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  1. #91
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    "Gli Dei sono veritieri e reali, gli uomini falsi e irreali" Ananda K.Coomaraswamy
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    Citazione Originariamente Scritto da Taigermen Visualizza Messaggio
    quindi?
    li ammazzamo tutti
    gli neghiamo la terra
    accettiamo che i cinesi ne facciano ciò che vogliono
    aspettiamo che gli USA tanto amici del Dalai Lama bombardino la Cina?
    Ma perdi anche tempo a rispondere alle minchiate di Lattanzio?
    Uno secondo cui il lamaismo è solo una cricca di "monaci arretrati e parassiti"?

    Ne devi avere di tempo da perdere tu...

  2. #92
    email non funzionante
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    Citazione Originariamente Scritto da Satyricon Visualizza Messaggio
    Si trattava della controversia sulla pratica di Dolgyal, meglio conosciuta come Dorje Shudgen, una divinità protettrice.
    E’ una questione complicata che non si può riassumere in due righe, e che assume, naturalmente, un contorno anche politico, oltre a quello spirituale.

    Ma è inutile spiegarla a voi islamo-eurasisti, per i quali l’unica spiritualità è quella islamica e la sola linea politica è quella di fare gli ascari al mullah di turno…

    Magari, segnalala a qualche tuo sodale, cosicché i monaci tibetani, oltre ad essere “parassiti pervertiti” (sic) diventano pure “idolatri assassini”…

    I ribelli del Dorje Shugden
    di Sergio Trippodo

    Nel 1996, pur denunciando il genocidio culturale del popolo tibetano da parte dei cinesi, il Dalai Lama aveva invitato il governo di Pechino a un negoziato senza condizioni né richieste di indipendenza, affermando che era "politicamente e moralmente sbagliato assumere posizioni anti-cinesi". "In fondo", aveva aggiunto alla sua dichiarazione, "non è detto che il legame con la Cina non possa essere addirittura benefico, per esempio da un punto di vista economico". E aveva concluso riproponendo una 'soluzione del giusto mezzo': "Pechino potrebbe accordare una reale autonomia al Tibet, conservando il controllo della politica estera e dell'esercito".
    Secondo alcuni analisti, la ‘via di mezzo’ potrebbe essere un valido esempio di ‘real politik’, ma la rinuncia all'indipendenza scatena le critiche di una parte della comunità buddhista tibetana. Per esempio Lhasang Tsering, direttore dell'istituto Amnye Machen, afferma che la questione non riguarda solamente chi è fuggito da Lhasa: "Noi esiliati non abbiamo il mandato di cambiare obiettivo e precludere il riscatto di chi vive in Tibet". Così l'opposizione interna cresce, mentre nuvole nere e minacciose si addensano sul Dalai. Gli elementi per un giallo tinto di horror ci sono tutti. Il sovrano, gli intrighi di corte e i complotti, gli oracoli viventi e le morti misteriose.
    Il 4 febbraio del 1997 il settantenne monaco Lobsang Gyatso e due suoi giovani discepoli vengono trovati morti in una stanza della Scuola di Dialettica tibetana a Dharamsala, a poche decine di metri dalla residenza del Dalai Lama, del quale Gyatso era un amico e un collaboratore. I tre sono stati uccisi a coltellate. Ciascuna delle vittime è stata colpita 15-20 volte dagli aggressori, in una sorta di macabro rituale medioevale. In una mano, Gyatso stringe una piccola borsa, che ha strappato agli aggressori. Nelle borsa vengono trovati dei documenti redatti dalla misteriosa setta dell'Nkt (New Kadampa Tradition), un gruppo di 3-4000 adepti residenti in 200 centri sparsi in tutto il mondo: dal Tibet all'India (Ladhak, Darjeeling, Sikkim), dal Nepal alla Mongolia, da Taiwan all'Europa (Gran Bretagna, Spagna e Svizzera) fino agli Stati Uniti.
    Il loro spirito guida si chiama Dolgyal, ma è conosciuto anche come Dorje o Gyaltsen Shugden. Quest'ultimo appellativo gli deriva dalla credenza secondo la quale il 'dio oracolare' sarebbe l'incarnazione del maestro Dragpa Gyaltsen, che nel 1656 venne assassinato dal ministro del quinto Dalai Lama. Perciò viene rappresentato come una divinità terrifica e vendicatrice che, a spada sguainata, cavalca un feroce leone bianco o argentato e in alcune raffigurazioni calpesta un essere umano. E non ci vuole molta immaginazione per capire chi può essere quell'uomo.
    D'altronde, il conflitto tra governo tibetano e opposizione ha assunto caratteri foschi anche in altre occasioni. Secondo Kelsang Dewang, monaca spagnola dell'Nkt, "prima che l'attuale Dalai Lama fuggisse in India, membri del suo governo assassinarono il grande Lama Reting Rimpoche appartenente alla loro stessa corrente buddhista: i berretti gialli, o Gelugpa. Il religioso fu avvelenato nel 1947, per il semplice fatto di essere in disaccordo con le decisioni del governo". Ma gli intrighi di palazzo sarebbero continuati anche dopo l'esodo dal Tibet. Sempre secondo l'Nkt, che si dice pronta a fornire le prove, esisterebbe addirittura una società segreta preposta a eliminare con la forza i dissidenti: la 'Secret Organization of External and Internal Enemy Eliminators'. La notizia viene confermata anche da uno dei traduttori personali del Dalai Lama, che però vuole mantenere un sospetto anonimato, secondo il quale gli 'eliminators' avrebbero già minacciato di morte i seguaci del Gyaltsen Shugden. A sostenere la tesi dell'esistenza degli squadroni punitivi l'Nkt cita un increscioso incidente avvenuto a luglio del 1997, quando Lobsang Thubten, uno dei leader della 'Dorje Shugden Society' di New Delhi, è stato violentemente attaccato da duecento berretti gialli di Dharamsala.
    Ora, siccome la vendetta è un piatto che va servito freddo, la maledizione del maestro Dragpa potrebbe abbattersi come un dorje (fulmine) sul XIV Dalai Lama. E questo il leader dei tibetani in esilio lo sa bene, tanto da mettere ufficialmente al bando il culto del Gyaltsen o Dorje Shugden nel marzo del 1996: "E' piuttosto chiaro che il Dolgyal è uno spirito delle forze oscure. Perciò è stato fatto un incantesimo per tenerlo lontano. Propiziarlo reca grave danno alla causa tibetana e mette in pericolo la vita del Dalai Lama". E avverte la folla di devoti radunati a Dharamsala per la cerimonia iniziatica segreta dell'Hayagriva: "Se alcuni di voi sono determinati a continuare i riti propiziatori del Dolgyal, farebbero meglio a tenersi lontano da questa cerimonia, alzandosi in piedi e abbandonando questo luogo. Non è conveniente che restino seduti qui, perché non ne trarrebbero beneficio. Al contrario, ciò avrebbe l'effetto di accorciare la vita del Gyalwa Rimpoche (uno dei nomi del Dalai Lama, ndr.), il che non è bene. Tuttavia, se c'è tra voi chi spera che il Gyalwa Rimpoche muoia presto, allora può rimanere". E' il Nechung, oracolo di Stato e spirito guida dei tibetani in esilio, ad averglielo rivelato.
    Però l'Nkt non si lascia convincere: "Il Dalai Lama cade in contraddizione, perché egli stesso venerava il Dorje Shugden fino al 1976. Solo dopo questa data divenne ostile al suo culto". Ma, allora, perché aspettare vent'anni per metterlo al bando? Il fatto è che il Dalai non avrebbe osato mostrare le sue intenzioni finché era vivo il suo maestro e tutore, Trijang Rimpoche, che lo aveva iniziato a quel culto. E anche dopo la sua morte, nel 1981, c'era ancora il suo sostituto Kungo Palden a testimoniare che il vecchio maestro non avrebbe mai permesso di bandire lo Shugden. Perciò la dichiarazione pubblica del Dalai è giunta dopo che Kungo Palden abbandonò il corpo nell'autunno del 1995.
    In termini meno simbolici, il governo in esilio accusa gli estremisti dell'Nkt, definiti i Taliban del buddhismo, di essere al soldo della Cina, dalla quale riceverebbero ingenti fondi per minare la causa tibetana. Le altre risorse economiche, necessarie al mantenimento dei loro Centri del Dharma (la legge morale e religiosa del buddhismo, ndr.) sparsi per il mondo, vengono invece raccolte tramite sottoscrizioni 'meritorie' via Internet. Esiste infatti un sito Web in cui vengono elencate le offerte speciali per i devoti del Dorje Shugden: nove milioni di lire per un tempietto Nkt da tenere in casa, sei milioni per una statua del Buddha, mentre la tazza con l'immagine del leader dell'Nkt, Geshe Kelsang Gyatso, costa soltanto 90mila lire. La base politica della setta ribelle si troverebbe a Taiwan, presso l'associazione buddhista cinese, mentre le sedi operative sono quelle di Londra e di New Delhi. Indiscrezioni raccolte nei corridoi diplomatici, attendibili ma tutte da verificare, sostengono che l'Nkt avrebbe basi di sostegno logistico anche a Milano e in Svizzera.
    Di parere ovviamente opposto è la New Kadampa Tradition. Certo, la setta ribelle ammette che nei Centri del Dharma dell'Nkt non vengono esposte le immagini del Dalai Lama come vorrebbe la tradizione e che gruppi di giovani devoti del Dorje Shugden hanno inscenato manifestazioni anti-governative a Dharamsala, in Gran Bretagna e in Svizzera. Ma da qui ad accusare l'Nkt di essere filocinese ce ne corre, sostengono i fedeli del Dolgyal. "Non c'è una sola persona all'interno della New Kadampa Tradition che approvi l'occupazione cinese e l'oppressione dei tibetani" sottolinea il loro segretario generale, James Belither. "I nostri studenti sono liberi di manifestare a favore dell'indipendenza, ma l'Nkt non è un'organizzazione politica né intende impegnarsi in attività politiche di qualsiasi genere. Nei nostri centri la gente è libera di esporre immagini del Dalai Lama o di altri maestri, se lo desidera".
    "E' il governo in esilio che ci tratta da settari fanatici", ribatte Kelsang Gyatso dal centro Manjushri a nord di Londra: "Chi continua a praticare il nostro culto nella comunità di Dharamsala viene trattato da fuoricasta, come gli ebrei ai tempi di Hitler". Secondo un'accusa lanciata dall'Nkt, i berretti gialli del Dalai hanno distrutto le immagini e le statue del Dorje Shugden nei templi e hanno avviato una campagna di 'sottoscrizione forzata' di un impegno scritto in cui si dichiara di voler rinunciare al culto. Chi si rifiuta di firmarlo viene minacciato, picchiato, perde il lavoro e le indennità se è laico, o viene espulso dai monasteri se è monaco. Il Dalai Lama è "un dittatore superstizioso", afferma Kelsang, "che confida più negli oracoli di stato che nei ministri". Infatti, alla corte di Dharamsala si sono recentemente aggiunti altri tre medium. Secondo l'Nkt, una giovane sensitiva giunta da Lhasa influenza molto il Dalai quando gli riferisce in trance i consigli di Nechung. Ma l'oracolo di Stato non ha dato sempre la risposta giusta. Per esempio, quando l'esercito britannico stava marciando su Lhasa guidato dal tenente colonnello Younghusband, lo spirito-guida disse al XIII Dalai Lama: "E' giunto il momento di distruggere il nemico". L'armata tibetana ci provò, ma venne sterminata. E il Dalai vietò per lungo tempo la consultazione dello spirito protettore.
    C’è anche chi, come il monaco buddhista occidentale Garteh Sparham, spiega in termini politici la controversia sul Dorje Shugden, affermando che la divinità è diventata il simbolo di un nascente "partito integralista" tibetano contrario all’approccio anti-settario del Dalai Lama. Ma tra i due contendenti, il terzo gode. E il terzo è il Bomi Qambalozhub, l'associazione buddhista cinese che parla per voce dell'agenzia Nuova Cina: "Sono stati compiuti grandi sforzi per garantire la libertà religiosa in Tibet. Negli ultimi anni abbiamo riaperto 1.787 templi, 300 in più rispetto al 1951". E l'autonomia regionale promessa dall'Accordo in 17 punti, proprio nel lontano 1951, che fine ha fatto? Le autorità di Pechino non parlano, ma rispondono tramite un libretto scritto da un certo Luo Qun: "Il comitato preparatorio per la regione autonoma del Tibet è stato fondato nel 1956, con il Dalai Lama come presidente. (...) Nel marzo 1959 gli scissionisti hanno fomentato una rivolta armata per dividere la patria. Dopo di che il Dalai Lama è fuggito all'estero. (...) Comunque, nel 1965 è stata ufficialmente fondata la Regione autonoma del Tibet". Tutto a posto, dunque, ma Qun non spiega perché, se i tibetani stanno così bene a Lhasa, ogni inverno gruppi di disperati approfittano del rigido clima e della minore sorveglianza cinese lungo i confini per rifugiarsi in Nepal e in India. Anche a costo di morire congelati, come spesso è accaduto a intere famiglie di esuli che hanno perso i figli più piccoli tra i ghiacci dei 6000 metri. Nawang Norbu, vice-direttore del Centro di accoglienza per i profughi tibetani a Dharamsala, fa presente che nei primi quattro mesi del 2001 si sono rifugiati in India e in Nepal circa 1.500 bambini al di sotto dei tredici anni: il triplo di quanti in media ne arrivavano negli anni precedenti. "Molti altri sono morti durante il terribile viaggio di tre settimane tra le montagne himalayane – aggiunge Norbu – ma deve pur esserci un serio motivo che spinge questi piccoli ad assumersi un rischio del genere".
    Insomma, a quale oracolo bisogna rivolgersi per trovare una via d'uscita in questo groviglio? A questo forse non saprebbe rispondere neanche il Buddha che, guardando com'è finita la sua dottrina, sorride sempre meno. In fondo, come recita il versetto 146 del Dhammapada: "Qual motivo di riso, quale di gioia / quando ogni cosa è in continuo incendio?".


    http://www.stringer.it/stringer%20sc...ec_shugden.htm
    Giampaolo Cufino

  3. #93
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    Ma cosa accettiamo le lezioni di tolleranza da quelli che hanno demolito i Buddha col tritolo...

  4. #94
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    LA “SPINA” TIBETANA


    di Stefano Vernole *




    Introduzione


    “Non si può immaginare terra più capace di questa di mettere in contatto l’uomo con l’eterno: l’immensità triste e le catene di monti che pare non abbiano fine suscitano ardori di rinuncia. Ci sono certi luoghi nei quali Dio, qualunque sia la forza che noi immaginiamo sotto questo nome, ha impresso con segni evidenti le notazioni della sua onnipotenza; la landa alle falde del Kailasa è uno di questi luoghi: che vi siano nati alcuni dei maggiori mistici dell’Oriente e che altri ci siano venuti a passare la vita è naturale”(1).
    Sono gli echi internazionali del problema tibetano che fanno la differenza rispetto ad altre controversie territoriali esistenti nel mondo, in ragione sia del prestigio spirituale del Dalai Lama(2) che della sua popolarità in Occidente, in particolare negli Stati Uniti (3).
    La questione tibetana riveste per i dirigenti cinesi una doppia problematica, interna ed esterna allo stesso tempo, perché connessa con l’altra “spina” storica della loro geopolitica, la rivendicazione di Taiwan; eccessive concessioni alla dirigenza di Lhasa potrebbero infatti essere sfruttate dall’isola dissidente per alzare la posta. Se la situazione dello Xinjang (dove Pechino si trova a combattere contro il secessionismo degli Uiguri) è strettamente legata ai recenti sconvolgimenti dell’Asia centrale, il caso tibetano invece ha fatto storicamente parte del contenzioso sino-indiano, al punto che un eventuale conflitto regionale avrebbe potuto comportare effetti esplosivi per la stabilità del “Regno di Mezzo”.
    Conscia di tutto ciò, l’amministrazione cinese ha preso le necessarie contromisure, stipulando alla fine degli anni Novanta gli accordi del “Gruppo di Shangai”, che prevedono per le sei nazioni firmatarie (Cina, Russia, Kazakhistan, Kirgizistan, Uzbekistan, Tagikistan) l’impegno alla collaborazione in tutti i campi, in particolare nella lotta ai “movimenti terroristi e separatisti”. Dopo l’11 settembre 2001 questa determinazione non è venuta meno; seguendo la stessa tattica adottata da Mosca per la questione cecena, Pechino ha dato il via libera a Washington per l’invasione dell’Afghanistan (4), ma ha assimilato al terrorismo internazionale qualsiasi movimento aspirasse a mettere in crisi l’integrità territoriale cinese.
    Nonostante le recenti aperture economiche, la Cina non ha affatto rinunciato a una vocazione geopolitica imperiale e si rifiuta di abbandonare la benché minima parte di sovranità, anche in zone dove la sua autorità è fortemente contestata. La condotta politica cinese mira perciò non soltanto a mantenere la profondità strategica necessaria alla difesa territoriale, ma anche a ricostruire lo spazio geopolitico imperiale nella sua assoluta totalità.

    Caratteri storico-geografici

    Il territorio occupato dai Tibetani, portatori di una civiltà ben definita, è grosso modo delimitato nelle quattro direzioni: a sud, l’arco dell’Himalaya è occupato nell’ordine dal Nepal, dal Sikkim e dal Bhutan, fino a raggiungere il nodo ove s’incontrano l’Assam (India), l’Alta Birmania e lo Yunnan (Cina); ad ovest, questo arco si estende fino al Kashmir e al Baltistan, mentre più a nord arriva al Gilgit con le montagne del Karakorum. Politicamente, una buona parte del Ladakh, la provincia più occidentale del Tibet, appartiene all’India. A nord, le montagne del Karakorum e del Kunlun separano il territorio tibetano dal Turkestan cinese, che è desertico ad eccezione delle grandi oasi abitate. Ad est, infine, il Tibet si spinge fino al corridoio del Gansu, che conduce dalla Cina propriamente detta al Turkestan cinese, comprendendo la regione del Kokonor e insinuandosi nella porzione meridionale della regione montuosa della Cina occidentale; tutta questa zona orientale è da molto tempo organizzata in province cinesi, il Qinghai e il Xikang, ma dal punto di vista politico anche il resto del Tibet è stato inglobato dal potere centrale. Popolazioni diverse, che in parte si conservano tuttora, hanno occupato e organizzato le varie regioni nel corso dei secoli.
    L’origine dei Tibetani è tuttora ignota e al riguardo si sono formulate teorie basate sulle osservazioni etnografiche e linguistiche, tenendo conto anche delle svariate migrazioni che hanno interessato l’area. Se la maggior parte degli abitanti del Tibet è di razza mongolica, numerosi esploratori sono stati però colpiti dalla frequenza di un tipo che tutti definiscono dalla pelle rossa, mentre altri ne hanno segnalato uno europoide o caucasico. In ogni caso, gli antropologi distinguono essenzialmente due tipi: uno, diffuso in tutto il Tibet, chiaramente mongolico e di taglia più piccola; l’altro, caratteristico del Kham, di taglia più grande, anche se nel nord-est alcuni specialisti hanno segnalato tipi biondi dagli occhi blu.
    La tradizione invita a cercare i più antichi Tibetani proprio in quest’ultima area, una zona montuosa coperta di foreste, relativamente calda e adatta all’agricoltura; si tratta probabilmente dello Yarlung, la regione più fertile, dove si formò il potere regale. Secondo altre leggende tibetane, quelle dell’Amdo, quest’ultimo sarebbe il paese delle scimmie e delle leonesse delle rocce, una distesa di foreste che si estende lungo tutto il Tibet orientale. Le sei tribù primitive, benché considerate come loro capostipiti, vengono definite dai Tibetani “popolazioni selvagge o indigene” e non tibetane.
    Le prime informazioni ci vengono comunque dalle fonti cinesi e successivamente dai documenti tibetani veri e propri; questi ultimi testimoniano contatti molto antichi anche con l’Iran, specialmente per il Tibet occidentale, dove i motivi artistici e decorativi possono essere benissimo passati tra i due paesi mediante migrazioni e scambi. La formazione di un unico e solido regno non avvenne prima del VII secolo d. C., epoca in cui salì al trono un potente sovrano, Srong-btsan-sgam-po, che unificò il paese e riuscì ad estendere il proprio dominio fino al Nepal; fu proprio durante il suo regno che venne introdotto il buddhismo, così come la prima scrittura, una forma modificata di quella tardo-gupta importata dal Nepal e rimasta a lungo pietrificata.
    Secondo gli antichi storici cinesi, i Tibetani propriamente detti, cioè coloro che avrebbero unificato il paese all’alba della sua storia, i Tufan, sono invece un ramo dei Qiang (Chiang). Questi ultimi, noti attraverso i documenti cinesi sin dal XVI secolo, furono dapprima i loro vicini occidentali a nord ovest della Cina (periodo delle dinastie Shang e Zhou), ma popolarono in seguito le zone di confine sino-tibetane, dal Kokonor fino al Sichuan. I Qiang erano collegati a un’altra popolazione del nord-est tibetano, i Sumpa, mentre più a nord, nell’attuale Amdo, i Tuyuhun si sovrapponevano a una popolazione turco-mongola venuta dalla Manciuria.
    Questo incrocio di etnie e popoli si organizzò in Stato, il Xi Xia, dal 1032 al 1226; ancor prima dell’arrivo delle popolazioni turco-mongole, i Qiang assorbirono nella medesima regione i resti di un popolo indoeuropeo, gli Yuezhi. Gruppi di Qiang vivono ancora oggi sulle montagne nelle zone di confine sino-tibetane; hanno lingua, credenze e costumi di fatto affini a quelli dei Tibetani. D’altra parte, il Nepal a sud e il Khotan a nord vennero assai presto in contatto col Tibet e vi lasciarono nell’arte e nella religione l’influenza della loro antica civiltà buddhista. Vie di comunicazione meno note, ma altrettanto importanti, collegarono il regno dello Yarlung allo Yamun e alla frontiera birmana.
    I Tibetani, al pari dei Cinesi, sono soliti considerarsi al centro di un quadrato formato da paesi stranieri, e definiscono tale centro come “l’ombelico della Terra”. Mentre gli Indiani posero a nord dell’India, fra le nevi dell’Himalaya, la sede degli Dei e di una specie di superuomini detentori delle scienze spirituali (i vidyadhara), i Tibetani trasferirono tutto questo complesso mitologico a nord del loro paese, a Khotan o più in generale nel Turkestan. Lì si trova il paese mitico di Shambala, ove conducono itinerari dapprima reali poi immaginari.
    I governanti Yuan (1279-1368) inclusero il Tibet nel loro vasto impero eurasiatico e ai Tibetani andò certamente meglio che alla maggior parte dei sudditi mongoli dell’imperatore, in quanto fu loro concessa una relativa autonomia in cambio di cooperazione politica e generosi tributi. Questo trattamento di favore si spiega con la predilezione dei sovrani Yuan per il buddhismo tibetano.

    Le vicende storiche contemporanee

    Dopo l’invasione del Tibet da parte degli Dzungari (1717), l’Impero celeste reagì e un esercito di Kangxi entrò a Lhasa nel 1720: il 7° Dalai Lama, riconosciuto come incarnato, fu posto sul trono del Potala e a Lhasa (le cui mura erano state demolite) fu installata una guarnigione cinese.
    Il Kham fu annesso alla provincia cinese del Sichuan (con Bathang, Lithang e Tatzienbu), sicché venne stabilito quel protettorato che Pechino mantenne sino alla fine della dinastia dei Qing (1912). In questo periodo la tutela cinese fu abbastanza morbida e dolce, tanto da essere accettata di buon grado dal governo tibetano, anche se - dopo la regione del Qinghai (1724) – furono perdute anche le province di Amdo e Kham. Nel Tibet orientale i Cinesi tollerarono alcuni principati diretti da capi indigeni (tusi), che ricevettero l’investitura imperiale tramite il sigillo e il diploma. A Lhasa, la Cina era rappresentata da due ministri (amban) e una piccola guarnigione; a partire dal 1750, il re o reggente non fu più nominato da Pechino e il Dalai Lama venne tacitamente riconosciuto come sovrano del Tibet, ad eccezione di Amdo e Kham. Il Ladakh, che si trovava inizialmente sotto la sovranità dei Moghul, fu in seguito annesso al Kashmir, dopo la guerra dei Dogra (1834-1842).Dallora la Cina protesse il Tibet contro le invasioni straniere, ma si riservò il diritto di controllare la scelta del nuovo Dalai Lama e del Panchen Lama (5), imponendo le successive candidature.
    Nel XIX secolo l’edificio imperiale cominciò però a franare sotto i colpi delle grandi potenze europee e del Giappone (6), finché nel 1904 l’Inghilterra occupò Lhasa, approfittando della guerra russo-giapponese. Il trattato che ne scaturì (1906) riconobbe di fatto la sovranità cinese, ma aprì il Tibet al commercio inglese. L’ingerenza britannica costrinse la Cina ad intervenire più decisamente nella regione, prima attraverso un’opera di riorganizzazione e modernizzazione, poi con una vera e propria scorribanda militare a Lhasa: il Dalai Lama decise perciò di fuggire in India (1910). A causa dei tumulti scoppiati a Pechino durante la rivoluzione guidata da Sun Yat Sen, l’esercito cinese dovette ritirarsi quasi subito dal Tibet e il Dalai Lama riuscì a rientrarvi.
    L’Inghilterra propose allora la convenzione di Simla (1913-1914) con la quale la regione venne divisa in due parti: a ovest il Tibet centrale, dal Ladakh a Chamdo, sotto il potere del Dalai Lama, che avrebbe però dovuto riconoscere la sovranità cinese; ad est, il Kham e l’Amdo controllati dalla Cina, che si sarebbe impegnata a garantire l’autonomia del Tibet centrale e a non trasformarlo in una provincia cinese. Da parte sua, Londra promise di astenersi da qualunque annessione, manifestando il proprio interesse al solo aspetto commerciale; il piano però non convinse nessuno dei due contendenti e, se la Cina rifiutò di firmarlo, il Tibet lo approvò a malincuore.
    Durante le due guerre mondiali la regione tibetana rimase legata alle sue strutture medievali e non fece nessuno sforzo per adattarsi al mondo moderno.
    Dopo la vittoria di Mao Zedong nella guerra civile (1949), il Partito Comunista rioccupò rapidamente il paese e firmò con il consenso dell’India un trattato che inserì il Tibet nella Repubblica Popolare Cinese; i Tibetani diventavano così una minoranza etnica alla quale veniva riconosciuta l’autonomia interna, sicché sarebbero stati rispettati i privilegi del Dalai Lama e la tradizione religiosa del paese. In poco tempo, il nuovo governo di Pechino fece costruire strade carrabili, estrasse il petrolio nello Tsaidam, installò a Lhasa una centrale elettrica, costruì scuole e ospedali, creò cooperative.
    Peraltro, anche il governo nazionalista di Taiwan (Formosa), che in quel periodo rappresentò la Cina alle Nazioni Unite su indicazione statunitense, rivendicò il diritto alla sovranità sul Tibet.

    Fra organizzazione e repressione

    Il rapporto tra Cina e Tibet si inserì così nell’ambito più ampio della politica di Pechino verso le confessioni religiose.
    Nel 1945, il Partito Comunista aveva stabilito: “Tutte le religioni sono permesse nelle aree liberate della Cina, secondo il principio della libertà di credenza religiosa. Tutti i seguaci del Protestantesimo, del Cattolicesimo, dell’Islam, del Buddhismo e di altre fedi godono della protezione del governo del popolo, purché osservino le leggi. Ogni attività superstiziosa e controrivoluzionaria intrapresa sotto l’egida della religione è da considerarsi illegale”. La libertà di religione, entro questi limiti, venne perciò riconosciuta negli articoli 5 e 53 del Programma comune per il popolo, approvato dalla Conferenza consultiva del settembre 1949, alla quale parteciparono anche rappresentanti di organismi religiosi. Nella stessa occasione furono emanate direttive precise affinché tale libertà fosse tutelata soprattutto nelle aree delle minoranze etniche, alle quali si doveva il giusto rispetto, senza indebite interferenze durante l’attuazione delle riforme sociali. L’art. 88 della Costituzione del 1954 ribadì la libertà di credenza religiosa, ma contemporaneamente il Partito Comunista iniziò ad intraprendere misure repressive su vari fronti, anche se in Tibet si procedette con maggiore cautela, rispetto al resto della nazione, almeno fino al 1959.
    Secondo le informazioni fornite dal Tibet Information Network (bollettino TIN), il 10 marzo di quell’anno lo scoppio di una dura sommossa popolare provocò l’intervento militare cinese, che costrinse il Dalai Lama e il suo governo a rifugiarsi a Dharamsala (India) con circa 80.000 seguaci. Il paese venne riorganizzato in cooperative contadine, quale primo passo verso l’introduzione del sistema delle comuni agricole; l’ideologia socialista finì in questo caso per coincidere con l’esigenza politica di demolire la struttura feudale della società tibetana, dominata dall’influenza dei monaci e dei nobili (ai quali si confiscarono le proprietà). Presidente di quest’amministrazione interinale fu nominato il Panchen Lama.
    I sostenitori del Dalai Lama riportarono alcuni dati della repressione cinese: dei 2.716 templi e monasteri solo alcuni furono lasciati aperti, riducendosi a 533 nel 1966 (anno dello scoppio della rivoluzione culturale); i monaci, il cui numero ammontava a 114.000, a causa delle persecuzioni si ridussero a 6.913.Alle misure punitive di Pechino si aggiunsero le calamità naturali dei primi anni Sessanta, che aumentarono il numero dei profughi verso l’India e favorirono le attività di guerriglia, al punto che nel 1964 il Panchen Lama decise di dimettersi dalla sua carica.
    Il 9 settembre 1965 il Tibet ricevette lo statuto di regione autonoma, ma i suoi confini non coincisero più con quelli storici, in quanto le regioni di Amdo e Chamdo si trovarono definitivamente inserite nel Sichuan e nel Qinghai. L’anno successivo le Guardie Rosse si unirono alle forze filomaoiste tibetane per esportare in Tibet la Rivoluzione culturale; si ebbero così la caduta del governo civile e la restaurazione del controllo militare (1969). Nel 1971, Pechino dovette ammettere ufficialmente le attività di resistenza e dare il via libera a un comitato governativo formato da quattordici membri cinesi e tre tibetani; secondo le cifre del TIN, nel 1976 si potevano contare in Tibet solo 978 monaci ubicati in 8 monasteri.
    Dopo il varo della terza Costituzione, nella primavera del 1978, l’atmosfera iniziò a cambiare e sedici personalità religiose furono ammesse alla Conferenza consultiva popolare, che si svolse contemporaneamente all’Assemblea nazionale del popolo (ANP).
    Il governo cinese condannò gli eccessi della rivoluzione culturale e confermò l’intenzione di riabilitare pienamente le sue vittime, comprese quelle dei circoli religiosi. L’esigenza di una svolta fu dovuta alla scelta strategica di aprire economicamente ai paesi stranieri, il che implicò maggiori contatti sia con l’Occidente che con il mondo islamico; per favorire gli scambi commerciali, si dovette presentare un quadro della situazione religiosa il più favorevole possibile.
    Durante la seconda Sessione plenaria della V ANP (giugno-luglio 1979) proprio il Panchen Lama, insieme al Presidente dell’Associazione buddista, riuscì ad ottenere alcune modifiche al nuovo codice penale per la tutela delle attività religiose.

    Verso la normalizzazione
    A partire dal 1979 Pechino diede il via libera alla ripresa dei contatti col governo del Dalai Lama in esilio; unica condizione posta dalla Cina era “che non fosse sollevata la questione dell’indipendenza del Tibet”. I colloqui avvennero per via informale con l’invio di varie delegazioni e missioni, ma la diplomazia segreta, voluta dal premier cinese Den Xiaoping (1982-1984) e intesa ad affrontare il problema in maniera più conciliante, si arenò sul grado di autonomia da concedere al Tibet, sulla forma di democrazia che si sarebbe potuta applicare e sulla delimitazione dei confini regionali.
    Furono due eventi, nel 1987, che resero impossibile il compromesso. In seguito a una campagna internazionale condotta dal Dalai Lama, il Congresso degli Stati Uniti decise di adottare una dichiarazione che faceva rientrare la questione tibetana nei rapporti sino-americani; subito dopo, si scatenò una sollevazione popolare a Lhasa, seguita da altre quattro dimostrazioni (le quali proseguirono fino a marzo del 1989).
    Approfittando di questi rivolgimenti, nel settembre 1987 il Dalai Lama annunciò in cinque punti un suo piano per il futuro dell’area, nel quale chiedeva la trasformazione della regione in zona di pace e di non violenza, la fine dell’immigrazione cinese, la tutela dei diritti umani fondamentali e delle libertà democratiche per il popolo tibetano, la protezione dell’ambiente naturale, il divieto di fabbricazione di armi e depositi di scorie nucleari, l’avvio di seri negoziati sullo statuto del Tibet. Nonostante le critiche cinesi, questa proposta arrivò l’anno successivo sul tavolo del Parlamento europeo di Strasburgo; benché si fosse manifestata una generale disponibilità a trattative ufficiali, il nodo diplomatico non fu sciolto.
    Nel 1989 ripresero i disordini, dopo la morte del Panchen Lama avvenuta improvvisamente a Xigaze (28 gennaio) per un attacco cardiaco e dopo l’imposizione della legge marziale su Lhasa (4 marzo 1989-1 maggio 1990).
    Nel 1992, in occasione dell’anniversario della sommossa nazionale, il Dalai Lama diffuse le “linee direttive per la politica futura del Tibet” e le caratteristiche fondamentali della sua Costituzione, nelle quali, considerando l’evoluzione degli assetti politici internazionali, individuò quattro ambiti essenziali: prosecuzione del dialogo con il governo cinese, accentuazione dell’impegno a informare la comunità mondiale sui problemi tibetani, attenta valutazione dell’impatto delle nuove politiche economiche sulla sopravvivenza della propria identità culturale, promozione della liberalizzazione e della democrazia di base nel governo in esilio del Tibet.
    Questa linea consentì un aumento della pressione internazionale su Pechino e nel luglio 1993 una delegazione ufficiale riuscì a recarsi in Cina, con la speranza di arrivare ad accordi concreti almeno sui problemi dell’istruzione, della salute pubblica, dell’immigrazione e dell’ecologia; essa però non raccolse i frutti sperati, in quanto il Partito Comunista accusò il Dalai Lama di fomentare l’indipendentismo. Nei due mesi precedenti (maggio e giugno 1993) erano infatti scoppiate a Lhasa violente manifestazioni secessioniste, che avevano provocato l’arresto di parecchi attivisti. I dati, riportati da “Asia Watch”, confermarono che l’80% dei 250 casi di arresto e processo nel 1993 avevano coinvolto cittadini tibetani; nel 1994 il “Quotidiano del Tibet” riferì di 765 episodi di separatismo e di gravi crimini.
    La Cina rispose nel settembre 1994 con il lancio della campagna triennale “per l’educazione patriottica in Tibet”, allo scopo di favorirne l’unità con la madrepatria e celebrare il trentesimo anniversario dell’autonomia regionale. In questo contesto si inserì lo scontro sul controllo delle autorità religiose. Il 14 maggio 1995, il Dalai Lama, assieme alla sua comunità di fedeli, riconobbe in Gedhun Choeki Nyima la nuova reincarnazione del Panchen Lama, ma un altro gruppo di autorità religiose vicine a Pechino lo indicò invece in Gyaltso Norbu, che fu investito solennemente di tale carica l’8 dicembre dello stesso anno.
    Seguirono parecchi casi di sabotaggio e attentati dinamitardi, con l’unico effetto che venne intensificato l’apparato di vigilanza e controllo. Nel novembre 1996, dopo un convegno straordinario tenutosi a Lhasa, i dirigenti locali del PCC decisero la “battaglia finale” contro l’influsso separatista del capo tibetano e contro la proliferazione delle sue attività religiose, convincendo l’esecutivo di Pechino a protestare ufficialmente contro tutti i paesi che ospitavano il Dalai Lama e in particolare contro il governo di Taiwan (marzo 1997).
    Questo conflitto diplomatico deve comunque ascriversi alla sempre più insistente pressione internazionale volta a convincere la Cina a prendere in maggiore considerazione le tesi tibetane e a iniziare veri e propri negoziati senza alcuna condizione preliminare. Fu quasi un ultimatum, che difficilmente Pechino avrebbe potuto digerire, visto il suo deciso orientamento alla difesa della sovranità nazionale.

    La situazione attuale

    Dopo il periodo “buio” della rivoluzione culturale, Pechino segue oggi un doppio binario nella sua politica verso il Tibet; se da una parte mantiene nei confronti di Lhasa un’attenzione particolare simboleggiata da una cauta liberalizzazione e da uno straordinario intervento per il suo sviluppo economico, questa apertura si combina tuttavia con un’integrazione sempre più stretta della regione col resto della Cina.
    Mentre il Dalai Lama continua a denunciare l’irreversibile volontà cinese di “cinesizzare” il Tibet, il Partito Comunista Cinese ribalta l’accusa dichiarando, secondo la formula ufficiale: “la lotta tra la banda del Dalai Lama e noi non riguarda la fede religiosa; si tratta invece di difendere l’unità della madrepatria e di opporsi alla secessione”.
    Riguardo allo sviluppo economico del Paese, bisogna ricordare che Pechino ha stanziato e continua a stanziare notevoli finanziamenti che hanno determinato buoni tassi di crescita, soprattutto se si pensa ai grandi progetti per l’agricoltura e per le opere di irrigazione che interessano i bacini dei fiumi Yarlung Zangbo, Lhasa e Nyang Qu. Tra il 2001 e il 2005 gli investimenti nella regione tibetana hanno riguardato 117 progetti per un valore di 31 miliardi di yuan. Per ridurre il divario fra il Tibet e il resto della nazione, le province cinesi più ricche sono invitate dal governo centrale a contribuire per almeno il 25% dei progetti in atto e ad investire in altre imprese; tali provvedimenti sono stati però contestati dal Dalai Lama perché facilitano l’immigrazione cinese.
    Persino alcuni diplomatici stranieri e i vari gruppi ambientalisti hanno comunque dovuto ammettere che la ferrovia Lhasa-Xining (Qinghai) costituisce un’opera importantissima sia per lo sviluppo commerciale che per l’incremento del turismo (7). Costata più di tre miliardi di dollari e circa quattro anni di lavori, essa rappresenta la costruzione ferroviaria più alta del mondo (oltre 4.000 metri), per un tragitto totale di 1.956 km. e prevede il primo trasporto passeggeri a partire dal 2006.
    È in atto anche una rinascita religiosa. I dati ufficiali degli anni Novanta indicano in circa 72 milioni di persone il numero dei fedeli buddhisti; nel solo Tibet il numero di suore e monaci è cresciuto dai 14.000 del 1987 ai 50.000 del 1996, mentre più di 2.000 sono oggi i templi e i monasteri buddhisti della regione, la maggioranza dei quali sono considerati monumenti storici e culturali.
    Ma il sostegno più importante alla strategia varata dalle autorità di Pechino potrebbe derivare dal tentativo attualmente in corso di creare una “nuova cultura” attraverso la diffusione dei valori socialisti: il senso della legge, la disciplina, l’ordine sociale e l’onestà, la valorizzazione dell’unità e della solidarietà nazionale. La battaglia culturale può tramutarsi in una nuova arma contro il secessionismo.
    Se la causa del Tibet è stata nel corso degli anni assai popolare nell’opinione pubblica dei paesi occidentali, gli inconvenienti di questa situazione di stallo sono reali, perché il tempo lavora contro la resistenza tibetana. All’interno delle sue fila sono infatti emerse critiche contro l’autoritarismo del Dalai Lama e al contempo contro il carattere troppo moderato della sua strategia (8); in secondo luogo, la repressione ha rafforzato la suddivisione politica del territorio, proprio quando la crescente urbanizzazione, la trasformazione dell’insegnamento e i progressi della colonizzazione cinese hanno modificato in profondità il tessuto stesso dello spazio. Le città si sottraggono sempre più alla cultura tibetana, che tende a trovare rifugio nelle aree rurali, dove pure sono in atto progetti di modernizzazione.
    Gli appoggi esterni non possono ormai più arrivare dal tradizionale alleato indiano, che nel maggio 2004 ha riconosciuto il Tibet come parte integrante della nazione cinese, in cambio dell’assenso di Pechino alla definitiva sovranità di Nuova Delhi sul Sikkim. L’intesa tra i due storici rivali è stata poi suggellata nell’aprile 2005 dalla visita ufficiale del premier Wen Jiabao nella capitale indiana; in tale occasione i due colossi asiatici hanno firmato un accordo che pone fine alle loro dispute sui confini dell’Himalaya. Dopo la stipula del trattato il premier cinese ha auspicato la crescita dei rapporti economici tra Pechino e Nuova Delhi, il cui interscambio si prevede possa arrivare a trenta miliardi di dollari entro il 2010 ed ha garantito l’appoggio della Cina alla candidatura dell’India per un posto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
    Certamente non potrà giovare alla causa tibetana la strumentalizzazione che ne ha fatto negli ultimi sessant’anni la politica di Washington. La rivolta del 1959, in particolare, fu sobillata da “guerriglieri” addestrati dalla CIA in Colorado (9) e poi paracadutati in Tibet, dove vennero riforniti per via aerea di armi, munizioni, apparecchiature ricetrasmittenti; essa era stata decisa dopo il fallimento di un tentativo di colpo di Stato in Cina ad opera dei servizi segreti del Pentagono. Fu la stessa CIA, inoltre, a organizzare la fuga del Dalai Lama dal paese e, in seguito, a costruire la sua immagine mediatica di pacifista e mediatore tra culture e religioni (visita al Muro del Pianto compresa). L’aiuto statunitense ha sempre avuto poco a che fare con un sincero sostegno alla causa dei Tibetani, essendo dovuto essenzialmente alla necessità strategica di mettere in difficoltà la leadership regionale di Pechino.
    L’importanza geopolitica della zona è ribadita subito dopo la seconda guerra mondiale da George R. Murrel, incaricato d’affari USA a Nuova Delhi, in una lettera indirizzata al presidente Harry Truman: “L’altopiano tibetano in epoca di guerra missilistica può rivelarsi il territorio più importante di tutta l’Asia” (10). Il Tibet, che ha una superficie di 3,8 milioni di chilometri quadrati (quanto l’Europa occidentale), controlla riserve d’acqua vitali per tutto il continente: lo Yangze, il Fiume Giallo, il Mekong, l’Indu e il Brahmaputra nascono qui, in un territorio che è pure ricco di minerali preziosi (dall’oro all’uranio).
    La tutela della Casa Bianca ha subito un interruzione solo nel 1971, dopo il disgelo tra Nixon e Mao ottenuto dalla diplomazia di Kissinger, ma è ripresa con nuovo vigore negli anni Ottanta e Novanta. Non a caso l’ultimo incontro con il Dalai Lama, tenutosi privatamente nello studio ovale del presidente statunitense nel novembre 2005, coincide con l’ennesimo tour asiatico di Bush jr., che ha puntato l’indice sul mancato rispetto dei diritti umani da parte della Cina. E questo, proprio mentre in Italia “RAI News 24” trasmetteva le immagini dei civili iracheni di Falluja bruciati con il fosforo…
    Una delle ultime dichiarazioni ufficiali rilasciate dal governo di Pechino lascia però poco spazio sulla possibilità di un cedimento. Secondo quanto annunciato dal viceministro dell’informazione del governo cinese, Qian Xiaoqian: “La nostra posizione sul Tibet è chiara. È una regione autonoma che gode dei diritti garantiti alle minoranze etniche dalla Costituzione cinese … Quando il Dalai Lama parla di autonomia, in realtà intende separare il Tibet dalla Cina e questo è inaccettabile … Il Tibet non ha bisogno di altre riforme. Ha già un parlamento autonomo composto al 70% di delegati di etnia tibetana. Le leggi nazionali e locali proteggono la lingua e la cultura del Tibet. Il Dalai Lama in realtà vuole la secessione, non l’autonomia”(11).



    * Laureato in Storia contemporanea con una tesi sulla questione palestinese, svolge attività di catalogazione bibliografica. Giornalista pubblicista, redattore di "Eurasia", collabora col quotidiano “Rinascita”. Si interessa in particolare alle tematiche relative al Vicino e Medio Oriente, all’ex Jugoslavia e all’Irlanda del Nord. Frequenta attualmente il secondo anno di laurea specialistica in Analisi dei conflitti, delle ideologie e della politica nel mondo contemporaneo.




    1) Giuseppe Tucci, Tibet ignoto, Roma 1978, p. 34.
    2) Dalai è la forma anglicizzata del mongolo Ta-le, tibetano rgya-mtsho “oceano”. Lama vale “superiore”, “maestro”; originariamente titolo dell’abate di monastero, fu poi usato per indicare ogni monaco, quale intermediario tra la gente e il Buddha. Dalai Lama divenne il titolo onorifico concesso dal principe mongolo Altan Khan al terzo grande lama della scuola Age-lugs-pa nel 1578. Lo stretto legame con la Mongolia portò questa scuola, fondata da Tsongkhapa, a una posizione di preminenza ufficiale, tanto che con il quinto Dalai Lama, Losang, essa assunse il controllo effettivo del Tibet. Il Dalai Lama vivente è il 14° della serie; nato nel 1935 nell’attuale provincia cinese di Qinghai, è stato eletto al soglio nel 1940, ha preso l’effettivo potere di governo del Tibet nel 1950, è fuggito in esilio in India nel 1959 ed oggi risiede a Dharamsala.
    3) Grazie soprattutto alla propaganda di Hollywood (si pensi al film Sette anni in Tibet o alle campagne mediatiche dell’attore Richard Gere, convertito al buddismo e spesso protagonista di pellicole anticinesi) la causa tibetana ha coinvolto un numero di sostenitori sempre maggiore. Un certo rilievo ha avuto anche l’attribuzione del Premio Nobel per la Pace al Dalai Lama nel 1989. In Italia la lobby tibetana ha ricevuto un contributo dalla strombazzata conversione dell’ex calciatore Roberto Baggio al buddhismo.
    4) Obiettivo della Cina nella campagna afgana era l’abbattimento del regime dei Talibani, particolarmente ostile alla geopolitica di Pechino nell’area. In cambio gli Stati Uniti avrebbero dovuto eliminare l’embargo alla vendita di tecnologia militare decretato dopo i fatti di Piazza Tienanmen; ma ancora oggi il divieto non è stato rimosso e si è trasformato in motivo di contrasto tra gli USA e la Francia, ansiosa di rifornire militarmente l’armata cinese.
    5) Panchen è il titolo del lama che presiede il monastero di Tashilhunpo, presso Xigaze, e che è secondo solo al Dalai Lama per prestigio temporale e spirituale nell’ambito della scuola Gelug-pa. Panchen è forma abbreviata di Pandita Chen-po, che significa “grande sapiente”.
    6) Da ricordare, a questo proposito, sono le “guerre dell’oppio” del 1838-‘42 e del 1856-‘60, volute dalla Gran Bretagna per inondare di oppio il mercato cinese (Pechino si opponeva fortemente a questo traffico). L’oppio, che era poi trasformato in eroina, veniva prodotto in Bengala (l’India era già allora colonia britannica) e commercializzato dalla East India Company di Londra, che operava per conto del governo inglese. Le conseguenze per la Cina furono devastanti; si calcola che verso il 1835, su una popolazione di 400 milioni di persone, gli oppiomani fossero 12 milioni, per raggiungere la cifra di 40 milioni agli inizi del XX secolo.
    7) Cfr. Stefano Vernole, Il Tibet è più vicino, in “Rinascita” del 19/10/2005.
    8) Nel suo viaggio a Londra del 1992, il Dalai Lama è stato oggetto di manifestazioni ostili da parte della più grande organizzazione buddhista inglese, che lo ha accusato di essere “un dittatore spietato e un oppressore della libertà religiosa” Cfr. Donald S. Lopez Jr., Prisoners of Shangri La. Tibetan Buddhism and the West, Chicago and London 1998.
    9) John Kenneth Knaus, Orphans of the Cold War. American and the Tibetan Struggle for Survival, N.Y. 1999.
    10) Ibidem.
    11) Pechino al Dalai Lama: Tibet, garanzie a tutti, “Corriere della Sera”, 10/09/2005.



    Bibliografia italiana

    Calambur-Sivaramamurti, India, Ceylon, Nepal, Tibet, UTET, Torino 1998.
    Jean Luc Domenach, Dove va la Cina?, Carocci, Roma 2003.
    Francesca Imperato, Ultime da Pechino, Editori Riuniti, Roma 2003.
    Andrei Nathan-Perry Link, Tienammen, Rizzoli, Bologna, 2001.
    Francesco Sisci, Made in China, Carocci, Roma 2004.
    Rolf A. Stein, La civiltà tibetana, Einaudi, Torino 1998.
    Tibet: oltre la leggenda. Civiltà ed arte dal XII al XX secolo, Skira, Milano 1998.
    Sergio Ticozzi, Il Tao della Cina oggi, Fondazione G. Agnelli, Torino 1998.
    Giuseppe Tucci (a cura di), Archaeologia Mundi: Enciclopedia archeologica, Tibet, Nagel,
    Ginevra 1975.
    Giuseppe Tucci, Tibet ignoto, Newton Compton, Roma 1998.
    Maria Weber, Il miracolo cinese, Il Mulino, Bologna 2001.

    da "Eurasia", 1/2006 (gennaio-marzo 2006)

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