiere dell'Europa, in un periodo in cui essi consideravano che le condizioni per una rivoluzione socialista fossero mature a livello di continente europeo. In India, la Gran Bretagna avrebbe così da un lato distrutto la vecchia società e dall'altro asicuato i presupposti di uno sviluppo sociale moderno grazie all'industrializzazione del paese. Nel 1853, Marx definiva l'Inghilterra, forza motrice di questo cambiamento sociale, come "lo strumento inconsapevole della Storia". Nello stesso senso, Engels approvava l'annessione della California da parte degli Stati Uniti poiché, secondo la sua spiegazione "le industrie Yankees sarebbero più adeguate delle Messicane indolenti" per assicurare lo sviluppo economico della regione. Nel 1848, Engels salutava ugualmente * come sottolinea Nimni * la conquista francese dell'Algeria qualificandola come "un avvenimento felice per il progresso della civilizzazione". Evidentemente, è importante criticare e rifiutare queste dichiarazioni, ma sarebbe sbagliato e schematico considerare solo questi passaggi. In realtà, Marx ed Engels hanno spesso denunciato la mistificazione, profondamente radicata nella cultura eurocentrica della loro epoca e nell'ideologia imperialista, insita nel presentare le conquiste coloniali come "missioni civilizzatrici". Essi consideravano il capitalismo come un sistema che "trasforma ogni progresso economico in una calamità sociale". Erano affascinati dall'estensione del capitalismo a scala mondiale, ma contemporaneamente denunciavano le modalità barbare e violente con cui tale processo si realizzava. Per ciò che concerne la colonizzazione britannica dell'India, Marx comparava il "progresso umano" a un "terrificante idolo pagano che non desidera bere il nettare altro che nei crani degli assassinati". Nel 1857, in un articolo sull'Algeria scritto per l' Americana Encyclopedia, Engels denunciava "gli orrori e la brutalità" della "guerra barbara" condotta dai francesi contro "le tribù arabe e kabile per le quali l'indipendenza è un bene prezioso e l'odio per la dominazione straniera è l'imperativo primario della loro vita". Nel 1861 Marx paralva dell'intervento europeo in Messico come di una delle "più mostruose imprese degli annali della storia internazionale". Queste dichiarazioni, cui si può aggiungere il sostegno ai cinesi nel quadro delle "guerre dell'oppio" contro gli Inglesi, non hanno caratteristiche tipicamente eurocentriche!
    Allo stesso modo, l'interpretazione evoluzionista di Marx non può essere accettata poiché essa schematizza e impoverisce la complessità e la ricchezza del suo pensiero. Nimni riduce questa ricchezza a una celebre citazione dal Capitale che è divenuta un dogma del marxismo positivista della II Internazionale: "Il paese più sviluppato industrialmente mostra al paese meno sviluppato l'immagine del suo proprio futuro". All'inizio di questo secolo, l'"ortodossia" kautkista racchiudeva il pensiero di Marx nella gabbia d'acciaio dell'interpretazione evoluzionista. Il pensiero di Marx era a tal punto identificato con le interpretazioni social-darwiniste che il giovane Gramsci salutò la rivoluzione russa del 1917 come una "rivoluzione contro il Capitale". Tuttavia, questo passaggio in quanto tale non riflette affatto la totalità del pensiero di Marx. Quest'ultimo non ha mai preteso di trasporre meccanicamente a tutti i paesi le differenti tappe dello sviluppo dell'Europa occidentale * comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo e capitalismo. E i suoi scritti sulle società pre-capitaliste costituiscono ipotesi per future ricerche piuttosto che incontestabili conclusioni. Nel caso della Russia, Marx considerava nel 1881-1882 la possibilità di una transizione diretta dell' obschina (la comunità contadina russa) al comunismo, senza dover passare attraverso tutte le "terribili vicissitudini" del capitalismo, a condizione che una rivoluzione contadina in Russia fosse accompagnata da una rivoluzione socialista in Europa. In una lettera inviata nel 1877 alla rivista russa Otchestvenie Zapiski, Marx metteva in guardia i lettori contro il pericolo di trasformare la sua "traccia della genesi del capitalismo in Europa occidentale" in una "teoria storico-filosofica dell'avanzata generale fatalmente valida per tutti i popoli, qualunque sia la situazione nella quale essi si trovino". Nel 1881, riconfermava questa preoccupazione in una celebre lettera a Vera Zassoulitch, nella quale presentava la comunità rurale tradizionale come il "punto di partenza per la rigenerazione sociale della Russia". I marxisti russi, guidati da Plekhanov per il quale l'idea di "saltare" lo stadio capitalista sembrava un'eresia populista, nascosero scrupolosamente questa lettera (non fu trovata e pubblicata che nel 1911 da Riazanov). E questo non è che un esempio delle tendenze anti-evoluzioniste meccaniciste presenti negli scritti di Marx.

    3. Marx ed Engels hanno formulato un'idea piuttosto che una teoria compiuta della questione nazionale. Ciò rappresenta un limite della loro elaborazione teorica, ma nello stesso tempo una garanzia contro i pericoli di una definizione troppo rigida e normativa, come sono quelle proposte da Kautsky (la nazione come entità economico-linguistico-territoriale) o da Stalin (la nazione come comunità economica, territoriale, linguistica, culturale e psicologica). Marx ed Engels, due rivoluzionari tedeschi, vivevano in un'epoca ancora segnata dalla formazione di parecchi Stati nazionali (Germania, Italia, Polonia, Ungheria) e questo dato ha fortemente influenzato la loro concezione. A partire dai loro scritti, possiamo individuare un concetto di nazione che rimanda a una formazione storica legata all'ascesa del modo di produzione capitalista e cristallizzato in una sovrastruttura politica: lo Stato-nazione. Ma questo concetto non è stato mai sviluppato in modo sistematico. Lo stato incompiuto della loro analisi è probabilmente legato alla convinzione di vivere in un'epoca dominata dal cosmopolitismo borghese e dall'avvento, in un futuro prossimo, di un socialismo che avrebbe trasceso i conflitti nazionali. In un'opera come il Manifesto comunista, il cosmopolitismo e l'internazionalismo tendono a fondersi. L'internazionalizzazione del modo di produzione capitalista e la formazione di un mercato a scala mondiale sono concepiti come un processo che "ha reso cosmopolita (kosmopolitisch) la produzione e il consumo dell'insieme dei paesi", stabilendo un' "interdipendenza universale tra tutte le nazioni" e creando una "letteratura mondiale". Nel quadro di questa trasformazione ininterrotta della vita sociale, il capitalismo sottometterebbe "la campagna alla città, le nazioni barbare e semi-barbare a quelle civilizzate, le popolazioni contadine a quelle borghesi, l'Oriente all'Occidente". Questa descrizione piena di ammirazione per il ruolo rivoluzionario del modo di produzione capitalista, considerato come un sistema economico tendente quotidianamente ad approfondire l'unificazione materiale e "spirituale" del mondo e a eliminare le basi stesse dei conflitti nazionali, ha sicuramente condotto gli autori del Manifesto a trascurare l'importanza della questione nazionale. Questa sottostima, che contiene senza alcun dubbio qualche elemento di riduzionismo economico e d'eurocentrismo, ha contraddistinto in particolare gli scritti di Marx ed Engels del periodo 1848-1849.
    È vero che il Manifesto comunista contiene alcune formulazioni incerte; è altresì vero che è inesatto scrivere, come fa Nimni, che per Marx ed Engels "la nazione sarà spazzata via dall'onda inesorabile della storia". Quello che essi hanno scritto, è che la supremazia del proletariato causerà la sparizione delle "separazioni nazionali [Absonderungen] e della conflittualità tra i popoli". Il termine Absonderungen può essere definito come differenza, demarcazione, separazione o anche isolamento. Secondo noi, la migliore interpretazione di questa frase è quella data da Roman Rosdolsky in un saggio del 1965: quando Marx ed Engels speravano che in una società comunista sarebbero spariti gli antagonismi e le separazioni nazionali, non si riferivano "certamente [a] l' 'abolizione' delle comunità linguistiche esistenti (che sarebbe assurdo!) ma [ai] confini politici tra i popoli. In una società nella quale (nei termini del Manifesto) il 'potere pubblico perde il suo carattere politico' e 'lo Stato in quanto tale si esaurisce' non ci può più essere spazio per 'Stati nazionali' separati".
    Questa posizione internazionalista di Marx ed Engels era fondata non su una ideologia perversa, "monolineare ed eurocentrica", ma sulla speranza umanista che in un mondo socialista, un mondo senza frontiere, non solo gli antagonismi e i conflitti tra le nazioni, ma anche le differenze economiche, sociali e politiche (ma non culturali) sarebbero sparite.
    L'esempio dell'Irlanda chiarisce un differente approccio teorico al fenomeno nazionale che si può trovare nell'opera di Marx ed Engels. Il criterio che li conduce a riconoscere l'Irlanda come una nazione storica non è di ordine economico, ma essenzialmente politico. Il loro punto di partenza sta nella comprensione della volontà del popolo irlandese di diventare una nazione indipendente. In Irlanda, il nazionalismo si è affermato sempre più fortemente in relazione diretta con il processo di denazionalizzazione condotto dall'imperialismo britannico. Questo processo determinava non solo la spoliazione economica dell'isola, ma si spingeva fino a una reale assimilazione linguistica degli Irlandesi che abbandonavano la lingua gaelica per parlare inglese. Engels scriveva a questo proposito: "Dopo la più feroca repressione, dopo ogni tentativo di sterminio, gli Irlandesi riprendevano vita e si risollevavano, come se traessero la loro forza direttamente dalla presenza delle forze militari che erano state loro imposte per opprimerli". In questo caso, il concetto di nazione non era definito secondo criteri oggettivi (economia, lingua, territorio ecc.) ma si fondava piuttosto su un elemento soggettivo;: la volontà degli Irlandesi di liberarsi essi stessi dalla dominazione britannica. Questa concezione, nella quale è difficile trovare un qualsiasi indizio di "riduzionismo economico" insisteva al contrario sull'importanza dell'identità nazionale e della sua interiorizzazione. Nel 1939 Trotsky adottava lo stesso metodo, in una discussione con C.L.R. James sulla questione dei neri d'America, argomentando che "al proposito un criterio astratto non è decisivo, ma che sono più importanti la coscienza storicha, i sentimenti e le aspirazioni di un gruppo". In realtà, le due principali interpretazioni marxiste del fenomeno nazionale * da un lato la teoria economico-determinista di Kautsky e Stalin, e dall'altro la teoria storico-culturale di Bauer e Trotsky * hanno ambedue origine nell'approccio marxista classico, un approccio secondo cui lo stato incompiuto e amorfo permette uno sviluppo sia evoluzionista lineare, sia dialettico.
    Nel suo tentativo di provare che le concezioni di Marx non sono né frammentarie né incomplete * ma costituiscono un tutto sistematico e coerentemente evoluzionista - Nimni pretende che il suo (e quello di Engels) "postulato teorico fondamentale" era che "ogni Stato nazionale" è "indissolubilmente legato all'universalizzazione del modo di produzione capitalistico e all'egemonia della borghesia". Questa concezione spiega secondo lui "il risoluto sostegno [di Marx ed Engels] al diritto all'autodeterminazione di irlandesi e polacchi" e nello stesso tempo, il modo assai duro con il quale tratta gli "Slavi del Sud". Ora, ben lontano dal sostenere gli irlandesi per via dell' "egemonia borghese", Marx si felicitava del fatto che i Fenians, forza egemone nella lotta contadina e nazionalista irlandese, fossero "caratterizzati da una tendenza al socialismo (in senso negativo, diretto contro l'appropriazione della terra)". Le ragioni del sostegno al nazionalismo polacco, e per contro il non appoggio ai movmenti simili in Serbia e Boemia, non si fondava su basi economiciste ("l'universalizzazione dell'economia capitalistica") ma esclusivamente politiche: il movimento nazionalista polacco era antizarista, mentre gli altri erano secondo Marx manipolati dallo zarismo. Nel caso degli Slavi del Sud si può affermare che la sua posizione politica era sbagliata. Ma non si può provare che questo orientamente era il risultato logico di una concezione "evoluzionista" e "eurocentrica" (sia detto per inciso, perché la Polonia dovrebbe essere considerata come più "europea" che, ad esempio, la Boemia?) e ancor meno dell' "epistemologia classica del marxismo".

    4. Per ciò che riguarda la teoria dei "popoli senza storia", l'argomentazione di Nimni contiene una contraddizione fondamentale: egli scrive che questa teoria "origina chiaramente" da "l'epistemologia marxista classica" e dalla sua visione dei "processi universali di trasformazione sociale". Nonostante ciò, due pagine più avanti, egli osserva che questa concettualizzazione hegeliana è "in contraddizione diretta con una concezione storico-materialista della storia". Egli considera ugualmente strano di trovare tali "speculazioni idealiste nei lavori dei fondatori del materialismo storico". Non approviamo assolutamente quest'ultima tesi, ma essa è evidentemente incompatibile con la prima.
    L'altro problema risiede nel fatto che Nimni attribuisce con insistenza a Marx le stesse concezioni di Engels riguardo ai "popoli senza storia" non portando che pochi elementi a sostegno di questa asserzione.
    Esaminiamo la sua argomentazione.
    a) È "impensabile" che Marx ed Engels "siano in disaccordo su un punto così fondamentale". Salvo che questa affermazione elude la domanda! Non esiste alcun elemento che mostri che Marx fosse in accordo o disaccordo con questa teoria (o che si sia preoccupato di prendere posizione su tale argomento): il fatto è che egli non l'ha utilizzato nei suoi scritti. Diventa di conseguenza arbitrario attribuirgli tali posizioni. Svariati ricercatori e filosofi marxisti hanno messo in evidenza le differenze tra Marx ed Engels, senza che ciò implichi necessariamente un disaccordo esplicito. Non c'è dunque alcuna ragione che questo sia "impensabile" rispetto alla questione nazionale.
    b) "Marx si è ugualmente lasciato andare a definizioni offensive verso parecchie comunità nazionali non appartenenti all'Europa occidentale". Ha usato un "linguaggio infamante" e dato prova "d'impazienza e d'intolleranza riguardo alle minoranze etniche". Come esempio, Nimni cita qualche osservazione su Spagnoli, Messicani e Cinesi. In effetti, nessuna di queste nazioni è una "minoranza etnica". In più, né Marx né Engel le hanno mai qualificate come "senza storia" (sono nazioni che possedevano già uno Stato). Infine, gli Spagnoli non sono * sia in senso geografico che storico * una nazione "piccola" o "non occidentale"!
    Ancora, Nimni isola completamente dal suo contesto la citazione sulla Cina: lontano dall'essere insultante verso la Cina, l'articolo citato predice che "la prossima sollevazione di popoli europei potrà dipendere ben di più da quello che sta succedendo nell'Impero Celeste * il vero contrario dell'Europa * che da ogni altra causa politica attualmente esistente Si può predire senza troppo rischiare che la rivoluzione cinese getterà una scintilla sul barile di polvere del sistema industriale attuale e provocherà l'esplosione di una crisi generalizzata che matura da molto tempo e che, estendendosi, sfocerà in rivoluzioni politiche sul continente europeo". Lontano dall'essere "eurocentrista", questa previsione * ahimé totalmente inesatta come altre numerose predizioni esageratamente ottimiste di Marx e dei suoi discepoli * è sorprendentemente vicina al "terzo-mondismo" degli anni 1960.
    È vero che Marx definisce spesso la nazione cinese come "semibarbarica"; ma allorquando scrive nel 1858 sulla guerra dei cinesi contro l'imperialismo britannico, nota che questa nazione "si atteneva al principio della moralità" ed era "confortata da motivazioni etiche" (il rifiuto di accettare il traffico di oppio), mentre "i rappresentanti dell'irresistibile società moderna si battono per il privilegio di acquistare sul mercato meno caro e di vendere su quello più redditizio".
    Non c'è dubbio che sia possibile trovare tanto in Marx che in Engels ogni sorta di "osservazioni sprezzanti" verso molte nazioni; è ugualmente vero che la loro corrispondenza contiene qualche spaventosa espressione, come l'infame formula di "negro ebreo" indirizzata a Lassalle. Ma noi siamo convinti che non si può trarre una "teoria" da tutto questo, in particolare sapendo che le grandi "nazioni storiche" (Francia, Germania, Inghilterra) ricevono anch'esse la loro parte di "osservazioni denigranti".
    È ugualmente vero che è possibile trovare, in certi scritti di Marx dei decenni 1840 e 1850, un giudizio molto negativo sulle nazioni degli Slavi del Sud. Tuttavia questo atteggiamento non è connesso in modo organico a una qualsivoglia filosofia "evoluzionista, economicista ed eurocentrica" ma è piuttosto il prodotto ad hoc del suo ossessivo timore della contro-rivoluzione zarista e della strumentalizzazione del panslavismo da parte dello Zar. Non appena le prospettive rivoluzionarie cominceranno a materializzarsi in Russia (dopo il 1870) questo giudizio negativo scompare completamente dai suoi scritti.

    5. Le considerazioni di Engels sui sedicenti "popoli senza storia" erano di tutt'altra natura. Nel suo vocabolario questo termine designa le nazioni cui fanno difetto le "condizioni storiche, geografiche, politiche e industriali dell'indipendenza e dell'energia vitale". Engels così si esprimeva: "I popoli [Völker] che non hanno mai avuto il controllo della propria storia, che * nel momento stesso in cui essa arriva al primo rozzo scalino della civilizzazione * si ritrovano già sotto la dominazione straniera, o arrivano a questo primo grado di civilizzazione sotto l'effetto del giogo straniero, non hanno energia [Lebensfähigkeit] e non arriveranno mai a una qualsiasi forma di indipendenza". Engels si riferiva a quelle nazioni (popoli) che avevano subito la dominazione di uno stato straniero durante tutta la loro storia e che, secondo la sua opinione, erano condannate ad essere egemonizzate dalle nazioni socialmente e economicamente più avanzate. Engels proseguiva sottolineando: "Non esistono in Europa paesi che non possiedano, in un angolo o in un altro, uno o più frammenti di popoli [Völkerruinen], tracce di antiche popolazioni cancellate dalle carte e tenute in schiavitù dalla nazione che diventa più tardi il principale veicolo di sviluppo storico [Trägerin der geschichtlichen Entwicklung]. Tali reliquie di una nazione, calpestate senza pietà dal corso della storia, come Hegel qualificava questi residui di popoli [Völkerabfallel], diventano sempre i portabandiera fanatici della controrivoluzione e sopravvivono così fino alla loro estinzione completa o alla perdita del loro carattere nazionale [gänzlichen Vertilgung oder Entnationalisierung], così che la loro intera esistenza costituisce di per se stessa una sorta di oltraggio ad una grande rivoluzione storica".
    Questa categoria includeva, sempre secondo Engels, i Gaelici di Scozia, i Bretoni, i Baschi, gli Ebrei di lingua yiddish delle comunità dell'Europa orientale e in particolare gli Slavi del Sud.
    Secondo Engels, nel 1848 le grandi nazioni europee erano nel campo della rivoluzione, mentre gli slavi (ad eccezione dei Polacchi) erano alleati dello zarismo nel campo della reazione. Engels non si preoccupava di capire le cause sociali del ruolo "vandeano" svolto da questi movimenti nazionali nel 1848, ma lo attribuiva semplicemente alla loro supposta natura "controrivoluzionaria". Il fiasco delle rivoluzioni del 1848 risiedeva in cause precise del tutto diverse dalla natura "vandeana" degli Slavi del Sud. Al contrario, queste sconfitte si collocavano in un contesto storico preciso: un'epoca testimone dell'esaurimento del potenziale rivoluzionario della borghesia (incapace di risolvere i principali problemi all'ordine del giorno: le questioni nazionali e agrarie) e del fatto che il proletariato non era ancora pronto a prendere il potere. In altri termini, era troppo tardi per una rivoluzione borghese e troppo presto per una rivoluzione socialista.
    La teoria di Engels sui "popoli senza storia" è stata acutamente criticata da Roman Rosdolsky, che ha provato la sua fondamentale incoerenza. Egli spiega il ruolo reazionario giocato dai movimenti nazionali slavi durante le insurrezioni del 1848 alla luce delle contraddizioni intrinseche alla rivoluzione in Europa orientale: le poche nazioni che lottavano per la loro liberazione, come la Polonia e l'Ungheria, opprimevano altre nazionalità e minoranze etniche al loro interno. La borghesia e l'aristocrazia terriera formavano le forze sociali dominanti del movimento polacco e magiaro che si opponevano alle altre "nazioni contadine". I Ruteni (Ucraina) di Galizia, per esempio, non sostenevano le rivendicazioni indipendentiste dei Polacchi, poiché già difendevano gli embrioni della propria identità nazionale, un'identità nazionale che esprimeva essa stessa il conflitto di classe che le opponeva ai proprietari terrieri polacchi. I Serbi, i Croati, i Rumeni, gli Slovacchi e tutte le altre "nazionalità contadine" dell'Europa sudorientale conservavano la stessa attitudine rispetto a Tedeschi e Magiari. In realtà, questi sedicenti "popoli senza storia" avrebbero partecipato alla rivoluzione se avessero potuto ottenere una riforma agraria dalla borghesia e dall'aristocrazia terriera, ma la direzione sciovinista e conservatrice dei movimenti nazionali tedeschi, polacchi e magiari non accettò questa riforma e spinse così le masse rivoluzionarie nelle braccia della controrivoluzione zarista. Invece di comprendere * grazie a un metodo marxista * le radici sociali del movimento panslavista, Engels disegnò una carta d'Europa basata su due categorie: le "nazioni rivoluzionarie" e i "popoli senza storia", le prime considerate come storicamente vitali, mentre le seconde erano relegate alla condizione di schegge senza vita del passato. Questa concezione, che nega a priori l'eventualità di un risveglio successivo dei "popoli senza storia", è del tutto antidialettica. Rosdolsky prova, attraverso abbondanti citazioni, che anche dopo il 1848 Engels mantenne la sua visione della rivoluzione in Europa centrale e orientale come fondamentalmente tedesca, con gli stessi alleati (in primo luogo i Polacchi) e gli stessi nemici (la Russia zarista e il movimento panslavista).
    A partire dalla fine del XIX secolo, con la nascita del movimento socialista nei balcani, Kautsky ha denunciato l'errore di Engels. Nel 1907, Otto Bauer nella sua summa sulla questione nazionale, criticava Engels e riconosceva gli sviluppi socio-culturali delle differenti nazionalità slave (cioè il loro adattamento alla modernità). Nella sua critica, Rosdolsky introduce un altro elemento: egli spiega che durante la rivoluzione di Cromwell (1599-1658) gli Irlandesi * le cui rivendicazioni dei diritti nazionali erano sostenute come legittime da Marx ed Engels * svolsero lo stesso ruolo reazionario avuto poi dagli slavi austriaci nel 1848. Nondimeno, costruirono più tardi un movimento nazionalista anti-imperialista. Basandosi su una critica alla posizione della Neue Rheinische Zeitung, Rosdolsky costruisce una brillante analisi marxista della questione nazionale durante la rivoluzione del 1848. Lontano dal cadere di nuovo, come pensa Nimni, nel "tranello paradigmatico" di Engels sulle nazioni "storiche e non storiche", egli giunge a conclusioni molto chiare: la teoria dei geschichtlosen Völker non è altro che un "residuo della concezione idealista della storia e perciò estraneo al sistema teorico marxista".
    Noi siamo d'accordo con Nimni quando dichiara che l'attitudine di Engels verso le nazioni slave del Sud rivela qualche elemento di evoluzionismo positivista, di determinismo economico e di eurocentrismo. L'amico di Marx aveva senza alcun dubbio interiorizzato alcuni pregiudizi culturali dell'Europa del XIX secolo, ma sarebbe sbagliato generalizzare questo atteggiamento: il concetto di "popolo senza storia" non rappresenta che un aspetto dell'approccio di Engels sulla questione nazionale.
    Dalla fine del XIX secolo, le idee marxiste si diffusero largamente tra le minoranze etniche extraterritoriali e le sedicenti "nazioni non storiche" dell'Europa centrale e orientale. Il movimento operaio e l'intellighenzia socialista di queste nazioni trovarono nel marxismo il miglior strumento intellettuale per spiegare la loro oppressione, per comprendere il processo storico di formazione della loro identità culturale e, infine, per elaborare un progetto di liberazione sia sociale sia nazionale. Il concetto di autonomia culturale nazionale fu dapprima creato dalle correnti marxiste all'interno delle nazionalità oppresse come gli Slavi (Federazione slava della socialdemocrazia austriaca), gli Ebrei (il Bund) e gli Armeni ("Specifisti"). I socialisti ucraini (Rosdolsky), boemi (Smeral), bulgari (Blagoev), romeni (Dobrogeanu-Gherea), georgiani (Jordania), così come gli austro-slavi (Kristan) e i socialisti russi ebrei (Medem, Borokhov) utilizzarono il marxismo per analizzare le loro differenti realtà nazionali. La teoria dei "popoli senza storia" pareva loro totalmente sbagliata e inutilizzabile, ma ciò non era una ragione sufficiente per abbandonare il complesso della teoria marxista sulla questione nazionale. Tra le de guerre, i marxisti spagnoli che contribuirono maggiormente allo sviluppo dell'analisi teorica sulla questione nazionale furono Andreu Nin, un catalano, e i fratelli Arenillas, due baschi. Se, dopo la morte di Engels, il dibattito sulla questione nazionale si è tanto sviluppato in seno al marxismo, soprattutto sotto l'influenza dei socialisti appartenenti a minoranze etniche e a nazioni oppresse, ciò significa che, su questo argomento, nei testi marxisti classici esistevano alcuni seri limiti che non permettevano di "risolvere" la questione (ciò è perlomeno evidente), ma ugualmente che la teoria marxista era indispensabile per confrontare le sfide proposte dalla questione nazionale.

    6. Per concludere: se il concetto di nazione come elaborato da Marx ed Engels resta vago e incompleto, se la teoria di Engels sui popoli "non storici" è una metafora pseudostorica del tutto estranea al marxismo, cosa resta della loro riflessione sul problema nazionale? Cercheremo di rispondere a questa domanda sintetizzando gli apporti dell'atteggiamento marxista classico.
    Nel 1867, quando Marx ed Engels rivolsero di nuovo l'attenzione alla questione irlandese, individuarono un elemento teorico fondamentale: la divisione tra nazioni dominanti e nazioni oppresse. Essi consideravano la dominazione coloniale dell'Irlanda non solo come l'origine dell'oppressione del popolo irlandese, ma anche come la chiave per comprendere l'impotenza della classe operaia inglese, il proletariato più numeroso e meglio organizzato del mondo nella seconda metà del XIX secolo. Lo sciovinismo e i sentimenti di superiorità nazionale dei lavoratori inglesi verso gli irlandesi facevano il gioco della borghesia britannica, che sfruttava questo antagonismo per mantenere la dominazione in Irlanda e opprimere il proletariato inglese. Marx scriveva nel 1870: "In tutti i centri industriali e commerciali d'Inghilterra si ritrova oggi una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. Il lavoratore inglese ordinario odia il lavoratore irlandese in quanto concorrente causa di abbassamento del suo livello di vita. Di fronte al lavoratore irlandese, si sente egli stesso membro della nazione dominante e si trasforma così in strumento degli aristocratici e dei capitalisti contro l'Irlanda, rinforzando di fatto la loro dominazione su lui stesso. Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese, nonostante la sua organizzazione. È il segreto grazie al quale la classe capitalista fonda il suo potere e di cui è del tutto cosciente".
    Marx formulava dunque due concetti che diventeranno la base della teoria di Lenin sull'autodeterminazione nazionale: 1° la nazione che ne opprime un'altra non può essere considerata come libera (Engels riteneva che per un popolo dominarne un altro fosse una "disgrazia"); 2° la liberazione delle nazioni oppresse è una delle condizioni della rivoluzione socialista all'interno della nazione dominante.
    Oggi, questo approccio conserva tutta la sua importanza e validità, e costituisce una premessa assolutamente necessaria per lo sviluppo e l'arricchimento del pensiero marxista. Questo approccio metodologico non è segnato né dal determinismo storico né dall'eurocentrismo ma fornisce semplicemente una bussola indispensabile per chi crede nell'internazionalismo. Non possiamo considerarci marxisti senza sostenere in Francia il diritto all'autodeterminazione dei Kanaki della Nuova Caledonia, in Israele quello dei Palestinesi, in ex-Jugoslavia quello degli Albanesi del Kosovo, in Iran, Irak, Siria e Turchia quello dei Kurdi. Se Ephraim Nimni condivide il nostro pensiero * come speriamo * su questa conclusione, deve allora riconoscere che è possibile criticare l'approccio di Marx ed Engels sulla questione nazionale senza peraltro rigettare in blocco il marxismo.


    Tratto da PATRIES OU PLANÈTE? Di Michael Löwy, 1997, Editions Page Deux, 1997 (da una traduzione in francese di Matthieu Leimgruber)



    ARDITI NON GENDARMI

  6. #16
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    OMNIA SUNT COMMUNIA


    IL COMUNISMO E LA QUESTIONE NAZIONALE

    Le discussioni sul metodo del proletariato rivoluzionario e comunista si aggirano spesso intorno alla questione dei "principi" e di un preteso dualismo tra questi e l'azione, tra la teoria e la pratica. Non è frequente che si riesca ad intendersi con chiarezza in questa materia; eppure senza intendersi su questo ogni sviluppo di critica e di polemica diviene sterile confusione.
    L'opportunismo vecchio e nuovo, spostando la portata della tesi marxista che condanna e sgombra tutte le idee innate ed eterne che pretendono essere la base della condotta umana, parla spesso di una azione da condursi al di fuori di ogni premessa che possa limitarla e impacciarla, di una politica senza principi fissi. Il revisionismo classico di Bernstein, che abilmente sovrapponevasi al movimento proletario simulando di aver lasciata in piedi la dottrina rivoluzionaria di Marx, proclamava: il fine è nulla, il movimento è tutto. Dire che il fine è nulla, lo vedremo subito, significa che si può fare a meno dei principi: perché i principi, per il comunismo marxista, non sono che fini, ossia punti di arrivo dell'azione... E non sembri paradossale la contrapposizione dei due termini.
    Tolta di mezzo la visione di una vasta finalità, e lasciata in soffitta la dottrina del movimento, il riformismo opportunista parla solo di problemi attuali da risolvere volta per volta, in modo empirico, per l'immediato avvenire.
    Ma, si poteva chiedere, e si può chiedere alle forme di questa falsificazione che non ha finito certo di rinnovarsi e ripresentarsi, quale sarà dunque, soppressa ogni regola e guida permanente, l'indice che consiglierà la scelta tra i vari modi di azione? Quale sarà il "soggetto" nell'interesse del quale l'azione stessa dovrà essere svolta? E l'opportunismo (che fa ed è piatto "operaismo", sostituito alla dottrina e alla prassi generale della rivoluzione proletaria) rispondeva di ispirare il suo compito quotidiano agli interessi operai, intendendo per ciò gli interessi, a volta a volta, di singoli gruppi e categorie di lavoratori e considerandone la soddisfazione più facile, prossima, a breve scadenza.
    Le soluzioni dei problemi d'azione non sono così più ispirate all'insieme del moto proletario e del suo cammino storico ma volta per volta escogitate limitatamente a piccole porzioni della classe operaia, e a minime tappe del suo cammino. Così agendo, il revisionismo si libera da ogni legame ai principi, e, nelle sue forme più o meno spinte, vanta tuttavia di essere nel vero spirito del marxismo, che consisterebbe nella più ampia spregiudicatezza ed ecletticità di movimento.
    La lotta contro queste deviazioni assume ed assumerà aspetti importantissimi nello svolgersi del movimento proletario, attraverso le sue complesse esperienze. Quel modo di presentare e sciogliere le questioni è stato molte volte criticato e diffidato; tuttavia esso troverà forme più subdole per ritentare di imbevere di sé l'azione del proletariato. Non n'esporremo qui la confutazione in generale, ma solo in riguardo ad un problema particolare, il che rende anche la posizione nostra più intelligibile.
    Parecchie volte, dalla parte nostra, dalla sinistra marxista, è stato svelato il trucco volgare dell'opportunismo. La sua pretesa avversione ai principi, ai dogmi, come cretinamente si diceva, si riduceva semplicemente ad un'osservanza ostinata e cieca di principi propri dell'ideologia borghese e controrivoluzionaria. I positivi, i pratici, gli spregiudicati del movimento proletario, si rivelavano nel momento supremo come i più bigotti fautori di idee borghesi, a cui pretendevano di subordinare il movimento proletario, ed ogni interesse dei lavoratori.
    La critica teoretica che pone in rilievo questo fatto caratteristico, procede parallelamente allo smascheramento politico dell'opportunismo socialista come di una forma d'azione borghese, e dei suoi capi come d'agenti del capitalismo nelle file del proletariato.
    All'inizio della guerra mondiale, il fallimento clamoroso dell'Internazionale opportunista difese se stesso teoricamente con argomenti che, nel campo della teoria come della propaganda socialista, apparivano come sorprese, come inattese rivelazioni, come "scoperte" sensazionali. Quelli che avevano contestato al socialismo di avere dei principi dottrinali e programmatici, affermavano all'improvviso che il socialismo non conservava neppure quest'originalità, di essere il movimento senza principi, ma si doveva subordinare all'incondizionato riconoscimento di certe tesi, fino allora mai esplicitamente proclamate, anzi sempre considerate come estranee al pensiero socialista, e oggetto da parte di esso di una demolizione polemica definitiva. Il socialismo si riduceva ad una "sottoscuola" del movimento della sinistra borghese, si affiliava all'ideologia della cosiddetta democrazia, presentata tutt'ad un tratto non come la considera il marxismo nelle sue più elementari affermazioni, ossia come la dottrina politica appropriata agli interessi di classe borghesi, ma come qualcosa di più avanzato e progredito rispetto alla dominante politica capitalistica. I traditori della Internazionale "scoprirono" allora dei principi che ci buttarono tra le gambe, e dai quali pretesero che l'azione del proletariato fosse ineluttabilmente pregiudicata e determinata; ai quali affermarono che tutti gli interessi immediati, anche dei singoli gruppi che loro tanto stavano a cuore, dovessero inesorabilmente sacrificarsi. Tre di questi principi furono soprattutto sbandierati: il principio della libertà democratica, quello della guerra difensiva, quello di nazionalità.
    Ad arte fino allora gli opportunisti avevano simulato un'ortodossia teorica parlando sempre alle masse di lotta di classe, di socializzazione dei mezzi di produzione, di abolizione dello sfruttamento del lavoro: perché la scoperta improvvisa dei nuovi principi doveva servire a sorprendere il proletariato e a sconvolgere la coscienza di classe e la ideologia rivoluzionaria, sabotando la possibilità di una sua mobilitazione ideale in senso classista, come, corrispondentemente, il passaggio aperto delle cariche dirigenti delle grandi organizzazioni operaie ad una alleanza colla borghesia, doveva togliere di colpo ogni piattaforma di riordinamento e di collegamento ad una azione socialista della classe operaia mondiale.
    Allora si apprese (e ben pochi seppero, meno ancora poterono, tra i militanti socialisti, esprimere la loro indignazione e la loro protesta) che il proletariato socialista doveva fare a meno dei principi fino a che erano i principi della dottrina classista, ma doveva inchinarsi ad essi come a cosa sacra, quando si trattava dei principi della ideologia borghese, di quelle idee fondamentali nella religione delle quali le classi dominanti tendono a trasformare la prevalenza dei loro interessi: il tradimento al contenuto della critica marxista non poteva essere più spudorato...
    Per dare una piccola idea di come si andasse oltre in questa sfacciata sovrapposizione di elementi estranei e antitetici alle più ovvie formulazioni della dottrina socialista, citeremo un esempio solo. Da parte nostra fu naturalmente invocato il passo notissimo del Manifesto dei Comunisti, secondo il quale il proletariato non ha patria, e può considerarsi costituito in nazione, in senso ben diverso da quello borghese, solo quando si sia conquistato il dominio politico. Ebbene, uno dei propagandisti più noti del partito socialista, il "tecnico", addirittura, della propaganda nel vecchio partito, cioè il Paoloni, rispose sostenendo questo: che la condizione dell'aver conquistato il dominio politico consisteva nella conquista del... suffragio democratico: e laddove il proletariato godeva del diritto elettorale, quivi esso aveva una patria e dei doveri nazionali! Questa tesi, che non si commenta neppure, dimostra come coloro cui si affidava nella Seconda Internazionale la propaganda del marxismo, o erano incredibilmente bestie o incredibilmente sfrontati.
    Da queste pagine è stata e sarà ancora meglio esposta la critica marxista al "principio" borghese di democrazia e di libertà. Noi non prendiamo sul serio la filosofia liberale borghese e il suo egualitarismo giuridico. Alla sua demolizione teorica si accompagna, nel concetto comunista, un programma politico del proletariato che liquida ogni illusione sulla possibilità di applicare metodi liberali e libertarii per la finalità rivoluzionaria: la soppressione della divisione della società in classi. Il preteso diritto uguale di tutti i cittadini nello Stato borghese non è che la traduzione del principio economico della "libera concorrenza" e della parità, sul mercato, dei venditori e compratori di mercanzie: questo livellamento significa solo la consolidazione delle condizioni più opportune perché lo sfruttamento e la oppressione capitalistica si instaurino e si conservino.
    In diretto rapporto con questa critica, fondamentale per il pensiero socialista, sta la dimostrazione che l'invocare, come guida della politica proletaria e socialista dinanzi alla guerra, il grado di maggiore o minore "libertà democratica" raggiunto dai paesi in conflitto, significa rimettersi puramente a criteri borghesi e antiproletari: non insisteremo quindi sul primo dei tre principi suaccennati.
    Gli altri due principi stanno in dipendenza dello stesso travisamento teoretico: il parlare di guerre giuste ed ingiuste, a seconda che siano d'aggressione o di difesa, oppure che abbiano l'obbiettivo di dare alle popolazioni il governo che si dice desiderio in maggioranza, presuppone la credenza in un principio di democrazia instaurato nelle relazioni tra gli Stati, così come in quelle tra gli individui.
    Tali principi sono quelli che la borghesia bandisce allo scopo preciso di creare nelle masse popolari un'ideologia favorevole al suo dominio, di cui non può confessare le determinanti spietatamente egoistiche. Mentre per la vita interna dello Stato capitalistico moderno la democrazia elettiva corrisponde di fatto ad una sanzione giuridica e a una norma costituzionale, pur non costituendo, dal nostro punto di vista, nessuna garanzia effettiva per il proletariato che nei momenti decisivi della lotta di classe [non] si troverà contro la macchina armata dello Stato, nei rapporti internazionali nemmeno esistono delle sanzioni e delle convenzioni che rispondano ad una applicazione formale di quei principi che dalla teoria democratica derivano.
    Per il regime capitalistico l'instaurazione della democrazia nello Stato fu una necessità inerente al suo sviluppo; non sarà altrettanto di nessuna delle formule dedotte dalla teoria democratica per i rapporti internazionali, e bandite dagli ideologi fautori della pace universale basata sull'arbitrato, della sistemazione delle frontiere secondo la nazionalità, e così via. Apparentemente è questo un argomento che si presta al gioco degli opportunisti, che mostrano i ceti capitalistici come avversi a queste rivendicazioni politiche che essi, traendoli da teoriche puramente borghesi, vogliono accreditare nel proletariato. Ma l'argomento si ritorce più volte contro di costoro.
    Infatti, è assurdo credere che uno Stato borghese modifichi la sua politica internazionale per il solo fatto che il proletariato socialista, disarmato in nome della "unione sacra" ogni sua opposizione e indipendenza, gli lasci le mani ancora più libere per agire secondo il suo interesse di conservazione. In secondo luogo il gioco criminale dei social-traditori si dimostra più ancora spudorato: essi hanno contrapposto al preteso "utopismo" dei programmi rivoluzionari la necessità di porsi finalità immediate e toccabili con mano, di aderire alle possibilità reali; ad improvviso essi tirano in campo, per subordinarvi l'indirizzo del movimento proletario, scopi i quali, oltre a non essere di natura classista e socialista, si dimostrano del tutto irreali e illusori; accreditano idee che la borghesia non applicherà mai, ma alle quali le interessa che le masse proletarie prestino fede. La politica dunque degli opportunisti non mira a spingere innanzi, sia pure a piccoli passi, il divenire effettivo e pratico delle situazioni, ma si rivela come la mobilitazione ideologica delle masse nell'interesse borghese e controrivoluzionario, e null'altro.
    Per quanto riguarda il principio di nazionalità, non è difficile mostrare che esso non è mai stato altro che una frase per l'agitazione delle masse, e, nell'ipotesi migliore, un'illusione di alcuni strati intellettuali piccolo borghesi. Se per lo sviluppo del capitalismo fu una necessità il formarsi delle grandi unità statali, nessuna però di esse si costituì colla osservanza del famoso principio nazionale, molto difficile del resto a definire in concreto. Uno scrittore non certo rivoluzionario, Vilfredo Pareto, in un suo articolo del 1918 (ripubblicato nella raccolta "Uomini e Idee", editore Vallecchi, Firenze, 1920) fa la critica del "supposto principio di nazionalità" e dimostra come non se ne possa trovare una definizione soddisfacente, e come dei molti criteri che sembrano poter servire a precisarlo (etnico, linguistico, religioso, storico, etc.) nessuno è esauriente, e tutti poi si contraddicono tra loro nei risultati a cui menano. Il Pareto fa anche la ovvia osservazione, tante volte da noi avanzata nelle polemiche dell'epoca della guerra, che non certo i plebisciti sono un mezzo sicuro per indicare la soluzione dei problemi nazionali, dovendosi preventivamente stabilire i limiti del territorio a cui estendere la votazione maggioritaria, e la natura dei poteri che la organizzano e controllano: chiudendosi così in un circolo vizioso...
    Non abbiamo bisogno di riportare qui tutto il contenuto delle polemiche di nove anni addietro. Facile fu allora a noi internazionalisti dimostrare come i famosi principi invocati dai socialguerraiuoli si prestassero ad applicazioni del tutto contraddittorie. Ogni Stato può in guerra trovar modo di invocare una situazione di difensiva: l'aggressore può essere colui il cui territorio verrà "calpestato dall'invasore straniero"; in ogni caso ad analoghe conseguenze condurrebbe un atteggiamento rivoluzionario del movimento socialista sia in caso di offensiva che di difensiva militare, potendo esso bastare a convertire la prima nella seconda. Quanto alle questioni nazionali e d'irredentismo, esse sono così numerose e complesse da poter essere adoperate a giustificare ben altri schieramenti d'alleanze che quelli della guerra mondiale.
    I famosi principi enumerati si contraddicevano poi singolarmente tra loro nell'applicazione. Chiedevamo noi ai socialpatrioti se essi riconoscessero a un popolo più democratico il diritto di attaccarne e assoggettarne uno meno democratico; se per la liberazione di regioni irredente potesse ammettersi l'aggressione militare, e così via.
    E queste contraddizioni logiche si traducevano nella possibilità di giustificare, una volta accettate quelle tesi fallaci, l'adesione socialista a qualsiasi guerra, come infatti avvenne, che con gli stessi argomenti si sostenne la tattica di socialtradimento in tutti i paesi, trovatisi nelle più disparate condizioni, e si trascinarono gli uni contro gli altri i lavoratori dalle due parti del fronte di guerra.
    Egualmente facile ci fu la previsione che i governi borghesi vincitori, quali che essi fossero, non si sarebbero sognati di applicare, nella pace, quei criteri nei quali erano contenuti, secondo i socialnazionali, non solo la motivazione dell'adesione proletaria alla guerra, ma la garanzia che la guerra avrebbe condotto a quegli sbocchi, che vennero presentati ai lavoratori ingannati dai loro indegni condottieri.
    Non è dunque materia nuova quella della critica alle deviazioni socialnazionaliste e della loro confutazione: meno ovvia si presenta, e si presentava soprattutto al momento della fondazione della Terza Internazionale, la soluzione positiva da apportare alla questione nazionale dal punto di vista comunista. Il problema non può dirsi fosse liquidato colle tesi del secondo congresso (1920) tanto che anche il prossimo V Congresso se ne dovrà occupare.
    È chiaro che l'Internazionale Comunista non va a prendere a prestito teoriche e formule borghesi e piccolo-borghesi per la soluzione dei problemi del suo atteggiamento politico e tattico. L'Internazionale Comunista ha restaurato i valori rivoluzionari della dottrina e del metodo marxista, inspirando ad essi il suo programma e la sua tattica.
    Qual è la via per arrivare, su tali basi, alla soluzione di problemi come, ad esempio, quello nazionale? Questo vogliamo ricordare, nelle linee più elementari. I revisionisti parlavano di un esame condotto volta per volta sulle situazioni contingenti, ed esente da preoccupazioni di principi e di finalità generali. Da questo essi giungevano a conclusioni puramente borghesi, non attenendosi neppure nel giudizio sulle situazioni a criteri marxisti, che ponessero in rilievo il gioco dei fattori economico-sociali, e del contrasto degli interessi di classe. Si potrebbe dire che la giusta linea comunista è di assicurarsi nella analisi delle situazioni una stretta fedeltà a quel metodo marxista di critica dei fatti, e da questo venire liberamente alle conclusioni, senza tampoco aver bisogno di limitarle con idee preconcette. Ma secondo noi una tale risposta conserva in sé tutti i pericoli dell'opportunismo, per la sua troppa indeterminazione. Da un altro lato si potrebbe invece dire che noi, ad un esame più marxista e classista delle date contingenze, dobbiamo aggiungere l'osservanza di principi e di formule generali ottenuti con un capovolgimento quasi meccanico delle formule borghesi: noi ammettiamo volentieri che in questo si pecca per troppo semplicismo e per un radicalismo sbagliato. Certe formule semplici sono indispensabili per l'agitazione e la propaganda del nostro partito, ed esse contengono in ogni caso minori pericoli che l'eccessiva elasticità e spregiudicatezza. Ma quelle formule devono essere i punti di arrivo e i risultati, non i punti di partenza di un esame delle questioni, quale di quando in quando, il partito deve affrontare nei suoi organi supremi di critica e di deliberazione, per porre le conclusioni a disposizione della massa dei militanti in termini chiari ed espliciti. Così si potrebbe dire, per fare un esempio, della formula "contro tutte le guerre", che in un importante periodo storico ottimamente distingue i veri rivoluzionari dagli opportunisti sottilizzanti su distinzioni tra guerra e guerra che conducono alla giustificazione della politica di ciascuna borghesia, ma che come enunciazione di dottrina è certo insufficiente, non fosse altro perché potrebbe, per il suo stesso radicalismo formale che capovolge grossolanamente l'attitudine opportunistica, andarsi ad affiliare ad un'altra attitudine ideologica borghese, al pacifismo di stile tolstoiano. Si cadrebbe così in contraddizione col nostro fondamentale postulato dell'impiego della violenza armata.
    La via marxisticamente esatta per la risposta a simili quesiti non è né l'una né l'altra delle due sommariamente accennate. Essa merita d'essere ancora più attentamente precisata dal partito del proletariato rivoluzionario, sebbene n'esistano già esempi brillantissimi, come per il mirabile edificio della critica marxistico-leninista alle dottrine democratiche borghesi e della definizione del nostro programma rispetto al problema dello Stato.
    Per indicare brevemente la soluzione che a noi pare migliore, diremo che è assolutamente da respingere la tesi secondo cui la politica marxista si contenta di un semplice esame delle successive situazioni (con un metodo, si intende, ben determinato) e non abbisogna di altri elementi. Quando noi avremo studiati i fattori di carattere economico e lo sviluppo dei contrasti di classe che si presentano nel campo di un dato problema, avremo fatto qualcosa di indispensabile ma non avremo ancora tenuto conto di tutto. Vi sono certi altri criteri di cui è necessario tener conto, che si possono chiamare "principi" rivoluzionari, se si chiarisce che tali principi non consistono in idee immanenti e aprioristiche fissate una volta per sempre in tavole che siano state "trovate" in qualche parte belle incise. Se si vuole si può rinunziare alla parola principi per parlare di postulati programmatici: si può sempre precisare meglio, anzi si deve farlo tenute anche presenti le necessità linguistiche di un movimento internazionale, la nostra terminologia.
    A questi criteri si giunge con una considerazione in cui sta tutta la forza rivoluzionaria del marxismo. Noi non possiamo né dobbiamo risolvere la questione, poniamo, dei dockers inglesi o dei lavoratori della Finlandia con i soli elementi tratti dallo studio, con metodo deterministico-storico, della situazione di quella categoria operaia o di questa nazione, nei limiti di spazio e di tempo che si pongono in modo immediato alle condizioni del problema. Vi è un interesse superiore che guida il nostro movimento rivoluzionario, col quale quegli interessi parziali non possono contrastare se si considera tutto lo svolgimento storico, ma la cui indicazione non sorge immediatamente dai singoli problemi concernenti gruppi del proletariato e dati momenti delle situazioni. Questo interesse generale è, in una parola, l'interesse della Rivoluzione Proletaria, ossia l'interesse del proletariato considerato come classe mondiale dotata di una unità di compito storico e tendente ad un obiettivo rivoluzionario, al rovesciamento dell'ordine borghese. Subordinatamente a questa suprema finalità noi possiamo e dobbiamo risolvere i singoli problemi.
    La maniera di coordinare le soluzioni singole a questa finalità generale si concreta in postulati acquisiti al partito, e che si presentano come i cardini del suo programma e dei suoi metodi tattici. Questi postulati non sono dogmi immutabili e rivelati, ma sono a loro volta la conclusione di un esame generale e sistematico della situazione di tutta la società umana del presente periodo storico, nel quale sia tenuto esatto conto di tutti i dati di fatto che cadono sotto la nostra esperienza. Noi non neghiamo che quest'esame sia in continuo sviluppo e che le conclusioni si rielaborino sempre meglio, ma è certo che noi non potremmo esistere come partito mondiale se l'esperienza storica che già il proletariato possiede non permettesse alla nostra critica di costruire un programma ed un insieme di regole di condotta politica.
    Non esisteremmo, senza di questo, né noi come partito, né il proletariato come classe storica in possesso di una coscienza dottrinale e di un'organizzazione di lotta. Ove si presentano delle lacune nelle nostre conclusioni, e ove si prevedono revisioni parziali avvenire, sarebbe errore supplire con la rinunzia alla definizione dei postulati o principi, che appaiono certo come una "limitazione" delle azioni che ci potranno essere suggerite dalle successive situazioni e nei vari paesi. Errore infinitamente minore sarebbe rimediare con un completamento anche un poco arbitrario delle nostre formule conclusive, perché la chiarezza e precisione, nello stesso tempo che il massimo possibile di continuità, di tali formule d'agitazione e d'azione, sono una condizione indispensabile del rafforzarsi del movimento rivoluzionario. A quest'affermazione, che potrà parere un poco arrischiata, noi aggiungiamo, senza volerci oltre trattenere sulla grave questione che a molti sembrerà eccessivamente astratta, che ci pare che i dati che ci fornisce la storia della lotta di classe fino alla grande guerra e alla rivoluzione russa consentano al partito comunista mondiale di riempire tutte le lacune con soluzioni soddisfacenti: il che non vuole dire certamente che nulla avremo da imparare dall'avvenire, e dalla continua riprova delle nostre conclusioni nell'applicazione politica delle medesime. Il rifiutarsi a "codificare" senza altro indugio il programma e le regole di tattica e d'organizzazione dell'Internazionale non potrebbe per noi avere oggi altro senso che quello di un pericolo di natura opportunista, per cui la nostra azione correrebbe il rischio domani di riandarsi a rifugiare sotto principi e regole borghesi, questi sì completamente errati e rovinosi per la "libertà" della nostra azione.
    Concludiamo che gli elementi di una soluzione marxista dei problemi del nostro movimento sono: l'insieme di conclusioni comprese nella nostra visione generale del processo storico, indirizzata alla realizzazione del finale e generale successo rivoluzionario, [e lo] studio marxista dei fatti che cadono sotto il proprio esame.
    Quell'insieme di conclusioni è dialetticamente figlio di un esame dei fatti, ma dall'esame di tutti i fatti storico-sociali finora a noi accessibili: esso per il partito rivoluzionario, presenta, non un carattere dogmatico, ma un elevato grado di "permanenza" storica, che ci distingue da tutti gli opportunisti, e che, in termini più banali, è anche rappresentato da quella nostra coerenza dottrinale e tattica, perfino monotona se si vuole, che vale a distinguerci dai traditori e dai rinnegati della causa rivoluzionaria.
    Della questione nazionale diciamo ora più che altro a titolo d'esemplificazione del metodo accennato. L'esame di essa e la descrizione dei fatti in cui si compendia sono contenuti nelle tesi del secondo congresso, che giustamente si riportano alla valutazione generale della situazione del capitalismo mondiale, e della fase imperialistica che esso attraversa.
    Questo insieme di fatti va esaminato tenendo presente il bilancio generale della lotta rivoluzionaria. Un fatto fondamentale è quello che il proletariato mondiale possiede ormai una cittadella nel primo Stato operaio, la Russia, oltre che il suo esercito nei partiti comunisti di tutti i paesi. Il capitalismo ha le sue fortificazioni nei grandi Stati e soprattutto in quelli vincitori della guerra mondiale, un piccolo gruppo dei quali controlla la politica mondiale. Questi Stati lottano contro le conseguenze del dissesto generale prodotto nell'economia borghese dalla grande guerra imperialistica, e contro le forze rivoluzionarie che mirano ad abbatterne il potere.
    Una delle più importanti risorse controrivoluzionarie di cui dispongono i grandi Stati borghesi nella lotta contro il di squilibrio generale della produzione capitalistica, è la loro influenza su due gruppi di paesi: da una parte le loro colonie d'oltremare, dall'altra i piccoli paesi ad economia arretrata di razza bianca. La grande guerra, presentata come il movimento storico sboccante nella emancipazione dei piccoli popoli e nella liberazione delle minoranze nazionali, ha clamorosamente smentita questa ideologia, in cui credettero o finsero di credere i socialisti della II Internazionale, assoggettando alle grandi potenze tutti i piccoli paesi. I nuovi Stati sorti nell'Europa centrale non sono che vassalli o della Francia o dell'Inghilterra, mentre Stati Uniti e Giappone consolidano sempre più una loro egemonia sui paesi meno potenti dei continenti rispettivi.
    È indubbio che la resistenza alla rivoluzione proletaria è concentrata nel potere dei pochi grandi Stati capitalistici; abbattuto questo, tutto il resto crollerebbe dinanzi al proletariato vincitore. Se nelle colonie e nei paesi arretrati vi sono movimenti sociali e politici diretti contro i grandi Stati e nei quali sono coinvolti ceti e partiti borghesi e semiborghesi, è certo che il successo di questi movimenti, dal punto di vista dello sviluppo della situazione mondiale, è un fattore rivoluzionario, in quanto contribuisce alla caduta delle principali fortezze del capitalismo, mentre ove alle borghesie dei grandi Stati potesse sopravvivere un potere borghese nei piccoli paesi, questo sarebbe travolto successivamente dalla potenza del proletariato dei paesi più progrediti, anche se localmente il movimento proletario e comunista appare iniziale e debole.
    Uno sviluppo parallelo e simultaneo della forza proletaria e dei rapporti di classe e di partito in ogni paese non è affatto un criterio rivoluzionario, ma si riporta alla concezione opportunista sulla pretesa simultaneità della rivoluzione, in nome della quale si negava persino alla rivoluzione russa il carattere proletario. I comunisti non credono affatto che lo sviluppo della lotta in ogni paese debba seguire lo stesso schema, essi si rendono conto delle differenze che si presentano nel considerare i problemi nazionali e coloniali, solo essi coordinano la soluzione all'interesse del movimento unico di abbattimento del capitalismo mondiale.
    La tesi politica dell'Internazionale comunista, per la guida da parte del proletariato comunista mondiale e del suo primo Stato, del movimento di ribellione delle colonie e dei piccoli popoli contro le metropoli del capitalismo, appare dunque come il risultato di un vasto esame della situazione e di una valutazione del processo rivoluzionario ben conforme al programma nostro marxista. Essa si pone ben al di fuori della tesi opportunista borghese, secondo cui i problemi nazionali devono essere risolti "pregiudizialmente" prima che si possa parlare di lotta di classe, e per conseguenza il principio nazionale vale a giustificare la collaborazione di classe, sia nei paesi arretrati, sia in quelli di capitalismo avanzato, quando si pretende posta in pericolo l'integrità e libertà nazionale. Il metodo comunista non dice banalmente: i comunisti devono agire in senso opposto, ovunque e sempre, alla tendenza nazionale: il che non significherebbe nulla e sarebbe la negazione "metafisica" del criterio borghese. Il metodo comunista si contrappone a questo "dialetticamente", ossia parte dai fattori classisti per giudicare e risolvere il problema nazionale. L'appoggio ai movimenti coloniali, ad esempio, ha tanto poco sapore di collaborazione di classe, che, mentre si raccomanda lo sviluppo autonomo e indipendente del partito comunista nelle colonie, perché sia pronto a superare i suoi momentanei alleati, con un'opera indipendente di formazione ideologica e organizzativa, si chiede l'appoggio ai movimenti di ribellione coloniale soprattutto ai partiti comunisti delle metropoli. E tale tattica ha tanto poco sapore collaborazionista, da essere chiamata dalla borghesia azione antinazionale, disfattista, di alto tradimento.
    La tesi 9 dice che senza tali condizioni la lotta contro l'oppressione coloniale e nazionale resta una insegna menzognera come per la II Internazionale, e la tesi 11, comma e), ribadisce che «è necessaria una lotta recisa contro il tentativo di coprire di una veste comunista il movimento rivoluzionario irredentista, non realmente comunista, dei paesi arretrati». Questo vale a suffragare la fedeltà della nostra interpretazione.
    La necessità di spostare l'equilibrio delle colonie, risulta da un esame strettamente marxista della situazione del capitalismo, in quanto l'oppressione e lo sfruttamento dei lavoratori di colore diviene un mezzo per incrudelire lo sfruttamento del proletariato indigeno, della metropoli. Qui risalta ancora la radicale differenza tra il criterio nostro e quello dei riformisti. Questi, infatti, tentano di dimostrare che le colonie sono una fonte di ricchezze anche per i lavoratori della metropoli, coll'offrire uno sbocco ai prodotti, e traggono da questo altri motivi per la collaborazione di classe sostenendo in molti casi a faccia fresca che lo stesso loro principio di nazionalità può essere violato per l'interesse della "diffusione della civiltà" borghese e per accelerare l'evoluzione delle condizioni del capitalismo. Ed è qui un alto saggio di travisamento reazionario del marxismo, che si riduce ad accordare al capitalismo sempre più lunghe proroghe al momento della sua fine e dell'attacco rivoluzionario, col attribuirgli ancora un lungo compito storico, che noi gli contestiamo.
    I comunisti utilizzano le forze che mirano a rompere il patronato dei grandi Stati sui paesi arretrati e coloniali, perché ritengono possibile rovesciare queste fortezze della borghesia e affidare al proletariato socialista dei paesi più avanzati il compito storico di condurre con ritmo accelerato il processo di modernizzazione della economia dei paesi arretrati, non sfruttandoli, ma sospingendo la emancipazione dei lavoratori locali dallo sfruttamento estero ed interno.
    Questa nelle grandi linee la giusta posizione della I.C. nel problema di cui ci occupiamo. Ma importa molto vedere chiaramente la via per la quale si giunge a tali conclusioni, per evitare che si voglia riannodarle al superato frasario borghese sulla libertà nazionale e l'eguaglianza nazionale, ben denunziato nella prima delle tesi citate come un derivato del concetto capitalistico sulla eguaglianza dei cittadini di tutte le classi. Perché in queste nuove (in un certo senso) conclusioni del marxismo rivoluzionario, talvolta si affaccia il pericolo di esagerazioni e deviazioni.
    Per restare sul terreno degli esempi, noi neghiamo che sia giustificabile sulle basi accennate il criterio di un avvicinamento in Germania tra il movimento comunista e il movimento nazionalista e patriottico.
    La pressione esercitata sulla Germania dagli Stati dell'Intesa anche nelle forme acute e vessatorie che ha preso ultimamente, non è elemento tale che si possa far considerare la Germania alla stregua di un piccolo paese di capitalismo arretrato. La Germania resta un grandissimo paese formidabilmente attrezzato in senso capitalistico e in cui il proletariato socialmente e politicamente è più che avanzato. Impossibile è a dunque la confusione colle condizioni effettive prima considerate. Ci basti questo a risparmiarci un ampio esame della grave questione, che potrà farsi altra volta in modo non sommario.
    Né basta a spostare la nostra valutazione il fatto che in Germania lo schieramento delle forze politiche si presenta in modo che la grande borghesia non ha una accentuata attitudine nazionalista, ma tende ad allearsi colle borghesie della Intesa a spese del proletariato tedesco e per una azione controrivoluzionaria; mentre il movimento nazionalista è alimentato da strati piccolo borghesi malcontenti e tartassati anch'essi economicamente dal prepararsi di questa soluzione. Il problema della rivoluzione instaurata a Berlino non può vedersi se non riferendolo, da una parte, e questo è confortante, a Mosca, ma dall'altra parte a Parigi e Londra. Le forze fondamentali su cui noi dobbiamo contare per controbattere l'intesa capitalistica tra Germania ed alleati sono, non solo lo Stato soviettista, ma anche, in prima linea, l'alleanza del proletariato tedesco con quello dei paesi di occidente. Questo è un fattore così importante per lo sviluppo rivoluzionario mondiale, che è un errore gravissimo comprometterlo, in un momento difficile per l'azione rivoluzionaria in Francia e Inghilterra, col fare, anche in parte, della questione della rivoluzione tedesca una questione di liberazione nazionale, sia pure su un piano che esclude la collaborazione colla grande borghesia. La stessa sproporzione di maturità tra il partito comunista tedesco e quelli di Francia e d'Inghilterra sconsiglia questa errata posizione, per cui all'antipatriottismo della grande borghesia germanica si vorrebbe contrapporre un programma nazionalista della rivoluzione proletaria. L'aiuto della piccola borghesia tedesca (che è certo bene utilizzare con altra tattica che questa del "bolscevismo nazionale" e guardando alla situazione economica rovinosa dei ceti intermedi) sarebbe annullato completamente in una situazione in cui Parigi e Londra si sentissero internamente le mani libere per agire oltre le frontiere tedesche: il che può essere impedito solo dalla impostazione Internazionalista del problema rivoluzionario tedesco. Caso mai è in Francia che ci dobbiamo più preoccupare dell'attitudine dei ceti piccoli borghesi, che uno acutizzarsi del nazionalismo tedesco rimetterà alla mercè delle locali borghesie: mentre qualcosa d'analogo può dirsi per l'Inghilterra ove il laburismo si mostra così sfacciatamente nazionalista, ora che è al governo, per conto e interesse della borghesia britannica.
    Ecco come il dimenticare l'origine di principio delle soluzioni politiche comuniste può portare ad applicarle laddove mancano le condizioni che le hanno suggerite, sotto il pretesto che ogni più complicato espediente sia sempre utilmente adoperabile. Non può non considerarsi come un fenomeno che ha certe analogie colle imprese del social-nazionalismo, il fatto che il compagno Radek, per sostenere in una riunione Internazionale la tattica da lui caldeggiata, "scoprì" che il gesto del nazionalista sacrificatosi nella lotta contro i francesi della Ruhr deve essere dai comunisti esaltato in nome del principio (nuovo per noi e inaudito), che al disopra dei partiti si debba sostenere chiunque si sacrifica per la sua idea.
    Un deplorevole rimpicciolimento è quello che riduce il compito del grande proletariato di Germania a una emancipazione nazionale: quando noi attendiamo da questo proletario e dal suo partito rivoluzionario che esso riesca a vincere non per sé, ma per salvare la esistenza e la evoluzione economica socialista della Russia dei Soviet, e per rovesciare contro le fortezze capitaliste di occidente la fiumana della Rivoluzione mondiale, destando i lavoratori degli altri paesi per un momento immobilizzati dagli ultimi conati controffensivi della reazione borghese.
    I disquilibri nazionali tra i grandi Stati progrediti sono un fattore da noi studiato ed esaminato quanto ogni altro: all'opposto dei socialnazionali noi escludiamo recisamente che essi possano risolversi per altra via che la guerra di classe contro tutti i grandi Stati borghesi: e le sopravvivenze patriottiche e nazionaliste in questo campo sono da noi considerate come manifestazioni reazionarie che non possono avere alcuna presa sui partiti rivoluzionari del proletariato, chiamati in questi paesi ad una eredità ricca di possibilità genuinamente e squisitamente comuniste, a un compito di avanzatissima avanguardia nella Rivoluzione mondiale.

    Da "Prometeo" del 15 aprile 1924.


    ARDITI NON GENDARMI

  7. #17
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    Questo passaggio bisognerebbe farlo leggere ad alta voce ai fassssisti polliani

    Che cos'è una nazione? Parte IV
    I. – La razza, dicono molti con sicurezzaLa verità è che non esiste la razza pura e che far appoggiare la politica sull’analisi etnografica, vuol dire farla poggiare su una chimera. I più nobili paesi, l’Inghilterra, la Francia, l’Italia, sono quelli in cui il sangue è più mescolato. La Germania fa su questo punto un’illusione? E’ un paese germanico puro? Che illusione! Tutto il Sud è gallico. Tutto l’Est, a partire dell’Elba, è slavo. E le altre parti che si pretendono realmente pure lo sono effettivamente? Noi tocchiamo qui uno dei problemi sui quali è più importante farsi delle idee chiare e di provenire i malintesi.
    Appena riesco, mi leggo anche i testi relativi a Marx/Engels.

    Mi sono permesso di rendere il testo di Ernest Renan, in versione facilmente stampabile.

    Ecco qui

    Ernest Renan - Che cos'è una Nazione?

    http://img170.imageshack.us/img170/5...sunanazsx6.png
    http://img297.imageshack.us/img297/1...sunanazgl6.png
    http://img297.imageshack.us/img297/4...sunanazoa3.png
    http://img168.imageshack.us/img168/4...sunanazik4.png
    http://img168.imageshack.us/img168/7...sunanazqs9.png
    http://img186.imageshack.us/img186/7...sunanazgw8.png
    http://img297.imageshack.us/img297/2...sunanazhr3.png
    http://img297.imageshack.us/img297/1...sunanazvv0.png
    http://img167.imageshack.us/img167/2...sunanazob6.png
    http://img297.imageshack.us/img297/1...sunanazts5.png
    http://img297.imageshack.us/img297/7...sunanazvl0.png

  8. #18
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    Ospite

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    Se interessa, posso fare la stessa cosa con gli articoli di Muntzer.


    p.s.: se qualcuno è interessato, sto raccogliendo testi di scrittori marxisti in formato .pdf per poi crearne un file zippato, in modo tale da avere un database il più possibile completo. Chi è dei miei, mi contatti in pivvittì.

  9. #19
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    discussione molto ben impostata.
    Dai passi citati da sandokan si possono trarre davvero ottimi spunti. Anche gli articoli riportati da Muntzer offrono una buona visione dle dibattito storico. Complimenti per le fonti ricchissime.

    Per quanto mi riguarda, l'impostazione deve procedere proprio da una definzione di nazione che equilibri l'elemento culturale e linguistico, quello della volontà aggregativa manifesta, e quello della statualità storica costituita senza oppressione dunque produttrice a sua volta di complessità identitaria e fusione tra etnie.

    Peraltro attenendomi alla parola nazione, ritengo anche doveroso distinguere nazione da nazionalità.
    Una nazione politica ( che non è mero stato inteso come apparato di potere, ma aggregazione volontaria di uomini uniti da un patto civico e storico) può includere nazionalità diverse.
    C' è chi chiama questa aggregazione stato multinazionale; a mio avviso può essere anche chiamata nazione costituita da una pluralità di nazionalità ( intese queste ultime come gruppi linguistici-culturali autocoscienti).
    La differenza tra la denominazione classica ( stato multinazionale) e la mia ( nazione con pluralità di nazionalità) sta nel fatto che la parola stato senza nazione indica un mero accorpamento burocratico e poliziesco, mentre uno stato-nazione misura l'interazione tra mera amministrazione statale e volontà civica con comunanza di intenti.
    Ad esempio la Francia è uno Stato-nazione al cui interno convivono nazionalità storiche ( in primis i Corsi, ma anche i Bretoni e i Provenzali).
    L'Italia è uno Stato-nazione, al cui interno troviamo nazionalità come la ladina, la carnica, la sarda, la tedesca, tuttavia con un vincolo di solidairetà nazionale politica piuttosto saldo nell'attuale momento storico ( posto che vi possono essere stralegittimi gruppi indipendentisti attivi, ad esempio sardi, disposti a metter in discussione l'unità politica con l'Italia, ma che al momento storico sono forza culturale non maggioritaria....ed in questo rientra il concetto di volontà di nazione).
    La Spagna è uno stato-nazione storico, in cui la pluralità delle nazionalità è ancor più evidente che altrove, per ragioni storiche specifiche, e nel caso dei paesi baschi sfiora il parziale non riconoscimento della nazione spagnola politica ( che è in ogni caso limitato ad una parte consistente, ma assolutamente non maggioritaria nel complesso della popolazione dei territori storicamente baschi e di Navarra).In Navarra il movimento nazionalista basco ha asunto un tratto estremamente regionalista, cioè conscio della perfetta compenetrazione di aspetti culturali e linguistici storicamente baschi ( lingua basca, tradizioni basche) con numericamente maggioritari e in ogni caso indelebili ( pena una regressione nell'esclusivismo) elementi castigliani. Lo stesso si potrebbe dire, con percentuali diverse, nella vera e propria CAV ( comunità autonoma basca).
    I Galiziani, ad esempio, comunità orgogliosa della propria specificità linguistica e culturale, e forti di un'aggregazione politica consistente che si definisce blocco nazionalista galiziano, non mettono in alcun modo in discussione l'unità politica storica con la Spagna, unità che dimostra non solo l'appartenenza ad un comune mero Stato ( amministratore) ma ad una più ampia aggregazione politica riconosciuta, rispetto alla propria nazione culturale, che è di carattere politico, pluriculturale e plurilinguistico.
    I Catalani, solo in minoranza mettono in discussione l'unità politica spagnola, poichè a larga maggioranza, nel loro perfetto bilinguismo, sono integrati nella struttura culturale, storica e politica della Spagna unita ( senza per questo perdere nulla della propria specificità).


    Insomma i concetti sono complessi, le definizioni anche. Ma analisi accurate fondate su radici culturali, storia reale dei rapporti di forza e volontà reale delle popolazioni, ci aiutano a dare alla questione nazionale oggi uno spessore capace di fondare un valido approccio intercomunitarista, non settario, aperto e realista.

  10. #20
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    OMNIA SUNT COMMUNIA


    Questione nazionale e concezione


    geo-storica della tattica

    Quattro lettere ricevute

    […] La questione principale è che con la maturità del capitalismo non scompaiono i problemi ereditati dalle vecchie società, ma essi possono essere risolti solo dalla rivoluzione proletaria che in certi casi si assume compiti non prettamente suoi. Questo è già risolto chiaramente in Lenin (Due tattiche). Ricordo che anni fa si dovette lottare contro la concezione "coloniale" dello Stato di Israele (definito nazione "piednoirEppure, ancora alla fine degli anni '70, al tempo delle discussioni sul "tipo" di rivoluzione in aree diversissime e arretrate, a proposito dell'America Latina si riuscì a troncare di netto con le teorie bastarde come la "rivoluzione agraria e anti-imperialista" e ad assimilare tutto il sub-continente americano alle aree di capitalismo sviluppato, indipendentemente dalla situazione miserabile di pur numerose masse contadine e urbane direttamente coinvolte nella soggezione all'imperialismo nordamericano. Poi quelli del "partito compatto e potente" se ne sono andati a catafascio trangugiando senza battere ciglio le note posizioni movimentiste e terzomondiste che sappiamo […].

    […] La sequenza storica per la "questione nazionale" comunque è agevole da individuare: 1) Marx ed Engels (irlandesi, polacchi e slavi, per sintetizzare); 2) Seconda Internazionale e polemica con le forze della futura Terza (Kautsky, Rosa Luxemburg e il Lenin dell'anti-Luxemburg e anti-Piatakov); 3) la Sinistra Comunista (Fattori di razza e nazione). Fin qui tutto corre liscio, ma è proprio in Fattori che si dimostra come la sequenza non possa essere interrotta né al '20 né al '50, e come la maturazione delle aree geostoriche comporti importanti e decisive conseguenze per gli anni che seguono. Tutti gli articoli scritti in quegli anni non fanno che confermare. Dicevo: "La questione principale è che con la maturità del capitalismo non scompaiono i problemi ereditati dalle vecchie società, ma essi possono essere risolti solo dalla rivoluzione proletaria che in certi casi si assume compiti non prettamente suoi". E aggiungevo che questo problema è già risolto chiaramente in Lenin (Duetattiche). La Sinistra ribadisce la posizione di Lenin, ma imposta il suo anti-indifferentismo sulla base di una dinamica storica giunta al culmine: negli anni '50 ci si avvicinava già alla fine del ciclo coloniale propriamente detto e il nazionalismo, quello che "infiammava i cuori dei nostri nonni" stava diventando, nell'epoca moderna, un'altra cosa. Che cosa? Precisamente un fenomeno indotto dagli scontri fra i massimi imperialismi sui vasi di coccio (piccoli stati, gruppi irredentisti, autonomisti vari) che si mettono in mezzo rimettendoci le penne (cfr. la diatriba irredentista italo-iugoslava in Il proletariato e Trieste).

    […] Oggi riciclare un concetto come "diritto di autodecisione" senza inserirlo in un contesto che rifiuti le implicazioni democratoidi in esso contenute è già una concessione al nemico. Ma questo è il meno. Il grave è che il riconoscimento di tale "diritto" diventa in genere addirittura "vitale" per le sorti della rivoluzione. Il linguaggio moralistico del tipo "cadere sotto il giogo dell'oppressione nazionale" che era scusabile al tempo della doppia rivoluzione russa, non è più roba nostra da un pezzo, ma quel che è peggio è che la questione nazionale è "vitale" per la rivoluzione borghese, non certo per la nostra. Noi sappiamo come risolvere la questione, è la borghesia che ha sempre dei problemi, dovendo parlare di libertà e nello stesso tempo negandola ad altre borghesie quando le fa comodo. […] C'è spesso una contraddizione con lo stesso Lenin: il "diritto" all'autodeterminazione era riconosciuto ai proletari perché tale problema era un bastone messo fra le ruote della loro lotta antiborghese, ma i comunisti non c'entravano per nulla. Invece coloro che oggi sostengono ancora a spada tratta gli argomenti specifici di una realtà geo-storica passata, credono di salvarsi l'anima concedendo al partito una propaganda verso i proletari (i proletari quindi, non i comunisti) affinché si dissocino da ogni lotta nazionale. Poche storie: se si ritiene che la questione nazionale sia ancora da porre come la poneva Lenin, si abbia il coraggio di andare fino in fondo senza tirar fuori tanti distinguo bizantini. Comunque né i comunisti, né i proletari, sarebbero chiamati, in occasione di "oppressione nazionale da parte di una potenza straniera", a difendere il diritto all'autodecisione. L'oppressione potrebbe solo essere di classe e, da Marx in poi, sappiamo che per i proletari la patria non esiste e da Lenin in poi sappiamo precisare che non esiste neppure quella "economica" […].

    […] La questione nazionale è vitale per la rivoluzione borghese, non certo per i comunisti. Ma per questi ultimi lo diventa in alcuni casi, a certe ben definite condizioni, e cioè se i proletari della nazionalità oppressa fossero purtroppo ancora irretiti dal nazionalismo, come nell'esempio dell'eventuale invasione della Polonia [articolo allegato]. Il diritto all'autodeterminazione lo riconosciamo ai proletari e non ai comunisti, e glie lo riconosciamo solo nel caso in cui il problema dell'autodecisione costituisca un intralcio alla loro lotta antiborghese. Noi non siamo agnostici […].

    La nostra risposta
    […] Quando si incomincia con questi sillogismi la dialettica va a farsi benedire e si finisce in una logica da vicolo cieco. Non vorremmo dilungarci per non essere pedanti e soprattutto perché tutto è già scritto; ci preme solo ricordare che, negli articoli comparsi molti anni fa sul giornale del nostro ex partito, al tempo della rivolta di Berlino (1953) e di quella di Budapest (1956), proprio in occasioni tipiche di "caduta sotto il giogo dell'oppressore", si smentisce l'interpretazione secondo cui sarebbe lecita una reazione proletaria per di più organizzata e diretta dai comunisti. Negli scritti citati non si fa affatto menzione al "diritto di autodecisione dei popoli", piuttosto ci si rammarica che il proletariato, invece di combattere per i propri obiettivi di classe, prenda le armi per un generico anelito alla "libertà" e alla "democrazia". Come si vede all'epoca non prendevamo neppure in considerazione il combattimento contro l'oppressore, bensì ci mordevamo le nocche perché gli operai si facevano ammazzare per la libertà e la democrazia. E anche nel 1968 si cercherebbe invano qualche riferimento "nazionale" a proposito dell'atteggiamento proletario nei confronti dei panzer russi in Cecoslovacchia.
    In tutti questi casi siamo in contesto di rivoluzione proletaria pura, altro che questione nazionale. Di fronte a simili episodi è ovvio che non siamo indifferenti, non per via delle nazionalità in campo, bensì per via degli obiettivi sbagliati di un proletariato che dimostra una così meravigliosa capacità di combattimento contro forze immensamente superiori. Siamo a livello della Comune di Parigi (è Amadeo ad usare il termine "Comune di Berlino"), con barricate, organizzazione militare, cannonate ecc., non certo al livello del democratico referendum Svezia-Norvegia usato da Lenin contro Piatakov.
    Del resto ragioniamo un momento su di un'affermazione molto pesante che la Sinistra ha avanzato e che non è certo una boutade qualunque: sarebbe stato meglio che la Seconda Guerra Mondiale fosse vinta dall'Asse piuttosto che dagli Americani. Qual era il senso di questa madornale provocazione? Questo: gli effetti sociali di un simile esito sarebbero stati più favorevoli alla rivoluzione proletaria, cosa su cui anche Hitler aveva certamente meditato a proposito della battaglia d'Inghilterra, e ciò spiegherebbe sia l'altrimenti inspiegabile "astensione militare" di Dunkerque, sia il "folle volo di Hess". Quindi persino un Hitler, di fronte alla prospettiva di mettere mezza Europa, Polonia e Inghilterra comprese, sotto "il giogo dell'oppressore" tedesco capisce bene che la "questione nazionale", in contesto di capitalismo puro, è del tutto ininfluente di fronte al pericolo di una rivoluzione.
    In seguito, con la vittoria degli Alleati, le due metà d'Europa furono occupate da americani e russi, perciò la conclusione logica da trarre dall'articolo che alleghi è che si preferisce la "libertà" americana al "giogo" tedesco o russo. In questo caso proprio la Polonia, utilizzata come territorio di simulazione geopolitica nell'articolo, cambiò padrone e fu messa sotto il "giogo" dei russi. Che gli alleati occupassero la Germania, le riscrivessero la costituzione e le leggi, "lasciassero" morire di stenti un numero enorme di prigionieri e facessero dell'Europa intera una fonte di plusvalore per la valorizzazione dei loro capitali (disse la nostra corrente a proposito del Piano Marshall: "E' l'Europa che aiuta l'America!"), tutto ciò all'autore dell'articolo non sembra, giustamente, sollecitare una questione nazionale. Allora, perché dovrebbe essere diverso per altri paesi? La Polonia eventualmente occupata dai tedeschi e dai russi (come ha scritto) non può essere un caso da trattare in modo speciale a seconda se l'occupante è ricco o straccione. Forse si dimentica che Germania, Italia e Giappone sono stati paesi occupati militarmente da una potenza straniera per anni e anni (ma vi sono truppe alleate ancora oggi) e che a nessun comunista assennato è mai venuto in mente di riconoscere, contro questo stato di fatto che perdura, un qualche diritto all'autodecisione. […]

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    ARDITI NON GENDARMI

 

 
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