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    Arrow I Pilastri Dell'Eurasia

    Mircea Eliade e l'unità dell'Eurasia
    di Claudio Mutti

    "Io non parlo mai di Europa e di Asia, ma di Eurasia. Non c’è avvenimento che si verifichi in Cina o in India che non influenzi noi, o viceversa, e così è sempre stato."

    - Giuseppe Tucci, “La Stampa”, 20 ottobre 1983. -

    "Anche un etnologo ed antropologo di scuola sociologica come Marcel Mauss riconosceva che “dalla Corea alla Bretagna esiste un'unica storia, quella del continente eurasiatico”".

    - François Thual, Une entreprise de résistance, prefazione a Pierre Biarnés, Pour l’Empire du monde, Ellipses. Edition marketing, Paris 2003, p. 7. -

    "Ho scoperto che qui, in Europa, le radici sono molto più profonde di quanto avessimo creduto (…) E queste radici ci rivelano l’unità fondamentale non solo dell’Europa, ma di tutta l’ecumene che si estende dal Portogallo alla Cina e dalla Scandinavia a Ceylan."

    - Mircea Eliade, L’épreuve du labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet, Pierre Belfond, Paris 1978, p. 70. -


    La Romania, crocevia dell’Eurasia

    A chi conosca la definizione dei Romeni data da Eugène Ionesco (“le Roumain est un animal nationaliste”) potrà sembrare paradossale che Mircea Eliade, il quale fu davvero un nazionalista e per giunta una “penna dell’Arcangelo” (1), abbia ribadito il medesimo concetto espresso da Tucci e Mauss circa l’unità dell’Eurasia, convalidandolo con la propria attività scientifica. Eppure, di questa unità Eliade era ben consapevole, come risulta dal fatto che, nel pieno della “guerra fredda”, egli si rifiutava apertamente di concepire l’Europa nei termini ristretti che ad essa avrebbero voluto imporre i difensori della “civiltà occidentale”. Egli infatti respingeva con tono sarcastico la concezione occidentalista scrivendo: “Ci sono ancora degli onesti occidentali per i quali l’Europa finisce sul Reno o tutt’al più a Vienna. La loro geografia è essenzialmente sentimentale: costoro sono arrivati a Vienna in viaggio di nozze. Più in là, c’è un mondo estraneo, forse affascinante, ma incerto: questi puristi sarebbero tentati di scoprire, sotto la pelle del Russo, quel famoso Tartaro di cui hanno sentito parlare a scuola; quanto ai Balcanici, è con loro che comincia quel confuso oceano etnico dei nativi che si prolunga fino alla Malesia” (2).
    Il fatto è che Eliade, in quanto Romeno, non era per nascita un occidentale, ma apparteneva ad una nazione che ha preso forma in un crocevia geografico, in una regione che ha occupato una posizione “cruciale” in relazione alle migrazioni dei popoli, tanto che i connazionali di Eliade hanno spesso manifestato una certa vocazione a svolgere il ruolo di mediatori culturali e creatori di sintesi (3). Per dirlo con le sue stesse parole: “Noi (Romeni, n.d.r.) avevamo la consapevolezza di essere situati tra l’Oriente e l’Occidente. Lei lo sa, la cultura romena costituisce una sorta di ‘ponte’ tra l’Occidente e Bisanzio, tra l’Occidente e il mondo slavo, il mondo orientale e il mondo mediterraneo. A dire il vero, fu solo in seguito che mi resi conto di tutte queste virtualità. (…) Mi sentivo il discendente e l’erede di una cultura interessante perché situata fra due mondi: quello occidentale, puramente europeo, e quello orientale. Partecipavo di questi due universi. Occidentale, per via della lingua, latina, e per via del retaggio romano, nei costumi. Ma partecipavo anche di una cultura influenzata dall’Oriente e radicata nel neolitico. Ciò è vero per un Romeno, ma sono sicuro che sia lo stesso per un Bulgaro, un Serbo-Croato – insomma, per i Balcani, l’Europa del Sud-Est – e per una parte della Russia” (4).
    In ogni caso, fin dalla fase romena della sua attività Mircea Eliade poté “captare quelle memorie nazionali che fanno della Romania, di civiltà latina e di influenze slave e turche, un ponte tra l’Europa balcanica e l’Eurasia turca” (5); e dallo studio del folclore romeno, che affonda le sue radici “in un universo di valori spirituali che preesiste all’apparizione delle grandi civiltà del Vicino Oriente antico e del Mediterraneo” (6) ed è indistricabilmente inserito in un più ampio contesto areale, egli ricavò la convinzione che l’Europa sudorientale costituisce il “vero punto cardine dei legami stratificati tra Europa mediterranea ed Estremo Oriente” (7). Nel rigoglioso patrimonio etnografico romeno, infatti, Eliade ha individuato diversi elementi che rinviano a temi mitici e rituali presenti in vari luoghi del continente eurasiatico. Sottoponendo ad un’analisi comparativa una delle più celebri ballate popolari romene, quella di Mastro Manole, egli ha gettato luce su tutta una serie di analogie che si intrecciano in un’area compresa tra l’Inghilterra e il Giappone. Il tema del sacrificio, che ispira la ballata in questione, non è attestato soltanto in Europa: “Il motivo di una costruzione il cui compimento esige un sacrificio umano è attestato in Scandinavia e presso i Finni e gli Estoni, presso i Russi e gli Ucraini, presso i Germani, in Francia, in Inghilterra, in Spagna” (8). L’area di diffusione di tale tema comprende anche la Cina, il Siam, il Giappone, il Punjab: “In Oriente sono state raccolte numerosissime tradizioni di questo tipo. Non c’è monumento famoso che non abbia, nella realtà o nella leggenda, la sua vittima sepolta viva nelle fondamenta” (9).
    Alcuni personaggi caratteristici del folclore romeno ci riportano ad antichissime figure divine eurasiatiche. È il caso, ad esempio, delle Rusalii o Iele, demoni femminili che le tradizioni popolari romene dipingono sia come fate maligne sia come fate pietose, le quali, data la loro ambivalenza, vengono ricondotte da Eliade al tipo delle “Grandi Dee eurasiatiche e afroasiatiche” (10), i cui “rituali violenti (…) si incontrano ovunque in Asia e in Eurasia” (11).
    Insomma, attraverso lo studio delle tradizioni dell’Europa e dell’Asia Eliade ha potuto rendersi conto dell’unità di fondo dell’intero continente. “Cogliendo l’unità profonda che esiste tra la cultura indigena dell’India, la cultura dei Balcani e la cultura contadina dell’Europa occidentale, ebbene, io mi sono sentito a casa mia. Studiando certe tecniche e certi miti, mi sono trovato a mio agio tanto in Europa quanto in Asia. Non ho mai avuto la sensazione di trovarmi davanti a realtà ‘esotiche’. Davanti alle tradizioni popolari dell’India, ho visto apparire le medesime strutture delle tradizioni popolari europee” (12).
    La Dacia, in particolare, – scrive Eliade – “è stata, per eccellenza, il paese delle confluenze culturali. Dalla preistoria e fino all’alba dei tempi moderni, le culture orientali ed egee non hanno cessato di esercitarvi la loro influenza. D’altra parte gli elementi iranici (scitici), e soprattutto celtici, hanno avuto una parte importante nella formazione del popolo e della civiltà geto-dacica; ed è in conseguenza di tali influenze e simbiosi che il substrato traco-cimmerio ha ricevuto l’aspetto culturale specifico che lo distingue dalle culture dei Traci balcanici. Infine la colonizzazione romana apportò l’immenso contributo latino, compresi gli elementi dell’ellenismo nella sua fase sincretistica” (13). Ancora più tardi, in un periodo che corrisponde all’ultima fase dell’età medioevale, “i principati romeni furono fondati in seguito alle grandi invasioni di Gengis-Khan e dei suoi successori” (14).
    Per quanto riguarda il mondo dei Traci nel suo complesso, Eliade indica alcune significative analogie che lo collegano da una parte con il mondo germanico e dall’altra con l’Anatolia, la Mesopotamia, il Caucaso, l’Iran, l’India: al simbolismo dei nodi, per esempio, si riferiscono “certi rituali di cui si è conservata notizia sia nell’ambito germanico che nella religione tracio-frigia e caucasica” (15).

    Il Dio celeste dei popoli eurasiatici

    Nel continente eurasiatico (e non solo in esso) Eliade ha riscontrato “la quasi universalità della credenza in un Essere divino celeste, creatore dell’universo e garante della fecondità della terra (grazie alle piogge che versa)” (16); i vari popoli del continente si sono rappresentati questo Essere celeste come un Dio onnisciente, che, dopo avere instaurato le leggi morali ed i riti, custodisce la giustizia e punisce i trasgressori.
    Nel Traité d’histoire des religions Eliade passa in rassegna alcune rappresentazioni di questa divinità uranica, cominciando dalle religioni dei popoli artici, siberiani e centroasiatici. Creatore della terra e degli uomini, garante dell’ordine universale, della regolarità dei cicli cosmici e dell’equilibrio delle società umane, il Dio celeste adorato dalle popolazioni uraliche e altaiche riveste i caratteri di supremo e provvidente Signore del mondo. “In generale, si può dire che il dio supremo celeste dei Turco-Mongoli e degli Ugrici conserva meglio di quelli d’altre razze i suoi caratteri primordiali. Egli non conosce la ierogamia e non si trasforma in dio della tempesta e del tuono (…) Gode di un vero e proprio culto, sebbene non sia rappresentato per mezzo di immagini” (17).
    Il nome che gli viene dato da Turchi e Mongoli, Tengri (“Cielo”, “Dio”), da una parte riecheggia il sumerico dingir (“luminoso”, “dio”) e dall’altra rimanda al significato del cinese T’ien (“cielo”, “dio del cielo”); ma rivela anche una stretta affinità della concezione prototurca con quella indoeuropea. “È certo – scrive Eliade – che: 1) il Dio del cielo appartiene agli strati proto-turchi più arcaici; 2) le somiglianze col dio celeste proto-europeo sono piuttosto spiccate; e 3) in generale la struttura della religiosità degli Indo-europei si avvicina a quella dei proto-Turchi più che alla religione di qualsiasi altro popolo paleo-orientale o mediterraneo” (18). Lo stesso significato uranico del turco-mongolo Tengri e del cinese T’ien è espresso dal sanscrito Varuna e dal greco Ouranòs. Parimenti uranico è il carattere fondamentale della concezione della Divinità che caratterizzò l’antico Iran, per cui Ahura Mazda è “una figura corrispondente a Varuna” (19).
    Per quanto concerne i Greci, “Ouranos scomparve dal culto prima dei tempi storici, e fu sostituito da Zeus, che rivela chiaramente nel nome l’essenza celeste” (20); e la figura greca di Zeus è identificabile con quella latina di Juppiter, la cui natura uranica si rivela nel fatto che, “come tutti gli dèi celesti, Juppiter puniva col fulmine” (21) e veniva adorato sulle cime, ossia nei luoghi più vicini al cielo.
    Figure particolari del Dio celeste supremo sono anche Taranis (presso i Celti), Perkunas (presso i Balti) e Perun (Protoslavi). Nell’area germanica, infine, figure uraniche sono Odhin (Wodan) e Thor (Donar). E qui Eliade insiste su una somiglianza che pone il mondo germanico in relazione con quello siberiano e centroasiatico. “Un filone ricco di novità, sia pure discutibili, che Eliade persegue da grande specialista, è quello delle analogie fra le pratiche magiche degli sciamani asiatici e quelle dei maghi nord-europei, che si trasformano volontariamente in lupi per cacciare da ‘cani di Dio’ gli spiriti maligni e combattere gli stregoni” (22).
    Eliade fa notare come l’idea imperiale dei Cinesi e dei Mongoli si ricolleghi direttamente al monoteismo uranico. “Nella lettera che Mangu-Khan mandò al Re di Francia per mezzo di Ruysbroeck, - egli scrive - si trova la più alta professione di fede della razza mongola: ‘Questo è l’ordine del Dio eterno: in Cielo v’è un solo Dio eterno, e sulla terra vi sarà soltanto un padrone, Genghis Khan, Figlio di Dio!’ E il sigillo di Genghis Khan portava questa iscrizione: ‘Un Dio in cielo e il Khan sulla terra. Sigillo del Padrone della terra” (23).

    Lo sciamanismo eurasiatico

    L’area di diffusione del fenomeno sciamanico, al quale Eliade dedica uno studio specifico che è tra i più celebri di tutta la sua produzione scientifica, è costituita essenzialmente dalla Siberia e dall’Asia centrale, ma si estende anche ad alcune zone periferiche del continente eurasiatico. Come scrive uno specialista dell’argomento, “l’area di estrema diffusione occidentale dello sciamanesimo nord-eurasico è costituita dalla Lapponia, dove la tradizione sciamanica si è conservata viva fino alla fine del secolo XVIII. In Giappone e in Corea lo sciamanesimo è ancor oggi molto vivo; in questi paesi esso rappresenta un’estrema propaggine estremo orientale del fenomeno sciamanico nord-eurasico” (24). Lo stesso Eliade premette al suo studio la dichiarazione formale secondo cui “lo sciamanismo stricto sensu è, per eccellenza, un fenomeno religioso siberiano e centro-asiatico” (25); però, dopo aver descritto ed esaminato le idee e le pratiche dello sciamanismo di tali regioni, egli ritiene di poter individuare elementi sciamanistici anche in aree geografiche e culturali diverse da quelle: nell’Asia sud-orientale e nelle Americhe.
    Quelli che egli considera i temi essenziali dello sciamanismo, Eliade li ritrova nell’area indoeuropea. Presso gli antichi Germani, la figura e il mito di Odhin presentano tratti sciamanici; nella Grecia arcaica, sono paragonabili agli sciamani figure leggendarie come Abaris, Aristeo di Proconeso, Epimenide di Creta, Er il Panfilio e soprattutto Orfeo; le tradizioni di Sciti, Caucasici e Iranici contengono elementi (cosmologia tripartita, tecniche dell’estasi, presenza di psicopompi ecc.) che ricordano da vicino lo sciamanesimo altaico; nell’India antica, sarebbero riconducibili ad un quadro sciamanico i riti di ascensione, il “volo magico”, lo sforzo ascetico denominato tapas, il rito di consacrazione noto come diksha, nonché simbolismi e tecniche di vario genere.
    Ma l’area di diffusione delle tecniche e dei simbolismi sciamanici si estende anche oltre l’area indoeuropea: in Tibet molte idee e tecniche sciamaniche del Bon sono state ereditate dal buddhismo, mentre in Cina il taoismo ha custodito “la presenza di quasi tutti gli elementi costitutivi dello sciamanismo: ascensione in Cielo, richiamo e ricerca dell’anima, incarnazione di ‘spiriti’, dominio sul fuoco e altri prestigi fachirici, e così via” (26).
    La fenomenologia di questi elementi è estremamente varia ed interessa uno spazio enorme. Per quanto concerne la tecnica del dominio sul fuoco, Eliade ne sottolinea la diffusione su uno spazio geografico che va dalla Cina al mondo musulmano alla Grecia: “anche se inserito nella devozione cristiana popolare, il rito è incontestabilmente arcaico, non soltanto precristiano ma forse preindoeuropeo (…) Esiste, perciò, una perfetta continuità di tali tecniche mistiche, che va dalle culture allo stadio paleolitico fino alle religioni moderne” (27).
    Ma anche i riti di ascensione trovano riscontro in aree culturali diverse da quella più propriamente sciamanica della Siberia e dell’Asia centrale: oltre all’albero sciamanico e al palo del sacrificatore vedico, Eliade menziona la scala di legno sulla quale il tracio Kosingas saliva fino alla dea Era, la scala cerimoniale dei misteri di Mithra, la ziqqurat babilonese ecc. (28).
    Strettamente connesso ai riti di ascensione è poi un simbolo fondamentale: il Centro, nel quale un Asse (Axis mundi) collega tra loro le tre regioni cosmiche; ed anche tale simbolismo trova puntuale riscontro al di fuori dell’area sciamanica. Infatti, scrive Eliade, “questa immagine archetipica si incontra soprattutto nelle civiltà paleo-orientali” (29), a partire da quella babilonese; ma un’immagine analoga è presente anche in Italia, dove “il mundus costituisce il punto d’incontro tra le regioni infere e il mondo terreno. Il tempio italico era la zona di intersezione dei mondi superiore (divino), terrestre e sotterraneo” (30). Simboli assiali analoghi si trovano al centro della geografia sacra di ogni cultura eurasiatica: dal “Legno Eretto” della tradizione cinese al tempio di Barabudur alla Ka’ba di Mecca (31). Un altro simbolo assiale è la Montagna cosmica: “molte culture parlano di queste montagne, siano esse mitiche o reali, situate al Centro del Mondo: Meru in India, Haraberezaiti nell’Iran, la montagna mitica ‘Monte dei Paesi’ nella Mesopotamia, Garizim in Palestina” (32). Ma anche “l’albero cosmico della mitologia scandinava, Ygdrassil, non è altro che una forma di questo simbolismo universale” (33). Se ne può dunque concludere che “la cultura babilonese e quella cinese coincidono perfettamente col sistema simbolico indiano” (34).

    Fabbri, alchimisti e asceti dall’Europa al Giappone

    Mesopotamia, Cina e India, d’altronde, sono le tre regioni dell’Eurasia alle quali si riferiscono, nel periodo romeno, gli studi di Eliade sulla metallurgia e sull’alchimia (35). Successivamente (36), Eliade ha esteso il campo d’indagine all’alchimia araba e a quella europea, deducendo una sostanziale unità della tradizione alchemica, al di là delle forme differenti che essa ha potuto assumere nelle distinte aree culturali: “l’alchimista occidentale, nel suo laboratorio, come il suo collega indiano o cinese, opera su se stesso, sulla propria vita psicofisiologica, come sulla sua esperienza morale e spirituale” (37).
    Il presupposto teorico dell’alchimia, secondo cui è possibile collaborare con la natura per il perfezionamento della sua opera, deriva secondo Eliade da un pensiero antico di millenni: la “mitologia dell’homo faber ereditata dall’età della pietra” (38) sarebbe stata arricchita da “idee e credenze articolate intorno al mestiere dei minatori, dei metallurghi e dei fabbri” (39); e questi mestieri hanno avuto un intimo legame con la musica, la poesia, la danza, la medicina. Da questo arcaico intreccio di arti e di tecniche deriva l’enorme diffusione di miti, concetti ed immagini che associano il fabbro e l’architetto col musico, col cantore e col medico. Il campionario che Eliade fornisce a tale proposito riguarda le più disparate culture dell’Eurasia: tanto i vocabolari semitici, quanto quelli indoeuropei rivelano una stretta solidarietà tra la figura del fabbro e quella del cantore, mentre lo stesso rapporto è stato notato presso le popolazioni turco-tatare e mongole. Come in diverse mitologie c’è un dio fabbro (il semitico Koshar, il greco Efesto ecc.) che compie una funzione civilizzatrice, così in diverse culture il fabbro e il maniscalco svolgono un ruolo iniziatico: “In certe regioni della Germania e della Scandinavia, il maniscalco partecipava, fino a un’epoca a noi vicina, a cerimonie iniziatiche di tipo Männerbund (…) Il fabbro e il maniscalco hanno un ruolo analogo nei rituali delle ‘società di uomini’ giapponesi. Il Dio-Fabbro si chiama Ame no ma-hitotsu no kami, ‘la divinità orba del Cielo’” (40). Nel folclore di età cristiana, è lo stesso Gesù Cristo (o san Pietro, san Nicola, sant’Elia) ad apparire talvolta come un fabbro o un maniscalco che guarisce i malati o ringiovanisce i vecchi, forgiandoli sull’incudine o gettandoli in una fornace accesa.
    Questo procedimento ci riporta al “calore magico” prodotto dai “maestri del fuoco”, tra i quali vanno annoverati, oltre a vasai, guerrieri, sovrani, sciamani, anche gli asceti e i santi. Il “calore magico” è infatti un aspetto costante della fenomenologia ascetica eurasiatica: “sia gli sciamani delle regioni artiche, sia gli asceti dell’Himalaya danno prova, grazie al loro ‘calore magico’, di una resistenza che sorpassa l’immaginazione” (41); e in India “i musulmani credono che un uomo in comunicazione con Dio diventi ‘bruciante’” (42).
    Un altro aspetto caratteristico delle esperienze ascetiche, quello della “luce mistica”, è presente anch’esso in vari contesti culturali del continente eurasiatico. Nel saggio sulle Esperienze della luce mistica (43), dopo aver segnalato alcuni casi di illuminazione spirituale tra gli Jakuti e gli Esquimesi iglulik, Eliade si sofferma a considerare la metafisica della luce nelle tradizioni indù e buddhista del subcontinente indiano; quindi passa in rassegna il taoismo cinese, l’Iran mazdeo, il giudaismo e il cristianesimo. Il lampo misterioso (qaumanek) improvvisamente percepito dallo sciamano esquimese, la luce interiore (antarjyotih) in cui secondo la Brhadaranyaka Upanishad (IV, 3, 7) atman si epifanizza nel cuore dell’uomo, la “luce gloriosa” (xvarnah) cui è stato assimilato lo spirito nell’Iran zoroastriano ed islamico, la “luce divina che non si estingue più” (44) alla quale accede il sufi durante la recitazione del “dhikr del cuore”: sono, queste, alcune manifestazioni di una “esperienza della luce” che all’homo religiosus dell’Eurasia “fa vedere l’esistenza come un’opera divina o il mondo santificato dalla presenza di Dio” (45).

    1. Cfr. C. Mutti, Mircea Eliade e la Guardia di Ferro, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1989 e C. Mutti, Le penne dell’Arcangelo. Intellettuali e Guardia di Ferro, SEB, Milano 1994.
    2. “Il existe encore de très honnêtes occidentaux pour qui l’Europe s’arrête au Rhin ou tout au plus à Vienne. Leur géographie est essentiellement sentimentale : ils sont allés jusqu’à Vienne pendant leur voyage de noces. Plus loin, c’est un monde étrange, attachant peut-être, mais incertain : ces puristes sont tentés de découvrir sous la peau du Russe le fameux Tatar dont on leur a parlé à l’école ; quant aux Balkaniques c’est avec eux que commence l’inextricable océan ethnique des natives qui se prolonge jusqu’en Malaisie” (M. Eliade, L’Europe et les rideaux, “Comprendre”, 3, 1951, p. 115).
    3. Sul rapporto tra la posizione geografica della Romania e l’esistenza di una cospicua intelligencija tradizionalista romena, cfr. C. Mutti, Eliade, Vâlsan, Geticus e gli altri, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999, pp. 16-20.
    4. M. Eliade, L’épreuve du labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet, Pierre Belfond, Paris 1978, pp. 26-27 e 116.
    5. Anna Masala, Eliade e la civiltà turca preislamica, in: AA. VV., Confronto con Mircea Eliade. Archetipi mitici e identità storica, Jaca Book, Milano 1998, p. 188.
    6. M. Eliade, Da Zalmoxis a Gengis-Khan, Ubaldini, Roma 1975, p. 7.
    7. Roberto Scagno, Mircea Eliade: un Ulisse romeno tra Oriente e Occidente, in: AA. VV., Confronto con Mircea Eliade, cit., p. 21.
    8. M. Eliade, Struttura e funzione dei miti, in Spezzare il tetto della casa, Jaca Book, Milano 1988, pp. 74-75.
    9. M. Eliade, Commenti alla Leggenda di Mastro Manole, in I riti del costruire, Jaca Book, Milano 1990, pp. 31-32.
    10. M. Eliade, Il mito della reintegrazione, Jaca Book, Milano 1989, p.23.
    11. M. Eliade, Il mito della reintegrazione, cit., p. 24.
    12. M. Eliade, L’épreuve du labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet, cit., p. 74.
    13. M. Eliade, Da Zalmoxis a Gengis-Khan, cit., p. 142.
    14. M. Eliade, Da Zalmoxis a Gengis-Khan, cit., p. 25.
    15. M. Eliade, Immagini e simboli, Jaca Book, Milano 1987, p. 95.
    16. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 1972, p. 42.
    17. M. Eliade, Religione dei Turco-Mongoli, estratto da “Le civiltà dell’Oriente”, vol. III, Gherardo Casini Editore, Roma 1958, p. 854.
    18. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 72 nota.
    19. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 81.
    20. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 87.
    21. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 89.
    22. Giovanni Battista Bronzini, Le credenze popolari nell’ottica eliadiana, in: AA. VV., Confronto con Mircea Eliade, cit., p. 160.
    23. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 70.
    24. Ugo Marazzi, Introduzione a: Testi dello sciamanesimo siberiano e centroasiatico, UTET, Torino 1984, p. 22.
    25. M. Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Bocca, Milano-Roma 1954, p. 18.
    26. M. Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, cit., p. 342).
    27. M. Eliade, Miti, sogni e misteri, Rusconi, Milano 1976, p. 110.
    28. M. Eliade, Immagini e simboli, cit., pp. 38-41).
    29. M. Eliade, Immagini e simboli, cit., p. 41.
    30. M. Eliade, Immagini e simboli, pp. 41-42.
    31. M. Eliade, Immagini e simboli, cit., pp. 41-46.
    32. M. Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1967, p. 38.
    33. M. Eliade, Alchimia asiatica, Humanitas, Bucuresti 1991, p. 96.
    34. M. Eliade, Alchimia asiatica, cit., p. 97.
    35. M. Eliade, Alchimia asiatica, I. Alchimia chineza si indiana, Editura Cultura Poporului, Bucuresti 1934; M. Eliade, Cosmologie si alchimie babiloniana, Editura Vremea, Bucuresti 1937. Queste due opere sono state riunite in un unico volume: M. Eliade, Alchimia asiatica, cit.
    36. Nello studio definitivo Forgerons et alchimistes, Flammarion, Paris 1956; nuova ediz. aumentata 1977; trad. it. Il mito dell’alchimia, Avanzini e Torraca, Roma 1968; ed. successiva: Arti del metallo e alchimia, Boringhieri, Torino 1980.
    37. M. Eliade, Il mito dell’alchimia, cit., p. 174.
    38. M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Vol. I Dall’età della pietra ai Misteri Eleusini, Sansoni, Firenze 1979, p. 68.
    39. M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Vol. I Dall’età della pietra ai Misteri Eleusini, cit., ibidem.
    40. M. Eliade, Il mito dell’alchimia, cit., pp. 116-117.
    41. M. Eliade, Miti, sogni e misteri, cit., pp. 169-170.
    42. M. Eliade, Miti, sogni e misteri, cit., p. 169.
    43. M. Eliade, Mefistofele e l’androgine, Edizioni Mediterranee, Roma 1971, pp. 15-70.
    44. M. Eliade, Mefistofele e l’androgine, cit., p. 59.
    45. M. Eliade, Mefistofele e l’androgine, cit., p. 70.
    Ultima modifica di José Frasquelo; 09-04-10 alle 11:10

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    Predefinito Rif: I Pilastri Dell'Eurasia

    Dalla Geografia Sacra alla Geopolitica
    Fonte nemici del sistema

    I parte


    di Alexandr Dugin

    La geopolitica come scienza "intermedia"

    Le concezioni geopolitiche sono divenute da molto tempo i maggiori fattori delle politiche moderne. Esse si muovono tenendo conto di principi generali per analizzare facilmente la situazione di un particolare paese o regione. La geopolitica nella sua forma presente è senza dubbio una scienza di questo mondo, "profana", secolarizzata. Ma forse, tra tutte le scienze moderne, essa conserva in sé la maggiore connessione con la Tradizione e con le scienze tradizionali. René Guénon ha detto che la chimica moderna è l'esito della desacralizzazione di una scienza tradizionale - l'alchimia -- come la moderna fisica lo è della magia. Esattamente allo stesso modo uno potrebbe dire che la moderna geopolitica è il prodotto della laicizzazione e della desacralizzazione di un'altra scienza tradizionale - la geografia sacra. Ma poiché la geopolitica sostiene un ruolo speciale tra le scienze moderne, ed è spesso considerata come una "pseudo-scienza", la sua profanizzazione non è ancora così compiuta e irreversibile, come nel caso della chimica e della fisica. La connessione con la geografia sacra è qui visibile piuttosto distintamente. Perciò è possibile affermare che la geopolitica si trova in una posizione intermedia tra la scienza tradizionale (geografia sacra) e la scienza profana.


    Terra e mare

    I due concetti primari della geopolitica sono la terra e il mare. Proprio questi due elementi - Terra e Acqua - stanno alle radici di ogni rappresentazione qualitativa umana dello spazio terrestre. Tramite l'esperienza della terra e del mare, di terra e acqua, l'uomo entra in contatto con gli aspetti fondamentali della sua esistenza. La terra è stabilità, gravità, fissità, spazio in quanto tale. L'acqua è mobilità, leggerezza, dinamicità, tempo. Questi due elementi sono in essenza le manifestazioni più evidenti della natura materiale del mondo. Essi si trovano al di fuori dell'uomo: tutto è pesante e fluido. Essi si trovano inoltre all'interno di esso: corpo e sangue. (la stessa cosa succede pure a livello cellulare). L'universalità dell'esperienza di terra e acqua genera il concetto tradizionale di Firmamento, dal momento che la presenza delle Acque Superiori (origine della pioggia) nel cielo implica anche la presenza di un simmetrico e necessario elemento terra, territorio, la volta celeste. Ad ogni modo, Terra, Mare, Oceano, sono in essenza le maggiori categorie dell'esistenza terrestre, e per l'umanità è impossibile non vedere in esse alcuni attributi di base dell'universo. Come i due termini di base della geopolitica, essi conservano il loro significato sia per civiltà di tipo tradizionale che per forme esclusivamente moderne di stati, popoli e blocchi ideologici. A livello di fenomeni geopolitici globali, Terra e Mare hanno generato i termini: talassocrazia e tellurocrazia, rispettivamente "potere per mezzo del mare" e "potere per mezzo della terra". La forza di uno stato e di un impero è basata sullo sviluppo preferenziale di una di queste categorie. Gli imperi sono o "talassocratici" o "tellurocratici". Quelli implicano l'esistenza di un paese madre e di colonie, questi di una capitale e di province su una "terra comune". Nel caso della "talassocrazia" il suo territorio non è unificato nello spazio di una terra - cosa che crea un elemento di discontinuità. Il mare - qui stanno sia la forza che la debolezza del "potere talassocratico". La "tellurocrazia", viceversa, ha la qualità di una continuità territoriale. Ma le logiche geografiche e cosmologiche complicano subito lo
    schema apparentemente semplice di questa divisione: la coppia "terra-mare", per reciproca sovrapposizione dei suoi elementi, dà vita alle idee di "terra marittima" e di "acqua terrestre". La terra marittima è l'isola, la base dell'impero marittimo, il polo della talassocrazia. Acque terrestri o acque interne alla terra sono i fiumi, che predeterminano lo sviluppo di imperi terrestri. Proprio sul fiume si situa la città, che è la capitale, il polo della tellurocrazia. Questa simmetria è simbolica, economica e geografica nello stesso tempo. E' importante notare che lo status di Isola e Continente è definito non tanto sulla base della loro grandezza fisica, quanto sulla base della peculiare coscienza tipica della popolazione. Così la geopolitica degli Stati Uniti ha un carattere insulare, nonostante la dimensione dell'America del Nord, mentre l'insulare Giappone rappresenta geopoliticamente un esempio di mentalità continentale, etc. Un ulteriore dettaglio è rilevante: la talassocrazia storica è collegata all'Occidente e all'Oceano Atlantico, mentre la tellurocrazia all'Oriente ed al continente eurasiano. (L'esempio precedentemente citato del Giappone è spiegato, dalla più forte "attrattiva" dell'Eurasia). Talassocrazia e Atlantismo divennero sinonimi ben prima dell'espansione coloniale della Gran Bretagna o delle conquiste Portoghesi-Spagnole. Già sin dall'inizio delle ondate migratorie marittime, i popoli dell'Occidente e le loro culture iniziarono la loro Marcia ad Oriente dai centri localizzati sull'Atlantico. Anche il Mediterraneo crebbe da Gibilterra al Vicino Oriente, piuttosto che nell'altro senso. E al contrario, scavi nella Siberia Orientale e in Mongolia provano che esattamente qui vi furono i più antichi centri di civiltà - il che significa, che le terre centrali del continente furono la culla dell'umanità eurasiana.


    Simbolismo del paesaggio

    Oltre queste due categorie globali - Terra e Mare – la geopolitica opera anche con definizioni più particolari.
    Tra le realtà talassocratiche, vi è una differenziazione tra formazioni marine e oceaniche. Così, ad esempio, la civiltà marina del Mar Nero o del Mare Mediterraneo sono qualitativamente piuttosto diverse dalla civiltà degli oceani, così come le potenze insulari e i popoli che dimorano sulle rive dell'oceano aperto. Divisioni più particolari esistono anche tra le civiltà dei fiumi e quelle dei laghi, collegate ai continenti. Anche la tellurocrazia ha le sue forme particolari. Così è possibile distinguere una civiltà della Steppa e una civiltà della Foresta, una civiltà delle Montagne e una civiltà delle Pianure, una civiltà del Deserto e una civiltà del Ghiaccio. Le varietà di paesaggio nella geografia sacra sono intese come complessi simbolici collegati alla specificità dell'ideologia dello stato, religiosa ed etica dei differenti popoli. E anche nel caso in cui si tratti di una religione universalistica ed ecumenica, la sua concreta manifestazione nell'uno o l'altro popolo, razza o stato sarà egualmente soggetta ad adattarsi in base al contesto locale sacrogeografico. Il deserto e la steppa rappresentano il microcosmo geopolitico dei nomadi. Precisamente nei deserti e nelle steppe la tendenza tellurocratica raggiunge il suo culmine, dal momento che il fattore "acqua" è qui presente in misura minima. Gli imperi del Deserto e della Steppa dovrebbero logicamente essere la testa di ponte geopolitica della tellurocrazia. Come esempio dell'impero della Steppa, uno dovrebbe considerare quello di Gengis Khan, mentre un tipico esempio dell'impero del Deserto è il califfato arabo, sorto sotto la diretta influenza dei nomadi. Le montagne e le civiltà delle montagne rappresentano spesso l'arcaico, il frammentario. I paesi di montagna non solo non sono fonti di espansione; al contrario, vi sono concentrate le vittime dell'espansione geopolitica di altre forze tellurocratiche. Nessun impero ha il suo centro in regioni montane. Da qui il motivo così spesso ripetuto della geografia sacra: "le montagne sono popolate da demoni". D'altra parte, l'idea della conservazione sulle montagne di residui di antiche razze e civiltà è dimostrata dal fatto che i centri sacri della tradizione erano situati precisamente su montagne. E' anche possibile dire che nelle tellurocrazie una montagna corrisponde a del potere spirituale. La logica combinazione di entrambi i concetti - la montagna come immagine ieratica e la pianura come immagine regale - divenne il simbolismo della collina, una piccola o media altura. La collina è un simbolo della potenza imperiale che sorge al di sopra del livello secolare della steppa, ma non raggiunge il limite del potere supremo (come nel caso delle montagne). Una collina è un luogo dove può abitare un re, un conte, un imperatore, ma non un sacerdote. Tutte le capitali dei grandi imperi tellurocratici sono situati su una collina o su colline (spesso su sette colli - il numero dei pianeti; o su cinque - il numero degli elementi, compreso l'etere; e così via). La foresta nella geografia sacra è vicina alla montagna in un preciso senso. Il simbolismo dell'albero è correlato al simbolismo della montagna (sia questa che quello designano l'asse del mondo). Perciò nelle tellurocrazie anche la foresta assume una funzione marginale - essa è il "luogo dei sacerdoti" (druidi, maghi, eremiti), ma anche allo stesso tempo il "luogo dei demoni", residui arcaici di un passato scomparso. Neppure la zona della foresta può essere il centro di un impero terrestre. La tundra rappresenta l'analogo nordico della steppa e del deserto, sebbene il clima freddo la renda molto meno significativa dal punto di vista geopolitico. Questa perifericità raggiunge il suo culmine nei ghiacci che, similmente alle montagne, sono zone profondamente arcaiche. E' indicativo che la tradizione sciamanica eschimese comporti il partire da solo tra i ghiacci, dove per il futuro sciamano è aperto il mondo dell'al di là. Perciò, i ghiacci sono una zona ieratica, la soglia di un altro mondo. Da queste primarie e più generali caratteristiche della mappa geopolitica, è possibile definire le varie regioni del pianeta a seconda della loro qualità sacra. Questo metodo può anche essere applicato alle configurazioni locali del paesaggio a livello di singoli paesi o anche di singole località. E' anche possibile tracciare le affinità di ideologie e tradizioni dei popoli (apparentemente) più diversi, nel caso in cui il paesaggio naturale sia lo stesso.


    Oriente e Occidente nella geografia sacra

    I punti cardinali hanno nel contesto della geografia sacra una speciale caratteristica qualitativa. Nelle varie tradizioni e nei vari periodi di queste tradizioni, il quadro della geografia sacra può variare secondo le fasi cicliche dello sviluppo di una data tradizione. Perciò anche la funzione simbolica dei Punti cardinali spesso muta. Senza entrare nei dettagli, è possibile formulare la legge più universale della geografia sacra con il riferimento a Oriente e Occidente. La geografia sacra, sulla base del "simbolismo spaziale" tradizionalmente considera l'Oriente come la "terra dello Spirito", il paradiso, la terra della pienezza, dell'abbondanza, la terra Sacra originaria nella sua più piena e perfetta accezione. In particolare, questa idea è rispecchiata nella Bibbia, dove viene trattata la disposizione orientale dell' "Eden". Precisamente tale significato è peculiare di entrambe le tradizioni abramitiche (Islam e Giudaismo), e anche di molte tradizioni non abramitiche - cinese, indù e iraniana. "L'Oriente è la dimora degli dei", recita la sacra formula degli antiche Egizi, e la stessa parola est ("neter" in egizio) significò contemporaneamente "dio". Dal punto di vista del simbolismo naturale, l'Oriente è il luogo ove sale "vos-tekeat" (in russo) il sole, Luce del Mondo, simbolo materiale della Divinità e dello Spirito. L'Occidente ha un significato simbolico opposto. E' il "paese della morte", il "mondo senza vita", "la terra verde" (come lo chiamavano gli antichi Egizi). L'occidente è "l'impero dell'esilio", "la fossa dei reietti", secondo l'espressione della mistica islamica. L'Ovest è "l'anti-oriente", il paese di "zakata" (in russo), decadenza, degradazione, transizione dal manifestato al non manifestato, dalla vita alla morte, dalla pienezza alla penuria, etc. L'Occidente (Zapad, in russo) è il luogo dove il sole se ne va, dove "si inabissa" (za-padaet). Secondo date logiche del naturale simbolismo cosmico, le tradizioni antiche organizzavano il loro "spazio sacro", fondavano i loro centri di culto, luoghi di sepoltura, templi ed edifici, e interpretavano le configurazioni naturali e "civili" dei territori geografici, culturali e politici del pianeta. In questo modo, la struttura stessa di migrazioni, guerre, iniziative varie, ondate demografiche, costituzioni di imperi, etc., era definita dalla originale, pragmatica logica della geografia sacra. Lungo l'asse Est-Ovest furono tracciati popoli e civiltà, in possesso di caratteri gerarchici - più vicini all'Oriente furono quelli più prossimi al Sacro, alla Tradizione, alla ricchezza spirituale. Più vicini all'Occidente, quelli spiritualmente più decaduti, degradati e morenti. Naturalmente questa logica non è assoluta, ma nello stesso tempo non è nemmeno minore o relativa - come oggi viene erroneamente considerata da molti studiosi "profani" di antiche religioni e tradizioni. Sul piano concreto, la logica sacra e il conseguente simbolismo cosmico furono molto più consapevolmente realizzati, compresi e praticati dai popoli antichi, di quello che oggi si pensi. E anche nel nostro mondo profano, a un livello "inconscio" sono quasi sempre preservati degli archetipi di geografia sacra nella loro integrità, e vengono risvegliati nei momenti più rilevanti e critici dei cataclismi sociali. Così la geografia sacra afferma univocamente la legge dello "spazio qualitativo", in cui l'Oriente rappresenta il simbolico "più" ontologico, e l'Occidente il "meno" ontologico. Secondo la tradizione cinese, l'Est è lo Yang, il maschile, la luce, il principio solare, e l'Ovest è lo Yin, il femminile, il buio, il principio lunare.


    Oriente e Occidente nella moderna geopolitica

    Osserveremo come questa logica sacro-geografica sia rispecchiata nella geopolitica che, essendo esclusivamente una scienza moderna, è focalizzata solo sulla situazione fattuale, lasciando fuori dalla struttura i principi più sacri. La geopolitica nelle sue formulazioni originali di Ratzel, Kjellen e Mackinder (e in seguito di Haushofer e degli eurasisti russi) si asteneva proprio dal collegare le strutture dei differenti tipi di civiltà e stati alla loro disposizione geografica. I geopolitici fissarono il fatto di una differenza fondamentale tra i poteri "insulare" e "continentale", tra forme di civiltà "occidentali", "progressiste" e forme culturali "orientali, "dispotiche" e "arcaiche". Poiché in generale la questione dello Spirito nella sua portata metafisica e sacra non si è mai posta nella scienza moderna, i geopolitici la lasciarono da parte, preferendo valutare la situazione in termini differenti, più moderni, piuttosto che attraverso i concetti di "sacro" e "profano", "tradizionale" e "antitradizionale", etc. I geopolitici fissarono negli ultimi secoli le differenze maggiori tra lo sviluppo politico, culturale e industriale di Orientali e Occidentali. Il quadro finale è il seguente. L'Occidente è il centro dello sviluppo "materiale" "tecnologico". A livello ideologico-culturale, vi è prevalenza delle tendenze liberal-democratiche, delle visioni del mondo individualistiche e umanistiche. A livello economico, la priorità è data al commercio ed alla modernizzazione tecnologica. In Occidente apparvero per la prima volta teorie di "progresso", "evoluzione", "sviluppo progressivo della storia", completamente aliene al mondo tradizionale orientale (e pure in quei periodi della storia occidentale, quando anche lì esisteva una rigorosa tradizione sacra, come, in particolare, nel Medio Evo). La coercizione a livello sociale acquistò in Occidente solo un carattere economico e la Legge dell'Idea della Forza fu gradualmente sostituita dalla Legge della Moneta. Gradualmente una peculiare "Ideologia Occidentale" fu espressa nella formula universale dei "diritti umani", che divenne un principio dominate nella maggior parte delle regioni occidentali del pianeta - Nord America e innanzi tutti Stati Uniti. A livello industriale, a questa ideologia corrispose l'idea di "paesi sviluppati", e a livello economico il concetto di "libero mercato", di "liberismo economico". L'intero aggregato di queste strutture, con l'aggiunta dell'integrazione puramente militare, strategica dei differenti settori della civiltà occidentale è definito oggi dal concetto di "atlantismo". Nel secolo scorso i geopolitici parlavano di un "tipo anglosassone di civiltà" o di "democrazia capitalista, borghese". In questo tipo "atlantista" la formula dell' "Occidente geopolitico" trova la sua più incarnazione più pura. L'Oriente geopolitico rappresenta in se stesso la netta opposizione all'Occidente geopolitico. Invece della modernizzazione economica, qui (nei paesi non sviluppati) prevalgono tradizionali, arcaici modi di produzione di tipo corporativo, manifatturiero. Invece della costrizione economica, più spesso lo stato usa la coercizione "morale" o semplicemente fisica (Legge dell'Idea e Legge della Forza). Invece della "democrazia" e dei "diritti umani" l'Oriente gravita su totalitarismo, socialismo e autoritarismo, vale a dire vari tipi di regimi sociali, la sola struttura comune dei quali è che il centro dei loro sistemi non è l' "individuo", l' "uomo" con i suoi "diritti" e il suo peculiare "valore individuale", ma qualcosa di sovraindividuale, di sovraumano - sia esso la "società", la "nazione", il "popolo", l' "idea", la "weltanschauung", la "religione", il "culto del leader", etc. L'Est oppose alla democrazia liberale occidentale i più vari tipi di società non liberali, non individualistiche – dalla monarchia autoritaria fino alla teocrazia e al socialismo. Inoltre, da un puro tipologico punto di vista geopolitico, la specificità politica di questo o quel regime era secondaria in rapporto alla distanza qualitativa tra ordine "occidentale" (= "individualista-mercantile") e ordine "orientale" (= "sovraindividuale - basato sulla forza"). Le forma rappresentative di tale civiltà antioccidentale sono state (o sono) l'URSS, la Cina comunista, il Giappone fino al 1945 o l'Iran di Khomeini. E' curioso osservare che Rudolf Kjellen, il primo autore a usare il termine "geopolitica", illustrò la differenza tra Occidente e Oriente in questo modo. "Una tipica frase preferita degli Americani, -- scrisse Kjellen - è "andare avanti", che significa letteralmente "in avanti". In essa si specchia l'interiore, naturale ottimismo geopolitico e il "progressismo" della civiltà americana, in quanto estrema forma del modello occidentale. I Russi usualmente ripetono la parola "nechego" [niente] (in Russo nel testo Kjellen - N.d.A.). In essa sono espressi "pessimismo", "contemplazione", "fatalismo" e "aderenza alla tradizione", tutti aspetti peculiari dell'Oriente". Se noi ora ritorniamo al paradigma della geografia sacra, noi vedremo la diretta contraddizione tra le priorità della moderna geopolitica (concetti come "progresso", "liberalismo", "diritti umani", "ordine mercantile" etc., sono oggi termini positivi per la maggioranza delle persone) e le priorità della geografia sacra, che valuta i vari tipi di civiltà da un punto di vista completamente opposto (concetti come "spirito", "contemplazione", "rassegnazione alla forza e all'idea sovrumana", "ideocrazia" etc., erano esclusivamente positivi nelle civiltà sacre, e così rimangono ancora oggi per i popoli orientali a livello di "inconscio collettivo"). Così la moderna geopolitica (eccettuati gli eurasisti russi, i discepoli tedeschi di Haushofer, i fondamentalisti islamici, etc.) valuta il quadro mondiale da una prospettiva opposta di quella della geografia sacra. Ma così entrambe le scienze convergono nella descrizione delle leggi fondamentali del quadro geografico delle civiltà.


    Nord sacro e Sud sacro

    Oltre al determinismo sacro-geografico sull'asse Est-Ovest, un problema estremamente rilevante è rappresentato dall'altro asse di orientamento verticale, l'asse Nord-Sud. Qui, così come in tutti i casi restanti, le leggi della geografia sacra, il simbolismo dei punti cardinali e i relativi continenti, hanno la loro diretta analogia nel complesso geopolitico del mondo, sia accumulata nel corso del processo storico, sia consapevolmente e artificialmente formata come risultato di azioni progettate dai leader di tale o talaltra formazione geopolitica. Dal punto di vista della "tradizione integrale", la differenza tra "artificiale" e "naturale" è generalmente piuttosto realativa, dal
    momento che la Tradizione non ha mai conosciuto niente di simile al dualismo cartesiano o kantiano, che
    separano nettamente il "soggettivo" dall' "oggettivo" ("fenomenico" e "noumenico"). Perciò il determinismo sacro di Nord e Sud non è solo un fattore climatico fisico, naturale (cioè qualcosa di "oggettivo") o solo un' "idea", un "concetto" generato dalle mente di un individuo o di un altro (cioè qualcosa di "soggettivo"), ma qualcosa di un terzo tipo, al di là sia del polo oggettivo che di quello soggettivo. Uno potrebbe dire che il Nord sacro, l'archetipo del Nord, si divide nella storia da un parte nel paesaggio naturale nordico, dall'altra nell'idea del Nord, nel "nordismo". Il più antico e originario strato della Tradizione afferma univocamente il primato del Nord sul Sud. Il simbolismo del Nord si riferisce all'Origine, ad un originario paradiso nordico, da dove ebbero origine tutte le civiltà umane. Gli antichi testi iranici e zoroastriani parlano del paese nordico di "Aryiana Vaeijao" e della sua capitale "Vara", da cui gli antichi iraniani furono allontanati dalla glaciazione, mandata loro da Ariman, spirito del Male e avversario del luminoso Ormudz. Anche gli antichi Veda parlano del paese del Nord come della dimora ancestrale degli Hindu, di Sveta-dipa, la Terra Bianca dell'estremo nord. Gli antichi greci parlavano di Hyperborea, l'isola del Nord con capitale Thule. Questa terra era considerata la terra madre del luminoso Apollo. E in molte altre tradizioni è possibile scoprire antichissime tracce, spesso dimenticate e divenute frammentarie, di un simbolismo nordico. L'idea di base tradizionalmente legata al Nord è l'idea del Centro, del Polo Immobile, punto di Eternità attorno cui ruota il ciclo non solo dello spazio, ma anche del tempo. Il Nord è la terra dove il sole non tramonta mai, uno spazio di luce eterna. Tutte le tradizioni sacre onorano il Centro, il Mezzo, il punto dove ogni contrasto si placa, il luogo simbolico non soggetto alle leggi dell'entropia cosmica. Questo Centro, il cui simbolo è lo Swastika (che sottolinea sia l'immobilità e la stabilità del Centro che la mobilità e la mutevolezza della periferia), ricevette nomi diversi a seconda della tradizioni, ma fu sempre direttamente o indirettamente collegato al simbolismo del Nord. Perciò è possibile affermare che tutte le tradizioni sacre sono in essenza la proiezione di una Singola Primordiale Tradizione Nordica adattata a ogni differente condizione storica. Il Nord è il Punto Cardinale scelto dal Logos primordiale per rivelarsi nella Storia, e ognuna delle sue successive manifestazioni reintegrò solamente questo simbolismo primordiale polare-paradisiaco.


    La geografia sacra correla il Nord a spirito, luce, purezza, completezza, unità, eternità

    Il Sud simboleggia qualcosa di direttamente opposto - materialità, oscurità, mescolanza, privazione, pluralità, immersione nel flusso del tempo e del divenire. Anche dal punto di vista naturale, nelle aree polari vi è un grande Giorno che dura metà anno e una grande Notte che dura altrettanto. Sono il Giorno e la Notte degli dei e degli eroi, degli angeli. Anche le tradizioni decadute ricordavano questo Nord cardinale, sacrale, spirituale supernaturale che considerava le regioni nordiche come il luogo abitato dagli "spiriti" e dalle "forze dell'aldilà. A Sud, il Giorno e la Notte degli dei sono frammentati in una serie di giorni umani, viene perduto l'originario simbolismo di Hyperborea, e i ricordi di essa divengono parte della "cultura", della "leggenda". Il Sud generalmente corrisponde spesso alla cultura, ossia a quella sfera dell'attività umana dove l'Invisibile e il Puramente Spirituale acquista contorni materiali, consistenti, visibili. Il Sud è il regno della sostanza, della vita, della biologia e degli istinti. Il Sud corrompe la purezza nordica della Tradizione, ma preserva le sue tracce con caratteristiche materializzate. La coppia Nord-Sud nella geografia sacra non si riduce ad un'astratta opposizione di Bene e Male. È piuttosto l'opposizione dell'Idea Spirituale alla sua grossolana, materiale incarnazione. Nei casi normali, in cui il primato del Nord è riconosciuto dal Sud, tra queste due parti esiste una armoniosa relazione - il Nord "spiritualizza" il Sud, i messaggeri nordici trasmettono la Tradizione ai meridionali, mettono le fondamenta di civiltà sacre. Se il Sud manca di riconoscere il primato del Nord, l'opposizione sacra, ha inizio la "guerra dei continenti", e dal punto di vista della tradizione il Sud è responsabile di questo conflitto per avere violato le regole sacre. Nel Rama- Yana, ad esempio, l'isola meridionale di Lanka è considerata una dimora di demoni che hanno rapito la moglie di Rama, Sita, e dichiarato guerra al Nord continentale che ha per capitale Ayodjya. Perciò è importante sottolineare che nella geografia sacra l'asse Nord-Sud è più rilevante dell'asse Oriente-Occidente. Ma essendo più rilevante, esso corrisponde allo stadio più antico della storia ciclica. La grande guerra del Nord e del Sud, di Hyperborea e Gondwana (antico paleocontinente del Sud) si riferisce ai tempi "antidiluviani". Nelle ultime fasi del ciclo essa diviene più nascosta, velata. Gli stessi paleocontinenti del Nord e del Sud scomparvero. Il testimone dell'opposizione è passato all'Est-Ovest. Lo spostamento dall'asse verticale Nord-Sud a quello orizzontale Oriente- Occidente, tipico delle ultime fasi del ciclo, salva tuttavia la connessione logica e simbolica tra queste due coppie delle geografia sacra. La coppia Nord-Sud (cioè Spirito-Materia, Eternità-Tempo) è proiettata sulla coppia Oriente-Occidente (cioè Tradizione e Profano, Origine e Dissoluzione). L'Est è la proiezione orizzontale della discesa del Nord. L'Ovest è la proiezione orizzontale della salita del Sud. Da tale spostamento dei significati sacri si può facilmente ottenere la struttura della visione continentale peculiare alla Tradizione.
    Ultima modifica di Combat; 16-06-21 alle 15:38

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    Predefinito Rif: I Pilastri Dell'Eurasia

    Dalla Geografia Sacra alla Geopolitica II parte


    Il popolo del Nord


    Il Nord sacro definisce uno speciale tipo umano che può avere un'incarnazione biologica, razziale, ma può anche non averla. La sostanza del "nordismo" consiste nella capacità dell'uomo di innalzare ogni oggetto del mondo fisico, materiale, al suo archetipo, alla sua Idea. Questa qualità non è un semplice sviluppo di origine razionale. Viceversa, il "puro intelletto" cartesiano e kantiano per la sua stessa natura non è in grado di superare il sottile confine tra "fenomeno" e "noumeno" - ma proprio questa abilità sta alla base del pensare "nordico". L'uomo del Nord non è semplicemente bianco, "ariano" o indoeuropeo per sangue, lingua e cultura. L'uomo del Nord è un particolare tipo di essere che possiede una diretta intuizione del Sacro. Per lui il cosmo è un intreccio di simboli, ognuno di essi richiamato dal segreto dall'occhio del Primo Principio Spirituale. L'uomo del Nord è un "uomo solare", Sonnenmensch, che non assorbe energia come i buchi neri, ma la emana, riversando luce, forza e saggezza dal suo spirituale flusso di creazione. La pura civiltà nordica scomparve con gli antichi Iperborei, ma i suoi emissari hanno posto le basi di tutte le tradizioni presenti. Questa "razza" nordica di Maestri è stata alle origini di religione e cultura dei popoli di tutti i continenti e di qualsiasi colore di pelle. Tracce di un culto iperboreo si possono trovare tra gli Indiani del Nordamerica e tra gli antichi Slavi, tra i fondatori della civiltà cinese e tra gli aborigeni del Pacifico, tra i biondi tedeschi e tra i neri sciamani dell'Africa Occidentale, tra i pellerossa Aztechi e tra i Mongoli dagli zigomi ampi. Non vi è nessun popolo sul pianeta che non abbia avuto un mito dell' "uomo solare", Sonnenmensch. La vera spiritualità, la Mente sovrarazionale, il Logos divino, la capacità di vedere attraverso il mondo la sua Anima segreta - queste sono le qualità che definiscono il Nord. Dovunque vi siano Purezza e Saggezza Sacra, vi è invisibilmente il Nord - in qualsiasi punto del tempo o dello spazio noi ci troviamo.


    Il popolo del Sud

    L'uomo del Sud, il tipo gondwanico, è direttamente opposto al tipo "nordico". L'uomo del Sud vive in un circuito di effetti, di manifestazioni secondarie; egli abita nel cosmo, che venera ma non comprende. Egli adora l'esteriorità, ma non l'interiorità. Egli conserva con cura tracce di spiritualità, sue incarnazioni nell'ambiente materiale, ma non è capace di passare dal simbolo a ciò che viene simboleggiato. L'uomo del Sud vive di passioni e slanci, egli mette lo psichico davanti allo spirituale (che egli semplicemente non conosce) e venera la Vita come la più alta autorità. Il culto della Grande Madre, della sostanza che genera la varietà delle forme, è tipico dell'uomo del Sud. La civiltà del Sud è una civiltà della Luna che riceve la luce dal Sole (Nord), conservandola e diffondendola per un certo tempo, ma perdendo periodicamente contatto con essa (luna nuova). L'uomo del Sud è un Mondmensch. Quando il popolo del Sud sta in armonia con quello del Nord, cioè riconosce la sua autorità e la sua superiorità tipologica (non razziale!), l'armonia regna tra le civiltà. Quando reclama la sua supremazia per la sua archetipica relazione con la realtà, allora sorge un tipo culturale distorto, che può essere definito globalmente con adorazione di idoli, feticismo o paganesimo (nel senso negativo, peggiorativo del termine). Come nel caso dei paleocontinenti, i puri tipi nordico e meridionale esistettero solo nei tempi antichi remoti. Il popolo del Nord e il popolo del Sud alle origini si opposero l'uno all'altro. In seguito tutti i popoli del Nord penetrarono nelle terre del Sud, fondando espressioni a volte luminose della civiltà "nordica" - antico Iran, India. D'altra parte, quelli del Sud giunsero a volte all'estremo Nord, portando il loro tipo culturale - Finni, Eskimesi, Chuckchi etc. Gradualmente la chiarezza originaria del panorama sacro-geografico divenne torbida. Ma nonostante tutto, il dualismo tipologico del "popolo del Nord" e del "popolo del Sud" fu preservato in tutti i tempi e le epoche - ma non in quanto conflitto esterno di due civiltà miste, ma come conflitto interno tra strutture della stessa civiltà. Il tipo del Nord e il tipo del Sud, da un certo momento della storia sacra, si oppongono ovunque l'uno altro, indipendentemente al luogo concreto del pianeta.


    Il Nord e il Sud nell'Est e nell'Ovest

    Il tipo del popolo del Nord può essere proiettato a Sud, Est e Ovest. Nel Sud la Luce del Nord produsse grandi civiltà metafisiche come l'indiana, l'iraniana o la cinese, che in una situazione di Sud "conservatore" mantennero a lungo la Rivelazione, affidandosi ad essa. Comunque, la semplicità e la chiarezza del simbolismo nordico si trasformò qui in un complesso e misto intreccio di dottrine sacre, sacramenti e riti. In ogni modo, più ci si inoltra nel Sud, più deboli sono le tracce del Nord. E tra gli abitanti delle isole del Pacifico e dell'Africa meridionale, i "motivi" settentrionali nella mitologia e nei sacramenti sono conservati in forma estremamente frammentaria, rudimentale e perfino distorta. In Oriente, il Nord viene espresso nella classica società tradizionale fondata su di una inequivocabile superiorità del sovraindividuale sull'individuale, dove l' "umano" e il "razionale" scompaiono di fronte al Principio sovraumano e sovrarazionale. Se il Sud dà alla civiltà un carattere di "stabilità", l'Est definisce la sua sacralità ed autenticità, la maggior garanzia di ciò che è la Luce del Nord. Nell'Ovest, il Nord si manifestò nelle società eroiche, dove la tendenza, peculiare dell'Occidente, alla frammentazione, individualizzazione e razionalizzazione oltrepassò se stessa, e l'individuo divenendo l'Eroe, abbandonò la struttura limitata della personalità "umana - troppo umana". Il Nord è personificato in Occidente dalla figura simbolica di Heracle che, da un lato libera Prometeo (la pura tendenza occidentale, titanica, "umanistica"), e dall'altro, aiuta Zeus e gli dei a sconfiggere la ribellione dei giganti (cioè si mette al servizio per amore delle leggi sacre e dell'Ordine spirituale). Il Sud, invece, proietta se stesso sugli altri tre punti di orientamento seguendo un'immagine opposta. A Nord, esso dà l'effetto di "arcaismo" e stagnazione culturale. Perfino le più settentrionali, "nordiche" tradizioni "paleoasiatiche", "finniche" o "eskimesi", sotto l'influenza meridionale, acquisiscono i caratteri dell' "idolatria" e del "feticismo". (Questa è, in particolare, la caratteristica della civiltà germano-scandinava nell' "epoca degli Skaldi"). Ad Est, le forze del Sud si esprimono nelle società dispotiche, in cui la normale e giusta indifferenza orientale all'individuo si trasforma nella negazione del grande Soggetto Sovraumano. Tutte le forme di totalitarismo orientale, sia tipologico che razziale, sono collegate al Sud. E infine, ad Ovest il Sud si mostra nelle forme di indivualismo estremamente rozze, materialistiche, in cui gli individui atomici raggiungono il limite della degenerazione antieroica, adorando solo il "vitello d'oro" del comfort e dell'edonismo egoistico. E'ovvio che esattamente tale combinazione delle due tendenze sacro-geografiche dia il tipo più negativo di civiltà, dal momento che le due attitudini, già in se stesse negative - il Sud sulla linea verticale e l'Ovest su quella orizzontale – sono sovrapposte l'una all'altra.


    Dai continenti ai meta-continenti

    Se dalla prospettiva della geografia sacra il Nord simbolico corrisponde univocamente agli aspetti positivi, e il Sud a quelli negativi, in un quadro geopolitico del mondo esclusivamente moderno tutto è molto più complesso, e fino ad un certo punto anche capovolto. La moderna geopolitica intende i termini "Nord e Sud" come categorie completamente differenti rispetto alla geografia sacra. In primo luogo, il paleocontinente del Nord, Hyperborea, già da molti millenni non esiste più a livello fisico, rimanendo una realtà spirituale, su cui è diretto lo sguardo interiore di chi esige la Tradizione originaria. In secondo luogo, l'antica razza nordica, la razza dei "maestri bianchi", abbinata al polo nell'epoca primordiale, non coincide per nulla con ciò che comunemente si intende oggi abbinato alla "razza bianca", basato solo su caratteri fisici, o sul colore della pelle, etc. La Tradizione nordica e la sua popolazione originaria, "nordica autoctona", da molto tempo non rappresenta più una realtà concreta storico-geografica. Per comune giudizio, anche gli ultimi resti di questa cultura primordiale sono scomparsi dalla realtà fisica già da diversi millenni. Perciò, il Nord nella Tradizione è una realtà meta-storica e meta-geografica. La stessa cosa si può dire anche della "razza iperborea" - una "razza" non in senso biologico, ma in quello spirituale, metafisico. (questo tema delle "razze metafisiche" è stato sviluppato dettagliatamente nei lavori di Julius Evola). Anche il continente del Sud e l'intero Sud della Tradizione, non esistono più da molto tempo allo stato puro, non meno della sua antica popolazione. In qualche modo, il "Sud" da un certo momento in poi, divenne praticamente l'intero pianeta, poiché diminuì nel mondo l'influenza del centro iniziatico originario polare e dei suoi emissari. Le moderne razze del Sud rappresentano un prodotto di commistioni multiple con le razze del Nord, e il colore della pelle già da lungo tempo ha cessato di essere il segno distintivo di appartenenza all'una o all'altra "razza metafisica". In altre parole, la moderna descrizione geopolitica del mondo ha assai poco in comune con la visione principiale del mondo nel suo aspetto sovrastorico e meta-temporale. I continenti e le loro popolazioni nell'epoca nostra sono giunti estremamente lontani da quegli archetipi, che a loro corrispondevano nei tempi primordiali. Perciò tra i continenti reali e le razze reali (le realtà della moderna geopolitica), da una parte, e i meta-continenti e le meta-razze (le realtà della geografia sacra tradizionale) dall'altra, oggi non esiste solo una semplice discrepanza, ma quasi una corrispondenza inversa.


    L'illusione del "Nord ricco"

    La moderna geopolitica usa il concetto di "nord" piùfrequentemente con la definizione di "ricco" - "il Nordricco", e anche "il Nord avanzato". Questo caratterizzal'intera aggregazione della civiltà occidentale, che dà lasua attenzione di base allo sviluppo del lato materialeed economico della vita. Il "Ricco Nord" è ricco non peressere più intelligente, o più intellettuale, o piùspirituale del "Sud" ma perché esso costruisce il suosistema sociale sul principio di massimizzare ilmateriale che può essere ricavato dal potenzialesociale naturale, dallo sfruttamento delle risorseumane e naturali. L'immagine razionale del "RiccoNord" è collegata a quei popoli di pelle bianca, equesta caratteristica sta alle radici delle varie versioni,esplicite o implicite, del "razzismo occidentale" (inparticolare anglosassone). Il successo del "ricco Nord"nella sfera materiale fu innalzato a principio politico eanche "razziale" in quei paesi in cui si trovavano leavanguardie dello sviluppo industriale, tecnico edeconomico – cioè Inghilterra, Olanda e in seguitoGermania e Stati Uniti. In questo caso, il benesseremateriale e quantitativo fu equiparato a criterioqualitativo, e su questa base furono elaborati i più ridicolipregiudizi su "barbarismo", "primitività""sottosviluppo" e "sottoumanità" dei popoli meridionali(cioè non appartenenti al "ricco Nord"). Un tale"razzismo economico" fu espresso in modoparticolarmente chiaro nelle conquiste colonialeanglosassoni, ed in seguito una versione colorita fuintrodotta nei più rozzi e contradditori aspettidell'ideologia nazional-socialista. Così, gliideologi nazisti spesso semplicemente mescolavanovaghe congetture sulla pura "nordicità spirituale" esulla "razza spirituale ariana" con il razzismo volgare,mercantilistico, biologico di tipo inglese. (A proposito,precisamente questa sostituzione delle categorie dellageografia sacra con le categorie dello sviluppomateriale e tecnologico fu anche quell'aspetto piùnegativo del nazionalsocialismo che lo condusse, allafine, al suo collasso politico, teoretico e anchemilitare). Ma anche dopo la sconfitta del Terzo Reich,questo tipo di razzismo del "ricco Nord" non scomparvedel tutto dalla vita politica. Ne divennero comunqueportatori innanzi tutto gli USA e i loro partner atlantistinell'Europa occidentale. Certamente, nelle più recentidottrine mondialiste del "ricco Nord" la questione dellapurezza biologica e razziale non è sottolineata, matuttavia, in pratica, nelle sue relazioni con i paesisottosviluppati o meno sviluppati del Terzo Mondo, il"ricco Nord" anche oggi dimostra solo arroganza"razzista", tipica sia dei colonialisti inglesi che deinazionalsocialisti tedeschi seguaci ortodossi diRosenberg. Attualmente, "ricco Nord" geopoliticamentesignifica quei paesi dove hanno vinto le forzedirettamente opposte alla Tradizione - le forze dellaquantità, del materialismo, della degradazione spiritualee della degenerazione emotiva. " Ricco Nord " significaqualcosa di radicalmente distinto da "nordicitàspirituale", da "spirito iperboreo". La sostanza del Nordnella geografia sacra è il primato dello spirito sullasostanza, la definitiva e totale vittoria della Luce,dell'Equità e della Purezza sull'oscurità della vitaanimale, sull'arroganza delle passioni individuali e sul fango dell'egoismo di base. La geopolitica del "RiccoNord" mondialista, al contrario, significaesclusivamente benessere materiale, edonismo,società dei consumi, non problematico ed artificialepseudoparadiso di coloro che Nietzsche chiamò "gliultimi uomini". Il progresso materiale della civiltàtecnologica fu accompagnato da un mostruosoregresso spirituale proprio nella cultura sacra e,conseguentemente, dal punto di vista della Tradizione,la "ricchezza" del moderno "avanzato" Nord non puòservire come criterio di genuina superiorità sulla"povertà" materiale e sull'arretratezza tecnologica del"primitivo Sud" moderno. Inoltre, la "povertà"materiale del Sud assai spesso è per contro legata allaconservazione nelle regioni meridionali di genuineforme di civiltà sacra; questo significa che dietro talepovertà si trova spesso travestita una ricchezzaspirituale. Almeno due civiltà sacre esistono ancoraoggi nello spazio meridionale, nonostante tutti i tentatividel "ricco (e aggressivo!) Nord" di imporre a tutti ipropri criteri e il proprio percorso di sviluppo. Questesono l'India induista e il mondo islamico. Per quantoriguarda l'Estremo Oriente, vi sono vari punti di vista:alcuni vedono, perfino sotto lo strato delle retoriche"marxista" e "maoista", certi principi tradizionali chefurono sempre indiscussi per la civiltà sacra cinese. Adogni modo, anche quelle regioni meridionali abitate dapopoli che conservano la loro devozione per antiche equasi dimenticate tradizioni sacre, tuttavia a paragonedel "ricco Nord" ateizzato e completamentematerialista, dimostrano caratteristiche "spirituali","rigorose" e "normali" - mentre lo stesso "ricco Nord",da un punto di vista spirituale, è completamente"anormale" e "patologico".


    Il paradosso del "Terzo Mondo"

    Il "povero Sud" nei progetti mondialisti è attualmente sinonimo di "Terzo Mondo". Questo mondo fu chiamato
    "Terzo" durante la guerra fredda, e questo concetto presuppose che gli altri due "mondi" – capitalista avanzato e sovietico meno avanzato - fossero più rilevanti e significativi per la geopolitica globale, rispetto a tutte le rimanenti regioni. Di base, l'espressione "terzo Mondo" ha un senso peggiorativo: secondo le logiche utilitaristiche del "ricco Nord", tale definizione attualmente equipara i paesi del "Terzo Mondo" a "terra di nessuno" basi di risorse naturali ed umane che dovrebbero solo ubbidire, essere sfruttate ed essere usate per i propri progetti. Così il "ricco Nord" manovrò abilmente le caratteristiche politico-ideologiche e religiose del "povero Sud", cercando di asservire ai suoi affari esclusivamente materialistici ed economici quelle forze e strutture che come potenziale spirituale superavano di molto il livello spirituale del "Nord". Questo fu ad esso quasi sempre possibile, poiché lo stesso momento ciclico dello sviluppo della nostra civiltà favorisce le tendenze pervertite, anormali e innaturali - dal momento che, secondo la Tradizione, ci troviamo ora nell'ultimo periodo dell"età oscura", il Kali-Yuga. L'Induismo, il Confucianesimo, l'Islam, le tradizioni autoctone dei popoli "non bianchi" divennero per i conquistatori materiali del "ricco Nord" un ostacolo al compimento dei loro progetti, ma nello stesso tempo essi hanno spesso usato degli aspetti separati della Tradizione per raggiungere i loro scopi mercantilistici - sfruttando contraddizioni, caratteristiche religiose o problemi nazionali. Un simile uso utilitaristico dei vari aspetti della Tradizione per scopi esclusivamente antitradizionali è stato un male peggiore del semplice diniego di tutti i valori tradizionali, dal momento che la più grande perversione consiste nel fatto che ciò che è elevato venga asservito all'insignificante. Attualmente " il povero Sud " è "povero" a livello materiale precisamente a causa delle sue attitudini spirituali, che danno sempre agli aspetti materiali dell'esistenza un posizione minore e non importante. Il Sud geopolitico del nostro tempo conserva in generale un atteggiamento esclusivamente tradizionalista verso gli oggetti del mondo esteriore – un atteggiamento calmo, distaccato ed, eventualmente, indifferente – in completo contrasto con l'ossessione materiale del "ricco Nord", con la sua paranoia materialistica ed edonistica. Il popolo del "povero Sud" vive normalmente nella Tradizione, e finora la sua esistenza è più piena, più profonda e anche più magnifica, perché l'attiva compartecipazione alla Tradizione sacra conferisce a tutti gli aspetti delle vite personali quel significato, quell'intensità, quella saturazione delle quali sono stati privati da lungo tempo i rappresentanti del "ricco Nord", resi isterici dalle nevrosi, dalle paure materiali, dalla desolazione interiore, dalla vita completamente senza scopo, che rappresentano solo un lucente caleidoscopio di vetro, solamente un quadro vuoto. Si potrebbe dire che la correlazione tra Nord e Sud nei tempi originari fosse polarmente opposta alla loro correlazione nella nostra epoca, dal momento che è il Sud che ancor oggi preserva alcuni collegamenti con la Tradizione, mentre il Nord li ha definitivamente perduti. Tuttavia questa situazione non copre assolutamente l'intero quadro della realtà, in quanto la vera Tradizione non può mettere in relazione con se stessa un tale umiliante riferimento, come gli atteggiamenti dell'aggressivo-ateistico "ricco Nord" nei confronti del "Terzo Mondo". Il fatto è che la Tradizione è conservata a Sud solo in un modo inerziale, frammentario e parziale. Esso tiene una posizione passiva e resiste, difendendosi solamente. Perciò il Nord spirituale non si è pienamente trasferito a Sud alla fine dei tempi - nel Meridione vi è solamente un'accumulazione ed una conservazione di impulsi spirituali, non appaiati con il Nord sacro. In linea di principio, l'iniziativa attiva tradizionale non può provenire da Sud. E al contrario, il mondialista "Nord ricco" ha manovrato in modo da intensificare il suo pericoloso effetto sul pianeta dovuto alla specificità delle regioni nordiche, predisposte all'attività. Il Nord era e rimane il luogo elettivo della forza, perciò la vera efficienza appartiene alle iniziative geopolitiche provenienti dal Nord. Il "povero Sud" possiede oggi tutta la priorità spirituale prima del "ricco Nord", ma tuttavia non può servire da seria alternativa all'aggressione profana del "ricco Nord", né può offrire un radicale progetto geopolitico in grado di sovvertire il quadro patologico del moderno spazio planetario.


    Il ruolo del "Secondo Mondo"

    Nella rappresentazione bipolare "ricco Nord" - "povero Sud" esiste sempre una componente aggiuntiva che ha un significato autosufficiente e assai rilevante. E' il "secondo mondo". Con l'espressione "secondo mondo" si è convenzionalmente inteso contrassegnare il campo socialista integrato nel sistema sovietico. Questo "secondo mondo" non era né il presente "ricco Nord", in quanto definiti motivi spirituali influenzavano segretamente l'ideologia nominalmente materialistica del socialismo sovietico, né il presente "Terzo Mondo", dal momento che la piena attitudine allo sviluppo materiale, il "progresso" e altri principi solamente profani stavano alle radici del sistema sovietico. La geopoliticamente eurasiana URSS si trova sia sul territorio della "povera Asia" che sulle terre della sufficientemente "civilizzata" Europa. Durante il periodo socialista, la cintura planetaria del "ricco Nord" era interrotta nell'Eurasia orientale, complicando la chiarezza delle relazioni geopolitiche sull'asse Nord- Sud. La fine del "Secondo mondo" come civiltà speciale lascia allo spazio eurasiano della vecchia URSS due alternative - o essere integrato nel "ricco Nord" (cioè, l'Occidente e gli USA) o essere gettato nel "povero Sud", cioè raggiungere il "Terzo Mondo". Come variante di compromesso, la separazione delle regioni (parte al "Nord" e parte al "Sud") è anche possibile. Come sempre è stato nei secoli scorsi, l'iniziativa di redistribuzione degli spazi geopolitici in questo processo appartiene al "ricco Nord" che, usando cinicamente i paradossi dello stesso concetto di “Secondo mondo", fissa nuovi confini geopolitici e separa zone di influenza. I fattori nazionali, economici e religiosi servono ai mondialisti solo come strumenti della loro attività cinica dalle motivazioni profondamente materialistiche. Non è sorprendente che oltre la retorica del falso "umanitarismo", saranno anche spesso e quasi apertamente usate le ragioni "razziste", invocate per ispirare ai Russi un complesso di "bianca" superiorità nei confronti del sud asiatico e caucasico. A questo è correlato il processo inverso – il rigetto definitivo da parte dei territori meridionali del vecchio "Secondo Mondo" per il "povero Sud" si accompagna all'uso della carta delle tendenze fondamentaliste, dell'inclinazione del popolo alla Tradizione e del revival della religione. Il "Secondo mondo", essendosi disintegrato, si trova diviso secondo le linee di "tradizionalismo" (tipo meridionale, inerziale, conservatore) e "antitradizionalismo" (tipo attivamente settentrionale, modernista e materialista). Tale dualismo, che oggi è solo progettato, ma in un prossimo futuro diventerà il fenomeno dominante della geopolitica eurasiana, è predeterminato dall'espansione dell'interpretazione mondialistica del mondo nei termini di "ricco Nord"-"povero Sud". Ogni tentativo di salvare il vecchio Grande Spazio Sovietico, ogni tentativo di salvare semplicemente il "Secondo mondo" come qualcosa di autosufficiente ed autoequilibrato a metà strada tra Nord e Sud (nel loro significato esclusivamente moderno), non può essere coronato da successo, senza mettere in dubbio la fondamentale concezione polare della moderna geopolitica, intesa e realizzata nella sua reale natura, lasciando da parte le ingannevoli dichiarazioni di ispirazione umanitaria ed economica. Il "Secondo mondo" scompare. Non c'è più posto per esso nella mappa geopolitica moderna. Nello stesso tempo, aumenta la pressione del "Nord ricco" sul "Sud povero", essendo un tutt’uno con l'aggressiva materialistica società tecnocratica in assenza di un potere intermedio, che esisteva sino ad oggi – il "Secondo mondo". Per il "Secondo mondo", un destino diverso dalla spartizione totale secondo le regole del "ricco Nord", è possibile solo attraverso un radicale abbandono della logica planetaria di una dicotomia dell'asse Nord-Sud, considerata in una chiave mondialista.


    Il progetto della "Rivolta del Nord"

    Il "ricco Nord mondialista" globalizza il suo dominio sul pianeta attraverso la divisione e la distruzione del "Secondo mondo". Nella moderna geopolitica questo viene anche chiamato il "nuovo ordine mondiale". Le forze attive dell'antitradizione consolidano la loro vittoria sulla resistenza passiva delle regioni meridionali che preservano la loro arretratezza economica e difendono la Tradizione nelle sue forme residuali. Le interne energie geopolitiche del "Secondo mondo" sono messe di fronte ad una scelta - o essere incorporate nel sistema della "cintura settentrionale civilizzata" e strapparsi definitivamente da qualche connessione con una storia sacra (progetto del mondialismo di sinistra), o trasformarsi in un territorio occupato essendo consentito un parziale ripristino di alcuni aspetti della tradizione (progetto del mondialismo di destra). Gli eventi oggi e nel prossimo futuro si svilupperanno in questa direzione. Come progetto alternativo è possibile teoreticamente formulare un differente percorso di trasformazione geopolitica basato sul rifiuto della logica mondialista Nord-Sud e ritornando allo spirito della genuina geografia sacra - per quello che è possibile alla fine dell'età oscura. E' il progetto del "Grande Ritorno" o, in altre parole, della "Grande Guerra dei Continenti". Nei suoi caratteri più generali, l'essenza di questo progetto è la seguente. 1) Il "Ricco Nord" è opposto non al "Sud povero", ma al "Nord povero". Il "Nord Povero" è un ideale, l'ideale sacro del ritorno alle fonti nordiche della civiltà. Un tale Nord è "Povero" perché è basato su un totale ascetismo, su una radicale devozione ai più alti valori della Tradizione, sul completo disprezzo del materiale per amore dello spirituale. "Il Nord Povero" esiste geograficamente solo sui territori della Russia che, essendo in effetti "proveniente dal Secondo Mondo", ha resistito socio-politicamente fino all'ultimo momento all'adozione finale della civiltà mondialista nelle sue forme più "progressive". Le terre eurasiane settentrionali della Russia sono i soli territori sulla Terra che non sono stati completamente dominati dal "ricco Nord", sono abitati da popoli tradizionali e sono una terra incognita del mondo moderno. Il percorso del "Nord Povero" per la Russia significa il rifiuto dell'incorporazione nella cintura mondialista, di arcaizzare le proprie tradizioni e ridurle al livello folkloristico di una riserva etnoreligiosa. "Il Nord povero" dovrebbe essere spirituale, intellettuale, attivo ed aggressivo. In altre regione del "Nord ricco" è pure possibile una potenziale opposizione del "Nord povero" - che potrebbe manifestarsi in un radicale sabotaggio da parte dell'élite intellettuale occidentale al corso prestabilito della "civiltà mercantilistica", in una ribellione contro il mondo della finanza in nome degli antichi ed eterni valori di Spirito, equità, autosacrificio. Il "Nord Povero" inizia un combattimento geopolitico e ideologico con il "Nord Ricco", rigettando i suoi progetti, facendo saltare i suoi piani dall'interno e dall'esterno, battendo la sua incolore efficienza, sfasciando le sue manipolazioni sociali e politiche. 2) Il "Sud Povero", incapace di opporsi da solo al "Nord ricco", stabilisce un'alleanza radicale con il "Nord povero (eurasiano)" e inizia una lotta di liberazione contro la dittatura "settentrionale". E' specialmente importante colpire i rappresentanti dell'ideologia del "Sud ricco", ossia quelle forze che, lavorando nel "Nord ricco", difendono lo "sviluppo", il "progresso" e la "modernizzazione" di paesi tradizionali che praticamente significherà solo una crisi crescente per ciò che resta di Tradizione sacra. 3) il "Nord Povero" dell'Oriente eurasiano, insieme con il "Sud Povero", estendendosi in cerchio attorno all'intero pianeta, concentrano le forze che combattono contro il "Nord ricco" dell'Occidente atlantista. Così si metterà per sempre fine alle versioni ideologicamente volgari del razzismo anglosassone, inneggiante alla "civiltà tecnologica dei popoli bianchi" ed echeggiante la propaganda mondialista. (Alain de Benoist espresse questa idea nel titolo del suo famoso libro "Terzo Mondo ed Europa: la stessa battaglia"[L'Europe, Tiersmonde - même combat]; il suo argomento è, naturalmente, l' "Europa spirituale", l' "Europa dei popoli e delle tradizioni", invece dell' "Europa di Maastricht dei buoni".) Intellettualità, attività e profilo spirituale del genuino Nord sacro fanno le tradizioni del ritorno alle Fonti nordiche, e sollevano il "Sud" a una rivolta planetaria contro il solo nemico geopolitico. La resistenza passiva del "Sud" acquista così un fulcro nel messianismo planetario dei "nordici", respingendo radicalmente la branca degenerata e desacralizzata di quei popoli bianchi che hanno seguito la strada del progresso tecnologico e dello sviluppo materiale. Scoppia la Rivoluzione Geopolitica planetaria sovrarazziale e sovranazionale, basata sulla fondamentale solidarietà del "Terzo Mondo" con quella parte del "Secondo mondo" che rigetta i progetti del "ricco Nord". Durante la lotta, la fiamma della "resurrezione del Nord spirituale", la fiamma di Hyperborea trasforma la realtà geopolitica. La nuova ideologia globale è l'ideologia della Restaurazione Finale, che pone il punto finale alla storia geopolitica della civiltà - ma non quel punto che avrebbero voluto mettere i portavoce mondialisti della Fine della Storia. La variante materialistica, ateistica, antisacrale, tecnocratica, atlantista della Fine si è trasformata in un differente epilogo - la Vittoria finale del sacro Avatar, la venuta del Terribile Destino, che dà a coloro che scelsero volontariamente la povertà, un regno di abbondanza spirituale, e a coloro che preferirono la ricchezza fondata sull'assassinio dello Spirito, eterna dannazione e tormenti nell'inferno. I continenti scomparsi si sono levati dagli abissi del passato. Gli invisibili meta-continenti appaiono nella realtà. Una Nuova Terra e un Nuovo Paradiso sorgono. Questo percorso non è dalla geografia sacra alla geopolitica, ma al contrario, dalla geopolitica alla geografia sacra.

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    Predefinito Rif: I Pilastri Dell'Eurasia

    EURASIA (LIMITI GEOPOLITICI DEL CONTINENTE EURASIA)
    di Carlo Terracciano


    Dopo l’improvviso crollo dell’Unione Sovietica e la fine della divisione politica dell’Europa in due blocchi contrapposti, a risorgere dalle ceneri di Yalta non è stato solo il Vecchio Continente ma anche la Geopolitica. Possiamo anche dire l’una in conseguenza dell’altro, in naturale simbiosi.
    Dottrina ostracizzata e demonizzata nel dopoguerra come “pseudoscienza nazista”, oggi le analisi geopolitiche riempiono le pagine di giornali, periodici, rotocalchi, arrivando persino talvolta ad intrufolarsi, QUASI SEMPRE A SPROPOSITO, nei discorsi di politici e politologi.
    Un termine geopolitico che, seppur molto a fatica, si sta facendo strada nelle analisi degli esperti, o presunti tali, è quello di EURASIA.
    Forse uno dei più abusati nell’uso che se ne fa ora, quanto fumoso nei reali contorni
    storico-geografici.
    Anche per le evidenti implicazioni di politica internazionale che esso rappresenta e sempre più rappresenterà nel futuro prossimo.
    Eppure Eurasia, nella terminologia geopolitica, è un CONTINENTE che ha un ben preciso connotato geografico.
    Intanto bisogna sfatare un luogo comune giornalistico, facilmente veicolabile dalla parola stessa, chiaramente composta da “Europa” e “Asia”; e cioè che essa non sia altro che la somma dei due continenti dei quali, in effetti, geograficamente parlando, è innegabile l’unitarietà, essendo l’Europa qualche frase ad effetto ("il Male assoluto fu Piazzale Loreto"), o di circostanza ("siamo dalla parte delle famiglie...dei bambini, ecc."), non si è potuto neppure intuire una base programmatica, tanto meno dottrinaria. Dunque rinviamo ogni discussione in merito al mese prossimo.
    E' di questi giorni lo scontro interno alla Fiamma tra il presidente Rauti e il segretario Romagnoli, con tanto di espulsione incrociata e convocazione d'un congresso straordinario. Non val neppure la pena d'esaminare in concreto su cosa verta il confronto, perché di fatto è solo un regolamento di conti tra i due ducetti del partito. L'unica cosa che ci si può augurare, è che questo sia lo scontro finale, cosicché resti alla Fiamma una sola guida sicura, e che questa sia - preferibilmente, tra i due - Romagnoli: a patto che, naturalmente, ritorni il fascista intravisto l'anno scorso, riprendendosi dall'amnesia ideologica che lo ha colpito in questi ultimi mesi. Ci credo poco, ma lo sperar (come il tentar) non nuoce.



    nient’altro che un prolungamento ad ovest della massa terrestre asiatica, una penisola di grosse dimensioni dell’Asia stessa.
    Europa a sua volta suddivisa in penisole (la Scandinavia, l’Iberia, la penisola italica…e isole).
    Se a questa unità dovessimo aggiungere l’Africa, avremmo quello che si denomina il Vecchio Mondo (meglio “Mondo Antico”) contrapposto all’altra grande massa di terre emerse che è l’America (le Americhe): potremmo definirla EURASIAFRICA, con un neologismo ridondante.
    In verità le cose non stanno affatto così.
    Bisogna prima di tutto ricordare che la suddivisione dei continenti considerata dagli studiosi di geopolitica NON corrisponde a quella che ci hanno insegnato fin dalle elementari, cioè i 5 Continenti: Europa, Asia, Africa, America, Australia (i cinque cerchi colorati del vessillo olimpico).
    Per la geografia classica i continenti sono masse di terra emersa circondate da mari e oceani ed atte alla vita dell’uomo; la qual cosa spiega, per esempio, perché l’Antartide, vera isola-continente a se stante, terra perennemente ricoperta di altissimi ghiacciai, non sia mai considerata come tale e semmai posta in parallelo all’Artide, notoriamente fatta solo di ghiaccio.
    Già da questa definizione possiamo dedurre che l’Europa appunto NON è un “continente”
    neanche per la geografia cattedratica ufficiale, rispondendo solo su tre lati alla caratteristica dell’isolamento marino e oceanico.
    Ad est il confine con l’Asia corre lungo la catena degli Urali per oltre 2000 km., da Circolo Polare Artico, al fiume Ural e al Caspio.
    Montagne non particolarmente alte, 1000/1500 metri e che al centro e sud degradano verso la depressione caspica. Poco più che un sistema collinare esteso in verticale.
    Nei millenni gli Urali non hanno mai rappresentato un vero baluardo alle migrazioni di popoli, in un senso e nell’altro, come dimostrano tra le tante le invasioni mongoliche della Russia e la colonizzazione russa della Siberia.
    In Geopolitica i continenti sono quelle aree della Terra che, per le loro caratteristiche di OMEGENEITA’, CONTIGUITA’, INTERDIPENDENZA economica, politica, umana, rappresentano una UNITA’, geografica e [quindi] anche storica; favorendo migrazioni di popoli, interscambi, conquiste che passano per alcuni nodi geostrategici essenziali.
    E si badi bene: queste Aree Geopolitiche Omogenee NON sono nettamente confinanti l’una con l’altra, ma intersecantesi tra loro. Proprio come i cerchi olimpici rappresentati l’uno concatenato all’altro.
    Ecco perché le aree confinarie, sul modello non del confine moderno ma del limes romano, sono rappresentate da fascie, molto estese e non nettissimamente definibili.
    Così uno o più stati odierni possono appartenere ad almeno due unità geopolitiche confinanti, anzi intersecatesi.
    Esempio: le penisole meridionali della grande penisola Europa, Iberia, Italia, Grecia sono certamente eurasiatiche (nel senso che specifichiamo oltre), ma contemporaneamente e altrettanto certamente Mediterranee.
    Il Mediterraneo (in medium terrae) infatti, mare chiuso, con numerose isole e penisole e con stretti che lo collegano sia all’Atlantico, che al Mar Nero e al Mar Rosso/Oceano Indiano (specie dopo l’apertura del canale di Suez) è esso stesso un’unità geopolitica.
    Non separazione, ma passaggio e collegamento tra le sue coste a nord e a sud, in Medio Oriente e nord-Africa, fin dai tempi più remoti.
    La posizione privilegiata della penisola italica al centro, con la Sicilia come nodo strategico di controllo (si pensi al ruolo decisivo del suo possesso nello scontro mondiale tra Roma e Cartagine o durante l’avanzata islamica o anche nell’invasione USA del continente nel 1943), spiega, per esempio, come gli etruschi prima e i romani poi siano stati per secoli i dominatori dell’area e questi ultimi gli unificatori totali del bacino mediterraneo.
    A sua volta il nordafrica arabo-islamico rappresenta un’altra catena intersecantesi con l’Europa attorno a questo mare, fino alle propaggini mediorientali; mentre il vero baluardo tra Magreb e “Africa Nera” corre a sud, nel vasto mare non di acqua ma di sabbia che, dopo il Sahel arriva alle savane e alle boscaglie nel cuore dell’Africa.
    Sahel e savana sono la loro elissi di congiunzione.
    Avendo sempre ben presenti questi presupposti, torniamo alla nostra Eurasia.
    L’unità geopolitica dell’Eurasia è allora rappresentata dalla penisola Europa, ben oltre la non rilevante “strozzatura” tra Kalinigrad e Odessa, fino agli Urali E l’intera Siberia, fino al mare di Okhotsk/Mar del Giappone, con a sud Vladivostock, la “Porta d’Oriente” e a nord lo stretto di Boering. Uno stretto peraltro superato nei millenni passati dalle popolazioni siberiane che raggiunsero il continente poi americano, percorrendolo da nord a sud, nonché da esploratori russi che arrivarono fino a metà dell’attuale California !
    Il VERO confine dell’Eurasia, come unità sia geografica che politica, è quindi dato a nord dal Mare Glaciale Artico fino al Polo, ad ovest dall’Atlantico (vero separatore storico-geografico di due masse continentali ben distinte), a sud dal Mediterraneo/Bosforo/Mar Nero, fino al Caspio, lungo la linea meridionale del Caucaso.
    In Asia poi, da sempre, sono i deserti centroasiatici e le grandi catene montuose ad aver rappresentato il più naturale ostacolo tra “bacini geopolitici omogenei”; certo non insuperabili, ma comunque tanto ben netti da creare diversi tipi di civiltà, almeno fino all’avvento della moderna tecnologia di movimento.
    Per esser più precisi, partendo dal nord-Caspio e fiume Ural, potremmo indicare nel 50° PARALLELO all’incirca la linea di separazione tra Eurasia “bianca” (termine che usiamo senza alcuna connotazione “razziale”) e Asia Turcofona; una fascia quest’ultima a sua volta storicamente omogenea, che corre dalla costa mediterranea della repubblica turca fino ai bassopiani delle ex repubbliche sovietiche islamiche e al Sinkiang cinese; Tagikistan escluso, il quale, a sua volta fa parte di quell’Islam “ariano” che comprende Iran, Afghanistan e Pakistan, fino al tradizionale confine dell’Indo.
    Oltre inizia il “subcontinente indiano” che, protetto a nord dal bastione himalayano, ha sviluppato nei millenni una sua civiltà autonoma, che oggi conta ben oltre un miliardo di individui.
    Altra unità geopolitica l’Asia “gialla” con Cina-Mongolia-Corea-Giappone e poi Birmania-Indocina-Thailandia-Malesia fino agli arcipelaghi meridionali che, con l’Indonesia e la Guinea rappresentano il “ponte di isole” verso la grande isola-continente Australia.
    Tornando alla nostra Eurasia a nord del 50° parallelo del Kazakhistan, ancora abitato da forti minoranze russe post-sovietiche, possiamo considerare l’attuale confine russo-mongolo-manciuriano, dagli Altaj fino all’Amur-Ussuri come il confine tra i due mondi, le due “Asie”, o meglio l’Eurasia propriamente detta e le altre unità geopolitiche della più grande massa continentale mondiale.
    Notiamo per inciso che il baricentro di questa Eurasia, praticamente la Siberia nord-occidentale a ridosso degli Urali, fu indicato dal geopolitica inglese Sir Halford Mckinder, all’inizio del secolo scorso, come il famoso HEARTLAND, il “Cuore della Terra”, cioè il retroterra logistico della massa continentale più lontano e difendibile dall’attacco di una potenza marittima (ieri Impero Britannico, oggi Stati Uniti).
    Nel conflitto planetario tra il “Mare” e la “Terra”, intese come categorie geopolitiche in conflitto, il possesso dell’Heartland assicurerebbe il controllo dell’Eurasia, quindi dell’Isola Mondo, quindi del mondo intero.
    Le recenti invasioni americane di Afghanistan e Iraq, con minacce all’Iran e alla Corea del Nord e gli avamposti nel Caucaso (Georgia) e nelle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale, possono essere letti (non solo, ma anche e diremmo principalmente) come il tentativo di penetrare quanto più possibile all’interno della massa continentale, verso l’Heartland appunto: mirando da una parte al “ventre molle” della Russia ancora non ripresasi dalla crisi post-sovietica dell’implosione dell’impero e dall’altra alle spalle “terrestri” della Cina, il cui baricentro politico e demografico è tutto spostato a oriente, verso il mare e le cui retrovie terrestri sono abitate in buona parte da popolazioni non-cinesi (Uiguri, Tibetani, Mongoli).
    La geostrategia della talassocrazia americana da due secoli a questa parte è di una tale linearità, a prescindere dal succedersi delle “amministrazioni” al potere a Washington, da non lasciare alcun dubbio sugli effettivi intenti anti-eurasiatici degli Stati Uniti d’America.
    I quali possono sempre contare sull’inviolabilità del proprio continente isola, almeno fino all’11 settembre 2001…
    A occidente dell’Eurasia le isole atlantiche e in particolare l’Islanda fanno parte sempre della storia e della geografia d’Europa, almeno dalle spedizioni vichinghe in poi.
    Notiamo infatti come la grande epopea scandinava sia arrivata da una parte alle coste americane (la Groenlandia e la Vinlandia) e dall’altra abbia attraversato per via fluviale l’intera Russia, dal Baltico al Mar Nero, per non parlare dei Normanni in Sicilia.
    L’unità eurasiatica da Reykjavik a Vladivostok, al di là dell’assonanza, è quindi una REALTA’ GEOPOLITICAMENTE (cioè geograficamente e storicamente) OMOGENEA.
    L’Islanda in questo senso, per la sua collocazione nord-Atlantica, non è solo parte integrante del mondo europeo scandinavo, ma eventualmente avamposto della difesa dell’Eurasia in quel settore, contro la minaccia marittima dell’altro lato dell’Atlantico. Non per nulla, cosa poco nota, fu occupata subito dalle truppe angloamericane che attaccavano la “Fortezza Europa” nella II Guerra Mondiale.
    La Groenlandia stessa, legata oggi alla Danimarca, pur se lontana geograficamente, è parte di questa storia europea.
    E’ la più grande isola del mondo, con i suoi 2.175.000 kmq.
    Thule (l’attuale Qaanaaq) tra lo Stretto di Nares e la Baia di Baffin è l’estremo avamposto proprio di fronte alla costa americana. Per esser precisi alle isole del nord Canada.
    L’Eurasia unita delineata dalla Geopolitica sarebbe indubbiamente il più esteso stato del mondo, con una popolazione etno-culturalmente omogenea, ma con una ricchezza di minoranze che rappresenterebbero i naturali punti di saldatura con le nazioni e i popoli delle altre “nicchie geopolitiche” confinanti: arabo-mediterranea, turche, iraniche, sino-mongoliche.
    E non dimentichiamo che lo stesso continente americano, sia quello “latino” ispano-lusitano a sud che, a nord, il Quebec francofono, hanno ancor oggi strettissimi rapporti di sangue, di lingua, di civiltà con il nostro mondo e l’Eurasia così delineata.
    L’Eurasia inoltre, per le sue dimensioni e la sua potenza, per la sua cultura e la sua pluralità creativa, rappresenterebbe un fattore di stabilità, di pace e di vero progresso nella Tradizione per tutti i popoli al di qua dell’Atlantico e del Pacifico.
    Una stabilità di equilibrio offerta soprattutto dal riconoscimento dei rispettivi limiti geopolitici di appartenenza, in sinergica collaborazione tra aree comunque autarchicamente autosufficienti.
    Ma, ovviamente, anche gli strateghi mondialisti della superpotenza oceanica USA conoscono la Geopolitica, le sue regole, i suoi confini.
    Essa è materia di studio nelle università americane e nei centri strategici militari.
    Del resto è già dai tempi dell’Ammiraglio Mahan che le FFAA U.S.A hanno tracciato le linee espansive della loro geostrategia planetaria.
    Il mito mobilitante del “Far West”!
    La marcia ad Ovest che prosegue idealmente il viaggio previsto da Colombo dall’Europa all’Asia, prosegue tutt’ora.
    Oggi in Afghanistan, in Iraq, in Medio Oriente, con la base fissa di Israele,
    domani ancor oltre contro Cina e Russia: QUINDI contro il nostro retroterra strategica, di noi europei.
    Già l’Europa occidentale fu sottomessa nella II Guerra Mondiale e incatenata nei trattati asimmetrici con al centro l’America, come la NATO, oramai superata, attorno all’asse oceanico atlantico.
    Una logica geopolitica “marittima” che ritroviamo nell’opera del trilateralista Huntington.
    La nuova Europa che si tenta oggi di formare sarebbe solo un moncherino se fosse privata della sua naturale proiezione geopolitica siberiana, delle sue materie prime , ma soprattutto del suo SPAZIO vitale che in Geopolitica fa la potenza di uno stato, anzi E’ POTENZA.
    Lo scontro tra Eurasia e America, fra Terra e Mare, fra Civiltà tradizionale e Mondo Moderno, tra Imperium e globalizzazione è inevitabile alla lunga, perché iscritto nelle leggi immutabili della Storia e della Geografia.
    O sapremo riconoscere l’inevitabilità del nostro destino geopolitico ed agire di conseguenza o saremo destinati a scomparire in un pulviscolo di staterelli impotenti, assoggettati tutti dall’unico comune denominatore dell’american way of life, il vero nome della globalizzazione mondialista.

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    Predefinito Rif: I Pilastri Dell'Eurasia

    Continente Russia
    Di Alexandr Dugin

    INDICE

    1. Paese interiore
    2. Svezia Russa
    3. I campi dell'Anticristo
    4. Hvareno - felicità dello Zar
    5. Il Mistero del Polo
    6. I Russi e gli Iperborei
    7. Archetipi nella rivoluzione
    8. Conclusione


    1. Paese interiore

    «I continenti hanno un significato simbolico che è legato tanto a stereotipi culturali che a esperienze vissute: l'Europa non ha lo stesso significato per un Europeo che vi vive, per un Americano che la visita, per un Africano che se ne emancipa, per un Australiano, ecc. Tuttavia gli stereotipi continentali non sono rimasti puri e semplici prodotti culturali, scaturiti da una conoscenza più o meno vera, da un'emotività più o meno viva, da una conoscenza più o meno netta: essi sono penetrati fino nell'inconscio con un'enorme carica di affettività e ne riemergono tramite i sogni o le reazioni spontanee, spesso apparentati a un razzismo che resterebbe altrimenti ignoto. Allora il continente non rappresenta più, in realtà, una delle cinque parti dei globo, ma un mondo di rappresentazioni, di passioni e di desideri; per esempio, il dottor Verne ha ben mostrato, analizzando il sogno di una sua paziente, che l'Asia non era per lei il ricordo, il fine o il desiderio di un viaggio intercontinentale, ma che quel continente “rappresentava il ritorno al sacro, il mondo dell'assoluto, il mistero del trapasso, la via dell'unicità portatrice del messaggio del vero e del reale”. L'Asia diventava un continente interiore, come l'Africa, l'Oceania, l'Europa, la cui interpretazione simbolica varia da soggetto a soggetto. Questa dimensione interiore può collegarsi a qualunque luogo, città, paese, ecc., l'importante è sapere ciò che significano per ciascuno le immagini, le sensazioni, i sentimenti, i pregiudizi di cui è portatore e che costituiscono tutta la verità soggettiva del simbolo. La geografia integra nella sua totalità la geosociologia, la geocultura e anche la geopolitica».
    Qui termina la spiegazione dei termine «continente» estrapolata dal Dizionario dei Simboli scritto da Jean Chevalier e Alain Gheerhrant. (1) Ci permettiamo di riprodurre questa estesa citazione nella sua integrità, poiché il suo contenuto coincide in maniera impressionante con il tema dei presente lavoro, determinando dall'inizio il piano sul quale si svilupperà il nostro studio.
    Nell'affiorare dei sentimenti nazionalisti, nel razzismo e nei fermenti patriottici di diversi popoli, risaltano fenomeni che potrebbero sembrare irrazionali e che non possono spiegarsi con semplici ragionamenti logici o con analisi dei motivi, più o meno egoistici, che potrebbero essere causa di questi fenomeni. Il risvegliarsi della memoria razziale, nazionale o continentale avviene molte volte senza nessun apparente stimolo esterno. Capita semplicemente che gli archetipi dell'inconscio più profondo improvvisamente scavalcano le barriere e, producendo una reazione a catena, risvegliano tutto il complesso della visione del mondo collettiva che pareva dimenticata da tempo. Come esempi più chiari di ciò che abbiamo detto potremmo menzionare la sopravvivenza dei nazionalismi celto-irlandese, giudaico, coreano, africano o giapponese che continuano ad esistere e si rinforzano nonostante tutti i condizionamenti sociali e storici che obiettivamente dovrebbero farli sparire. L'immagine della «terra promessa» è talmente radicata nel più profondo dell'anima nazionale di certi popoli, che nessuna influenza esterna può cambiarla.
    Lo stesso succede fondamentalmente con il «mistero dei patriottismo russo», il cui carattere quasi mistico fu descritto, in base agli esempi della lirica patriottica russa, dal brillante scrittore e pubblicista russo Y. V. Mamleev. Russia mistica, «India Bianca» di Kliuev, «Santa Rus» che Sergej Esenin anteponeva allo stesso Paradiso e che Tiutchev vedeva come un principio religioso NEL QUALE BISOGNA CREDERE (si immagini che assurdo suonerebbe «Santo Portogallo», o «Fede nella Cambogia»), costituiscono senza dubbio la profonda realtà della psicologia nazionale, il «Continente Interiore» che sintetizza in sé la visione dei mondo di una nazione gigantesca. Il ricordo di questo «Continente Russia» può rimanere occulto o sopito nel fondo della coscienza durante centinaia di anni, però prima o poi riprende a vivere e si trasforma in un uragano, un turbine, un grido, quando giunge il momento dei Risveglio.
    Ma per essere effettiva e concreta, la realtà psichica della «Russia Interiore» deve possedere una determinata struttura archetipica, in relazione con processi storici e territori geografici concreti, essendo, inoltre, un paradigma formatore e strutturatore dei cosmo spazio-temporale circostante e non il suo semplice riflesso.


    2. Svezia Russa

    Qual è questa struttura archetipica della «Russia interiore»? Su cosa è basato e verso cosa si orienta il concetto di «Santa Russia»? Quali sono le radici della concezione imperiale dei popolo portatore di Dio?
    A livello storico la specifica sacralità della Russia (2) si deduceva direttamente dalla fedeltà all'Ortodossia, al Cristocentrismo russo. Però è curioso segnalare che non accadde niente di simile nell'Impero Bizantino o nei paesi cattolici, la cui fedeltà alla tradizione cristiana non era minore. A nostra opinione, la visione dei popolo russo come portatore della Ortodossia influì senza dubbio sulla formazione del concetto di Santa Russia, ma senza predeterminarlo. In questo caso concreto, come in molti altri, la tradizione cristiana si sovrappose ad un'altra tradizione molto più antica, che non solo era all'origine del vecchio calendario liturgico russo (di ciò oggi non esiste il minimo dubbio), ma che costituiva altresì la base della totalità sacrale della visione del mondo nazionale, dalla geografia sacra fino all'etica e alla formazione delle strutture politiche. E fu questa antica tradizione che, agendo sopra il livello più profondo dell'inconscio, determinò la logica fondamentale della storia sacra della Russia.
    I resti di questa antica tradizione possono essere rintracciati negli archetipi linguistici che risalgono ai tempi primordiali dell'unità indoeuropea e che si rinvengono con una costanza incredibile nei toponimi, nei miti, nelle leggende e in generale in tutti i casi tipici della formazione di parole con contenuto simbolico. Inoltre, tutto il sistema dei simbolismo prettamente religioso ha uno stretto rapporto con questa antica tradizione; diversamente, la cristianizzazione della Russia non sarebbe avvenuta in modo così facile ed armonico. La dottrina cristiana integrale corrispondeva nel suo paradigma rituale e simbolico con la logica di altri culti più antichi, che non furono distrutti, bensì trasfigurati dal cristianesimo, formando una sintesi unitaria. Il ciclo russo delle vite dei santi (Zhitii) e la specificità dell'Ortodossia russa ci offrono una moltitudine di esempi di ciò. Menzioniamo solo l'esempio canonico della festa estiva del profeta Elia (Ilia), che adottò i tratti dell'antico dio ario della tormenta, del Cielo e della Luce, Il (dalla stessa radice viene l'antica parola russa solntse, «sole», che nella lingua indoeuropea originaria significava «luce benefica»).
    Analizziamo ora alcuni aspetti di combinazioni archetipiche determinanti per la forma di pensiero russa. Iniziamo dalla stessa espressione «Santa Russia». In primo luogo bisogna segnalare un fatto curioso: molto prima dell'arrivo degli Slavi in queste terre, la regione delle steppe del Sud dal Mar Nero fino agli Urali era chiamata dagli antichi popolatori arii «Casa degli Dei» o «Grande Svezia» o «Fredda Svezia»; denominazione che più tardi si trasferì, con le tribù germaniche, in Scandinavia, trasformata in «Casa degli Uomini» o «Piccola Svezia». E’ nella Grande Svezia che scorrevano i fiumi conosciuti dagli arii: Don (Tanaxvil o Vanaxvil, «alveo dei fiume dove vivono i Vani») e Dnieper (Danapru, gr. Boristhénes). La stessa parola «Svezia» (Sveden, Suetia) significava «chiaro, bianco, pieno di luce». Più esattamente la radice indoeuropea svet («luce») sotto il profilo logico e forse etimologico ha a che vedere con il russo svjatoi («santo»). D'altra parte la tradizione indù ancora conserva shveta-dvipa o «continente bianco», situato al nord dell'India. Normalmente shvetadvipa indicava l'isola simbolica di Varáha, situata al Polo Nord, patria mitica degli antenati degli Indù. Per analogia sarebbe plausibile attribuire questo nome al luogo di soggiorno degli arii prima della loro migrazione vero il subcontinente indiano. Ciò che si riferisce agli avi degli Indù, portatori della tradizione vedica nella sua forma iniziale, nel periodo in cui essi vissero nei territori del sud dell'attuale Russia, è confermato dai recenti ritrovamenti archeologici (V.N. Danilenko, Y.A. Shilov). Così il paese «chiaro, bianco, santo» veniva associato anticamente alle terre russe e questa idea era profondamente radicata sia nella coscienzi degli arii, i cui contatti sacrali continuarono a conservarsi ancora dopo la rottura dell'unità tradizionale e linguistica, sia degli autoctoni paleoasiatici, che più di una volta dimostrarono una rara capacità di conservare per millenni sistemi mitologici ereditati dai più dinamici ed attivi popoli indoeuropei.
    Il secondo elemento dell'espressione «Santa Russia» è il nome geografico RUS. La derivazione etimologica più convincente è la radice indoeuropea ROS (cfr. ted. rot, lat. volg. russus, franc. rouge, ingl. red, sscr. rohita) con il significato di «rosso», «dai capelli rossi», «rossiccio». Quindi non è assolutamente determinante se la Russia ricevette il nome da una tribù slava o scandinava. Ciò che conta è che a livello inconscio il colore rosso è strettamente vincolato alla Russia: fu uno dei colori preferiti dai suoi principi; a parte che in russo ant. KRASNI («rosso») ha anche il significato di «bello», «distinto». E’ interessante notare che un'altra antica parola russa designante il color rosso, CIORMNI, etimologicamente si avvicina alla parola CIORNI, «nero». Anche nell'antica lingua indù la radice KRSNAS possedeva il doppio significato di nero e bello. Non si può scartare la possibilità che questa relazione etimologica si manifestasse in qualche modo nelle associazioni di significato e nelle strutture semantiche non manifeste dei pensiero verbale, mettendo in rapporto quasi inconsciamente il contenuto di KRASNI («rosso») con quello di CIORNI («nero»).
    Relazionando queste due linee direzionali, vedremo che il concetto di SANTA RUSSIA può essere tradotto con una diade di colori simbolici: Bianco-Rosso o anche Chiaro-Oscuro. Non è casuale che la combinazione Bianco-Rosso fosse la più utilizzata nell'araldica russa, così come nei costumi nazionali, negli affreschi, negli ornamenti ecc. Inoltre, se osserviamo lo sviluppo di queste direttrici simboliche e le loro connotazioni tradizionali, probabilmente potremo decifrare in modo più chiaro la visione «popolare» di molti fatti storici: dalla guerra russo-svedese fino alla guerra civile.


    3. I campi dell'Anticristo

    D'altro canto, esiste e si mantiene durante la storia una spiegazione leggendaria circa una determinata missione escatologica della Russia o, meglio, di quei territori sui quali si insedia lo Stato russo. Questo aspetto escatologico, apocalittico, sta in relazione logica con lo specifico ruolo attribuito a queste terre dagli uomini nel profondo della loro antica coscienza sacralizzata. Tale aspetto si spiega se teniamo presente che il «sacro», visto spesso nella prospettiva inversa, si converte non tanto in qualcosa di «profano», «mondano», quanto in «diabolico», «antisacro», «demoniaco». Sono abbastanza esplicite, in proposito, alcune antiche testimonianze: in primo luogo, dice la leggenda che durante la sua campagna nell'Asia centrale Alessandro Magno ordinò di costruire la Muraglia Sacra o le Porte Sacre contro le «demoniache tribù dei Nord» che non riuscì a dominare. La mitica muraglia si trovava di fronte alle «Porte del Caspio»; ciò significa che le «demoniache tribù» scorrazzavano per le terre del Sud della Russia o, meglio, che venivano associate ad esse. Più tardi dette tribù furono identificate con le bibliche e apocalittiche genti di Gog e Magog che, secondo le profezie, alla fine dei tempi dovranno conquistare la terra e distruggere il patrimonio sacro e spirituale dell'Umanità (v. Apocalisse di S. Giovanni, 20,7). Millecinquecento anni più tardi, la stessa regione limitrofa al Mar Caspio, le cosiddette terre di Ircania, era vista dai teologi cattolici europei come un territorio malvagio popolato dalle dieci tribù degeneri e demonizzate di Israele, disperse dopo la cattività di Babilonia. Ruggero Bacone avvertiva che, quando queste tribù avessero iniziato la marcia verso Occidente, sarebbe stato per ricevere l'Anticristo (v. Opus Maius di Bacone). Stranamente, a questa predizione corrisponde un'altra profezia, questa volta biblica, riguardo la Fine dei Tempi, quando sopra il mondo si leveranno i principi ribelli a Dio ROSH, MOSOC, TUBAL (v. Ezechiele, 38, 2 e Isaia, 63, 1). Questi tre nomi, che non possiedono una chiara etimologia nella lingua ebraica, ricordano in maniera impressionante rispettivamente RUS (le radici Rus e Ros sono praticamente identiche) e MOSC (poiché la parola Mosoc rappresenta una vocalizzazione masoretica abbastanza soggettiva delle tre consonanti dei testo biblico originale: M-S-K). In quanto a TUBAL, per gli antichi ebrei indicava la Scizia, la Russia meridionale.
    Inoltre nella Bibbia si accenna costantemente alla distruzione di EDOM (Isaia, 63), paese che rappresenta il paradigma di una perversa e dernoniaca trasfigurazione di terre che a suo tempo furono considerate sacre. Si può dire che il principe GOG del paese MAGOG, i principi ROSH, MOSOC e TUBAL, al pari dei principi di EDOM, rappresentano tarde denorninazioni simboliche bibliche dello STATO ESCATOLOGICO. Sorprende scoprire che la parola ebraica EDOM significa «rosso», e quindi il «paese rosso».
    Tutti questi dati permettono di indicare una determinata opposizione di significati impliciti nel concetto di «Santa Russia». Questa opposizione improvvisamente si rese visibile all'inizio del XX secolo, manifestandosi nella tradizione poetica, pubblicistica e politica: si tratta dell'opposizione di «Santa Russia» e «Maledetta Russia», che si cristallizzò poi nel confronto fra la «Santa Russia Bianca» e la «Rossa Russia Sovietica, Non è casuale che in una canzone rivoluzionaria la guerra civile ricevesse l'appello di «santa».
    «Santa», cioè il cui contenuto non si esaurisce nel dominio meramente politico o economico; «santa», perché procede dai profondi e millenari archetipi dell'inconscio, contrapponendo due idee di contenuto sacrale: «Bianco» e «Rosso», idee situate nel cuore stesso dell'organismo nazionale e, ancor più, geopolitico.


    4. Hvareno - felicità dello Zar


    Una delle componenti fondamentali della «Russia Interiore», per lo meno durante l'ultimo millennio della sua storia
    era rappresentata dalla sacra missione del Monarca Russo, vero accumulatore di tutte le aspirazioni spirituali della nazione. La «Santa Russia» ebbe sempre il suo centro sacro, sia geografico (con Kiev prima capitale, poi con Mosca) sia vivo e personificato polo di santità nazionale, nello Zar, l'Unto da Dio. E’ interessante notare come alcuni popoli di origine turca conservarono sino al secolo XVIII una venerazione particolare verso i monarchi russi. I Buriati, per esempio, vedevano nella zarina Caterina una Incarnazione di Bianca Tara, una delle più grandi bodhisattva dei lamaismo. Questo significato universale del potere monarchico nel quadro dell'Impero dimostra una volta di più che la Russia non fu mai vista dai suoi popoli come una realtà semplicemente etnica; si trattava invece di una realtà dei più alto livello, di una manifestazione reale della Tradizione geosacrale, dove ogni popolo occupava il proprio posto, di modo che lo Zar russo era anche lo Zar di tutte le etnie dell'Impero.
    Come è noto, la tradizione monarchica russa iniziò quando un gruppo di tribù slave e ugro-finniche chiamò sul trono RURIK, della stirpe dei Varieghi. In epoche posteriori la discendenza dal primo principe Rurik diventò la base spirituale e genealogica che giustificava moralmente il sacro potere e l'autorità dello Zar. Detta tradizione era così costante, chiara e aprioristica, così radicata nella coscienza dei Russi, che non poteva non discendere direttamente dalle forme più antiche, le quali, nonostante si fossero spostate nella sfera dell'inconscio, non avevano perso nulla della propria forza ed efficacia.
    Secondo la nostra opinione, l'invito a Rurik il Variego fu visto dal popolo come il Gran Mistero, in questa azione trovando espressione la logica delle origini sovrannaturali dei potere zarista, fondamentale per tutte le antiche dinastie tradizionali.
    Proviamo a svelare il sottofondo sacro di questo mistero, grazie al quale nello spazio della «Russia Interiore» venne stabilito il centro dinastico sacrale.
    Studiamo in primo luogo lo Zoroastrismo, nel quale fu dettagliatamente trattato il lato mistico del potere regale e che influì decisivamente sullo schema mentale dei popoli che anticamente popolavano le terre russe. Gli zoroastriani affermavano che il Monarca ha un diritto speciale per governare, concessogli da poteri e forze superiori. Detto diritto si manifestava nella facoltà di possedere una forza luminosa: HVARENO o FARN. Hvareno è l'energia della luce condensata, il cui possesso equipara gli uomini agli Dei. Il falco Vargan o l'ariete tradizionalmente erano considerati come simboli di Hvareno. D'altra parte Hvareno si identificava con l'elemento Fuoco, l'unico che per sua natura tende ad elevarsi verso l'alto, al cielo. Ogni monarca persiano possedeva il proprio fuoco personale, che simbolizzava il possesso di Hvareno (v. Zoroastriitsi di M. Boys, Mosca, Ed. Nauka, 1988).
    Se torniamo a Rurik il Variego, chiamato a governare la Russia, vedremo che etimologicamente il suo nome rappresenta il complesso delle suddette idee zoroastriane (anticamente tale cosmologia era patrimonio di tutti gli ari). In scandinavo Rurik significa «falco», cioè il simbolo per eccellenza del Hvareno. Rurik, inoltre, è simile all'antico slavo Rarog, «fuoco» o «spirito di falco»; Rarog possedeva anche il significato di «falco». Quando fu battezzata la RUS, lo Zar della dinastia di Rurik diventò l'Unto da Dio, depositario della forza di Cristo, e fu chiamato «Agnello», ma anche «Ariete». Così il concetto di Monarca Cristiano continuava spiritualmente e confermava sacralmente l'antica tradizione monarchica, che nella chiamata di Rurik vedeva la concessione della Benedizione Celeste, del Hvareno. In questo caso e in altri simili, il Cristianesimo non annullò, bensi riaffermò e sublimò le idee precristiane.
    Ora parliamo dei Varieghi. Senza entrare nel merito riguardo alla loro origine etnica, fatto che per noi non ha molta importanza, cercheremo di decifrare il significato simbolico di questo nome. Dato che lo Zoroastrismo ci ha fornito alcune chiavi interpretative importanti, ritorniamo ad occuparci di esso. Variag o varingr per la pronuncia si avvicina al nome del Dio zoroastriano Varhran (Veretragna).Varhran è uno dei sette dèi dei mazdeismo: il dio della Vittoria. Proprio questo dio era considerato come principale portatore di Hvareno; a lui viene accostata la figura del falco Vargan (si confronti vargan con varingr, cioè «variego») suo eterno compagno e sua rappresentazione.
    Quindi i Varieghi, a prescindere dalla loro esistenza storica, possono rappresentare una idea simbolica esprimente la totalità del Hvareno, la felicità dello Zar; una manifestazione del Hvareno, Rurik-falco, discese come manna sulle tribù che attendevano la benedizione celeste. Non termina qui la catena dei significati mitico-etimologici. Variag può essere comparato con la radice sanscrita svar, «cielo», «luce solare», molto simile alla radice persiana hvar, dalla quale Hvareno. E’ possibile che anche la parola russa sever (nord) sia imparentata con svar, dato che gli antichi popoli arii identificavano il Nord con l’«orientamento divino celeste» (anche se più tardi questa immagine mutò segno). La relazione dei Varieghi con il Nord corrisponde pertanto con la logica misterica generale che determinò la chiamata dei Primo Zar a governare.
    Potremmo andare oltre. Varhran è l'equivalente persiano del sanscrito Vritra-han, «assassino di Vritra» - epiteto del dio INDRA, il re dei Cielo, la cui sede per la cosmografia indù si situa appunto nel cielo, Svar.
    Quanto alla denominazione indù, è probabile che si tratti del nome teoforo del popolo, «il popolo di Indra», cioè popolo portatore di Dio. I Varieghi, da parte loro, come tribù indoeuropea, potrebbero essere il popolo teoforo di Vargan o Varhran-Veretragna (Indra o Assassino di Vritra). Non si può scartare l'ipotesi che fossero echi lontani di simili equivalenze mitologiche a sopravvivere nel profondo dell'inconscio nazionale e a creare l'immagine della Russia, come «India Bianca» fra i poeti di orientamento mistico popolare, quali Kliuev o Esenin. Naturalmente la logica segreta di tale interpretazione può essere giusta per il tramite di altre simbologie quasi dimenticate.
    L'emblema monarchico russo - l'aquila bicefala - all'inizio era il simbolo dei Falco-Rurik, portatore della forza magica di Hvareno. Altro particolare che richiama la nostra attenzione: Mosca, capitale dello stato russo e luogo di residenza dello Zar, aveva nell'emblema San Giorgio vittorioso sul Drago (insegna del principe Yuri Dolgoruki fondatore di Mosca). Varhran - portatore di Hvareno - è in primo luogo il dio della Vittoria (anche San Giorgio è il vincitore vittorioso). Inoltre, come già segnalato, Varhran-Varetragna significa «Assassino del Serpente o Drago», «Assassino di Vritra» e San Giorgio abitualmente si rappresenta mentre uccide il Drago.
    D'altra parte è caratteristica nella mitologia persiana la presenza di una moltitudine di motivi riferentisi alla lotta di un eroe solare (Kersasp, Traeton) contro il Serpente o Drago. Questa lotta molte volte è la conseguenza della rivalità dei contendenti per il possesso del Hvareno. Così la combinazione di questi due simboli nell'emblema della capitale, sede dello Zar, con l'Aquila, simbolo di tutta la Russia, ci offre il paradigma della più antica struttura dei mistero monarchico.
    Altro simbolo tradizionale dei potere zarista è il Globo, una sfera coronata dalla Croce, simbolo di Terra nei testi astrologici più antichi. Il Globo dello Zar russo si identifica naturalmente con la Terra russa. Di nuovo ci imbattiamo in quella «Russia Interiore» della quale abbiamo già parlato. Ha grande importanza il fatto che nello spazio sacro nazionale è proprio lo Zar, l'Unto da Dio, inviato dal Cielo, possessore dei Fuoco Sacro sovrannaturale, a custodire e sostenere con la mano un enorme spazio terrestre (da cui «Autarca», Samoderzets, colui che sostiene da solo): come quei misteriosi sette saggi che secondo la tradizione cristiana sostengono tutto il peso dei mondo.
    Tutta la storia russa è impregnata dalla profonda comprensione dei sacro ruolo svolto dalla figura dello Zar. Tale comprensione spiega la venerazione quasi religiosa degli Ortodossi verso il Monarca, molto differente dalle relazioni che univano i sudditi cattolici ai loro Re. In Russia non esisteva la separazione tipica dell'Occidente cattolico fra la vita puramente spirituale soggetta alle gerarchie ecclesiastiche e la vita secolare soggetta al potere regale. Nel concetto di Santa Russia, di Russia Zarista, coesistevano tutte le varianti della vita sacralizzata. La Chiesa, come anima della Russia, non si sovrapponeva allo Zar, bensì riconosceva la sua autorità sovrannaturale e legittima, benedicendola; altrimenti, lo Stato stesso sarebbe stato condannato a perire.
    Queste concezioni si manifestavano a volte con tanta forza, che ancora nel secolo passato la gente semplice era solita pregare davanti al ritratto dello Zar, considerandolo, d'accordo con la saggezza archetipica più antica, un rappresentante dell'Altro Mondo, non come individuo umano concreto, bensì come un simbolo sacro che acquisisce la sua efficacia grazie al rito ortodosso di consacrazione del regno e alla sua discendenza da un albero genealogico sacro.
    Così il «continente interiore» russo possedeva il suo proprio «centro interiore», il Monarca Sacro. La loro unione (ierogamia simbolica) costituiva il nucleo del destino specificamente russo, la dimensione più profonda della storia russa. In questa prospettiva, il regicidio era sempre accompagnato da fatti «demoniaci», fatti che non si limitavano a sminuire la santità nazionale-monarchica, a ridurre tutto ad un piano di realtà profana, ma addirittura convertivano il sacro in antisacro, in diabolico; simbolicamente, ciò può essere spiegato come la conquista del Hvareno, la forza mistica, da parte dei Drago, vinto solo temporaneamente, non definitivamente. Il colore tradizionale di questo Drago nello Zoroastrismo e nell'Induismo è il rosso o rossonero: ciò ricorda ancora una volta la componente «rossa» della Santa Russia, il suo aspetto negativo, infero,


    5. Il Mistero del Polo

    Ora vorremmo menzionare un lavoro dei moderno ricercatore francese Gaston Georgel dedicato ai cicli storici e alla logica dello sviluppo delle civiltà antiche, argomento che si collega al tema dei nostro studio. Il libro dei quale parliamo si intitola Ritmi della storia (3). In questo saggio c'è una piccola parte nella quale si studiano le modalità costanti dello spostamento delle sedi di civiltà antiche attraverso il continente eurasiatico. Senza dilungarci in dettagli, segnaliamo solo alcuni fatti sui quali ha indagato l'autore, fatti che hanno relazione diretta con la «Russia Interiore». Studiando l’ubicazione geografica delle sedi delle civiltà antiche, Georgel si rese conto di un dettaglio sorprendente. A partire da Elam (circa 4000 a.C.) fino ai tempi moderni, si osserva il trasferimento di determinate sedi culturali dall'Est all'Ovest. Con una linea Georgel cercò di unire in una mappa l'antico centro di Elam, vicino alla città di Kelat, con la sumera Ur, Atene e Parigi: il risultato superò tutte le aspettative. La curva che univa queste città era divisa da esse in settori quasi uguali di 30° ciascuno. Però, secondo l'autore, il punto corrispondente all'equinozio di primavera si sposta di 30° sull'eclittica in un periodo di tempo equivalente a 2160 anni, cioè il lasso di tempo che separa le suddette culture: Elam 4000 a.C., Ur 2000 a.C., poco meno di 2000 anni dopo Atene e per ultima la moderna «capitale d'Europa», Parigi.

    Inoltre, continuando la curva altri 30° verso Est, si arriva a Lhassa, capitale dei Tibet; un'altra curva della stessa curvatura, però appartenente a una circonferenza di maggior raggio, unisce Gerusalemme a Roma. Ma dove si situa il centro di questa circonferenza? Ci imbattiamo ancora una volta in un fatto strano: questo centro si trova nella intersezione dei 60° long. Est con il Circolo Polare Artico, cioè nel territorio della Russia a nord dei monti Urali (Mosca è situata vicino al raggio che unisce Atene con il centro di questa seconda circonferenza). E’ qui che Georgel termina praticamente le sue spiegazioni.
    Potremmo andare oltre indicando altre coincidenze ancora più singolari. E’ noto il fatto che la linea del Circolo Polare Artico rappresenta la proiezione di una circonferenza sulla sfera celeste per la quale si sposta il Polo Nord terrestre attorno all'eclittica, in conseguenza del fenomeno detto precessione degli equinozi. Però, se la sfera celeste è immobile, il globo terrestre è inclinato rispetto al piano dell'eclittica, equivalente al piano della rotazione orbitale della Terra, formando un angolo di 23° e mezzo. Precisamente questo scarto angolare è situato sulla linea del Circolo Polare Artico. Ma se cercassimo di far coincidere il centro dei Polo Nord terrestre con Alfa dell'Orsa Maggiore, la Stella Polare attuale, il centro dell'eclittica e pertanto il vero Polo Celeste, il più fisso di tutti (poiché attorno ad esso l'asse della terra descrive una circonferenza lungo un immenso arco di tempo: 25.960 anni), esso si proietterebbe sopra la linea dei Circolo Polare Artico. Ma come possiamo determinare la posizione esatta di questo punto?
    Qui ci saranno di aiuto i primi globi terrestri che apparvero nel Rinascimento. In essi figura la proiezione dell'eclittica con la stessa inclinazione di 23° e mezzo sopra l'equatore e conseguentemente sui tropici dei Cancro e del Capricorno. L'importante in questo caso è stabilire su quale meridiano si proietta il segno dei Capricorno, ciò permetterà di stabilire l'ordine di proiezione delle costellazioni sul globo terreste e trovare sul Circolo Polare Artico il punto corrispondente al centro dell'eclittica. In questo caso tutte le mappe e globi antichi coincidono. Tenendo in considerazione le conoscenze geografiche dei basso Medioevo e del Rinascimento, sappiamo che il segno dei Capricorno - il punto più meridionale dell'eclittica - si proietta sopra il meridiano che passa per gli Urali (Monti Rifei, come li chiamavano i Greci), frontiera simbolica fra Europa ed Asia. Però si tratta dello stesso meridiano 60° long. Est in cui s'imbatté Georgel studiando la geografia delle civiltà antiche! Pertanto il polo dell'eclittica, il Vero Polo della Terra nella sua proiezione sul globo terreste coincide con il polo della circonferenza sulla quale si attua lo spostamento della civiltà nel corso dei millenni.
    Se oggi siamo in grado di giungere a queste conclusioni utilizzando solamente le più elementari conoscenze di astronomia e geografia, perché non dovremmo supporre che gli antichi, avendo le stesse conoscenze (ciò è dimostrato dalle moderne ricerche sulle civiltà cinese, sumera, celtica ed altre) ed essendo liberi da pregiudizi tecnocratici e agnostici, si rendessero perfettamente conto di queste corrispondenze fra Terra e Cielo, basando su di esse la propria geografia sacra e la logica della loro Storia Sacra? Ma la cosa più probabile è che la pienezza di questa conoscenza andò rifugiandosi nella sfera dei racconti, delle leggende e delle epopee epiche, manifestandosi apertamente solo in momenti cruciali per l'umanità.


    6. I Russi e gli Iperborei



    Forse la scoperta dell'ipotetico polo di civiltà da parte di Georgel non solo ci aiuta a spiegare molti fenomeni enigmatici dei passato dell'umanità, ma ci fornisce anche la chiave per comprendere il «patriottismo russo», che in nessun caso può ridursi ad un semplice nazionalismo etnico. Il «patriottismo russo» nella sua dimensione più profonda è universale, «più che umano» come diceva Dostoevskij, perché è strettamente legato al «continente interiore», al continente centrale situato presso il punto immobile della «Ruota del Destino», la ruota delle peregrinazioni dell'anima umana. Forse è provvidenziale che la città più vicina a questo punto del centro nordico si chiami INTA, nome che ricorda il dio peruviano dei Sole INTI e il dio ario INDRA. Il fatto è ancora più importante se, considerando le già menzionate corrispondenze di proiezioni stellari sulla Terra, constatiamo che il nostro centro, similmente ai centro dell'eclittica, coincide con la costellazione del Drago, il nemico eterno, di Indra e degli Dei Solari della Vittoria. Curiosamente nell'induismo la sede di Indra si situa talvolta al Nord, altre volte all'Est (più esattamente al Nord-Est), mentre il nome del suo elefante AIRAVATA coincide con il nome jainista dei paese più settentrionale della Terra. Ma questo stesso paese, come già detto, riceveva anche il nome di VARAHI, «Terra del Cinghiale», che corrisponde esattamente alla radice greca BOR, connessa con il NORD e il paese di Iperborea (nell'estremo Nord), patria di quell'Apollo solare che è anche l’uccisore del Drago. E non è casuale che, secondo le fonti greche, gli lperborei inviavano a Delfi le offerte simboliche di grano attraverso la Scizia e altre terre russe più settentrionali. Curiosamente la parola Varàhi ricorda anche i Varieghi e cioè il popolo leggendario che dette ai Russi un monarca. consacrato.
    Nelle leggende su lperborea risalta il carattere vegetale, nella fattispecie per quanto riguarda le offerte, nei riti, di spighe di grano. Secondo le tradizioni più arcaiche, l’agricoltura era l'occupazione più antica dell’uomo, prima dell'allevamento. In ciò si rifletteva l'idea metafisica comune agli antichi, che considerarono i principi della quiete e della calma (la vita sedentaria degli agricoltori) superiori al dinamismo ed al mutamento (la vita nomade e l'allevamento). La principale attività dei Russi fu proprio l'agricoltura. Esiste un fatto interessante in rapporto con questo fenomeno. Uno dei nomi antichi degli Slavi fu Vene o Vendi, denominazione di una delle tribù che poi diventò il nome generico degli Slavi. Ancora oggi gli Estoni ed i Finni chiamavano Vene i Russi. Qui colpisce l’attenzione l'esistente parallelismo con i Vani scandinavi, dèi preposti alla tutela dell'agricoltura (a differenza degli Asi, cui spettava la tutela della caccia e dell’allevamento) che rappresentavano lo spirito della pace sacrale e, secondo le saghe, vivevano lungo il basso corso dei Dnjepr e del Don (vedi S. Sturlusson, Il cerchio terrestre). Conviene ricordare anche che uno dei nomi preferiti dai russi è Ivan.
    Nonostante Ivan sia una forma slavizzata dell'ebraico Giovanni, è lecito credere che tale nome poté sopravvivere adottando una forma cristianizzata, se consideriamo, soprattutto, che c'è una relazione provvidenziale fra S.Giovanni Battista ed i Vani delle saghe germaniche: particolarmente nel mito della testa dei gigante Mimir che i Vani tagliarono ed inviarono agli Asi. Lo stesso tema della decapitazione costituisce il nucleo della storia di S.Giovanni. Inoltre, il re degli Asi, Odino, fa parlare la testa di Mimir che vaticina l'inizio dei Giudizio Finale (Ragnarökr), così come le leggende cristiane contengono il miracoloso episodio della testa parlante dei Battista. A ciò si deve aggiungere il parallelismo esistente fra la predizione di Mimir circa il Ragnarökr e la profezia escatologica della venuta dei Paracleto da parte di Giovanni.
    Tutto ciò si spiega, secondo il nostro punto di vista, con l'esistenza di un antichissimo complesso mitologico comune, patrimonio dei popoli indoeuropei fin da tempi remoti. Le manifestazioni storiche di questo complesso ebbero sempre relazione con certe leggi cicliche e con determinati territori. I «continenti interiori» con le loro proprie mitologie potevano spostarsi sul pianeta insieme alle tribù che di essi erano portatrici o potevano stabilirsi in determinati luoghi della terra. Potevano anche passare da un popolo all'altro. Infine, potevano integrarsi in differenti strutture religiose, formando la base dell'unità archetipica di diverse tradizioni. In tutto questo complesso, per noi non è tanto importante seguire lo sviluppo e la continuità di un'etnia dalle epoche remote fino all'età attuale, o studiare le radici e le manifestazioni obiettive di questo fenomeno. Importante, per noi, è scoprire la logica di una tradizione archetipica concreta, il suo contenuto spirituale e simbolico. Le etnie che in un momento o nell'altro diventavano portatrici di questa tradizione, impregnandosi di essa, si trasformavano in etnie teofore (portatrici di Dio) o portatrici di Idee, nel corpo materiale di una essenza celeste, nell'incarnazione di una idea viva.
    Per quanto passeggere fossero le cause temporali visibili della venerazione speciale per queste terre, indipendentemente dai popoli che le abitavano, la «Russia Interiore» si identificò sempre, in ultima istanza, con il «paradiso terrestre», con il territorio della mitica Età dell'Oro, tanto più se consideriamo che il simbolismo di Iperborea, Varâha, l'agricoltura dei Vani-Ivani ecc. era in relazione nelle più diverse tradizioni proprio con l'antica patria primordiale, dove vivevano gli avi venerati, liberi e immortali.
    Sarebbe abbastanza assurdo parlare delle filiazioni etniche degli abitanti del Paradiso. Perciò tutte le spiegazioni degli archetipi inconsci dei «patriottismo mistico» dei Russi non potrebbero mai essere viste come manifestazioni di un nazionalismo ordinario. Gli stessi Russi automaticamente chiamavano «russi» tutti coloro che solidarizzavano con loro in questa profonda intuizione circa il carattere sacro delle terre da loro abitate è la differenza fondamentale che separa i Russi da altri popoli, particolarmente dagli altri popoli slavi, che possiedono una visione molto più pragmatica e razionale circa i limiti della realtà nazionale. Nonostante si possa osservare che qualcosa di simile accadde sempre nel caso dei popoli coscienti della propria vocazione imperiale, molto più preoccupati dell'unità territoriale che non di quella razziale, in Russia questa caratteristica peculiare si manifestò sempre con una forza speciale, arrivando talvolta ai limiti dei grottesco.


    7. Archetipi nella rivoluzione


    E’ molto probabile che gli archetipi della «Russia-Paradiso Terrestre» e l'identificazione (abbastanza elementare ma confortata dai contatti linguistici con gli Indoeuropei) della Russia con il colore rosso, abbiano influito in gran misura sull'idea che il popolo si formò riguardo alla rivoluzione bolscevica e ai fatti successivi, che acquisirono nella coscienza popolare un carattere quasi mistico, simile alla reazione degli indios americani, che scambiarono i saccheggiatori spagnoli per Dei Bianchi ricomparsi. Questo attivarsi di associazioni di contenuti, che erano rimasti sopiti nell'inconscio, fu rafforzata ancora di più dagli aspetti escatologici dell'ideologia comunista degli inizi, che prometteva l'avvento dei regno dell'abbondanza e che inoltre, attraverso la dottrina della dittatura dei proletariato, proclamò di avere compiuto la promessa evangelica - «gli ultimi saranno i primi». La nostra ipotesi si fa più credibile se ricordiamo il seguente esempio tratto dalla storia russa: (4) il reggimento di soldati che appoggiò i Decabristi basandosi esclusivamente su una associazione di parole, credeva in tutta sincerità che la «Costituzione» per la quale essi andarono a morire nella piazza del Senato fosse la Sposa dei Granduca Costantino (cfr. G.Vernadski, Storia della Russia). Se una coincidenza tanto casuale può spingere degli uomini a dare la propria vita, figuriamoci le idee-mito e i simboli assorbiti nel corso di millenni dal nucleo stesso dell’anima popolare!
    Per confermarlo basta analizzare senza pregiudizi migliaia di esempi della storia sovietica degli anni '20-'30. Colui che forse trattò con maggior vigore il tema in questione è lo scrittore russo A. Platonov, le cui opere sono estremamente profonde e realiste. Certamente è proprio con questo fondo escatologico che si intendono meglio alcuni eccessi dell'«internazionalismo» rivoluzionario, il quale, lungi dal significare semplice indifferenza per il proprio passato, si converte nell'affermazione mistica ed escatologica dello stato della «eguaglianza assoluta», realizzabile solo nelle condizioni del vero Paradiso. Questo tipo di «internazionalismo», o almeno la visione che ne avevano i suoi assertori russi, in determinati aspetti si fondeva qualitativamente con il «patriottismo mistico», mosso anch'esso dal desiderio di ritornare agli «archetipi paradisiaci». Paradossalmente la moderna e «progressista» dottrina socialista produsse una risonanza enorme negli strati più arcaici dell'inconscio popolare, fondendosi in una nuova ideologia senza paragoni, dove i «contrari coincidevano», mentre il razionalismo e l'economicismo «scientifico» europei si diluivano nel primitivo e magico sciamanesimo sociale. In questo processo si riflesse anche la possibilità già menzionata di rivoltare «dalla testa ai piedi» la struttura spirituale tradizionale, che converte il Sacro in Antisacro.
    La rivoluzione russa possedeva un'altra caratteristica archetipica importante: il regicidio. Nel quadro della coscienza nazionale tradizionale, questo fatto poteva possedere solo un significato: la perdita da parte dei «continente interiore» del suo centro benefico, dei suo appoggio morale e del suo asse sacrale. L'assassinio di Nicola II e di tutta la famiglia imperiale trasformò simbolicamente tutti gli abitanti della Russia in «figli della vedova»: rimaneva la Madre Patria, ma a partire da questo momento essi saranno privati dei principio solare e virile rappresentato dallo Zar Padre, l'Unto da Dio. Non fu per nessuna casualità che il regicidio ebbe luogo negli Urali a Ekaterinenburg, quasi sullo stesso 60° meridiano che svolge un ruolo tanto importante non solo nella geografia sacra di Russia, ma di tutta l'Eurasia. Altro particolare interessante: uno degli assassini principali che eseguirono questa impresa sanguinosa, J. Jurovski, nacque nella città di Kainsk, che tanto chiaramente ricorda il nome di Caino, il primo assassino della storia dell'umanità. Nonostante la prima reazione di fronte all'assassinio dell'Autarca fosse un'indifferenza sonnacchiosa, è chiaro che questo fatto doveva lasciare tracce profonde nella vita interiore della nazione, tenendo conto del ruolo da lui svolto e svolto in generale dall'archetipo dello Zar Russo nelle profondità dell'inconscio nazionale. Così, a poco a poco, il peso di questa perdita cominciò a farsi tanto evidente, che la volontà popolare, sottomessa, disorientata ma poderosa, spinse alla superficie un Antizar – Stalin – il quale in maniera criminale si appropriò della benedizione popolare che in realtà non era diretta a lui. Il regicidio riattivò inoltre il mito della testa di Giovanni Battista, avente relazione con le radici del nome è della forma di sentire dei popolo russo. Ad un determinato livello, l'anima popolare percepì senza dubbio questa relazione, sicché i motivi apocalittici relativi al simbolismo della testa di S.Giovanni, la testa di Mimir ecc. si incrementarono sempre più. Senza il proprio asse, la «Ruota dei Destino» non poteva più girare secondo il ritmo stabilito. La «Russia Interiore» era sommersa nelle tenebre parallelamente alla elettrificazione della «Russia Esteriore», sotto l'azione simbolica dei Diavolo, Lucifero, che in latino significa «Portatore della Luce». E, a partire da un determinato periodo, l'aspetto più oscuro dell'anima russa si manifestò sul piano storico, confermando in certo modo i timori millenari di differenti popoli rispetto alle terre in cui è situata la Russia, stavolta la Russia-Edom, la Russia Rossa.


    8. Conclusione

    Ci resta solo da riassumere le conclusioni derivate da questo breve studio, dedicato esclusivamente ad un approccio generale al concetto di «Continente Interiore - Russia Mistica».

    1. L'AUTOCOSCIENZA DEI POPOLI E DELLE NAZIONI TRADIZIONALMENTE INSEDIATI SUL TERRITORIO DELLA RUSSIA È IN INTIMA RELAZIONE CON LA GEOGRAFIA SACRA SPECIFICA DI QUESTO TERRITORIO.

    2. QUESTA SPECIFICITA' SI ESPRIME NEL LINGUAGGIO SIMBOLICO DEL PIU' ANTICO MITO ARIO, INDOEUROPEO (PIAN PIANO SCIVOLATO NELLA SFERA DELL'INCONSCIO).

    3. NEL COMPLESSO DELLA GEOGRAFIA SACRA LE TERRE DI RUSSIA OCCUPANO UN LUOGO CENTRALE IN VIRTU’ DELLA ANTICHISSIMA LOGICA DELLE CORRISPONDENZE ASTRONOMICHE ED ASTROLOGICHE.

    4. LA COMPRENSIONE DELL'UNICITA' DELLA RUSSIA DAL PUNTO DI VISTA DELLA GEOGRAFIA SACRA CHIARISCE IN GRAN MISURA L'ENIGMA DEI. «PATRIOTTISMO RUSSO».

    5. IL «PATRIOTTISMO RUSSO» RIFLETTE UN DESTINO DI DIMENSIONI COSMICHE E NON PUO’ ESSERE PARAGONATO AL SEMPLICE NAZIONALISMO DI ALTRI POPOLI. IN ULTIMA ISTANZA, IL PATRIOTTISMO RUSSO NON E’ UN «NAZIONALISMO».

    6. LE STRUTTURE PIU’ ANTICHE DELLA VISIONE POPOLARE DEL MONDO SI CONSERVANO FINO AD OGGI A LIVELLO DI ARCHETIPI PSICHICI, PREDETERMINANDO IN GRAN MISURA I FATTI STORICI.

    7. LA DIMENSIONE SACRO-GEOGRAFICA DELLA RUSSIA POSSIEDE DUE ASPETTI OPPOSTI, UGUALI QUANTO ALLA LORO FORZA, MA CONTRAPPOSTI FRA DI LORO. QUESTA DUALITA' DI SACRO E DI ANTISACRO, DI BIANCO E DI ROSSO COSTITUISCE IL PARADIGMA DEL DESTINO RUSSO.

    Crediamo fermamente che lo studio dei nostro «Continente dell'Anima» non sia solo cosa da storici o scienziati. Colui che vive in Russia e sa vedere ciò, vive e vede un Mistero, ereditato dalle generazioni dei nostri antenati più remoti: quelli che lottarono sotto gli stendardi di Alessandro Magno, cavalcarono per la steppa con la cavalleria tartara, adorarono il Figlio di Dio a Bisanzio, accesero il Fuoco Sacro sugli altari di Ahura-Mazda, ascoltarono gli insegnamenti dei druidi sotto le querce d’Europa, osservarono rapiti in estasi spirituale la danza eterna di Shiva-Nataraja, costruirono gli Ziggurat dell'Assiria, distrussero Cartagine, navigarono per i mari su navi aventi la prua a forma di collo di cigno, sempre custodendo il ricordo del CUORE DEL MONDO, del «CUORE D'ORO DELLA RUSSIA» (N.Gumilëv), della RUSSIA MISTICA.
    Ci stiamo avvicinando al momento cruciale per la sfera spirituale. Le forze mondiali sono in massima tensione e il destino attuale della nostra Patria in gran misura determinerà i destini di tutto il pianeta. E per questo è tanto importante addentrarsi nelle profondità della Santa Russa, arrivare fino alle sue radici preistoriche, per poter comprendere la sua strana e triste via crucis e per ottenere nuove forze che aiutino a resuscitare questo Paese Sacro, questo Continente Russia. insieme col suo centro segreto coperto di gelo eterno e coi suo Martire coronato, assassinato due volte, prima dalla nostra crudeltà e poi dal nostro oblio.

    Traduzione di Danilo Valdorio

    NOTE
    1) Ed. it.: BUR 1986 (N.d.T.).
    2) Da qui in avanti l'autore utilizza l'antica denominazione Rus, che abbiamo preferito tradurre con il termine «Russia» (N.d.T.).
    3) G. Georgel, Les Rhythmes dans l'Histoire, Milan 1981. (N.d.T.).
    4) L'Autore fa riferimento alla fallita ribellione dei Decabristi del 1825 (N.d.T.)

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    Predefinito Rif: I Pilastri Dell'Eurasia

    Rivolta Contro Il Mondialismo Moderno (I Parte)
    Carlo Terracciano

    E anche se non dovesse verificarsi la catastrofe temuta da alcuni in relazione all’uso delle armi atomiche, al compiersi di tale destino tutta questa civiltà di titani, di metropoli di acciaio, di cristallo e di cemento, di masse pullulanti, di algebre e macchine incatenanti le forze della materia, di dominatori di cieli e di oceani, apparirà come un mondo che oscilla nella sua orbita e volge a disciogliersene per allontanarsi e perdersi definitivamente negli spazi, dove non vi è più nessuna luce, fuor da quella sinistra accesa dall’accelerazione della sua stessa caduta”…potrebbe salvare l’occidente soltanto un ritorno allo spirito Tradizionale in una nuova coscienza unitaria europea”.
    (Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno)

    E’ allora che anche sul piano dell’azione potrebbe venire in evidenza il lato positivo del superamento dell’idea di patria, sia come mito del periodo romantico borghese, sia come fatto naturalistico quasi irrilevante ad unità di diverso tipo: all’essere di una stessa patria o terra, si contrapporrà l’essere o non essere per una stessa Causa”.
    (Julius Evola, Cavalcare la tigre)

    Conosco il mio destino. Un giorno si ricollegherà il mio nome al ricordo di qualcosa di enorme, d’una crisi come mai ce ne furono sulla Terra, del più formidabile urto di coscienze, d’una dichiarazione di guerra a tutto ciò che fino allora era stato creduto e santificato. D’ora in poi il concetto di politica entra in piena fase rivoluzionaria, tutte le formazioni di potenza della vecchia società saltano in aria perché tutte riposano sulla menzogna: ci saranno guerre come mai se ne videro al mondo. DA ME IN POI COMINCIA SULLA TERRA LA GRANDE POLITICA
    (Friedrich Nietzsche, Ecce Homo/Perché sono una fatalità)

    “Rivolta contro il mondo moderno”, l’opera fondamentale di Julius Evola, uscì in prima edizione italiana nel 1934 e già l’anno successivo veniva pubblicato nella Germania Nazionalsocialista. Un testo rivoluzionario che ha rappresentato, per uomini di luoghi lontani e di diverse generazioni, una vera e propria “folgorazione”, un cambiamento radicale di prospettive ed aspettative, di “Visione del Mondo” nell’epoca del tramonto dell’occidente, alla fine del ciclo epocale, il Kali-yuga della tradizione induista, l’èddico Ragna-Rökkr o l’“Oscuramento degli Dei” delle saghe nordiche.

    ANNI “FATALI”
    Un anno importante il 1934, in un decennio che rappresentò una svolta nei destini dell’Europa e dell’intero pianeta. In Germania Hitler da poco Cancelliere del Reich si apprestava a gettare le basi di una rinnovata potenza tedesca mitteleuropea, assetata di Lebensraum, che avrebbe incendiato da un capo all’altro il continente, quell’Europa che rappresentava ancora, geopoliticamente parlando, il motore della politica mondiale. In essa infatti risiedevano ancora i centri politico militari, economici ed intellettuali di piccole nazioni in possesso di grandissimi imperi coloniali: la Gran Bretagna, come sempre più rivolta agli oceani aperti che al retroterra continentale, la Francia che preparava nelle proprie scuole ed università quelle élites rivoluzionarie di Asia e d’Africa, le quali nella seconda metà del XX° secolo avrebbero guidato le lotte di liberazione nei rispettivi paesi proprio in nome della Libertè ed Egalitè (per la Fraternitè ci sarà sempre tempo..) degli “Immortali Principi” che avevano fatto potente Parigi e succube il mondo.

    L’Italia, per parte sua, sotto il segno del fascio romano, cercava il suo spazio nella geopolitica marittima, alla ricerca di un impero unitario mediterraneo-africano che le aprisse le porte dell’Oceano Indiano e delle grandi rotte commerciali e politiche. Ad Est “l’Uomo d’Acciaio”, Stalin, liquidava, purga dopo purga, i rottami cosmopoliti di una rivoluzione trotskijsta-bolscevica che aveva inteso utilizzare l’impero russo come trampolino del marxismo mondiale, trasformando invece questo nella bandiera dell’espansionismo politico e poi militare della Russia Sovietica in Eurasia e oltre. Nell’acciaio e nel sangue il Piccolo Padre della Santa Russia Rossa aveva gettato le basi della industrializzazione e modernizzazione di un impero che sarebbe diventato la seconda potenza mondiale, in grado di contendere per quasi mezzo secolo il mondo al vero vincitore finale. In estremo oriente era l’Impero Nipponico a levare la bandiera solare in nome dell’unità asiatica antioccidentale, ma anche in antitesi al gigante cinese dilaniato da guerre intestine e occupazioni straniere di grandi parti del territorio nazionale. E già Mao marciava… Ma sarebbe stata alfine la più giovane nazione americana a prevalere su tutti, imponendo al pianeta il dominio della propria potenza militare e politica, della tecnologia, della propria moneta, della lingua inglese, del modello di vita yankee, nonché il controllo mediatico sugli strumenti di comunicazione di massa del globo: in una parola la GLOBALIZZAZIONE. L’America, il mito americano del progresso tecnologico e dell’efficientismo fordista, rappresentava e rappresenta il coronamento di quel processo di modernizzazione contro il quale J. Evola aveva scritto il testo più completo ed esauriente dal punto di vista della visione del mondo Tradizionale. E si tenga presente che “modernizzazione” qui non va intesa solo in senso tecnico-scientifico, nel quale tutto sembra oggi risolversi, bensì come visione “idealtipica” del reale, della Storia e della vita: “Mondo moderno e mondo tradizionale – affermava Evola nell’introduzione – possono venir considerati come due tipi universali, come due categorie aprioriche della Civiltà”. La quale affermazione, per inciso, taglia la testa al toro su tutta la polemica sul rapporto tra uomo e macchina, tra essere uomini della Tradizione e usare la tecnologia più avanzata.
    Con l’implosione dell’URSS, ultimo anello di una catena plurisecolare, non solo si sbarazzava il campo da un’ideologia concorrente con pretese di universalismo e scientificità: “Si affermava una nuova filosofia della Storia. L’idea che il cammino dell’umanità abbia un senso. A questo senso fu dato il nome di globalizzazione”.

    DETERMINISMO E GLOBALIZZAZIONE
    Questa idea di un FATALISMO MONOCENTRICO E UNIDIREZIONALE dei destini di tutti i popoli, in marcia (seppur in ordine sparso su vari livelli di “progresso”), verso un’unica meta di “redenzione che instauri il paradiso in Terra” non è certo nuova. Siamo di fronte all’ennesima riproposizione della concezione biblica linear-progressista di una storia unitariamente intesa, ovviamente sul modello dell’occidente. Essa parte dal creazionismo, si manifesta nella perfezione di un Eden originario, nel quale l’Uomo è la creatura per antonomasia, passando poi ad una caduta (nel peccato d’orgoglio, nella divisione del lavoro, nella rottura del Patto con dio, ecc…), e tramite una redenzione (Cristo, Marx , il Messia…) all’ascesa verso la nuova perfezione, tramite la catarsi purificatrice (dell’Olocausto, della Lotta di Classe, del Giudizio Universale).

    Questa ideologia fondamentalista d’impronta giudeo-cristiana ha trovato in America la terra di massimo radicamento, divenendo l’infrastruttura ideologica portante, lo strumento propagandistico indiscusso ed indiscutibile per l’affermazione dell’imperialismo capitalista, dell’espansionismo economico e politico USA, seguendo le direttrici delineate dalla Geopolitica per la più grande potenza talassocratica mai apparsa sull’orbe terracqueo. Il “Destino Manifesto” rende gli americani nientemeno che i portavoce e gli esecutori della volontà di dio in terra. Chi vi si oppone si oppone a dio stesso, quindi più che un criminale è il Male personificato o perlomeno un suo strumento nel mondo che vorrebbe dominare in contrasto con i “predestinati” della Seconda Israele, gli USA appunto. Accusando volta a volta i demonizzati nemici di turno, Hitler o Stalin, Mao o Khomeini, Saddam Hussein o Milosevic (!), fascismo/nazismo, comunismo o islamismo, di voler “conquistare il mondo”, le élites economiche, politiche ed intellettuali statunitensi hanno ottenuto esattamente lo scopo prefissato: appunto…CONQUISTARE IL MONDO!
    Credere che la Globalizzazione sia una NECESSITA’ INELUTTABILE della Storia, un processo naturale ed automatico, impersonale ed autogenerantesi sul cammino del Progresso, non soltanto è l’ accettazione senza riflettere un falso ideologico, ma rappresenta già una sconfitta strategica, determinata dall’assunzione acritica della visione del mondo dell’avversario. Chi dà per scontato l’ altrui assioma di partenza, per quanto laicizzato e storicizzato esso si presenti, ha già perso prima di cominciare a lottare. Si introita mentalmente l’impianto ideologico portante impostoci dall’avversario contro il quale si vorrebbe combattere; e ciò in nome di un’utopia egalitaria e assolutamente livellatrice che è esattamente funzionale ai progetti di globalizzazione totale del Capitalismo, al termine del suo processo espansionistico. Processo degenerativo che s’ identifica ogni giorno di più con la distruzione accelerata delle economie subordinate, delle risorse energetiche e del ’ecosistema nel suo complesso: etnocidio e spesso genocidio tout court. Il mito mobilitante di “Progresso” indefinito e necessario, prodottosi nella fase della secolarizzazione e laicizzazione del Pensiero Unico, radicato nel biblismo in specie di matrice protestante-calvinista, all’inizio del suo III millennio si è rovesciato nel suo contrario, ma non ancora nel suo “opposto”.

    IL”PROGRESSO” CHE UCCIDE
    Biotec, clonazione, mutazioni genetiche animali e vegetali, manipolazioni del DNA con la scusa di migliorare e prolungare la vita, sconvolgimenti climatici e ambientali, scomparsa di specie animali e di culture umane differenziate, ecc… stanno convincendo sempre più persone al mondo che il cosiddetto “progresso”, imposto dall’Occidente al resto del mondo, si è rovesciato nella prospettiva di una catastrofe incontrollata e sempre più incontrollabile nel futuro prossimo. Non un progresso dunque, ma un regresso che ha determinato una perversa disintegrazione di ogni tessuto sociale e comunitario, un cancro devastante che calcifica ogni struttura organica delle società in ogni più remoto anfratto del pianeta, una autofagocitazione della specie umana, avviata in breve a quella che è stata definita la “Sesta Estinzione”, dopo le precedenti delle specie che ci precedettero nel dominio della Terra. Il modernismo, il progresso tecnico, le macchine sono divenute in prospettiva gli elementi distruttori del pianeta; gli scienziati, sempre più folli e incontrollabili, una casta intoccabile di “apprendisti stregoni” della distruzione: “Se questo è il progresso, vogliamo tornare al passato”, dice la vecchia saggia Masai di fronte alla siccità e alla desertificazione causate dai cambiamenti climatici. Il giornalista e scrittore Massimo Fini ha paragonato il mondo globalizzato ad un treno in corsa che, oramai senza più freni, aumenta esponenzialmente la sua velocità, destinato a deragliare e schiantarsi con tutti i suoi occupanti. Per di più carico di esplosivi e veleni tali da annientare la Terra stessa ed ogni altra forma vivente. E già i macchinisti responsabili del disastro futuro preparano le armi per difendersi dalla reazione dei popoli, pensando di preservarsi dalla catastrofe nell’inespugnabile fortezza-continente nordamericana. A tale lenta e confusa presa di coscienza dei pericoli della globalizzazione non corrisponde d’altra parte una chiara cognizione delle cause, prossime e remote, del fenomeno e dei suoi agenti; né tantomeno un progetto realistico di resistenza e riscossa. Al massimo si è contro gli effetti della globalizzazione, ma non opposti ad essa, alle sue vere cause. Al contrario, da parte delle mille realtà genericamente etichettate come “antiglobal” (portatrici peraltro di interessi ed esigenze le più disparate, sconnesse e persino conflittuali tra loro), non si propone altro che una “globalizzazione dal basso”, che tenga conto tutt'al più del miglioramento del tenore di vita della maggioranza povera del pianeta, preservando contemporaneamente l’habitat, che salvi le culture che fanno la ricchezza del mondo abbattendo contemporaneamente i confini e portando a compimento il processo di eliminazione delle differenze nazionali !
    Tutto ed il contrario di tutto: cioè il Niente.


    IL VOLTO DISUMANO DELLA GLOBALIZZAZIONE
    Una “globalizzazione dal volto umano” è un’assurdità che si contraddice nella sua stessa formulazione di base; l’ennesima riformulazione di un riformismo interno al Sistema Globale che ne perpetua le ingiustizie, cercando di convogliare l’istintiva rivolta autodifensiva dei popoli in un vicolo cieco. Banche e istituzioni finanziarie, lobbies industriali e supergoverno mondiale si dimostrano “umani” solo quando ciò coincide con i loro interessi. Un solo esempio: l’annullamento del debito è certamente una causa giustissima, un minimo atto riparatore per paesi depredati da decenni delle proprie ricchezze. Il debito totale delle nazioni in via di…”sottosviluppo” ha largamente superato l’astronomica cifra di 2.500 miliardi di dollari ma.. non è un “dono umanitario” dei governi bensì una necessità vitale delle Banche Mondiali che ne determinano la politica interna ed estera. Il credito vantato sarebbe comunque inesigibile, anche solo negli interessi maturati, date le condizioni disastrose delle economie del Sud del mondo.

    Una generale dichiarazione di insolvibilità della maggioranza dei paesi della Terra getterebbe nel panico i mercati e potrebbe persino determinare il crollo di tutto il sistema finanziario, accelerando l’inarrestabile declino del capitalismo, che è sempre più fragile quanto più è globale. L’”umanitario” azzeramento del debito oltre ad evitare scenari apocalittici per l’Alta Finanza Mondiale, ha poi come contropartita l’accettazione da parte degli stati debitori di ulteriori vincoli, anche politici, e l’abbattimento di ogni difesa contro la liberalizzazione dei mercati che è proprio la causa prima che ha determinato la miseria e l’indebitamento. Ricordiamo come Ceausescu fu rovesciato ed ucciso in Romania una settimana dopo aver saldato fino all’ultimo centesimo del debito estero rumeno. Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Stati Uniti e paesi ricchi non permettono a nessun stato di uscire dalla dipendenza finanziaria, la nuova forma schiavistica del capitalismo nel XX e XXI secolo. L’utopia dell’eguaglianza mondiale nel benessere e nell’abbondanza, propria di chi auspica una globalizzazione dal basso, non solo è in sintonia con gli interessi delle multinazionali ad espandere il mercato in verticale, in profondità, ma determinerebbe un livellamento culturale e politico totale, nonché la distruzione dell’ecosistema. Dev’essere ben chiaro al Nord del mondo che una più equa redistribuzione di beni e servizi nel mondo, passa soltanto attraverso un processo rivoluzionario, locale e generale, che rovesci i parametri culturali ed economici di riferimento anche nei paesi ricchi; rivoluzione che li renderebbe meno “ricchi” in termini di Pil e di consumi pro capite, certo più “spartani” nel vivere, ma anche più liberi dai potentati mondiali, in un ritrovato rapporto armonioso con la natura e la propria comunità d’appartenenza. Quello invece auspicato da tutti i cultori della globalizzazione, comunque intesa, sarebbe alla fine un rimedio peggiore del male. La “cura” proposta, se avrà successo…ucciderà il paziente. Non prima però di averlo depredato di tutto. L’astuzia di un sistema globale che proclama di migliorare le condizioni di vita delle classi e dei popoli subalterni è infatti anche quella di renderli tutti comunque produttori-consumatori del sistema capitalista globale, per allargare il mercato unico dei prodotti standardizzati: non solo in senso orizzontale e geografico, ma verticale interclassista, aumentando nei minimi accettabili al Sistema stesso il credito e la disponibilità monetaria per l’acquisto di nuovi beni o servizi. In termini marxiani diminuire la “pauperizzazione assoluta”, per aumentare il profitto espandendo il mercato, e quindi allargare la forbice della “pauperizzazione relativa”. In termini informatici il “Digital Divide”, il gap tecnologico-informatico che allontana strati sociali e popoli che accedono alla realtà virtuale o no. Gli antiglobalizzatori della “sinistra” moderata, (per quanto ancora contino certe definizioni ottocentesche oramai superate), riciclatisi dall’internazionalismo proletario a quello liberista di mercato, sono d’accordo nel volere e/o accettare (cosa che all’atto pratico è la stessa), la globalizzazione. Quella che auspicano costoro è solo una GLOBALIZZAZIONE DI SEGNO CONTRARIO e non il CONTRARIO DELLA GLOBALIZZAZIONE.
    In termini politici sono dei riformisti interni al Sistema Globale e non dei rivoluzionari ad esso opposti.


    MONDIALISMO E GLOBALIZZAZIONE
    La prima battaglia da combattere è quindi quella terminologica, perché essa assume valore sostanziale nelle scelte di una realistica contrapposizione antagonista al Nuovo Ordine Mondiale. La globalizzazione, lungi dall’essere una “fatale necessità”, una tappa irreversibile ed anzi auspicabile sulla “via del progresso”, non è che l’effetto di una causa o, se si vuol essere meno genericamente deterministi, lo strumento di una strategia mondiale condotta, coscientemente e volutamente per decenni se non per secoli. E se di determinismo si deve parlare, è su un piano metapolitico e persino metafisico che si deve spostare l’attenzione, come diremo in seguito trattando della concezione Ciclica della Storia.

    La globalizzazione dei mercati non avrebbe potuto realizzarsi senza una preventiva opera preparatoria politica e culturale spesso imposta con l’uso delle armi e l’invasione militare: solo nel secolo scorso ci sono volute due guerre “mondiali” (appunto) e decine e decine di guerre locali, colpi di stato, stragi e genocidi, per realizzare l’One World americanocentrico. Noi definimmo, e non da ora, questo progetto a respiro planetario MONDIALISMO. Una delle più complete esplicazioni di questo termine ce la offre Giuseppe Santoro nel suo “Dominio globale. Liberoscambismo e globalizzazione”, un volumetto di cento pagine che dovrebbe rappresentare il “libretto rosso” di ogni vero rivoluzionario antimondialista. Scrive Santoro: “Il Mondialismo, in sintesi, è un’ideologia (e una prassi culturale, sociale e politica) universalista promossa da istituzioni internazionali politico-militari (ONU, NATO) ed economico finanziarie (Banca Mondiale, Fondo Monetario, WTO, Nafta, ecc…), da associazioni private (Council on Foreign Relations, Trilateral, Bilderberg, massoneria ecc..) [aggiungeremo noi anche religiose: Vaticano con la sua “pupilla”, l’Opus Dei, Consiglio Mondiale ebraico, sette varie protestanti e non] e da una fitta rete di lobbies e di organizzazioni internazionali di “consulenza” politico-sociale-culturale e massmediale (agenzie d’informazione, industria cinematografica ecc…), la cui principale base tattica è costituita dagli Stati Uniti.” Ed ancora: “L’obiettivo del mondialismo è la creazione di un unico governo o amministrazione (il Nuovo Ordine Mondiale), di un unico assetto politico, istituzionale e sociale (il liberalismo), di un unico sistema di valori (l’individualismo-egalitarismo-dottrina dei “Diritti dell’Uomo”), e quindi di un unico insieme di costumi e di stile di vita (il consumismo) estesi a tutta la Terra e funzionali al dominio assoluto da parte delle forze politiche, economiche e culturali che lo incarnano: le élites della finanza mondiale”.
    Santoro è anche autore di “Il mito del libero mercato”, approfondito studio sugli “economisti classici”.
    E’ evidente da quanto scritto finora che il Mondialismo non è un meccanismo anonimo, senza volto, senza capo né coda, metastaticamente autoriproducentesi; un dato oggettivo scisso dall’intervento di idee, di pochi uomini e ben identificate istituzioni, che in tal caso sarebbero esse stesse oggetto e non soggetto del processo. Chi la pensa così ragiona in termini di un fuorviante determinismo meccanicista che la dice lunga sui devastanti effetti della falsificazione storico-ideologica condotta per secoli: dall’Illuminismo, al liberismo e al marxismo, passando per l’hegelismo di “destra” o di “sinistra”.


    RAZZA PADRONA
    Del resto, per fare un solo esempio, anche in termini di credito, pochi supercapitalisti posseggono fortune ben superiori a molti stati: gli americani Bill Gates, Larry Hallison, Warren Buffett e Paul Allen sono proprietari di fortune che corrispondono a quelle delle 42 nazioni più povere messe insieme, cioè 600 milioni di uomini, un sesto degli abitanti del pianeta! I “decision makers” della politica mondiale, possessori di tutte le banche, di interi settori industriali e commerciali, delle fonti energetiche e strategiche, i suggeritori più o meno palesi della politica dei governi e delle istituzioni internazionali, appartengono a 13 clan familiari. In ordine alfabetico: Astor, Bundy, Collins, Dupont,, Freeman, Kennedy, Li, Onassis, Rockfeller, Rothschild, Russell, Van Duyn, Windsor.
    La “razza padrona mondialista” vive in posti esclusivi, frequenta solo i propri simili, salvo quando deve concedersi a folle osannanti; essa si incrocia tra sé e decide per tutti.

    La razza padrona non ha patria, solo passaporti , spesso più d’uno. Sua patria è appunto il mondo. Sono apolidi di lusso, cosmopoliti per vocazione ed interesse, pària che, nell’epoca del rovesciamento delle caste, si trovano ai vertici della piramide politica e sociale. Sono loro i ” padroni di casa” nelle riunioni del Bilderberg, della Trilateral, del CFR. Talvolta guidano direttamente stati e governi, come i Kennedy ed i Windsor. A loro tutto è permesso: dalle guerre alle crisi economiche e finanziarie guidate, fino ai più prosaici omicidi per motivi di corna (chi ricorda il caso Palme?).
    Per costoro riservatezza, menzogna e segreto sono strumenti assolutamente indispensabili di dominio. Parlare dell’ineluttabilità “oggettiva” e amorfa del processo di globalizzazione in atto è il loro strumento per nascondere la causa, manifestando l’effetto. Nella più generosa delle ipotesi imporre al mondo i propri parametri di riferimento, la propria visione cosmopolita delle relazioni internazionali. Cattolici, protestanti o ebrei, ma anche mussulmani o confuciani o semplicemente agnostici o atei, sono tutti portatori di una unica visione e stile di vita, che è esattamente quello del “Mondo Moderno” contro il quale Evola scrisse la sua “Rivolta…” Il semiologo ebreo americano Noam Chomsky, teorico antiglobal pur usufruendo della cattedra al MIT (Massachussets Institute of Technology) è da sempre uno dei critici più feroci del capitalismo e imperialismo e definisce i padroni della finanza mondiale un “Senato virtuale”, cui i governanti del mondo devono rendere conto, alla faccia dei cittadini che li hanno eletti: “Il senato virtuale è un gruppo di investitori capaci di governare nazioni tramite i flussi di capitale, le oscillazioni di borsa e la regolazione dei tassi di interesse. Appena uno stato ipotizza scelte nell’interesse collettivo come il welfare o l’autodeterminazione, loro minacciano di portare all’estero i capitali. Gli USA e tutti i governi più potenti sono fantocci manipolati da questi senatori mascherati. Un tempo c’erano i dittatori, adesso ci sono i tiranni privati. Fanno gli stessi danni, ma non hanno responsabilità pubbliche”. Eccoci finalmente in buona compagnia con un uomo che certo non sarà accusato di “cospirazionismo complottista”, tipo “Savi Anziani…” ecc.. Semmai aggiungeremo che il “Senato Virtuale” ha ben altre armi che quelle finanziarie, per piegare governi e popoli al suo volere: dai media all'informatica, dai moti di piazza ai golpe militari, fino alla guerra dichiarata, con tanto di “armi intelligenti”. In Serbia recentemente è stato usato di tutto: rivolte etniche, guerriglia, guerra dichiarata (anzi..” intervento umanitario”), anche se alla fine l’ha vinta il denaro. E si sono letteralmente venduto il capo!
    Ma è ancora una volta il Santoro a offrirci il giudizio più netto sulla pretesa ineluttabilità ed impersonalità del processo storico che stiamo vivendo: “Infatti la cosidetta globalizzazione – economica, politica, culturale e dei costumi di tutti i popoli della Terra – non è in alcun modo un fenomeno ‘naturale’ o necessario o ineluttabile determinato dalle leggi interne di un qualche inarrestabile ‘sviluppo’ del mondo (da un punto di partenza ad uno di arrivo: Nuovo Ordine Mondiale, Fine della Storia, Regno di Dio, Comunismo mondiale o chissà che altro delirio apocalittico); essa non è ‘nella logica delle cose’ (quale logica e quali cose ?); essa non è la condizione oggettiva ed autonoma cui occorre adeguarsi come ad una irrevocabile volontà divina (di quale dio ?); la globalizzazione è solo l’obiettivo pratico e deliberato che uomini concreti, tramite organizzazioni con tanto di nomi e di sede legale, sistemi informativi, massmediali ed editoriali – non forze oscure e imperscrutabili dell’universo – vogliono raggiungere per il proprio tornaconto personale e di gruppo (anche se ciò non esclude, anzi, la presenza di conflitti interni o di resistenze esterne). Tutto qui”. [Giuseppe Santoro, “Banchieri e camerieri. Sovranità monetaria e sovranità politica]. Semplice, no?…

    “DESTRA” e “SINISTRA” NEL MONDO GLOBALIZZATO
    Sul piano pratico, dell’azione, la pretesa impersonalità e ineluttabilità del processo di globalizzazione determinano volutamente nelle masse un fatalismo impotente, camuffato negli intellettuali compatibili col Sistema sotto le spoglie accattivanti dell’impegno metapolitico ed intellettualistico fine a se stesso. L’ennesima riproposizione, ma molto meno nobile, dell’apolitìa degli sconfitti e dei falliti che si cercò, falsamente, di attribuire allo stesso Evola di “Cavalcare la tigre” o “L’arco e la clava”. Se una volta militanti di destra e di sinistra puntavano a conquistare il Potere per affermare le loro speranze in un Mondo Nuovo, oggi molto più borghesemente si accontenterebbero del …“podere”! Minimalismo e localizzazione sono diventati l’alibi del disimpegno e del riflusso nel privato, facendolo passare per il massimo dell’impegno possibile contro i poteri forti; quasi che nel mondo moderno fosse possibile ritagliare oasi, isole di un vivere alternativo, alieno alla società circostante ed anzi alternativo ad essa. Chi ricorda le “comuni” dei sessantottini ? Con l’aggravante che questa ennesima esaltazione incapacitante della sconfitta e della fuga dal mondo non più in una “torre d’avorio” ma direttamente in una stalla, viene spacciata per il massimo del “comunitarismo” e dell’impegno: insomma un Comunitarismo senza comunità. Per pochi eletti che hanno capito tutto (?) e fatto niente (!). La sinistra, ma anche buona parte della destra, che pur contestano la globalizzazione dall’alto, ne hanno accettato aprioristicamente la filosofia di fondo, l’ineluttabilità delle tesi, i principi filosofici e le utopie livellatrici; sono all’interno del fenomeno Globalizzazione, seppur criticandone errori ed orrori, e non lo sanno. L’internazionalismo proletario di ieri si chiama oggi “antiglobal”, ma è certo più globale che “anti”. La destra, che aveva avuto ben altri strumenti concettuali di comprensione e opposizione, partendo dagli studi sul Mondialismo, sulla Geopolitica, sulle tradizioni e su tutta l’opera di maestri di pensiero come Evola, Guénon, Nietzsche, Spengler, Sorokin, Lorenz, Sombart, Weber e via elencando, come al solito NON ha capito niente ed è rimasta al palo. Anzi spesso è persino regredita politicamente ed ideologicamente rispetto alle analisi ed all’azione politica anticipatrici degli anni '70 ed '80. Questa serie di considerazioni ci porta ad esprimere un giudizio definitivo e senza appello su tutto un ambiente sub-politico, definito genericamente “area”, forse perché fatto d’aria e di vuote parole al vento, della destra, neo/post/ultra “fascista”.


    CONTRO TUTTI I NOSTALGISMI
    Il Fascismo, come fenomeno storico e politico europeo è DEFINITIVAMENTE DEFUNTO NEL MAGGIO DEL 1945. Una sconfitta peraltro orgogliosa, con le armi in pugno, a differenza del comunismo marxista europeo crollato meno di mezzo secolo dopo con l’implosione dell’URSS e dei suoi satelliti. E’ comunque un dato di fatto irreversibile che le due forme di modernizzazione e mobilitazione di massa sono uscite sconfitte dallo scontro con l’America. E’ il modello americano che ha trionfato nel XX secolo, dando l’impronta appunto al Mondialismo globalizzatore su tutta la Terra. Geopoliticamente è l’Eurasia (+ Africa ed America Latina) ad uscire, per ora, sconfitta dal confronto-scontro con il “Nuovo mondo”, per un Nuovo Ordine Mondiale. Il cosidetto “neofascismo” o “neonazismo” del secondo dopoguerra è stato tutto un grande equivoco, talvolta tragico, molto spesso comico e farsesco. Alimentato anche dai suoi nemici interessati.

    Quella che impropriamente viene definita “estrema destra” non si è mai ripresa dal trauma della sconfitta bellica, dei suoi capi morti e/o massacrati, abbandonati da tutti al ludibrio della feccia, della plebaglia osannante fino al giorno prima. L’immagine di Mussolini e dei gerarchi con i piedi al cielo pesa come un macigno su più di una generazione politica , che non l’ha mai rimossa. Così come l’8 settembre ha rappresentato una svolta epocale, la fine dell’Italia come Nazione per tornare ad essere l’espressione geografica contenente qualche decina di milioni di persone parlanti più o meno la stessa lingua.
    La propaganda martellante dei vincitori ha additato i fascismi come il Male personificato; tanto da identificarsi spesso gli stessi seguaci in questo ruolo invertito, come estrema forma di contestazione ed autoriproduzione. Il nostalgismo, la formalità esteriore, la castrante esaltazione della sconfitta, il culto quasi necrofilo del passato, il “ducismo” senza Duce unito ad uno spontaneismo anarcoide (armato o disarmato), sono stati altrettanti fattori di impotenza politica e sociale, mentre il mondo cambiava vorticosamente emarginando sempre più la destra nel ghetto costruito con le proprie mani. Ovviamente il nostalgismo neofascista, comunque riciclato, è la NEGAZIONE STESSA DEL FASCISMO storico, che fu un movimento di mobilitazione rivoluzionaria delle masse, un movimento di giovani rivoluzionari in tutta Europa, basato sullo slancio vitale, sulla giovinezza, indirizzato al futuro, intenzionato a vincere e dominare; proprio come il Comunismo rivoluzionario dei Lenin, dei Trotskij, degli Stalin. Certamente entrambi rapportati al mondo della prima metà del secolo passato. E si consideri che stiamo parlando della parte migliore della destra, di quella minoritaria che non ha accettato tout court di allinearsi al Sistema, di divenire il cane da guardia dell’ordine costituito. Quest’altra destra, che invece ha capito benissimo in che direzione va il mondo, si è semplicemente sbarazzata di ogni bagaglio storico e culturale per passare armi e bagagli nel campo dell’avversario, del liberal-capitalismo, dell’America, del Sionismo, del Mondialismo.
    Questi arrivisti di vera destra rappresentano non certo il nemico principale, eppure il più prossimo, essendo la loro massima ambizione di neofiti mercenari quella di dimostrare al nuovo padrone la piena affidabilità del servo da poco acquistato. vesi, l’esaltazione della più bestiale repressione poliziesca (senza neanche più il coraggio di scendere in piazza per un confronto diretto), l’anticomunismo senza più comunisti, l’allinearsi ad ogni iniziativa antipopolare e la perfetta identificazione nella politica estera americana e sionista sono fatti così noti ed evidenti da non dover spendere troppe parole in merito. Nei casi più estremi(sti) si fa pura opera di provocazione nostalgica e integralista da sagrestia, sempre ben nascosti dietro la rassicurante divisa e manganello della polizia di Regime, per rilanciare uno scontro destra-sinistra, rosso contro nero, che sarebbe quanto di più funzionale al Sistema mondialista in ambito nazionale, se non fosse tanto anacronistica da essere inutilizzabile persino per i “servizi” che la gestiscono, dentro e fuori i confini nazionali. Non c’è bisogno di aggiungere che l’antifascismo di certa sinistra di sistema, altrettanto ridicolo e nostalgico, serve da pendant all’anticomunismo becero della destra più o meno estrema. Post-fascismo e neo-comunismo marxista continuano così a combattersi ed elidersi a vicenda, a maggior gloria della razza padrona che traccia i destini dell’Italia, dell’Europa, del mondo intero.
    Per i nostalgici dalla “dura cervice” e dal collo torto all’indietro, bianchi, rossi o neri che siano, è quindi evidente e comprovata l’impossibilità di confrontarsi con la realtà del presente e tantomeno con le sfide del futuro. E non è soltanto l’assoluta mancanza di prospettiva storica a renderli impermeabili di fronte alle novità. E’ la concezione stessa del tempo, dello spazio e dell’Eternità che non permette agli uomini del mondo moderno di essere …moderni perché antichi, o più semplicemente Uomini eternamente rinnovantisi nelle vicissitudini della storia. Va da sé che esiste un iato insormontabile tra la “destra” ed il pensiero tradizionale di Evola.


    ATTUALITA’ DI JULIUS EVOLA
    Abbiamo già ricordato che Julius Evola scrisse “Rivolta contro il mondo moderno” negli anni Trenta. Quando vergava quelle pagine ancora attuali il mondo era ben differente dal nostro all’inizio del nuovo millennio: non esisteva l’energia nucleare prodotta dall’uomo e si iniziavano gli studi per produrre l’arma più devastante, non c’era ancora la TV, il computer e tantomeno internet. L’avventura nello spazio esterno, l’allunaggio, le missioni esplorative su Marte e nel sistema solare erano soltanto frutto della fervida fantasia degli scrittori di fantascienza. Non era stata identificata la mappa del genoma umano, non c’erano biotecnologie e clonazione e ben pochi sapevano cosa fossero etologia ed ecologia. L’era dell’industrializzazione avanzava con passi da gigante solo in America e nell’Europa occidentale, peraltro ancora in gran parte con popolazione agricola e città a misura d’uomo. E sul piano politico era ancora l’Europa il centro del mondo, con i suoi imperi coloniali, la sua cultura, la sua borghesia. La globalizzazione era agli inizi, tenuta a freno proprio dall’esistenza di più poli politici ed economici ancora vitali. L’America era ancora lontana dal realizzare il suo progetto di dominazione mondiale le cui linee erano state tracciate da ideologi e geopolitici già nel XIX secolo. Persino la chiesa, già avviata sulla via di un’inarrestabile decadenza, faceva ancora una certa presa sugli animi e i comportamenti del popolo minuto, mentre la Politica dominava ancora l’economia negli stati “totalitari” più importanti, dalla Germania alla Russia, dall’Impero Nipponico all’Italia di Mussolini. Un mondo lontano da noi 60/70 anni in termini temporali, secoli e secoli per mentalità, organizzazione sociale, tecnologia, rapporto tra economia e politica.

    Ciò nonostante se rileggiamo oggi le pagine di Evola rimaniamo colpiti dall’attualità dell’analisi, specie nella seconda parte su “Genesi e volto del mondo moderno”. Le sue conclusioni sul “tramonto dell’Occidente”, come quelle di Spengler, i suoi giudizi sferzanti su Russia ed America e in generale sul ciclo che si chiude, sono tanto esatte da apparire profetiche; tenendo conto che le sue “profezie” non hanno niente di magico in senso banale, ma sono il frutto di una saggezza e Conoscenza che affonda salde radici nella Tradizione, nella concezione ciclica della storia. Per essa il nostro futuro è già scritto nel più remoto passato, il quale non è alle nostre spalle ma DAVANTI a noi, in un a-venire ben più prossimo alla fine che all’inizio del ciclo corrente e la cui conclusione determinerà un nuovo e radicale Inizio. Come sappiamo la Tradizione è “tràdere”, trasmettere dei Valori che sono eterni calandoli ed attualizzandoli nella storia, in forme e manifestazioni diverse ma facilmente identificabili in ogni epoca e in ogni luogo.

    TRADIZIONE E RIVOLUZIONE
    LA TRADIZIONE
    E’ RIVOLUZIONE, etimologica e reale. Essa “re-volve” e ritorna alle Origini, ma non prima di aver completato il suo Ciclo, la sua rotazione, la sua astronomica “ri-voluzione” appunto! La vera Tradizione non ha niente da conservare, ma tutto da distruggere, puntando al compimento “rivoluzionario” del ciclo, per arrivare ad un Nuovo inizio, alla nuova “Età dell’Oro”. La Conservazione è il contrario della Tradizione/Rivoluzione, se è intesa non nel senso dei Valori ma in quello del mantenimento, della difesa delle strutture del passato, delle forme oramai superate, ridotte a vacue parvenze, a vuote formule e forme, a scheletri anneriti dal tempo che celano il nulla. E questo vale per le forme politiche e sociali come per le religioni e le culture, oramai residuali e inutili se non al perpetuare vani simulacri e i loro custodi. Ripetiamolo: nel mondo moderno non c’è nulla da conservare, tutto da distruggere.

    A cominciare da quanto è rimasto fossilizzato in istituzioni di un passato appena più distante, che non era se non il frutto del modernismo del suo tempo: si pensi al nazionalismo frutto della “Rivoluzione” Francese e degli “Immortali Principi” dell’89, termini presi a prestito dal pensiero tradizionale e rovesciato nel loro opposto. Se la conservazione è il contrario della Tradizione che è rivoluzionaria, la Sovversione, come tutti i fenomeni di ribellismo del mondo moderno, è una rivoluzione di segno contrario, una Contro-rivoluzione, sempre nel senso tradizionale del termine. Essa infatti, nel momento stesso in cui pretende di distruggere le forme del presente (e questo è il suo aspetto più positivo) lo fa nel nome e nel segno della “modernità”, come categoria mentale e spirituale. Il che si traduce non in un’accelerazione verso la fine della decadenza presente e quindi nel raggiungimento del punto catartico che segna il passaggio rivoluzionario ciclico, bensì nel perpetuarsi sotto nuove forme della decadenza stessa, che tende naturalmente a cristallizzarsi in ennesima conservazione, all’avvento di un’ulteriore ondata sovvertitrice. La sovversione tende a ribaltare le forme del passate per conservare l’essenza del presente, cioè il modernismo antitradizionale, cercando così di arrestare il vero processo rivoluzionario che chiuda un ciclo e ne apra uno nuovo. E’ insomma un’altra forma della conservazione. Un serpente che continua a mordersi la coda. Conservazione e Sovversione sono quindi funzionali l’un l’altra nell’attuale fase del ciclo; anche se, da un più elevato punto di vista metastorico, il compimento rivoluzionario dell’ultima fase ciclica è scritto nel Destino: Come sempre “fata volentes ducunt, nolentes trahunt”. Le conseguenze dei due atteggiamenti mentali sono comunque diverse, per chi non vuol essere semplice spettatore passivo degli eventi, ma ha nella sua stessa natura il marchio di un’impersonalità attiva, la fierezza del guerriero della Tradizione che oggi non può che manifestarsi nel combattente politico rivoluzionario. Valori a parte, ripetiamolo per la terza volta: nel mondo moderno non c’è nulla da salvare e tutto da distruggere. Nel mondo moderno, alla fine di un ciclo, ogni distruzione del passato e del presente è propedeutica al compiersi del ciclo storico medesimo.

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    Predefinito Rif: I Pilastri Dell'Eurasia

    Rivolta Contro Il Mondialismo Moderno (II Parte)

    DUE FRONTI, MOLTE TRINCEE

    Sotto questo punto di vista è consequenziale che un vero rivoluzionario veda in ogni giovane contestatore dell’attuale assetto mondiale e nazionale un alleato tattico nell’opera di distruzione delle istituzioni mondialiste, nell’attacco contro i governanti collaborazionisti dell’occupante americano, di “destra” o di “sinistra” poco importa, nella contestazione di ogni loro incontro, nello smascheramento dei loro inganni sulla pelle dei popoli, di TUTTI i popoli. Motivazioni e fini possono essere divergenti, ma il Nemico è unico e supera ogni barriera ideologica o politica; solo chi ragiona così è un vero rivoluzionario, a prescindere dalla rivoluzione che ha in mente. Senza infingimenti, senza commistioni, senza salti di campo per ingraziarsi chi considererà sempre un estraneo anche il neofita convertito. E’ la teorizzazione dei DUE FRONTI E MOLTE TRINCEE. Che ognuno combatta il Mondialismo, la globalizzazione o anche, se ha una visione limitata dei problemi globali, soltanto alcuni aspetti di essa, dal proprio punto di vista ideologico, ideale o esistenziale: dalla propria trincea. Ma avendo almeno ben chiara l’identificazione del Nemico stesso, che è il nemico globale. Sarà certo chi ha più chiari i termini politici e metapolitici dello scontro planetario in atto, quello che avrà anche una più vasta panoramica del campo di battaglia e saprà condurre una lotta più radicale e determinata. Ed il primo passo consiste nel dare un nome ed un volto ad un fenomeno che non è affatto anonimo e figlio di NN come vorrebbero farci credere i soliti teorizzatori del disimpegno politico, della ritirata nel “privato”, tra input metapolitici e più prosaiche vite da piccoli borghesi.


    IL NOME DELLA MONDIALIZZAZIONE: AMERIKA
    Il Mondialismo moderno è la fase estrema dell’imperialismo capitalista americanocentrico nella sua manifestazione più degenerativa, antitradizionale, conservatrice e sovversiva al tempo stesso. Gli Imperi tradizionali d’Europa, nonostante avessero mitridatizzato il veleno di una religione aliena allo spirito indoeuropeo in forme politico-sociali d’impostazione tradizionale, si trasformarono alla fine del loro ciclo vitale in imperialismi e nazionalismi coloniali, invadendo ed infettando il mondo. Ancora una volta la legge del contrappasso ha voluto che l’Europa sia stata vinta e sottomessa da un frutto venefico del suo seno: l’America ha affrontato e vinto l’Europa (tutta l’Europa, anche quella degli alleati di ieri), l’ha privata del suo potere e delle sue colonie, sostituendovi un neo-imperialismo politico, economico, mediatico. In termini geopolitici il “Mare” ha vinto la “Terra”, e continua ad avanzare al suo interno. L’America infatti si è oggi imposta anche sulla rivale Russia e i confini della NATO si spostano sempre più verso il cuore d’Eurasia, l’Heartland logistico della ex potenza antagonista. Il Mondialismo e la sua manifestazione economica e mentale, la globalizzazione, non potrebbero esistere senza il dominio di una ed una sola superpotenza che ha imposto al mondo il suo predominio militare sulla terra, sopra e sotto i mari, nei cieli e nello spazio esterno. Non esisterebbero senza una moneta unica valida ovunque per i pagamenti internazionali, senza una lingua comune di comunicazione, dalla diplomazia ai computer, senza una pseudocultura accettata o subita da tutti, senza la tv, il cinema, la stampa, internet ecc…tutto facente capo alle lobbies ed alle multinazionali con base negli Stati Uniti d’America; fortezza continentale irraggiungibile, braccio armato mondiale del SIM, il super Stato Imperialista delle Multinazionali. “Gli Stati Uniti sono grandi difensori della globalizzazione e dove essa è stata messa in pratica, come nelle relazioni col Messico, ha portato un gran bene. [agli Stati Uniti- nostra nota]… Penso che gli Stati Uniti siano stati finora i primi a baneficiare della globalizzazione e che si trovino, dal punto di vista della concorrenza, nella posizione più forte rispetto a chiunque altro”; parola di Henry Kissinger, “l’ebreo volante” delle Amministrazioni repubblicane, premio Nobel per la pace (dopo aver favorito la guerra Iran-Iraq con oltre un milione di morti), autore del recente libro “L’America ha bisogno di una politica estera?” e sponsor dell’attuale ministro degli esteri italiano nel governo Berlusconi.

    Gli fa eco il confratello,George Soros, ebreo di origine ungherese, speculatore internazionale capace di affondare in una sola operazione borsistica l’economia di interi paesi (nel’92 costò all’Italia una perdita di quarantamila miliardi di lire!) ed attuale co-presidente del World Economic Forum di Salisburgo (“fratello minore estivo di quello di Davos”): “Io penso che la globalizzazione porti grandi benefici ad un gran numero di uomini e donne…La liberalizzazione dei mercati e del movimento dei capitali produce soprattutto benefici privati e ai privati. Ma non si preoccupa né può farlo di per sé, dei benefici collettivi” (da: “La globalizzazione è un bene, i governi imparino a usarla”-“Repubblica”, 3.07.2001).Viva la sincerità! Certo per il sig. Soros e affini la globalizzazione è stata una vera “manna dal cielo”, tipo quella elargita da Javhé ai suoi correligionari. Ma ora ha deciso di lasciare la finanza e dedicarsi ai “problemi della democrazia nell’Europa dell’Est”. Tremate slavi! Del resto è noto che uno degli strumenti che l’America ha per imporre la sua politica economica al mondo, oltre il dollaro, è quello della cosiddetta GLOBALIZZAZIONE ASIMMETRICA, che mentre impone alle economie più deboli, comprese quelle dei partners ricchi del Nord del mondo, il liberismo quasi assoluto negli scambi internazionali, applica al contrario altissime tariffe doganali alle merci straniere più competitive sul mercato interno statunitense, a difesa degli interessi lobbistici dei produttori americani. Una politica economica che applicata ai prodotti del Terzo e Quarto Mondo risulta devastante per le economie più deboli, costrette poi ad indebitarsi per importare prodotti americani sui quali gli USA pretendono di non pagar dazio.

    COME L’AMERICA PREPARA LA III GUERRA MONDIALE
    Ma c’è anche un nuovo pericolo, accentuatosi con l’avvento dell’attuale Amministrazione repubblicana di Bush Jr.: il rilancio della corsa agli armamenti per creare un gigantesco apparato militar-industriale, inattaccabile da qualsiasi eventuale nemico (scudo stellare) e capace di colpire ovunque in tempi brevissimi (bombardiere spaziale, utilizzo militare del sistema satellitare civile attuale). Questo soprattutto per favorire le lobbies belliche ed il Pentagono, che hanno portato all’elezione di un nuovo Bush con il vecchio staff repubblicano del padre o anche precedente. A prescindere dai rischi evidenti di una tale politica per la pace e la stabilità internazionali, essa rischia di far collassare un’economia già oggi in piena crisi, con la creazione di un arsenale costosissimo e ipertrofico, per di più completamente inutile in un sistema internazionale che vede gli USA già al giorno d’oggi quale unica superpotenza mondiale. E’ questa la tesi di Chalmers Johnson ne “Gli ultimi giorni dell’impero americano”. In questo libro si prospetta infatti una fine degli Stati Uniti molto simile al collasso implosivo dell’ex URSS nel momento in cui fu palese che il suo sforzo militare non era stato compatibile con la tenuta delle strutture economiche interne e si era per di più dimostrato inadatto alla geostrategia contemporanea (sconfitta in Afghanistan, Polonia, Medio Oriente ecc…) Il crollo dell’impero americano non sarebbe certo una perdita per il resto del mondo, ma al contrario l’inizio della rinascita di popoli e nazioni, se non fosse per il fatto che la globalizzazione americanocentrica ha vincolato tutti all’economia e alla politica statunitense. Tanto che la crisi generale del capitalismo USA rappresenterebbe contemporaneamente LA Crisi Mondiale per antonomasia, di fronte alla quale quella del ’29 sarebbe stata una tempesta in un bicchier d’acqua. Inoltre è sicuro che l’America, di fronte alla prospettiva del disastro economico interno (che, in quel tipo di società, rappresenterebbe semplicemente la fine degli Stati Uniti come entità politica unitaria) sarebbero pronti a scatenare un conflitto mondiale sul quale scaricare le tensioni interne e nel quale gettare gli armamenti la cui costruzione avrebbe determinato la crisi stessa. Il libro di Johnson aveva anticipato la crisi con la Cina proprio nell’area del Mare Cinese Meridionale e per la questione cruciale di Taiwan. Ancora una volta l’imperialismo militarista ed interventista è la fase suprema e la valvola di scarico del capitalismo nella sua fase estrema. Con la variante che stavolta è l’Alta Finanza a condurre il gioco ed il teatro è più che mai l’intero pianeta, il quale rischia di essere trascinato nell’olocausto nucleare totale, seguendo il crollo dell’Impero Americano. Se il Mondialismo è dunque frutto degenerato del nazionalismo, dell’imperialismo coloniale rovesciatosi nel suo apparente opposto, ma in realtà tutto interno alla logica mercantilistica anti-tradizionale che presiedette alla nascita ed affermazione degli imperi coloniali europei, la soluzione al problema non può che trovarsi alla radice di partenza: l’Europa.


    EUROPA, IMPERO E GEOPOLITICA
    Cioè in un IMPERO EUROPEO autocratico, autarchico, armato.
    Una concezione imperiale, tradizionale, rivoluzionaria e geopolitica come risposta all’imperialismo del mondo unipolare, “modernista”, conservatore dell’assetto globale attuale. Riecheggiano le parole di Evola: “Dopo, gli imperi saranno soppiantati dagli “imperialismi” e non si saprà più nulla dello Stato se non come di una organizzazione temporale particolare, nazionale e poi sociale e plebea”. Un’Europa Unita che ritrovi quindi proprio nelle sue radici più profonde, nelle sue origini polari, nella sua Tradizione la forza per sollevare la bandiera della liberazione continentale e planetaria contro il Mondialismo. E che abbia nella GEOPOLITICA, cioè nella coscienza storica e geografica delle sue élites e dei suoi mille popoli, l’arma con cui combattere le utopie del mondo moderno e le minacce dei potentati mondiali. Una simile Europa certamente non ha niente a che spartire con l’attuale UE, propaggine atlantica della talassocrazia americana; la geopolitica, la storia, l’ideologia dei nostri attuali occupanti sono necessariamente conflittuali ed antagonisti con quelli dell’Europa. In termini geografici, storici e culturali poi l’unità del continente Europa si compenetra con la sua parte orientale, in specie con la Russia, tutta la Federazione Russa attuale, che ne rappresenta il proseguimento nella prospettiva geopolitica, la garanzia in termini militari, la complementarietà nell’aspetto economico e la potenzialità per lo SPAZIO VITALE. L’Europa da Rejkiavik a Vladivostok, dall’Atlantico al Pacifico, da Thule in Groenlandia a Bering, nell’estrema punta orientale della Siberia, con eventuali basi strategiche avanzate oltre lo stretto non è una Utopia, è semplicemente una necessità per l’esistenza stessa. Che poi ci siano ancora popoli europei capaci di una reazione vitale, è tutto da verificare. Certo non a occidente, ma forse è da oriente e dalla Russia stessa che può venire qualche speranza. E d’altra parte la Russia non può fare a meno dell’Europa, pena seguirne la stessa sorte. Se, come dicemmo il Mondialismo oggi s’identifica totalmente con l’imperialismo americano, Mondialismo= Americanismo, la risposta POSSIBILE non può che essere l’Europa Unita e indipendente, sovrana e autarchica nelle necessità primarie. L’One World che ci si prospetta come il migliore dei mondi possibili ha un centro: l’ombelico del mondo unificato è negli USA, in particolare quello finanziario e politico tra New York ed Washington, quello “culturale” tra Los Angeles e San Francisco, mentre il retroterra economico industriale occupa la fascia centrale da Chicago al Texas. Se la minaccia distruttiva della superpotenza USA, quale strumento del piano mondialista di dominio, è globale, altrettanto globale dovrà essere la lotta dei popoli liberi, riuniti in aree geopolitiche e culturali affini.


    LA NUOVA TRICONTINENTALE
    L’Europa per essere libera dovrà quindi porsi all’avanguardia delle lotte di liberazione del Sud del mondo: dell’America Latina oggi ridotta a “cortile di casa” dell’imperialismo yankee del nord, dell’Africa “nera” sub-sahariana come dell’Asia “gialla” con in testa la Cina, degli aborigeni dell’Oceania, del sub-continente indiano, del mondo iranico nostro naturale alleato come di quello turcofono confinante in Europa ed Asia.

    Ed ancora sarà nostra la lotta del popolo Palestinese, arabo e islamico contro la presenza sionista in Palestina e nel Medio Oriente. Israele è il baluardo armato dell’imperialismo talassocratico USA nel cuore della massa continentale eurasiatico-africana, alla confluenza degli stretti dei mari interni e sulle rotte dell’oro nero dell’energia mondiale. La sua stessa presenza rappresenterà sempre un pericolo mortale per l’unità europea, come per quella araba, iranica o africana. L’eliminazione del bastione sionista nel Mediterraneo è e sarà una priorità strategica per ogni governo e stato che voglia combattere contro il Mondialismo, per le unità continentali geopolitiche. Nel mondo globale non si possono ignorare situazione geostrategiche anche agli antipodi del pianeta. Ma le piccole nazioni sette-ottocentesche non possono certo competere con grandi potenze a respiro continentale. Mario Vargas Llosa, peraltro un esegeta della globalizzazione, ha recentemente affermato: “La realtà del nostro tempo è quella di un mondo nel quale le antiche frontiere nazionali si sono gradualmente assottigliate fino a sparire in certi settori – l’economia, la scienza, l’informazione, la cultura, anche se non nel politico e in altre sfere -, stabilendo sempre di più, tra i paesi dei cinque continenti, una interdipendenza che si scontra frontalmente con la vecchia idea dello Stato-nazione e le sue prerogative tradizionali”. (“Quello che resterà del nuovo Sessantotto” – Repubblica, 7/8/2001). Il politicante scrittore peruviano non manca di notare che il sistema democratico (cioè gli USA) hanno sconfitto i grandi regimi totalitari del XX secolo, Fascismo e Comunismo, indicati quindi come gli unici seri tentativi antimondialisti, rispetto alle velleitarie utopie del “popolo di Seattle”, destinato ad essere riassorbito nel Sistema come i contestatori del ’68. Un Sistema del quale si riconoscono già componente interna seppur nel dissenso dei mezzi. Potremmo solo aggiungere che gli stessi “fascismi” e “comunismi” dovettero in parte la loro sconfitta proprio al fatto di non aver compreso a piena la globalità della lotta, le intenzioni della potenza americana nel mondo; finendo per scontrarsi tra loro, permettendo all’imperialismo USA di batterli, in tempi separati, e con diversi strumenti, ma sempre con l’unico obiettivo storico di dominare la Terra. Che le unità geopolitiche e culturali nel futuro della politica mondiale non siano una mera ipotesi di studio, vuoto accademismo politologico o peggio utopia incapacitante, sono gli stessi teorici della supremazia americana a dircelo. Il trilateralista Samuel P. Huntington è il portavoce di varie associazioni americane che tracciano le linee strategiche per il XXI secolo a stelle e striscie. Nell’oramai celeberrimo “Lo scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale”, l’autore disegna il quadro di un mondo futuro diviso per grandi aree geografico-culturali, nell’ambito delle quali dovrebbe valere il principio di “non ingerenza” da parte di una potenza esterna. Scrive Huntington: “Sotto la spinta della modernizzazione, la politica planetaria si sta ristrutturando secondo linee culturali. I popoli e i paesi con culture simili si avvicinano. Le alleanze determinate da motivi ideologici o dai rapporti tra le superpotenze lasciano il campo ad alleanze definite dalle culture e dalle civiltà. I confini politici vengono ridisegnati affinchè coincidano con quelli culturali…Le comunità culturali stanno sostituendo i blocchi della Guerra Fredda e le linee di faglia tra civiltà stanno diventando le linee dei conflitti nella politica globale”. Certamente l’Huntington scrive da americano ed il suo concetto di civiltà poco ha a che vedere con quello della tradizione europea o sino-nipponica o arabo-islamica ecc.. E infatti nella logica geopolitica atlantica dei suoi sponsor l’Europa sarebbe unita agli USA e separata dal suo naturale proseguimento orientale nel mondo slavo-ortodosso. Del resto la scuola geopolitica di un Haushofer aveva già previsto un mondo di unità continentali (nel senso che la geopolitica dà al termine continente, non necessariamente coincidente con la suddivisione scolastica cui siamo stati indottrinati a scuola); ma Huntington, ovviamente, non ne fa parola.

    GEOPOLITICA E LOTTA DI LIBERAZIONE
    Eppure le unità geopolitiche e culturali di tipo imperiale sono nella realtà della suddivisione planetaria del futuro e rispondono ad una esigenza reale dettata dalla Storia e dalla Geografia. Anche la Geopolitica, criminalizzata per anni come “pseudoscienza nazista” è tornata in auge dopo la fine del bipolarismo USA-URSS e la nascita di nuove nazioni e nuove realtà supernazionali, come l’Islam Rivoluzionario, il risveglio della Cina o la nuova vitalità dell’Induismo. Al momento attuale invece l’Europa, inglobata nella NATO, non è altro che terra di occupazione, “terza sponda” d’oltre oceano della potenza aereo-marittima dominante, fronte avanzato dell’imperialismo nordamericano/atlantico verso il cuore continentale, l’Heartland russo-siberiano. In tale contesto TUTTI gli eserciti e le polizie, i servizi e le strutture politiche delle nazioni europee sono al servizio di Washington, strutturati ed armati in funzione degli interessi strategici d’intervento rapido dell’imperialismo americano in ogni angolo del mondo. Come tali essi devono essere considerati come COLLABORAZIONISTI DEL NEMICO OCCUPANTE, da parte di ogni vero rivoluzionario e patriota europeo: e trattati come tali. In fondo la guerra contro l’Europa non si è mai conclusa, dal secolo scorso ad oggi. E la stessa NATO, lungi da essere una difesa e una garanzia per i sedicenti alleati europei, ha sempre rappresentato lo strumento di dominio americano sull’ Europa; in particolare oggi che non ha neanche più il velo giustificativo del baluardo anticomunista ed antisovietico. L’esperienza delle guerre balcaniche e l’attacco alla Serbia sono solo gli ultimi tragici fatti sotto gli occhi di tutti. E la vergogna del Tribunale Internazionale dell’Aja, che processa i vinti e/o gli alleati scomodi per conto dei veri criminali mondiali, non rappresenta che l’istituzionalizzazione dell’altra vergogna storica, i tribunali di Norimberga e di Tokio. Con la teorizzazione degli “interventi umanitari” gli Stati Uniti si sono autoproclamati poliziotti mondiali, oltre che carcerieri e boia, contro il “criminale” internazionale di turno, scelto sulla base degli interessi correnti della strategia militare e politica del Pentagono: ieri Hitler, Mussolini, Stalin e il Giappone, oggi l’Iran komeinista, la Libia di Gheddafi, la Corea, o più semplicemente Saddam Hussein, Milosevic o Bin Laden!


    LA GLOCALIZZAZIONE
    Per tornare alla proposizione delle unità geopolitiche autocentrate, noteremo come queste rappresenterebbero anche la risposta al falso problema della dicotomia tra GLOBALIZZAZIONE e LOCALIZZAZIONE. Il mondo moderno sembra tendere verso l’abbattimento di ogni barriera nazionale (internazionalismo, governo unico mondiale), culturale (uniformismo dei costumi, delle mode, della musica, del cibo, internet ecc..) economica (globalizzazione dei mercati, liberismo assoluto), religiosa (sincretismo, fratellanza universale, modello monoteista unico), ecc…; e comunque è in tal senso che spinge il progetto mondialista di una cultura unipolare, modellata sull’american way of life. D’altra parte la naturale resistenza di uomini sani e popoli ancora vitali va nel senso apparentemente opposto: il Localismo, il ritorno ai valori della terra, quando non anche del sangue. Si riscoprono usi e costumi, tradizioni locali o ricette, si riabilita il rapporto armonico con la natura che fu precristiano. Fino alla rivendicazione di autonomia o indipendenza per le “piccole patrie”, con la rinascita delle lingue perdute, la riscoperta della storia occultata e di simboli e bandiere dimenticati.

    Un fenomeno certo positivo che però rischia anch’esso di essere strumentalizzato dalle lobbies mondialiste, per essere utilizzato come semplice folklore, come ulteriore indebolimento interno della politica nazionale, quando questa non si pieghi subito e completamente ai voleri e ai valori degli apolidi padroni del mondo. Il teorico più noto di questa tendenza “localista”, insieme ai vari I. Illich, V. Shiva e Bové, è l’ecologista inglese Edward Goldsmith, autore di “Glocalismo”, cioè appunto la tendenza globale al localismo nel mondo. In una recente intervista (“La Stampa”, 15/7/2001) il teorizzatore di comunità stabili, territoriali, tradizionaliste, autoregolate e a crescita zero, afferma: “Si vuole creare un paradiso per le multinazionali, rimuovendo le regole che proteggono i poveri e le comunità locali. Il G8 lo fa sistematicamente… Credo nei doveri verso la famiglia e la comunità, nell’idea di religione e di tradizione. Orribile è la società individualistica, atomizzata, di massa. Non c’è libertà ma solo Coca-Cola, organismi geneticamente modificati, MacDonald’s.” Ed ancora: “La globalizzazione è un fenomeno temporaneo, che non può durare: Pensi alle crisi finanziarie che costellano questi nostri anni. ..La politica di Bush porta verso l’estinzione dell’umanità: ma in tal caso non ci sarà più economia, non ci sarà più nulla. Credo che le cose stiano cambiando. Bisogna preparare il collasso di questo sistema, che arriverà comunque”. Parole che condividiamo in toto e che riproponiamo a chi ci lanciasse accuse di catastrofismo apocalittico. Ci sarebbe semmai da chiedersi come conciliare le idee di Goldsmith con quelle dei globalizzatori dal basso, post-marxisti, internazionalisti e cristiani di base, cioè le ideologie internazionaliste e mondialiste per eccellenza. E anche con quelle di Bové o del subcomandante Marcos, arrivato come rivoluzionario marxista nella foresta Lacandona del Chiapas con “il Capitale” sotto il braccio, e convertitosi alla visione del “Popol-Vuh”, il testo sacro dei Maya!
    Del resto è noto che, oltre ai succitati, tra i padri nobili dell’Antiglobal sono stati inseriti, a ragione o a torto, nomi vecchi e nuovi di tutti i tipi: da Marx a Keynes, dal solito J.J. Rousseau a Russell e Marcuse, da Morel a Tolstoj, fino ai più attuali Mac Luhan e Jeremy Rifkin, che ha lanciato il termine “Ecocidio”, titolo di un suo libro (autore anche di: “Il secolo biotec”), Vandana Shiva, Luther Blisset e ovviamente gli ebrei americani Noam Chomsky e Naomi Klein, la fortunata autrice di “No Logo”.
    Né potevano mancare religiosi e teologi da Madre Teresa di Calcutta (immancabile, appunto, in tutte le salse), ad Hans Küng e Leonardo Boff. Stranamente…non si parla di Hakim Bey (alias Peter Lamborn Wilson), teorizzatore delle “TAZ”, “Zone Temporaneamente Autonome” che sembra sia fra le letture preferite delle frange dure anarco-insurrezionaliste del movimento antagonista. Un Sufi che propone una lettura anarco-nihilista della rivoluzione antimondialista, sotto il segno non del materialismo-marxiano ma …della Dea Kalì, cioè sotto il segno della distruzione totale in quello che appunto i tradizionalisti definiscono il Kali-Yuga, l’Era di Kalì, la sposa di Shiva , distruttore ma anche restauratore. [notizie, tratte da forum telematico, di Luigi Leonini, che riporta le critiche del sinistro Blisset ad Hakim Bey, considerato quasi un nazifascista!].
    Resta il fatto che il “DIFFERENZIALISMO IDENTITARIO”, la Localizzazione, il particolarismo etno-geografico non potrebbero comunque contrastare la Globalizzazione imposta, il progetto Mondialista solo rinchiudendosi nel particolare; opponendo in particolare piccole comunità ed economie da villaggio allo strapotere economico e politico, per non dire militare, del mondialismo e dei suoi manutengoli. Tantomeno prospettando solo un’opera di distruzione totale (assolutamente necessaria, e prioritariamente indispensabile) delle strutture del mondo moderno, senza proporre e preparare l’alternativa alla globalizzazione e non una globalizzazione alternativa

    COMUNITA’, NAZIONE, IMPERO
    Né, al contrario, si può restare in attesa di una crisi strutturale del Sistema mondialista, che certamente E’ nel destino del Capitalismo Finanziario Internazionale, ma di cui bisogna favorire il collasso, come giustamente dice il Goldsmith. Persino le nazioni nate dalla Rivoluzione Francese e dalla decolonizzazione del dopoguerra sono diventati strumenti politici inadeguati ad affrontare il fenomeno; tantomeno potrebbero esserlo microcomunità d’ogni genere, se non inserite organicamente in un’unità più grande, più complessa, garante delle specificità locali e della difesa comune. Sul problema del rapporto tra “nazionalità”, “nazionalismo” e “impero” rimandiamo ancora una volta all’ Evola di “Rivolta contro il mondo moderno”, che anche in questo campo anticipava di decenni le critiche al nazionalismo che, tra isterismi di massa e guerre civili europee, già si scavava la fossa nel secolo trascorso. Su di essa il Mondialismo ha posto la sua pietra tombale. La soluzione del problema di superare la Globalizzazione mondialista difendendo dall’omologazione planetaria del capitalismo finale le specificità locali, non può che essere l’Europa Unita dall’Atlantico al Pacifico, dal Polo al Mediterraneo-Mar Nero-Caucaso-Siberia: l’Europa di cento bandiere, di mille piccole comunità sempre più particolari e specifiche nella loro cultura. Ma un’Europa che sia comunque omogenea, unitaria nelle sue radici etniche e spirituali più antiche, in un vasto spazio geopoliticamente delineato ed economicamente autarchico. Del resto è proprio questa l’essenza dell’Imperium tradizionale , descritto da Evola e conosciuto da tutte le Civiltà autentiche. Perché l’unità dell’Impero è data dalle élites spirituali, politiche e militari tratte dai popoli componenti l’Impero stesso portatore di una visione anagogica, spirituale, metapolitica e metafisica, che compenetra ma supera idealmente gli interessi e le tradizioni dei popoli compresi nei confini imperiali, ciascuno dotato del suo spazio geografico particolare. Ancora una volta la soluzione più realistica e avveniristica del dramma del nostro tempo risiede nella saggezza della Tradizione che, in quanto tale, non è né antica né moderna perché eterna.


    RITORNO ALLA GRANDE POLITICA
    Si parla molto del ritorno della Politica, del suo riprendere il posto che le compete sopra l’economia. Ma solo se si comprenderà la vera natura del Mondialismo, che non è soltanto (e neanche soprattutto) un fenomeno di natura economica, si potrà opporre una valida alternativa e politica e socio-economica al progetto di dominio di una ristretta, “eletta”, oligarchia plutocratica, ma anche portatrice di una ben specifica “contro-tradizione” religiosa e culturale: una “visione del mondo” globale e globalmente antagonista a quella dei popoli.

    Circa il tipo di lotta da intraprendere ci permettiamo di rimandare il lettore ai precedenti scritti, ed in particolare alla “Dottrina delle Tre Liberazioni” (Liberazione Nazionale/ Liberazione Sociale / Liberazione Culturale, nel quadro geopolitico europeo e in una prospettiva di guerra totale mondiale dei popoli contro l’imperialismo americano).
    Ma prima di ogni azione nel campo pratico sarà necessario chiarire inequivocabilmente i termini del problema, gli attori reali sulla scena nazionale e mondiale e quelli fittizi, gli uomini e le istituzioni, i partiti e i movimenti che sono al servizio del progetto mondialista. Per queste analisi le vecchie abusate terminologie non hanno più senso, non servono allo scopo se mai servirono: “destra”, “sinistra”, fascismo/antifascismo, comunismo/anticomunismo, democrazia e/o totalitarismo, nazionalismo-internazionalismo, tutte parole che appartengono ad un’epoca della politica oramai vecchia di un secolo. E che se vengono ancora utilizzate a fine polemico e/o apologetico, è solo perché servono agli imbonitori di turno a deviare l’attenzione dalle realtà dell’oggi, dalle prospettive di aggregazione e di lotta del domani.

    IL QUADRO DELLO SCONTRO E I SUOI PROTAGONISTI
    Evola perlomeno ci ha insegnato come, al contrario, anche i termini esatti appartenenti alla Tradizione Una, in quanto svincolati dalle contingenze del temporale, del passeggero, del provvisorio, dell’inessenziale, possano tramutarsi di epoca in epoca in “parole d’ordine” per la lotta, in “Miti di riferimento capacitanti”, in prospettive reali e realistiche di lotta, per chi voglia essere protagonista nel proprio tempo, anche nell’epoca della dissoluzione e della fine ciclica; la cui durata peraltro non possiamo determinare. Siamo del resto sempre stati convinti che non esistano i “miti incapacitanti”, bensì solo uomini incapaci di attualizzare una Realtà per sua natura a-temporale, metapolitica. Attardarsi a cercare di recuperare giovani o meno giovani, a qualunque ideologia appartengano, il cui limitato orizzonte mentale e spirituale li destina per natura o per scelta a battaglie di retroguardia, a sterile nostalgismo, all’impotenza politica, quando non addirittura alla difesa delle vuote istituzioni del passato, è oltre che vano, controproducente. Sarà semmai questa limatura di ferro che seguirà la calamita, se questa saprà esercitare la sua forza naturale attrattiva. Ma assolutamente da evitare è ogni commistione, ideologica, ideale, politica o pratica, o persino dettata dal sentimentalismo su un passato in comune, verso tutti quegli elementi che militano in formazioni legate alle istituzioni attualmente al potere. Che lo facciano per arrivismo, per furbizia, per avidità, per malafede o per buonafede e/o convinti di scegliere il “meno peggio”, tutti costoro sono OGGETTIVAMENTE al servizio del progetto mondialista, dei suoi esecutori nazionali ed in ultima istanza dell’occupante imperialista e dei padroni del nostro e degli altrui destini. Camerieri dei banchieri, per usare il felice titolo del Santoro. SONO AGENTI DEL NEMICO, e come tali vanno trattati e combattuti. La pretesa “buonafede” dopo anni di riprove al contrario è solo stupidità allo stato puro, quando non peggio. Le “destre” di Regime e di Sistema non hanno scusanti. Anzi , al contrario, sono assai più responsabili e quindi colpevoli, in quanto avendo da sempre a portata di mano gli strumenti ideali, culturali e politici, i punti di riferimento fissi e veritieri per un’analisi della società nazionale ed internazionale, non ne hanno mai fatto uso, preda ogni volta degli istinti più animaleschi e delle reazioni più incontrollate, come gli sbavanti cani di Pavlov davanti ad un osso. E nel momento stesso in cui esaltano un passato lontano del quale sono indegni, lo negano nei fatti portando acqua ed energie al mulino di un nemico secolare, lo stesso di ieri, di oggi e del prossimo domani.

    Né si pone all’opposto il problema di rincorrere una contestazione umanitarista, riformista, cristiano o laico progressista, che già dai suoi esordi manifesta chiaramente i germi e le patologie del male che vorrebbe combattere. Ad essa sarebbe quasi da preferire quella radicale e semplicemente distruttiva dei casseurs, degli anarchici e nihilisti d’ogni specie, il cui vero limite non è tanto nelle modalità d’azione (cosa saranno mai quattro vetrine rotte di banche o agenzie finanziarie in confronto al crimine della fondazione di banche e finanziarie?), bensì nella mancanza di prospettiva rivoluzionaria e nella fisiologica negazione di un’alternativa possibile. Anche se, in questo caso, le convergenze tattiche, sono possibili e persino auspicabili; ferma restando però la propria identità politica e Culturale in senso lato. Se le destre di sistema fanno parte del fronte nemico, quello del Mondialismo al potere, gli antiglobalizzatori, variegati quanto i colori dell’arcobaleno, rappresentano una contestazione interna al Sistema globalista, eppur tuttavia una contestazione…
    Nello schema ideale dei “due Fronti e molte trincee”, mentre la destra reazionaria è palesemente schierata nel fronte opposto, tanti giovani contestatori sono su trincee vicine, anche se non hanno un quadro chiaro e generale delle forze in campo e delle strategie. Questo anche perché spesso sono proprio i loro dirigenti ad appartenere al nemico mondialista e quindi a deviarne le positive energie rivoluzionarie verso falsi obiettivi. Da parte chi è cosciente di tutto ciò si tratterà allora di assumere una posizione quanto mai ferma e RADICALE contro tutte le espressioni, politiche, sociali, scientifiche, spirituali ecc…del moderno mondo globalizzato. Un tradizionalista rivoluzionario, lo ripeteremo fino alla nausea, non ha niente da salvare del mondo moderno, ma tutto da distruggere: a cominciare dai rimasugli, dai rottami, dai resti di un passato che non apparteneva già al suo esordio al mondo della Tradizione, ma ad una fase precedente e oramai superata della decadenza. Forti di una retta Dottrina e di una razionale analisi storica e geopolitica, coscienti della consapevolezza di battersi per la giusta causa dei popoli, in una visione globale del mondo e della storia offerta dall’insegnamento tradizionale di maestri come Evola, Guénon, Béla Hamvas (l’autore di “Scientia Sacra”), e tanti altri, i giovani rivoluzionari antimondialisti del domani si devono porre all’avanguardia e non nelle retrovie della guerra contro la globalizzazione in tutte le sue forme e manifestazioni; che ovviamente non sono soltanto economiche e politiche, bensì esistenziali, spirituali, naturali. Abbiamo risposte e proposte in ogni campo: dalla salute all’ambiente, dal lavoro all’immigrazione e al debito mondiale, dal cibo al commercio, dalla genetica alle nuove tecnologie; ecologia, etologia, animalismo e via elencando hanno sempre fatto parte del nostro bagaglio culturale, a differenza di tanti parvenues dell’ultim’ora. Senza seguire nessun capopolo isterico, ducetto da strapazzo o farabutto politicante, le nuove leve che verranno devono prima di tutto selezionarsi, contarsi, organizzarsi.
    Comunque lo si voglia poi chiamare deve nascere un COORDINAMENTO ANTAGONISTA RIVOLUZIONARIO fra tutti coloro che condividano una visione tradizionale, anagogica della vita e del mondo ed abbiano la volontà di applicarla nella lotta quotidiana; una quotidianità che sia vissuta sotto il segno dell’Assoluto. Non l’impegno di un giorno o di un anno, ma la determinazione di tutta una vita!
    Chi saprà trovare in se stesso questa determinazione assoluta può star certo che sarà seguito da un numero sempre crescente di giovani e meno giovani, i quali attendono solo un segno, un impulso, una bandiera per lanciarsi nella pugna.


    EVOLA COME MAESTRO DI LOTTA E VITTORIA
    Evola non è mai stato l’ideologo della ritirata, della sconfitta, della resa, del gesto disperato seppur coraggioso fine a se stesso. Tutta la sua vita e le sue opere, prima e dopo le Guerre Mondiali, sono una testimonianza di impegno, senza esaltazioni improvvise o scoramenti. Evola fu un vero rivoluzionario, anche quando era immobile, paralizzato sulla sua sedia, al tavolo di lavoro. E ce lo dimostra il fatto che seppe vedere lontano e pre-vedere la realtà nella quale siamo oggi immersi. Prevedere e provvedere, offrendoci gli strumenti teoretici per combattere il mond(ialism)o moderno, i suoi inganni, le sue sirene ammaliatrici. Il Sistema mondiale è molto più fragile di quanto ci faccia credere. Il suo crollo non si protrarrà nel tempo, non sarà una lunga decadenza, ma un crollo netto, quasi immediato; più veloce del crollo di un colosso dai piedi d’argilla, come fu l’URSS alla fine del millennio trascorso. Si tratterà allora, dove possibile, di sfruttare le contraddizioni interne al Sistema, che sempre si presentano in ogni fenomeno storico di mutamento. Fare esplodere le contraddizioni, portare la contrapposizione NEL Sistema a contrapposizione AL Sistema. Mostrare ai popoli tutta la fragilità della costruzione e strappare la maschera ai burattinai che la muovono. Primo imperativo: mutare di segno la mobilitazione Antiglobal; dal “—“ di una globalizzazione al negativo, dal basso, a quello “+” , positivo, di una lotta senza quartiere al Mondialismo comunque inteso PER la Liberazione Nazionale, Sociale, Culturale, europea e mondiale. Non prima di aver fatto piazza pulita di tutto il passato e il presente. Questo è vero “nihilismo attivo”. Sempre Evola, a conclusione di “Rivolta contro il mondo moderno”, affermava: “Si tratterebbe di assumere, presso ad uno speciale orientamento interiore, i processi più distruttivi dell’età moderna per usarli ai fini di una liberazione. Come in un ritorcere il veleno contro sé stesso o in un ‘cavalcare la tigre’ ”. E chi può essere più radicale e totale nella lotta al mondialismo moderno di chi ha un punto fermo di riferimento, ben oltre le contingenze storiche del momento? Chi sa guardare ben oltre i confini dello spazio e quelli del tempo, riallacciandosi con un altro anello alla catena ininterrotta di una concezione circolare della Storia : costui saprà essere l’AVANGUARDIA delle nuove generazioni che, proprio nel momento più buio dell’omologazione e dell’annichilimento, sentono ancora il fremito della “Rivolta…”, la necessità etica dell’impegno nella difesa dei più deboli, degli oppressi, dei perseguitati, la necessità fisica di vivere per lottare e lottare per vivere. Ezra Pound definì il comunismo un’etica e il fascismo un’estetica, il capitalismo una pratica. Si tratta ora di fondere etica ed estetica nella lotta al capitalismo che si è rivelato una “pratica” folle e suicida per tutti, anche per quelli che lo difendono, coscienti o meno che ne siano. Come ebbe modo di dire un vero rivoluzionario del ventesimo secolo, Ernesto “Che” Guevara, “bisogna sentire come se fosse ricevuto sul proprio viso lo schiaffo dato ad ogni uomo”; ed agire di conseguenza. Del resto, anche volendo, la generalità dei problemi e il pericolo sono oramai così globali appunto che rinchiudersi nel proprio egoismo, ideologico o sociale che sia, sarebbe un suicidio. Uomini come Julius Evola, come Nietzsche e tanti altri ci hanno lasciato strumenti di studio, di analisi del mondo attuale che, nelle mani giuste, possono trasformarsi in valide armi di lotta e vittoria. Chi saprà impugnarle con impersonalità, con animo nobile e volontà ferrea, unendosi a tanti altri uomini e popoli che in ogni angolo del pianeta stanno sollevando la testa, ritrovando la voce, alzando i pugni al cielo?

    La possibilità, anzi la necessità di un nuovo calarsi nel Politico, nell’impegno militante totale, nella guerra al mondialismo moderno, oltre ogni limite geografico e mentale, rappresenterà anche la riprova sul campo della tenuta interiore di ciascuno, della fermezza e del coraggio, della capacità di vincere il borghese che si annida in ciascuno e che si cerca di esorcizzare rimandando l’impegno ad un ipotetico futuro fatto di pose retoriche, di eroismi da operetta, di fantastici scenari da war games, il tutto per rinviare sine die le proprie responsabilità e camuffare la resa al quotidiano, da piccoli borghesi frustrati.
    “Propiziare – scriveva Evola- esperienze di una vita superiore, una superiore libertà…E’ una prova. E, a che essa sia completa, risolutiva, si dica pure: i ponti sono tagliati, non vi sono appoggi, non vi sono ‘ritorni’, non v’è che da andare avanti. E’ proprio di una vocazione eroica l’affrontare l’onda più vorticosa sapendo che due destini sono ad eguale distanza: quello di coloro che finiranno con la dissoluzione del mondo moderno, e quello di coloro che si ritroveranno nel filone centrale e regale della nuova corrente”. Ed ora, la parola ai fatti.

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    Post Europa-Russia-Eurasia: Una geopolitica “orizzontale”

    Carlo Terracciano



    L’idea eurasiatica rappresenta una fondamentale revisione della storia politica, ideologica, etnica e religiosa dell’umanità; essa offre un nuovo sistema di classificazione e categorie che sostituiranno gli schemi usuali. Così l’eurasiatismo in questo contesto può essere definito come un progetto dell’integrazione strategica, geopolitica ed economica del continente eurasiatico settentrionale, considerato come la culla della storia e la matrice delle nazioni europee.


    Alexandr Dugin


    Continenti e geopolitica
    L’Eurasia è un continente “orizzontale”, al contrario dell’America che è un continente “verticale”. Cercheremo di approfondire poi questa perentoria affermazione analizzando la storia e soprattutto la geografia, in particolare eurasiatica. Terremo ben presente che in geopolitica la suddivisione dei continenti non corrisponde a quella accademica, ancor oggi insegnata nelle nostre scuole fin dalle elementari, e che, comunque, se un continente è “una massa di terre emerse e abitate, circondata da mari e/o oceani”, è evidente che l’Europa, come continente a sé stante (assieme ad Asia, Africa, America e Australia), non risponde neanche ai requisiti della geografia scolastica. Ad est infatti essa è saldamente unita all’Asia propriamente detta. La linea verticale degli Urali, di modesta altezza e degradanti a sud, è stata posta ufficialmente come la demarcazione trai due continenti, prolungata fino al fiume Ural ed al Mar Caspio; ma non ha mai rappresentato un vero confine, un ostacolo riconosciuto rispetto all’immensa pianura che corre orizzontalmente dall’Atlantico al Pacifico. La nascita e l’espansione della Russia moderna verso est, fino ad occupare e popolare l’intera Siberia, non è altro che la naturale conseguenza militare e politica di un dato territoriale: la sostanziale unità geografica della parte settentrionale della massa eurasiatica, la grande pianura che corre dall’Atlantico al Pacifico, distinta a sud da deserti e catene montuose che segnano il vero confine con l’Asia profonda.
    Nel suo libro Pekino tra Washington e Mosca (Volpe, Roma, 1972) Guido Giannettini affermava: “Riassumendo, dunque, il confine tra il mondo occidentale e quello orientale non sta negli Urali ma sugli Altai”. Inseriva quindi anche la Russia con la Siberia in “occidente” e ne specificava di seguitole coordinate geografiche: “la penisola anatolica, i monti del Kurdistan, l’altopiano steppico del Khorassan, il Sinkiang, il Tchingai, la Mongolia, il Khingan, il Giappone”. Semplificando possiamo dire che il vero confine orizzontale tra le due grandi aree geopolitiche della massa continentale genericamente eurasiatica è quello che separa l’Europa (con la penisola di Anatolia) più la Federazione Russa, con tutta la Siberia fino a Vladivostok, dal resto dell’Asia “gialla” (Cina, Corea Giappone); nonché dalle altre aree geopoliticamente omogenee (omogenee per ambiente, storia, cultura, religione ed economia) dell’Asia (Vicino Oriente arabo-islamico, mondo turanico, Islam indoeuropeo dal Kurdistan all’Indo, subcontinente indiano, Sudest asiatico peninsulare e insulare fino all’Indonesia). Più che di un confine di tipo moderno si potrebbe parlare, specie nell’Asia centrale, di un limes in senso romano, di una fascia confinaria più o meno ampia che separa popoli e tradizioni molto differenti. In termini politici, specie dopo la dissoluzione dell’URSS, potremmo comunque porre questo confine asiatico attorno al 50° parallelo, per poi proseguire con gli attuali confini di stato tra Federazione Russa a nord e Cina-Mongolia-Giappone.
    Del resto, in questo XXI secolo dell’era volgare la nuova concezione eurasiatista delle aree geopolitiche e geoeconomiche omogenee supera le concezioni politiche vetero*nazionaliste otto-novecentesche, basate su confini ritagliati a linee rette con squadra e compasso. Al contrario si considerano “aree” che spesso si sovrappongono ed integrano, come una serie di anelli concatenati tra loro (tipo i cerchi colorati della bandiera olimpica): ad esempio, l’arca mediterranea è certamente un’unità geopolitica in un mare interno, quasi chiuso agli oceani, che, come dice il suo stesso nome, rappresenta la medianità, il baricentro, il ponte tra le terre prospicienti. Ciò non toglie che i paesi europei che si affacciano sul sistema marittimo Mediterraneo – Mar di Marinara – Mar Nero facciano certamente parte integrante dell’Europa, a sua volta prolungamento occidentale dell’Asia settentrionale, cioè dello spazio russo-siberiano.
    Come si noterà, le varie unità omogenee della massa eurasiatica sono disposte tutte in senso orizzontale. La geografia del Mondo Antico, di tutta la massa che con un neologismo potremmo definire Eufrasia, penetrata da un sistema marittimo interno, va in questo senso: da ovest ad est (o viceversa), nel senso dei paralleli. È lo stesso senso di marcia seguito dai ReitervöIker, i “popolicavalieri” che corsero l’intera Eurasia fin dai più remoti tempi preistorici, i tempi dei miti e delle saghe dell’origine. È lo stesso tragitto, da est a ovest, delle invasioni che dalle steppe dell’Asia centralesi rovesciarono sulla penisola occidentale europea in ondate successive: quelle che noi definiamo “invasioni barbariche”, nel periodo della caduta dell’ Impero Romano. Poi vennero Tamerlano e Gengiz-Khan; quindi i Turchi, dapprima in Anatolia e poi nei Balcani.


    Siberia russa

    “Precisamente del Sur de Siberia y de Mongolia provencan las oleadas de los llamados ‘bárbaros’ que, a través de las estepas que rodean el Caspio y el Mar Negro, llegaron a Europa y cambiaron tanto su faz durante los primeros siglos de nuestra Era” (Alexandr Dugin, Rusia. El misterio de Eurasia, Madrid, GL 88,1992, p. 127).
    Precedentemente la grande epopea araba dell’Islam, conquistatala penisola arabica, si era espansa sia verso ovest – nel Sahara e in Spagna – sia verso est – nel Vicino Oriente e fino al centro dell’Asia. Con l’avvento dell’età moderna sarà proprio la Russia, liberatasi dal dominio dell’Orda d’ Oro e riunificata attorno al Principato di Moscoviti, a percorrere la strada lineare da ovest ad est. “Jermak è il Pizarro della Russia, l’uomo che sottomise la Siberia e la donò allo zar Ivan il Terribile. E con lui la famiglia degli Stroganoff e in generale i Cosacchi” (Juri Semionov, La conquista della Siberia, Sonzogno, Piacenza, 1974). Nell’arco di appena un secolo, dalla salita al trono di Ivan IV il Terribile nel 1547 alla scoperta dello stretto di Bering nel 1648, la conquista della Siberia è un fatto compiuto. Un evento quasi sconosciuto nei nostri testi di storia, ma che rappresenta e sempre più rappresenterà in futuro un fattore determinante per gli equilibri planetari, come intuì anche il geopolitico inglese Mackinder all’inizio del secolo scorso.
    Lo spazio è potenza, anche uno spazio vuoto. La Siberia, con la sua vastità ancora in massima parte intatta, con le sue risorse energetiche e minerali, con la sua posizione, rappresenta una potenzialità unica per l’ Eurasia, cioè per l’Europa e la Russia insieme: la possibilità di una possibile autarchia da contrapporre alla globalizzazione mondialista americanocentrica. La Siberia rappresenta per tutta l’Europa fino agli Urali quello che fu il “Far West” per le tredici colonie dei nascenti Stati Uniti: è il nostro “Far East”! Ma HeartIand mackinderiano può essere difeso solo con il controllo di tutta la penisola Europa e delle sue coste atlantiche. Come ben sanno i Russi dal ‘700 in poi.
    Dal XVIII al XX secolo la Russia fu mira dell’espansionismo da occidente. Svezia, Francia, Germania hanno tentato invano di conquistare da ovest ad est lo spazio vitale russo: sempre e comunque in linea orizzontale, seguendo la conformazione geografica del continente.
    E, in senso inverso, sarà l’impero russo, oramai divenuto sovietico, a espandere verso ovest la propria influenza dopo la Seconda Guerra Mondiale (la “Grande Guerra Patriottica” per i Russi), mentre gli USA conquisteranno la parte occidentale, marittima e oceanica della penisola europea.




    La NATO in marcia verso l’Heartland

    All’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, il crollo implosivo dell’URSS e l’avanzata ad est della NATO portano le truppe e i missili USA nei paesi dell’ex blocco sovietico, del Patto di Varsavia, e della stessa URSS (paesi baltici). La talassocrazia americana, già padrona incontrastata degli oceani mondiali, penetra a fondo nel cuore d’Eurasia, all’assalto degli ultimi bastioni di resistenza rappresentati dalle potenze terrestri russa e cinese.
    Pensare che la Russia possa fare a meno dell’Europa peninsulare (e viceversa l’Europa della Russia) di fronte a questa avanzata finale è assolutamente contrario alla geostrategia quanto al semplice buon senso. Consideriamo innanzitutto che l’Europa di cui parliamo non è una libera e sovrana unità di stati indipendenti, se non formalmente. In realtà dal ‘45 in poi il continente è sotto l’egemonia statunitense, cioè della talassocrazia atlantica. Con qualche rara eccezione, come in parte la Francia erede del gollismo, e con la conferma della Gran Bretagna quale appendice americana in Europa.
    La NATO, non a caso, dal 1949 fino al crollo dell’URSS si estendeva su tutti gli stati europei rivieraschi dell’Atlantico e del Mediterraneo, per chiudere al Patto di Varsavia ogni accesso marittimo, isolando l’ URSS e strangolandola nella sua dimensione territoriale: tanto estesa quanto chiusa alle grandi acque oceaniche e ai mari caldi interni. Dopo il fallimento dell’avventura afgana, preliminare ad uno sbocco all’Oceano Indiano che spezzasse l’accerchiamento nella massa eurasiatica, il contraccolpo derivato dalla sconfitta e dal ripiegamento ha mandato in frantumi l’oramai artificiosa struttura dell’impero sovietico, demotivato anche ideologicamente e stremato economicamente da un apparato militare obsoleto e chiaramente inadatto alle sfide del presente.
    Oggi poi l’Alleanza Atlantica, lungi dall’essersi dissolta per “cessato pericolo”, si è estesa sempre più ad est, toccando nel Baltico i confini russi. L’Ucraina è già sulla via dell’integrazione occidentale, il Caucaso è in fiamme, la Georgia è saldamente in mano a Washington.
    Non è certo con la sola, ipotetica, alleanza di medie potenze regionali asiatiche che Mosca può pensare di vincere la partita con Washington; partita mortale, esiziale per la sua stessa integrità territoriale e sopravvivenza come impero.
    Quello a cui punta l’America di Bush, di Brzezinski (ebreo di origine polacca) e di tutti i loro sodali biblici è semplicemente l’annientamento della Russia come entità storico-politica. L’alternativa alla Federazione Russa attuale è il ritorno al Principato di Moscovia, tributario stavolta di un’altra “Orda d’Oro”, ben peggiore: quella dei finanzieri di Wall Street.
    Da un punto di vista geopolitico russocentrico, l’unica sicurezza per i secoli a venire non può esser rappresentata che dal controllo sotto qualsiasi forma delle coste della massa eurasiatica settentrionale, quelle coste che si affacciano sui due principali oceani mondiali, l’Atlantico e il Pacifico. E se Vladivostok è la “porta d’Oriente” (e tale può restare, in accordo e collaborazione con il colosso nascente cinese, indirizzando Pechino al Pacifico e appoggiandone le giuste rivendicazioni perla restituzione di Taiwan), è ad occidente che si giocherà la partita decisiva: quella della salvezza della Russia come della liberazione dell’Europa dal giogo americano. Fino alla Manica, al Portogallo, a Reykjavik. O l’Europa si integrerà in una sfera di cooperazione economica, politica e militare con Mosca (il famoso asse Parigi*-Berlino-Mosca), o sarà usata nell’ambito NATO dagli americani come una pistola puntata su Mosca. L’esperienza del Kossovo e della guerra alla Serbia dovrebbe aver insegnato qualcosa.
    L’unica sicurezza per una potenza continentale estesa come la Federazione Russa è il controllo delle coste, di isole e penisole della sua area geopolitica di interesse; in caso contrario, l’Europa sarebbe prima o poi usata come un ariete americano per sfondare le porte della Federazione e dissolverla nelle sue cento realtà etno-politico-religiose.
    La tentazione di risolvere per sempre la “questione russa” (anticipando anche lo sviluppo della Cina come grande potenza economica e militare) è forte, specialmente oggi che Washington resta l’unica superpotenza dominante nel globo.
    L’Heartland, il “Cuore della Terra”, è a portata di mano. La talassocrazia USA ha occupato buona parte di quel Rimland, di quell”‘Anello Marginale” eurasiatico che era stato individuato dal geopolitico americano Spykman già durante la Guerra Mondiale. E Russia e Cina sono gli ultimi reali ostacoli a quella conquista definitiva dell’Isola del Mondo, ossia dell’Eurasia, che concluderebbe la conquista americana del pianeta. Le truppe a stelle e strisce sono a Kabul e a Bagdad, ma con basi avanzate anche a Tiblisi, Taškent, Biškek. Iran e Siria, potenziali alleati, sono sotto il mirino delle armate americane e dei missili atomici di Israele. E anche se l’occupazione a stelle e strisce dell’Iraq non è andata secondo i piani del Pentagono, è certo che le truppe americane non lasceranno il paese, le sue basi militari, i suoi pozzi petroliferi, neanche molti anni dopo le elezioni farsa del 2005.



    Oriente e Occidente

    Certo l’integrazione di due realtà complesse e per molto tempo separate, come sono Europa e Russia, non sarà semplice e immediata; d’altronde non lo fu neanche la creazione di Stati nazionali quali la Spagna, la Francia e specialmente l’Italia. Eppure oriente e occidente sono destinati ad incontrarsi e fondersi. L’Europa Unita dei capitali, dei mercati, della tecnologia, ma sradicata dalle proprie tradizioni e valori, trova nella Russia dei grandi spazi siberiani, della potenza militare nucleare e delle materie prime, una Russia ancora in parte legata alle proprie tradizioni, il suo stesso naturale proseguimento geografico, politico, storico, culturale. Una parte possiede quel che manca all’altra.
    A questo punto va inserita una precisazione sui concetti di “Oriente” e “Occidente” conforme alla prospettiva eurasiatista di Dugin e della scuola geopolitica russa in generale. In un te*sto dell’ottobre 2001, intitolato “La sfida della Russia e la ricerca dell’identità”, Aleksandr Dugin affermava tra l’altro: “Gli eurasiatisti considerano tutta la situazione presente da una loro peculiare prospettiva [rispetto ai nazionalisti slavofili e ai neosovietisti]: nemico principale è la civiltà occidentale. Gli eurasiatisti fanno proprie tutte le tesi antioccidentali: geopolitiche, filosofiche, religiose, storiche, culturali, socioeconomiche, e sono pronti ad allearsi con tutti i patrioti e con tutti coloro che propugnano una ‘politica di potere’ (derzhavniki) – siano essi di destra o di sinistra – che miri a salvare la ’specificità russa’ di fronte alla minaccia della globalizzazione e dell’atlantismo”. E ancora: “Per noi eurasiatisti, l’Occidente è il regno dell’ Anticristo, il “luogo maledetto”. Ogni minaccia contro la Russia viene dall’Occidente e dai rappresentanti delle tendenze occidentaliste in Russia”.
    È ovvio che Dugin, pensatore formatosi sul pensiero tradizionale, sulla cultura europea di Nietzsche, Guénon, Evola ecc., non confonde affatto l’Europa con l’Occidente, tant’è vero che di seguito indica giustamente il nemico comune dell’Uomo nell’atlantismo, nel Nuovo Ordine Mondiale, nella globalizzazione americanocentrica, ecc. ecc. La contrapposizione tra Oriente e Occidente, specialmente se riferita all’Europa del XX secolo, è, in termini politici e geografici, un’ invenzione della propaganda atlantista, dopo la spartizione dell’Europa stessa a Jalta.



    Quale Europa?

    Possiamo anche aggiungere che la stessa contrapposizione “razziale” tra euro-germanici e slavi, assimilati alla “congiura ebraica” sulla base dell’esperienza della rivoluzione bolscevica in Russia e non solo, fu uno dei grandi errori della Germania, la quale, proprio per questo, perse la guerra, l’integrità territoriale e l’indipendenza. Valida in parte nella prima fase rivoluzionaria, tale contrapposizione non tenne conto della svolta staliniana in politica interna, né del rovesciamento di prospettiva tra Rivoluzione e Russia attuata dal dittatore georgiano, considerato dai russi “l’ultimo zar” rosso del paese: non la Russia come strumento e trampolino di lancio della “rivoluzione permanente” trotzkista in Europa, ma al contrario il marxismo come strumento ideologico-politico di conquista per iI rinato impero russo-sovietico.
    Riproporre questa contrapposizione tra Europei, a ruoli rovesciati, sarebbe esiziale per i Russi oggi quanto lo fu per i Tedeschi ieri. La scuola geopolitica tedesca di Haushofer, al contrario, aveva sempre auspicato un’alleanza geostrategica tra Germania e Russia, estesa fino all’estremo limite dell’Eurasia, all’Impero del Sol Levante, bastione oceanico contro l’ingerenza espansionistica dell’ imperialismo USA nel Pacifico.
    Per oltre mezzo secolo l’ Europa è stata divisa dai vincitori tra un Est e un Ovest; la Germania, tra una Repubblica Federale ad ovest e la DDR a est; la sua capitale, cuore d’Europa, tra Berlino Est e Berlino Ovest. Su questo falso bipolarismo per conto terzi si è giocata, per quasi mezzo secolo, la “guerra fredda” delle due superpotenze. “Fredda” in Europa, ma ben “calda” nel resto del mondo, in Asia, Africa e America Latina, con guerre, rivoluzioni, decolonizzazione, colpi di stato, dittature militari, invasioni, blocchi economici, minacce nucleari e via elencando. L’antitesi tra un’Europa “occidentale”, progredita e democratica ed un Est “slavo” aggressivo e minaccioso, retrogrado e inaffidabile, è il residuo politico del passato prossimo, un rottame della Guerra Fredda, ma anche uno strumento dell’attuale politica di Bush e soci per tenere a freno un’Europa avviata all’unità economica, affinché non riconosca nella Russia il naturale complemento del proprio spazio geoeconomico vitale, bensì vi veda un pericolo sempre incombente. Il caso Ucraina, con ancora una volta europei e americani schierati contro la Russia, è la cartina di tornasole di queste posizioni residuali sorte dagli esiti della Seconda Guerra Mondiale, la Guerra Civile Europea per eccellenza.
    Errore mortale quindi identificare Europa ed Occidente. Esiziale per l’Europa, ma soprattutto per la Russia e in ogni caso per l’Eurasia comunque intesa.
    Certo l’Europa/Occidente a cui pensano gli eurasiatisti di Mosca è quella sorta dalla Rivoluzione francese, l’Europa degli “Immortali Principi” dell’89,dell’Illuminismo prima e del Positivismo poi, del modernismo e del materialismo estremo. Si tratta di quell’Occidente che ha tentato a più riprese di invadere lo spazio vitale russo, per poi attuare sul corpo vivo della Santa Russia ortodossa uno degli esperimenti politico-sociali più disastrosi della storia. Ebbene: questo “Occidente” ed i suoi falsi miti sono il nemico oggettivo anche dell’Europa,cioè della penisola eurasiatica d’occidente. L’Europa della tradizione, della vera cultura, della civiltà latina-germanica-slava. Alla fine del ciclo è l’ antitradizione quella che coinvolge tutto il globo e travolge ogni distinzione, senza limiti né confini: a est, ad ovest, a nord, a sud. Sarebbe un errore, ripetiamolo, da pagare in futuro a caro prezzo, confondere le politiche dei singoli governi europei di oggi, o anche quella della UE in generale, con la realtà storica e geografica, con la geopolitica appunto, che vede Europa-Russia-Siberia come un unico blocco, una inscindibile unità geografica. Infatti essa ha prodotto per secoli e secoli una storia comune fatta sia di conflitti che di scambi, di reciproci imprestiti culturali, artistici, religiosi, economici, politici.


    Russia vichinga, bizantina, tartara

    Da un punto di vista etnico, la tendenza degli studi storici e geografici presso la scuola geopolitica russa contemporanea è quella di rivalutare la componente “orientale”, in particolare l’influsso delle popolazioni nomadi dell’Asia centrale sulla formazione della Russia moscovita; influenza che avrebbe determinato una specificità “eurasiatica” dal Principato di Moscoviti all’Impero zarista, dalla Russia sovietica (in particolare nell’epoca staliniana) fino all’attuale Federazione Russa, che attraverso la C.S.I. (Comunità degli Stati Indipendenti) dovrebbe far recuperare a Mosca il ruolo egemone sui territori islamici dell’Asia Centrale: quelli, per inciso, che oggi sono sottoposti alla pressione statunitense, dopo l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq. In questo contesto, la qualità “eurasiatica” non si riferirebbe tanto ad una realtà geopolitica unitaria da Reykjavik a Vladivostok, bensì ad una diversità tutta russa, rispetto sia alla parte occidentale sia all’Asia “gialla” vera e propria.
    Gli autori citati da Dugin, Trubeckoj, Savickij, Florovskij e soprattutto Lev Gumilev (del quale è stato tradotto in italiano il fondamentale studio Gli Unni. Un impero di nomadi antagonista dell’antica Cina, Einaudi, Torino 1972) hanno rivalutato il ruolo, misconosciuto dai filoccidentalisti, della componente asiatica della Russia. L’influenza mongolo-tatara, il regno dell’Orda d’Oro che nel XIII secolo investì i territori russi e l’Europa orientale, arrivando fino a Cattaro sull’Adriatico, viene considerata determinante nella formazione della presunta specificità dell’”anima russa” e della corrispondente autocrazia politica e sociale. Quella che in passato rappresentava per gli studiosi occidentali e per i Russi occidentalizzati una macchia, un marchio per la Russia, è tradotto oggi dai neo-eurasiatisti in un dato positivo: si tratta di un fattore che segna la differenza nei confronti di un Occidente corrotto e corruttore, sicché le steppe d’Asia e la componente di sangue tataro vengono a recuperare le radici di un radicamento “altro”, senza per questo confondersi con i popoli asiatici. In tal modo viene affermata una specificità eurasiatica differenziata, rispetto ai popoli d’occidente e a quelli d’oriente. Tutt’al più, la Russia è un ponte di passaggio, il “regno mediano” tra le due ali della massa eurasiatica genericamente intesa. Non europei, non asiatici, ma russi, cioè eurasiatici! In quanto tali, i Russi sono interessati ad una “sfera geopolitica” (potremmo definirla senza giri di parole con il termine geopolitico di spazio vitale?)che recuperi a Mosca le terre già sovietiche del centro dell’Asia, ed associ nuovi partner regionali fino al Golfo Persico e all’Oceano Indiano: Turchia, Iran, India.
    Questo revisionismo storico dei neo-eurasiatisti russi del secolo appena trascorso e del XXI ineunte è certamente giusto e positivo rispetto allo sbilanciamento della proiezione, tutta occidentalista, iniziata da Pietro il Grande (di cui la capitale baltica, da lui voluta tre secoli or sono per proiettare il paese verso ovest e sui mari, è il simbolo più evidente) e proseguita con Caterina la Grande giù giù fino ai Romanov.
    Ma, come sempre avviene, un’ estremizzazione rischia di rovesciarsi nell’estremizzazione di segno contrario.
    Aparte la devastante incursione del 1237 su Rjazan, Mosca e Vladimir, è al 1240 che si fa risalire il dominio del Canato dell’Orda d’Oro sulla Russia, cioè le conquiste occidentali di Batu, nipote di Temujin-Gengis Khan (1162-1227) e fondatore di questo regno gengiskhanide. Nello stesso anno tuttavia il principe Aleksandr, Duca di Novgorod e Granduca di Vladimir, combatteva contro gli Svedesi al fiume Neva (da cui il soprannome onorifico di Nevskij)e due anni dopo sconfiggeva l’Ordine Teutonico al lago Peipus (lo scontro reso celeberrimo anche dal film di Ejzenštein); poi faceva atto formale di sottomissione all’Orda. Così fece Mosca, che creò la propria fortuna quale tributaria dei Tartari presso le altre città russe.
    Ma il dominio mongolo fu molto blando. Karakorum, capitale e baricentro dell’espansione, lontanissima. Un piccolo numero di baskaki (sorveglianti) furono insediati nelle città principali; ma solo la nobiltà e non il popolo ebbe un rapporto diretto, di vassallaggio, con i nuovi dominatori delle steppe, con l’istituzione dello jarlyk, cioè l’autorizzazione a governare. Già alla fine del XIII secolo il confine dell’Orda correva sotto la linea Viatka-Ni•nj Novgorod – Principato di Rjazan, mentre il Grande Principato di Mosca espandeva i suoi confini e iniziava la lunga marcia verso l’unificazione dei Russi. Con il Principato di Novgorod, di Tver, di Pskov, di Rjazan, Mosca era solo tributaria dell’Orda d’Oro. Nel 1480, con un semplice schieramento di eserciti sul fiume Ugra, senza quasi combattere, si poteva considerare finita la dominazione mongola sulla Moscovia e la Russia centro-settentrionale. Due secoli e mezzo.
    A confronto di questi eventi nella formazione della Russia e dei Russi ci sono da ricordare i quattro secoli precedenti: in particolare influenza esercitata dalla popolazione vichinga dei Variaghi, pacificamente fusi con gli Slavi autoctoni, che li avevano chiamati a governarli. L’origine della Rus’ ènarrata in varie Cronache, la più nota delle quali è la Cronaca degli anni passati (1110-1120 circa, probabilmente ripresa da un manoscritto originale di sessanta anni prima). Dell’860 è l’attacco di Askold e Dir, sovrani di Kijev, a Costantinopoli. Poi vennero le imprese semi-leggendarie di Rjurik, dalla penisola scandinava a Novgorod, fondatore di una dinastia che regnerà fino al 1598. E poi Igor, “guerriero vichingo vagabondo e pagano, sebbene portasse un nome interamente slavo” (Robin Milney-Gulland e Nikolai Dejevsky, Atlante della Russia e dell’Unione Sovietica, Istituto Geografico De Agostani, Novara, 1991). E figlio Vladimir si convertirà al cristianesimo nel 988 d.C., trascinando la Russia alla fede ortodossa dipendente da Costantinopoli, ma soprattutto introducendola da allora in poi nel consesso della cultura e degli stati europei. Una conversione che a quei tempi comportava anche una nuova cultura, libri, architettura religiosa e civile e, in particolare, un nuovo assetto politico, modellato su quello del l’Impero Romano d’ Oriente, del quale un giorno Mosca si proclamerà erede come “Terza Roma”, ergendosi quindi a depositaria delle glorie di Roma antica e di Costantinopoli: cioè occidente e oriente dell’Europa. È evidente da tutto ciò, dalla storia, dalla geografia, dalla fede e dalla cultura, quale sia stato il peso dell’Europa (quella della Tradizione e non quella moderna dei Lumi),su tutta la Russia. Fu certo un peso preponderante, anche sotto l’aspetto etnico e culturale, rispetto a quello, pur importante, del successivo khanato mongolo; combattendo contro il quale, i Russi svilupparono nei secoli posteriori una coscienza nazionale. Dugin stesso è, nella sua figura, l’esempio nobile delle ascendenze nordico-vichinghe della Rus’.
    Sarebbe dunque veramente assurdo contrapporre l’etnia slava (con la sua componente tatara) all’Europa germanica ed a quella latina, magari identificando l’Europa latino-germanica con l’occidente “atlantico” e con la mentalità razionalista, positivista e materialista propria degli ultimi secoli e resasi egemone particolarmente in America.
    Le varie “famiglie” linguistiche europee hanno un’unica origine, un solo ceppo, radici comuni nell’Eurasia e nel Nord. E fanno parte a pieno titolo dell’Europa anche popoli come quelli ugrofinnici (Ungheresi, Finlandesi, Estoni), arrivati nella penisola continentale in epoche successive, da quel crocevia di popoli che fu il centro dell’Asia. E che dire dei Baschi o dei Sardi, popoli di origini controverse? Contrapporre le genti dell’est e dell’ovest dell’Europa, lo ripetiamo, sembra la riproposizione, fatta al contrario, di quella propaganda razziale che vedeva negli Slavi “razze inferiori” da sottomettere e utilizzare come manodopera servile. Fu una posizione ideologica che determinò in buona parte l’esito disastroso della Seconda Guerra Mondiale per chi si fece portatore non dell’indipendenza e unità dell’Eurasia, bensì di una visione razziale che comportava l’antagonismo tra gli Europei; una posizione condannata peraltro proprio dalla scuola geopolitica germanica di Haushofer, il quale vedeva giustamente nelle potenze talassocratiche anglofone il vero nemico comune di Tedeschi, Russi, Giapponesi: di tutta l’Eurasia, ad occidente come ad oriente.


    Nord-Sud, Est-Ovest

    I termini che Dugin pone in contrapposizione, oriente ed occidente, necessitano di un’ulteriore precisazione. Occidente non è una caratterizzazione geografica, più di quanto non lo sia oriente. L’occidente dell’America è l’Asia, la quale, a sua volta, ha nel continente americano il proprio oriente.
    In realtà oggi “Occidente” e “Oriente” (ma, soprattutto dopo la fine del sistema dei blocchi contrapposti, “il Nord e il Sud del mondo”) sono designazioni economiche, politiche, sociali di quelle potenze che rappresentano la parte industrialmente, finanziariamente e tecnologicamente avanzata del globo. E “G8″, gli otto “grandi”, è il club esclusivo che li raccoglie. Il Giappone è “Occidente” allo stesso titolo di USA e UE. La Cina si avvia a divenirlo, come la Russia che già lo è.
    Allora, se ancora di Occidente ed Oriente si può e si deve parlare, la linea di demarcazione deve essere posta trai due emisferi, tra le due masse continentali separate dai grandi oceani: l’Occidente per antonomasia, la terra dell’occaso, del tramonto, la Terra Verde della morte è l’America, il Mondo “Nuovo” della fine del ciclo.
    L’Oriente, o meglio il Mondo Antico, il mondo della Tradizione, sarà allora l’Europa, l’Asia, l’Africa; l’Eurasia in particolare, cioè l’intera Europa con la Russia e la Siberia, sarà la terra dell’alba radiosa di un nuovo cielo, ma anche la terra dell’origine dei popoli indoeuropei, la terra degli avi iperborei. Uno spazio vitale strategico peri destini mondiali, da riscoprire ritornando all’origine polare delle stirpi arie che, millenni e millenni or sono, la catastrofe climatica disperse dalla sede originaria del nord, verso est, sud, ovest, come semenze di quelle grandi civiltà che hanno fatto la storia e modellato la geografia del mondo antico. In questo contesto e solo in esso allora le collocazioni geografiche si armonizzano perfettamente con quelle della geografia sacra, della morfologia della storia, della tradizione ciclica, ma anche con la lotta di liberazione dell’intero continente dalla morsa mortale in cui lo costringe il blocco marittimo della talassocrazia imperialista USA.


    Un mondo multipolare

    Certo non ci nasconderemo che Europa, Russia, Asia hanno anche notevoli differenze tra loro. Lo ribadiamo: le civiltà d’Eurasia, pur traendo linfa vitale dall’unica matrice d’origine, hanno sviluppato nei secoli caratteristiche specifiche proprie: lingue, culture, legislazioni, arti e mestieri, fedi religiose, costumi e stili di vita, modelli di governo differenziati. È una ricchezza nella differenza, nella diversità, che rappresenta ora, alla fine dei tempi, il patrimonio forse più importante della nostra Eurasia, minacciata mortalmente dal monoculturalismo americano, da quell’American way of life che i selvaggi senza radici (le recisero approdando nel “Nuovo Mondo”, nella “Seconda Israele”) hanno imposto a tutti i popoli vinti e sottomessi o (quando fosse impossibile piegarli) sterminati. Il genocidio dopo l’etnocidio. Il più grande sterminio di massa dell’umanità: i 15 milioni di nativi amerindi trucidati dai “colonizzatori” yankee. Tutto questo come necessaria premessa per l’edificazione del loro Nuovo Ordine Mondiale, del Governo Unico Planetario, con sede ovviamente a Washington-Boston-New York, in attesa di esser portato a Sion!
    “Gli eurasiatisti difendono logicamente il principio della multipolarità, opponendosi al mondialismo unipolare imposto dagli atlantisti. Come poli di questo nuovo mondo, non vi saranno più gli Stati tradizionali, ma un gran numero di nuove formazioni culturalmente integrate (‘grandi aree’), unite in ‘archi geoeconomici’ (‘zone geo-economiche’)”. Parole sacrosante di Dugin nel III capitolo del saggio intitolato La visione eurasiatista. Principi di base della piattaforma dottrinale eurasiatista.
    Da discutere semmai, in termini geografici e storici, quindi geopolitici, sono proprio gli spazi privilegiati di queste grandi aree integrate. Geopoliticamente parlando, è indubbio che per Eurasia si debba intendere in primo luogo l’integrazione della grande pianura eurasiatica settentrionale dal canale della Manica allo stretto di Bering. Attorno a questo spazio vitale imperiale europeo, si affiancano in strati orizzontali successivi le altre realtà geopolitiche d’Asia e Africa, quelle sopra descritte, nel senso dei paralleli. L’Eurasia Unita sarà la garante della libertà, dell’ indipendenza, dell’ identità di queste altre realtà, di questi spazi vitali affiancati, contro l’egemonismo talassocratico delle stelle e strisce.

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    Post Europa-Russia-Eurasia: Una geopolitica “orizzontale” II parte

    America o Americhe?

    Ancor più. Bisognerà garantire che nei secoli futuri l’imperialismo mondialista dei fondamentalisti biblici della “Seconda Israele” non rialzi la testa e riprenda forza. Una forza che fin dall’inizio trasse energie, risorse, ricchezza dallo sfruttamento di tutto il resto del continente americano a sud del Rio Grande. L’America Latina, centrale-caraibica e meridionale, ha una propria storia, una propria cultura, un proprio spazio geopolitico e geoeconomico, che può svilupparsi liberamente e fruttuosamente solo se svincolato dal gigante a nord. Al contrario, oggi il pericolo più grande è che il NAFTA possa conglobare, oltre al Messico, tutto il Centro America e l’altra metà del continente.
    Già nei tempi precolombiani le culture autoctone si erano completamente differenziate, pur traendo tutte origine dalle migrazioni siberiane, avvenute attraverso lo stretto di Bering tra i 40.000 e i 10.000 anni fa. Ma mentre nelle vaste pianure del Nord America i cacciatori nomadi seguivano i branchi di bisonti, divisi in tribù, con uno stile di vita e riti non molto dissimili da quelli dei cacciatori siberiani cultori dello sciamanesimo, nell’America Centrale e Meridionale fiorivano raffinate civiltà di coltivatori-allevatori, imponenti insediamenti urbani, religioni che riuscirono ad elaborare straordinari calendari con l’accurata osservazione astronomica, pittura, architettura, scultura, scienza, medicina che non temevano di rivaleggiare con le più avanzate civiltà d’Eurasia. Con la scoperta dell’America da parte di Colombo e con le successive invasioni europee (inglesi, francesi, olandesi a nord, ispano-lusitani al centro e al sud), le differenze si sono accentuate. Infatti, nonostante stragi, distruzioni culturali, malattie, schiavismo, imposizione della nuova religione, nella parte latina delle Americhe le popolazioni autoctone sono sopravvissute allo sterminio; nei nuovi stati, prima coloniali e poi nazionali, si sono venute a trovare in una posizione subordinata, a volte integrandosi e mischiandosi agli Europei. Dal Chiapas al Perù, dal Centro America alla Bolivia, passando per il Venezuela di Chavez, gli eredi degli antichi imperi meso-americani e andini oggi tornano alla ribalta, riprendono in mano le redini del proprio destino e, spesso, sono i più strenui difensori della diversità culturale latino-indio-americana contro l’ influenza dei gringos nordisti e l’invadenza distruttiva delle loro multinazionali.
    Vediamo dunque distintamente come l’America, diversamente dall’Eurasia e dall’Africa settentrionale, sia un “continente verticale”. Da Nord a Sud, dallo stretto di Bering alla Terra del Fuoco, oltre diecimila anni or sono scesero le popolazioni siberiane: gli “indiani”, i nativi americani poi sopraffatti e sterminati dall’invasione marittima da occidente. A loro volta gli Stati Uniti estenderanno la conquista ed egemonia da nord a sud: in Messico, nei Carabi e nell’America Centrale (il “cortile di casa” degli yankee), giù fino all’America meridionale, alla punta del Cile e all’Argentina. Dove peraltro, a smentire la Dottrina Monroe dell”‘America agli Americani”, l’Union Jack sventola ancora sulle Isole Malvinas argentine, anche grazie all’appoggio USA ai cugini inglesi. E dopo la conquista delle Americhe, seguendole indicazioni geopolitiche di Mahan gli Stati Uniti si lanciarono sul Pacifico e verso le coste dell’Asia. (Alfred Thayer Mahan, L’influenza del potere marittimo sulla storia. 1660-1783, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 1994).
    Dunque due “sensi”, due direzioni opposte per le masse continentali dei due emisferi, rappresentanti ciascuno una diversa visione del mondo, ed assunti oggi a simboli dell’eterno scontro fra la Terra e il Mare, fra tellurocrazia e talassocrazia, ma anche tra mondo della tradizione e mondo moderno, tra identità dei popoli della terra e globalizzazione mondialista.
    Ambigua quindi, quando non falsa e fuorviante, la distinzione tra Oriente ed Occidente. A questa caratterizzazione delle forze in campo tra Est e Ovest, possiamo aggiungere anche la suddivisione del pianeta in sfere d’influenza “verticali”, praticamente da Polo a Polo: vi fa riferimento lo stesso Dugin sia nell’ articolo sul primo numero di “Eurasia” (L’idea eurasiatista), sia in altri scritti più o meno recenti, come quelli raccolti e pubblicati in Italia dalle edizioni Nuove Idee, nel volume dal titolo Eurasia. La rivoluzione conservatrice in Russia.


    Geopolitica “orizzontale” e geopolitica “verticale”

    E qui veniamo ad affrontare il nodo centrale di queste chiose ai recenti articoli di Dugin, i quali potrebbero apparire come uno spostamento di prospettiva rispetto alle posizioni espresse dallo stesso autore dieci e più anni or sono, cioè al tempo del traumatico crollo dell’impero rosso, di cui Dugin (geopolitico moscovita di formazione tradizionale e traduttore di Evola) aveva ben compreso con largo anticipo l’irreversibile crisi.
    Nell’articolo su “Eurasia” Dugin considera un ventaglio di possibilità per la realizzazione dell’ “idea eurasiatista” dal punto di vista di Mosca, in particolare prospettando “l’Eurasia [dei] tre grandi spazi vitali, integrati secondo la latitudine”: “tre cinture eurasiatiche” che si distendono in verticale sui continenti seguendone le meridiane. Ovviamente il nostro autore aveva premesso un “vettore orizzontale dell’integrazione, seguito da una direttrice verticale”; ma indubbiamente la seconda prospettiva sembra quella prevalente nel pensiero attuale di Dugin e, probabilmente, in quello degli strateghi dell’era Putin. Proprio nella pagina seguente si afferma a chiare lettere che “La struttura del mondo basata su zone meridiane è accettata dai maggiori geopolitici americani che mirano alla creazione del Nuovo Ordine Mondiale e alla globalizzazione unipolare” (!) L’unico “punto d’inciampo” sarebbe semmai rappresentato proprio dall’esistenza o meno di uno spazio geopolitico verticale, “meridiano”, della Russia in Asia centrale, con la diramazione di tre assi principali: Mosca-Teheran, Mosca-Delhi, Mosca-Ankara. In quanto all’altro emisfero, l’egemonia USA, seguendo in questo caso la naturale disposizione geografica del continente (o due continenti, nord e sudamericano?) sarebbe assicurata dal Canada a Capo Horn. Proprio come recita la famigerata Dottrina Monroe: “l’America agli Americani”, sottintendendo ovviamente ai nord-americani, i WASP statunitensi con il contorno di immigrati e neri integrati. L’attuale Amministrazione Bush è un tipico spaccato di questo assunto. Con l’aggiunta, semmai, che agli Americani del nord spetta sì tutta l’ America, ma anche… il resto del mondo.
    I loro geopolitici, passati e presenti, conoscono bene infatti la lezione mackinderiana sull’HeartIand, sul suo controllo per il dominio dell’ intera Eurasia e quindi dell’”Isola del Mondo” e quindi delle “fasce marginali” (vedi lezione Afghanistan). In sintesi da Alfred T. Mahan a Spykman, passando per Mackinder, fino ai contemporanei Brzezinski, Huntington e ai vari neo-cons della lobby ebraico-sionista militante in Usa: i Perle, i Pipes, i Wolfowitz, i Cheney, i Kagan, i Kaplan, i Kristol, ma anche Ledeen e il e il vecchio Kissinger, pur con qualche differenza, e tanti altri. Consigliamo in proposito la lettura de I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani, a cura di Jim Lobe e Adele Oliveri (Feltrinelli, Milano, 2003).
    Anche la suddivisione per sfere d’influenza verticale non è certo nuova, né tanto meno inventata da Dugin. Risale pari pari al grande padre della geopolitica tedesca ed europea, Karl Haushofer ed alle sue panidee: la Pan-America con guida USA, l’Eurafrica centrata sul III Reich con l’aggiunta del Vicino Oriente, la Pan-Russia estesa fino allo sbocco all’Oceano Indiano attraverso Iran e India, ma priva dello sbocco siberiano al Pacifico settentrionale, assegnato dal geopolitico monacense alla sfera di Coprosperità Asiatica ovviamente a guida nipponica.
    La suddivisione duginiana segue lo stesso schema, ma con le modifiche dovute alla situazione politica internazionale attuale: la Pan-Eurasia a guida russa comprende tutti i territori ex-sovietici, il Vicino Oriente, l’Iran, il Pakistan, l’India, ma anche la Siberia fino a Vladivostok. La zona asiatica vera e propria si incentra oggi su Pechino. L’area americana comprende anche Islanda e isole britanniche (ma non la Groenlandia!) ecc…
    Tanto per cominciare la suddivisione di Karl Haushofer è completamente superata, essendo propria ad un preciso periodo storico, cioè quello della Seconda Guerra Mondiale e del colonialismo europeo in Africa. Anche perché, in termini di geopolitica propriamente detta, l’Africa non è un’ unità geopolitica unica, ma comprende almeno tre distinte unità. Il Nord-Africa, col Magreb, fa parte della più vasta unità geopolitica del Mediterraneo, di cui rappresenta la sponda sud. Poi c’è la vastissima fascia desertica del Sahara-Sahel, che rappresentala vera divisione, il “mare di sabbia” navigato soltanto dalle carovane di mercanti che importavano sale, spezie, schiavi. Infine, a sud, I’”Africa Nera”, a sua volta composta di varie sottodivisioni. Come il cosiddetto “Corno d’ Africa”, una realtà sia geopolitica che etnica a sé stante.
    Anche l’Asia odierna ha ben poco a che vedere con quella che Haushofer conosceva e tanto ammirava: specialmente il Giappone, o per dir meglio l’Impero Nipponico, oggi ridotto al rango di vassallo americano e base delle truppe, delle navi, dei missili USA puntati contro le coste orientali dell’Eurasia. L’Iran della Rivoluzione Islamica dell’Imam Khomeini ha rimescolato le carte di tutto il Vicino Oriente, dove, dal 1948, si èinstallato lo stato sionista di Israele, fidato baluardo invalicabile dell’ imperialismo americano; piazzato proprio nel baricentro della massa eurasiatico-africana, a ridosso delle sue vie marittime interne, esso taglia a metà l’Umma islamica e la “Mezzaluna Fertile” del sistema potamico irriguo (Delta del Nilo *- Giordano/Mar Morto – Tigri Eufrate).
    Chi pensa che possa un domani esistere un “sionismo filo-eurasiatista” non ha evidentemente molto chiara la storia, la geografia e la stessa visione religioso-messianica che ha permesso all’entità sionista di installarsi proprio in quelle terre geostrategicamente così decisive per il controllo dell’intera massa eurasiatica e africana. Gli ebrei russi della diaspora tornati in Israele non sono russi: sono ebrei e israeliani a tutti gli effetti, e la Russia è il loro nemico storico, forse ancor più della Germania oramai domata.
    È singolare poi, che parlando di Asia e di “sfere d’influenza e/o cooperazione” si tenda spesso a sminuire se non addirittura ignorare il ruolo decisivo della Cina. La storia da secoli e la geografia da sempre hanno delimitato lo spazio vitale del colosso asiatico (come anche è il caso dell’ India). Russia e Cina sono destinate ad una stretta collaborazione che si basi sulla non ingerenza nelle rispettive sfere di appartenenza e nel riconoscimento di quella altrui.
    È nell’interesse dell’imperialismo egemone statunitense metterei due colossi d’Asia l’uno contro l’altro; suo massimo danno è vederli alleati. Interesse della Russia è appoggiare la Cina nelle sue naturali rivendicazioni territoriali, a cominciare da Taiwan; ciò aprirebbe a Pechino lo sbocco al l’Oceano Pacifico, in aperta competizione con la talassocrazia USA in uno spazio marittimo che Washington considera un “lago americano”, essendo propria di ogni potenza di questo tipo la spinta ad occupare entrambe le coste marittime su cui si affaccia.


    Eurasia unita e lotta di liberazione

    Alle pan-idee “verticali” haushoferiane, che interpretate alla luce dell’assetto internazionale attuale, assumono oggi vago sapore neocolonialista (l’esatto contrario delle posizioni anticoloniali del padre della geopolitica tedesca), noi sostituiamo la visione di una collaborazione paritaria e integrata fra realtà geopolitiche omogenee disposte a fasce orizzontali in Eurasia ed Africa.
    Tale politica non esclude, ma semmai la allarga, la prospettiva dughiniana delle aree integrate verticali; essa infatti favorisce la creazione di una potenza “terrestre”, quella nata dal l’unione di Europa e Federazione Russa, che allargherebbe al mondo la sua politica estera di collaborazione. Ciò permetterebbe a tutto il “Terzo Mondo” di sottrarsi al ricatto economico e finanziario nordamericano, riconoscendo nella grande potenza del Nord-Eurasia lo stato guida della lotta di liberazione mondiale antimondalista, la potenza veramente capace di contrastare l’egemonismo USA su tutte le aree geopolitiche della massa eurasiatica, delle “Afriche” e delle “Americhe”.
    A conclusione di queste brevi chiose all’intervento di Dugin, il cui contributo alla dottrina geopolitica e alla lotta di liberazione eurasiatica resta fondamentale, vogliamo riallacciarcialle stesse conclusioni del suo saggio L’idea eurasiatista.


    La nuova Weltanschauung

    L’eurasiatismo è una Weltanschauung (ecco il vero Dugin, formatosi alla cultura mitteleuropea!), una visione del mondo onnicomprensiva che, avendo come priorità la società tradizionale, “riconosce l’imperativo della modernizzazione tecnica e sociale”. Il postmodernismo eurasiatico “promuove un’alleanza di tradizione e modernità come impulso energetico, costruttivo, ottimistico verso la creatività e la crescita”. Come filosofia “aperta”, l’eurasiatismo non potrà esser dogmatico e certo sarà differenziato nelle varie versioni nazionali: “Tuttavia, la struttura principale della filosofia rimarrà invariata”. I valori della tradizione, il differenzialismo e pluralismo contro il monoculturalismo ideologizzante del liberal-capitalismo; la difesa delle culture, dei diritti delle nazioni e dei popoli, contro l’oro e l’egemonia neocoloniale del ricco Nord del mondo. “Equità sociale e solidarietà umana contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Verrebbe quasi da dire: il sangue (e il suolo) contro l’oro”!
    Certo, la Terra contro il Mare: la terra degli avi contro il mare indifferenziato eppur sempre mutevole, percorso da moderni pirati, eredi di quei “corsari”, che erano dotati dalla corona inglese di “lettere di corsa” per depredare ed uccidere in nome e a maggior gloria di Sua Maestà Britannica. Pirati odierni in giacca e cravatta, che con un tratto di penna fanno la fortuna o la disgrazia di popoli e continenti. E per chi non si piega alla logica del “libero mercato” imposta dalla moderna pirateria finanziaria internazionale, restano sempre gli “interventi umanitari”, le “missioni di… pace (eterna), i “missili intelligenti”. Come in Serbia, come in Afghanistan, come in Iraq, come ieri in Corea o in Vietnam, a Cuba, in America Latina, in Africa e ancor prima in Europa, in Giappone, ovunque. Forse domani in Iran, in Siria, in Sudan, di nuovo in Corea. Forse anche in Russia e in Cina.
    Intanto le “rivoluzioni di velluto” sono arrivate a Kiev e a Tiblisi, circondando la Russia, insidiando la Cina, sottomettendo il Vicino Oriente, dove il progetto del “Grande Israele” è quasi cosa fatta. La Terza Guerra Mondiale (la quarta dopo quella “fredda”, anch’essa vinta dagli Stati Uniti) è già cominciata, è in atto. Se dobbiamo porre una data ufficiale, scegliamo senza dubbio l’11 settembre 2001, il giorno in cui l’Amministrazione Bush ha ottenuto (sapremo mai come?) la sua Pearl Harbour, il suo 7 dicembre ‘41, cioè la giustificazione per un’aggressione mondiale preordinata nei mesi ed anni precedenti, specie approfittando del crollo dell’URSS di dieci anni prima. Proprio con l’Afghanistan come primo obiettivo.
    La Russia è stata ingannata e condotta a collaborare con il suo nemico mortale sulla comune piattaforma della “lotta al terrorismo islamico”; è stata inchiodata alla guerra cecena, con il suo strascico di errori ed orrori da entrambe le parti, mentre la superpotenza USA si assicurava posizioni strategiche decisive nel cuore d’Eurasia.


    Tsunami America

    La talassocrazia americana opera come un devastante tsunami!
    L’onda della potenza marittima nordamericana invade la terra in profondità e distrugge tutto quel che trova sul suo cammino: uomini, società, economie, culture, identità, storia, coscienza geopolitica, fedi, civiltà.
    Dove passa, è morte, fame, distruzione, miseria, lacrime e sangue. È il Diluvio Universale del terzo millennio dell’Era Volgare.
    Ma l’Eurasia è grande, troppo estesa e popolata anche per questo Leviatano moderno. E l’Eurasia propriamente detta, col suo retroterra logistico siberiano, l’Heartland di mackinderiana memoria è ancora abbastanza vasta e potenzialmente ricca in materie e uomini per resistere e respingere l’attacco del Rimland occupato dall’invasione marittima.


    La volontà e la via

    Cosa manca allora a tutt’oggi ?
    La volontà, solo la volontà, nient’altro che la volontà. La volontà che è potere, che è fare, è quindi agire nello spazio vitale geopolitico assegnato dalla natura e dalla storia. La volontà di élites dirigenti rivoluzionarie d’Eurasia che, puntandolo sguardo ben oltre i ristretti limiti del veteronazionalismo sciovinista, sappia raccogliere la bandiera delle lotte di liberazione identitaria dei suoi popoli. Ma una simile volontà, scaturita da una fede indiscussa nei valori tradizionali, deve alimentarsi di una retta conoscenza dei fatti, della storia e della geografia, della geopolitica e delle sue leggi.
    L’eurasiatismo sarà allora la bandiera, la spada e il libro di questa lotta titanica e veramente decisiva per i destini del pianeta nei prossimi secoli. Eurasiatismo come liberazione e unificazione statuale, imperiale, dell’unità geopolitica euro-siberiana, da Reykjavik a Vladivostok. Eurasiatismo come sistema di alleanze e sfere di cooperazione con tutti gli altri “spazi geopoliticamente omogenei” dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina. Quindi eurasiatismo come sacra alleanza di tutti gli sfruttati, di tutti i “diseredati della terra”, come li definiva l’Imam Khomeini, contro tutti gli sfruttatori e i depredatori mondialisti delle multinazionali. Contro i corruttori dei popoli, contro gli apolidi del capitale, gli “eletti”… da nessuno che preparano l’avvento del Nemico dell’Uomo, la catastrofe dell’Armageddon, che pure li travolgerà. Eurasiatismo infine come contrapposizione, lotta senza quartiere tra civiltà e civilizzazione, tradizione e mondo moderno, terra e mare, imperium e imperialismo, comunitarismo e liberal-capitalismo.
    Se un giorno la Russia (attraverso le sue élites politiche, militari, culturali, economiche e spirituali) saprà riconoscere il proprio ruolo guida, tradizionale e rivoluzionario, in questo “scontro dei continenti”, lo dovrà essenzialmente ad una piena comprensione della geopolitica, dell’eurasiatismo, della Weltanschauung che esso rappresenta. E lo dovrà in massima parte a Dugin e a tutti quei geopolitica d’Eurasia che seppero indicare la via sulla quale indirizzare la volontà.

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    Le tappe del pensiero eurasiatista

    di Claudio Mutti

    1. Konstantin Leont’ev

    Chi si occupi dello sviluppo storico del pensiero eurasiatista non può ignorare Konstantin Leont’ev, il cui capolavoro, Vizantinism i slavjanstvo (trad. it. Bizantinismo e mondo slavo, Edizioni all’insegna del Veltro 1987), può ben rappresentare la fase preliminare di tale indirizzo di pensiero. Infatti quest’opera, in cui viene esposta una concezione morfologistica della storia che ricorda Ibn Khaldun e preannuncia Toynbee, vide la luce nel 1875, quarant’anni prima dello spengleriano Untergang des Abendlandes. Prima che Spengler opponesse la concezione di una molteplicità di cicli di civiltà alla boriosa rappresentazione eurocentrista, già Leont’ev aveva dunque osservato la nascita e il tramonto delle varie forme storico-culturali, fino a convincersi dell’imminente estinzione della civiltà “occidentale” per effetto di un inevitabile processo degenerativo. Prima che Spengler, ripudiando l’eurocentrismo e reintegrando nei loro diritti le culture extraeuropee, facesse piazza pulita di quello che René Guénon avrebbe di lì a poco chiamato “il pregiudizio classico”, Konstantin Leont’ev considerava la civiltà dell’antica Persia in maniera ben diversa da come veniva insegnata nelle scuole russe (e non solo russe) del sec. XIX, all’insegna di una retorica della “libertà” che ai “barbari dell’Oriente” ha riservato solo incomprensione e disprezzo.
    Ma una differenza rilevante fra Spengler e Leont’ev risiede nella valutazione di una civiltà che per lo studioso russo costituisce un oggetto d’indagine privilegiato: quella bizantina. È stato giustamente notato che “la scienza storica europea ha per secoli considerato Bisanzio null’altro che una inoriginale e sterile sopravvivenza del mondo greco-latino, asservita per di più (peccato capitale agli occhi di uno storico liberale) ad un ‘retrivo’ ideale religioso e monarchico. Generazioni di studiosi e di lettori occidentali hanno incessantemente tramandato una quantità di pregiudizi su Bisanzio, che, non somigliante né alla civiltà classica né all’Europa moderna, si sarebbe distinta solo per bigottismo, crudeltà e ristrettezza spirituale” (1). Lo stesso Spengler, se da un lato fa rientrare il mondo bizantino nell’”estate” di quella Kultur che egli, con un caratteristico termine del suo vocabolario, chiama “araba”, dall’altro vede nel “bizantinismo” un fenomeno di Zivilisation, cioè di rinsecchimento e di irrigidimento culturale. Leont’ev invece, che riprende la sistemazione tipologica delle civiltà fatta da Danilevskij, aggiunge ai dieci cicli storico-culturali compresi in tale sistemazione un undicesimo ciclo: quello bizantino, per l’appunto, inteso come “particolare ed autonomo tipo culturale avente propri caratteri distintivi e propri princìpi generali” (2). Il bizantinismo, per Leont’ev, non è semplicemente un ciclo storico: è un’idea-forza, un principio universale, l’unico in grado di modellare e organizzare l’elemento “demotico” dell’area geografica sottoposta alla sua giurisdizione, intervenendo su di esso così come la forma agisce sulla materia.
    A questo proposito, Nikolaj Berdjaev ha notato che, nella visione di Leont’ev, “la verità e la bellezza del popolo russo non si manifestavano nel genio delle masse, bensì nelle discipline bizantine che organizzano e plasmano questo genio a loro propria immagine” (3). L’elemento popolare, comunque, si presta assai meglio di quello borghese a recepire l’azione formatrice dell’idea bizantina: “Un mugico – dice Berdjaev parlando di Leont’ev – egli era pronto a idealizzarlo, se non altro perché era il contrario di un piccolo borghese (…) Nei Balcani, in Turchia, in Russia, l’aspetto pittoresco e popolare della vita attirava la sua attenzione (…) Vede nella comunità rurale un principio idoneo a prevenire la minaccia del proletariato” (4). Lo stesso Leont’ev confessa: “Il popolo e la nobiltà, i due estremi, mi sono sempre piaciuti più del ceto medio dei professori e degli scrittori che ero costretto a frequentare a Mosca” (5)
    Nazionalismo e panslavismo, dunque, non possono riscuotere le sue simpatie, perché si tratta di aspetti di “quel processo di democratizzazione liberale che già da molto tempo lavora per la distruzione dei grandi mondi culturali dell’Occidente. Eguaglianza di persone, eguaglianza di classi, eguaglianza (cioè uniformità) di province e di nazioni: si tratta sempre dello stesso processo” (6). All’idea di nazione, Leont’ev contrappone l’idea di comunità spirituale, sostenendone la superiorità in termini provocatori: “il vescovo ortodosso più crudele, anzi, il più vizioso (a qualunque razza appartenga, anche se è solo un mongolo battezzato) dovrebbe ai nostri occhi avere maggior pregio di venti demagoghi e progressisti slavi” (7).
    Il panslavismo, anche quando fa strumentalmente appello alla solidarietà dei cristiani contro il “giogo turco”, secondo lui non è altro che un veicolo della mentalità antitradizionale e sovversiva proveniente dall’Europa moderna. Contro questo assalto disgregatore, Leont’ev indica come soluzione la doppia barriera rappresentata dall’Ortodossia e dall’Islam. “Leont’ev non era uno slavofilo, ma un turcofilo” (8), dice Berdjaev, il quale riferisce con malcelata indignazione che per lui “il giogo dei Turchi impediva ai popoli balcanici di sprofondare definitivamente nell’abisso del progresso democratico europeo. Leont’ev considerava quel giogo come salutare, perché favoriva il mantenimento dell’antica Ortodossia in Oriente” (9). Prosegue Berdjaev con la medesima indignazione: “Fa appello alla violenza dei Tedeschi contro i Cechi così come si augura quella dei Turchi contro gli Slavi dei Balcani: affinché il mondo slavo non si imborghesisca per sempre. Non desiderava la liberazione dei cristiani, ma la loro schiavitù, la loro oppressione” (10). E ancora: “Vede nell’idea di cacciare i Turchi un’idea né russa né slava, ma un’idea democratica e liberale” (11); “credeva che Costantinopoli non potesse essere se non russa o turca; ma, se fosse caduta in mano agli Slavi, sarebbe diventata una centrale rivoluzionaria” (12). In effetti, è lo stesso Leont’ev a scrivere di aver capito, durante la sua permanenza in Turchia in qualità di diplomatico dello Zar, che, “se molti elementi slavi e ortodossi sono ancora vivi in Oriente, è ai Turchi che ne siamo debitori” (13).
    Tra le civiltà tradizionali, solo quella islamica e quella ortodossa, secondo Leont’ev, hanno un avvenire. La Russia, in particolare, ha il compito di salvare la vecchia Europa, ormai esausta; ma, per potere svolgere questa funzione, la Russia deve tornare all’idea bizantina e unirsi “con popoli asiatici e di religione non cristiana (…) per il semplice fatto che tra di loro non è ancora irrimediabilmente penetrato lo spirito dell’Europa moderna” (14)

    2. Gli eurasiatisti degli anni Venti

    Karl Radek, il “grande architetto del riavvicinamento tra sovietici e nazisti” (15), che nel celebre discorso del 20 giugno 1923 fece del giovane caduto nazionalista Leo Schlageter “addirittura un eroe” (16), nel 1920 a Bakù aveva già dato una prima dimostrazione di spregiudicatezza, evocando lo spettro di Gengis Khan davanti al Primo Congresso dei Popoli dell’Oriente. “Compagni, – aveva detto il rappresentante del Comintern – noi facciamo appello allo spirito combattivo che in passato ha animato le genti dell’Oriente quando, guidate da grandi conquistatori, marciarono sull’Europa… Noi sappiamo, compagni, che i nostri nemici ci accuseranno di aver evocato la memoria di Gengis Khan, il grande conquistatore, e dei grandi califfi dell’Islam… E quando i capitalisti europei affermano che questa è la minaccia di una nuova barbarie, di una nuova invasione unna, noi rispondiamo loro: Viva l’Oriente Rosso!” (17). A quanto pare, Radek non teneva in gran conto le tesi dell’occidentalista e russofobo Karl Marx (18), il quale aveva indicato nell’influsso mongolo-tartaro la causa essenziale dell’arretratezza della Russia: “Nel fango insanguinato della schiavitù mongola e non nella gloriosa rudezza dell’epoca normanna – aveva infatti scritto Marx – è nata quella Moscovia di cui la Russia moderna altro non è che una metamorfosi” (19).
    Paradossalmente, il discorso di Radek ebbe ebbe un eco nelle parole pronunciate l’anno successivo dal barone Roman Fëdorovic von Ungern Sternberg: “Le tribu dei successori di Gengiskan si son deste. Nessuno estinguerà il fuoco nel cuore dei Mongoli! Vi sarà un grande stato nell’Asia, dall’Oceano Pacifico e dall’Oceano Indiano alle rive del Volga (…) Verrà un conquistatore, un capo, più forte e più deciso di Gengiskan e di Ugadai, più abile e più buono del sultano Baber” (20). “Personaggio totemico della rinascita eurasista” (21), Ungern Khan riunì nella propria persona “le forze segrete che avevano animato le forme supreme della sacralità continentale: gli echi dell’alleanza tra Goti e Unni, la fedeltà russa alla tradizione orientale, il significato geopolitico della Mongolia, patria di Gengis Khan” (22).
    Così si esprime Aleksandr Dugin, il più noto tra gli attuali esponenti di quel pensiero eurasiatista ebbe i suoi padri fondatori in Nikolaj S. Trubeckoj (1890-1938), Georgij V. Vernadskij (1887-1973) e Pëtr N. Savickij (1895-1965).
    Il principe Nikolaj Sergeevič Trubeckoj nacque a Mosca il 16 aprile 1890. Allievo fin dall’adolescenza del folclorista, indoeuropeista e caucasologo Vsevolod F. Miller, si iscrisse nel 1908 alla Facoltà di storia e filologia di Mosca, dove studiò inizialmente etnopsicologia e filosofia della storia, per passare al dipartimento di filologia e interessarsi soprattutto di lingue indoeuropee e caucasiche. Già a quindici anni, d’altronde, il principe Nikolaj Sergeevič aveva dedicato al canto finnico Kulto neito un articolo che fu il suo primo contributo alla prestigiosa rivista “Etnologičeskoe obozrenie”. Ricevuto l’incarico universitario nel 1915, tenne un corso sulla linguistica comparata. Nell’estate del 1917 partì per Kislovodsk, nel Caucaso. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre si trasferì a Tiflis, poi a Bakù e infine a Rostov sul Don, dove insegnò grammatica comparata. Nel 1920, in seguito all’ingresso dell’Armata Rossa, si rifugiò in Crimea e poi a Istanbul. Tra il 1920 e il 1922 insegnò filologia indoeuropea a Sofia. Infine si stabilì a Vienna, dove fu docente di filologia slava fino alla morte, intervenuta il 25 giugno 1938 per una malattia cardiaca congenita.
    Non è questa la sede idonea per esporre i principi della “nuova filologia”, la dottrina linguistica elaborata da Trubeckoj e dagli altri studiosi del circolo di Praga (23); quello che qui interessa è il Trubeckoj filosofo della storia e teorico dell’eurasiatismo.
    Trubeckoj aveva già elaborato le basi del suo pensiero eurasiatista con il saggio Evropa i čelovečestvo [L'Europa e L'umanità] (24), che apparve a Sofia nel 1920, dopo che lo storico Georgij Vernadskij e il geografo ed economista Pëtr Savickij avevano già pubblicato, prima della guerra, “degli studi che si possono considerare proto-eurasisti” (25). Trubeckoj, Vernadskij e Savickij avevano insomma gettato le basi di una nuova visione della Russia, intesa come espressione della “civiltà delle steppe”, erede degli imperi di Gengis Khan e di Tamerlano. “Particolarmente significativa è la loro valutazione positiva – inconsueta nella cultura russa – dell’influsso tataro sulla Russia” (26). Savickij, in particolare, arriverà ad affermare che “senza tatari non ci sarebbe stata la Russia” (27). Ma il vero e proprio “manifesto” dell’eurasiatismo fu Ischod k Vostoku [La via d’uscita ad Oriente], pubblicato a Sofia nel 1921 da una casa editrice russo- bulgara. Si trattava di un volume collettaneo, del quale erano autori, oltre a Savickij e Trubeckoj, il musicologo Pëtr Suvčinskij (1892-1985) e il teologo Georgij V. Florovskij (1893-1973). Nikolaj S. Trubeckoj, in particolare, contribuiva al volume con due saggi: Ob istinnom i ložnom nacionalizme [Sul vero e sul falso nazionalismo] e Verchi i nizy russkoj kul’tury [Il vertice e la base della cultura russa]. Tutti gli autori esprimevano l’idea fondamentale secondo cui i popoli della Russia e delle regioni ad essa adiacenti in Europa ed in Asia formano una unità naturale, in quanto sono legati tra loro da affinità storiche e culturali. La cultura russa veniva dunque vista non come una variante di quella “occidentale”, ma come una realtà a sé stante. Fondata sull’eredità greco-bizantina e sulla conquista mongola e dunque identificabile come “eurasiatica”, secondo gli autori questa realtà culturale era stata negata non solo dalle riforme di Pietro il Grande e dalla classe politica che aveva in seguito governato la Russia, ma anche dalla corrente slavofila, che Trubeckoj accusava di voler imitare l’Occidente. Quanto alla Rivoluzione bolscevica,gli eurasiatisti la valutavano negativamente, ma si proponevano di studiarne il significato nel contesto della storia russa; Savickij, in particolare, vedeva nella Rivoluzione d’Ottobre uno sviluppo di quella francese, ma osservava che essa veniva a spostare verso l’Oriente l’asse della storia universale. “Per gli eurasiatisti, insomma, la Rivoluzione dell’ottobre 1917 è una purificazione, un rinnovamento, una resurrezione del vero spirito delle steppe tipico della cultura russa, nonché il punto di partenza per il processo di rinvigorimento della potenza dell’Eurasia” (28). L’unità dell’Eurasia costituisce il tema centrale dello studio L’eredità di Gengis Khan, che Trubeckoj, firmandosi con lo pseudonimo “I. R.”, pubblicò nelL’Eurasia tutta – egli scrive – (…) rappresenta una “ totalità unica, sia geografica sia antropologica. (…) Per la sua stessa natura, l’Eurasia è storicamente destinata a costituire una totalità unica. (…) L’unificazione storica dell’Eurasia fu, fin dall’inizio, una necessità storica. Contemporaneamente, la natura stessa dell’Eurasia ha indicato i mezzi di questa unificazione”.
    L’indagine di Trubeckoj, la quale intende porre in evidenza lo stretto rapporto che intercorre tra l’autentica cultura russa e l’elemento turco-mongolo, si riporta ad un preciso evento storico: l’unificazione del grande spazio eurasiatico ad opera di Gengis Khan e dei suoi successori. Tale impresa fu sviluppata da tre sovrani che succedettero a Gengis Khan: Ögödai (1229-1241), Güyük (1246-1248) e Mönkä (1251-1259), finché l’unità mongola si sfasciò all’epoca di Qūbilāi (1260-1294). Ultimo sovrano universale dei Mongoli, Qūbilāi portò i Mongoli fino a Giava: soggiogatore della Cina, diventò il primo imperatore di una nuova dinastia cinese, quella degli Yüan.
    Per restare alla Russia, fu nel 1223 che le avanguardie mongole sconfissero sulle rive del fiume Kalka le schiere russe e cumane, per poi tornare sulle steppe da cui erano venute. L’immediato successore di Gengis Khan, Ögödai, travolse il khanato bulgaro della Volga; poi espugnò Rjazan’, Suzdal’ e Kiev, sottomettendo tutti i principati russi. Il nipote di Gengis Khan, Batu, fondò la dinastia dell’Orda d’Oro, che aveva la sua capitale a Saraj sulla Volga; nella Russia meridionale e nell’Asia centrale l’Orda d’Oro regnò su un vasto stato e dominò per oltre due secoli la vita politica ed economica russa: dal 1240 al 1480 anche i ducati cristiani della Russia di nordest furono tributari di questa dinastia mongola (o “tatara”, come la chiamarono i Russi). “Se la drammaticità della conquista mongola non può essere messa in discussione, le sue conseguenze sulla successiva storia russa sono state interpretate nella maniera più varia e contrastante. In Occidente l’influsso tataro, o mongolo che dir si voglia, è stato quasi sempre valutato negativamente, come la causa principale dell’arretratezza e del dispotismo dello stato russo rispetto all’Europa. (…) Già nello scorso secolo, tuttavia, all’interno della storiografia russa si è affermata una diversa e più positiva concezione del dominio tataro. Secondo Solov’ëv e Kljucevskij, i tatari non solo non avrebbero spezzato la continuità dell’evoluzione storica della Russia, ma l’avrebbero dotata di quella forte organizzazione statale che tanto era mancata nell’epoca kieviana” (29). Trubeckoj e gli altri eurasiatisti ripresero e svilupparono questa valutazione.

    3. Lev Gumilëv

    Lev Nikolaevič Gumilëv nacque il 1 ottobre 1912 a San Pietroburgo da un celebre poeta (Nikolaj Stepanovič Gumilëv, fondatore del movimento “acmeista”, fucilato nel 1921) e da un’ancor più celebre poetessa, Anna Achmatova. Terminati gli studi nel 1930, fu respinto dall’università a causa delle sue origini familiari, sicché dovette guadagnarsi da vivere come operaio. Nel Pamir, dove lavorò come aiutante scientifico, imparò il tagico e il kirghiso, frequentò sufi e dervisci erranti. Ammesso nel 1934 alla facoltà di orientalistica di Leningrado, fu arrestato per la prima volta nel 1935. Tre anni dopo venne arrestato di nuovo, quindi ricevette una condanna alla fucilazione che fu commutata nei lavori forzati. Nel 1944 gli fu concesso di arruolarsi come volontario in un battaglione di punizione che prese parte all’assedio di Berlino. Riammesso all’università nel 1945, l’anno successivo discute la tesi di laurea, sulla storia politica del primo khanato turco (546-659). Depennato dall’organico delle spedizioni archeologiche per effetto del rapporto di Zdanov sull’ideologia dell’arte, viene assunto come bibliotecario presso l’ospedale psichiatrico di Leningrado.
    Nella primavera del 1948 partecipa alla spedizione archeologica nell’Altai, che porta alla luce il tumulo d’oro di Pazyryk. “Già la sola partecipazione di Gumilëv alla scoperta del tumulo gli varrebbe di diritto la fama mondiale. L’arte scito-siberiana in stile zoomorfo sarebbe divenuta un tema universalmente noto e popolarissimo” (30). Nel 1948 è arrestato per la terza volta e condannato a dieci anni di campo di confino speciale, per attività controrivoluzionaria; nel 1956 viene rilasciato e riabilitato perché il fatto non sussiste. Tornato a Leningrado, lavora alla biblioteca dell’Ermitage e intanto porta a termine la tesi di dottorato, sugli antichi Turchi. Assunto all’Istituto Nazionale di Ricerca dell’Università leningradese, vi lavora come collaboratore scientifico fino al 1986. “Nei suoi ultimi anni di vita, che coincisero con quelli dell’Urss, il ruolo di Gumilëv nella rinascita della concezione eurasista fu immenso. I suoi volumi vennero pubblicati in rapida sequenza e con tirature altissime, ed egli acquisì una vasta fama all’interno della cultura e della società russa. (…) La delusione per la dissoluzione dell’Urss nel 1991 ebbe un effetto disastroso sul morale di Gumilëv, che morì l’anno successivo. Ormai, però, l’imponente successo delle sue opere aveva contribuito in maniera decisiva alla rinascita dell’eurasismo, divenuto rapidamente un tema di forte interesse all’interno della cultura russa e di alcune delle nuove repubbliche indipendenti” (31).
    In Italia, la notizia della morte dello studioso eurasiatista, avvenuta il 16 giugno 1992, apparve con due settimane di ritardo (il 2 luglio) sulla “Stampa” di Torino, che pubblicò un articolo di Lia Wainstein intitolato: Figlio della Achmatova, profeta antisemita. Sottotitolo: Il suo ideale: i Mongoli, perché “evitano contatti con gli Ebrei”. L’autrice dell’articolo interpretava il pensiero di Gumilëv come una manifestazione di “delirio antioccidentale”: ché altrimenti non si spiegherebbe, secondo lei, la “rivalutazione positiva del ruolo avuto dai popoli mongoli e turchi nella storia russa”. Secondo i moduli triti e ritriti del razzismo russofobico, la Wainstein, mentre si guardava bene dal citare l’unico libro di Gumilëv tradotto in italiano (32), riproponeva i luoghi comuni del “selvaggiume orientale” e del “dispotismo asiatico” e rintracciava nell’opera dello studioso una miscela di “amore per la frusta mongola” e di “patriottismo xenofobo e antioccidentale”.
    Alle reazioni irrazionali e scomposte di certa intelligencija occidentalista si contrappongono la stima e la riconoscenza che i popoli turanici dell’ex URSS hanno manifestato nei riguardi di Gumilëv, la cui produzione scientifica, “una vera e propria enciclopedia della steppa” (33), ha fatto piazza pulita dei pregiudizi turcofobi e antimongoli, mostrando il contributo apportato alla storia dell’Eurasia dagli imperi di Attila, di Gengis Khan e di Tamerlano. Un fatto significativo, a tale proposito, è che ad Astana, capitale del Kazakistan, è stata intitolata a Lev N. Gumilëv la locale Università Eurasiatica.
    Nella vastissima produzione scientifica di Gumilëv (34) non si trovano testi specificamente geopolitici, anche se la teoria gumileviana dell’etnogenesi e della ciclicità della vita dell’ethnos si colloca sulla scia delle elaborazioni di Ratzel, Kjellén e Haushofer. L’eurasiatismo di Gumilëv consiste in una visione della storia in cui viene messo in primo piano il mondo multiforme dell’Oriente eurasiatico, concepito non più come “periferia” più o meno “barbara” contrapposta alla vera civiltà (occidentale), bensì come un’autonoma realtà culturale, con un suo proprio sviluppo politico e scientifico. Lo stesso Gumilëv non si sottrasse alla definizione di “eurasiatista”, anzi, la accettò con legittimo orgoglio. In un’intervista rilasciata nel 1992, poco tempo prima di morire, dichiarò: “Quando mi chiamano eurasiatista, io non rifiuto questa definizione, e per diverse ragioni. Innanzitutto, l’eurasiatismo è stato una grande scuola storica, sicché posso solo sentirmi onorato se qualcuno mi assegna a tale scuola. In secondo luogo, ho studiato a fondo l’opera degli eurasiatisti. Terzo, concordo fondamentalmente con le principali conclusioni storico-metodologiche alle quali gli eurasiatisti sono pervenuti”.

    Note

    1. Aldo Ferrari, La Terza Roma, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1986, p. 36.
    2. K. Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, cit., cap. I.
    3. Nicolas Berdiaeff, Constantin Leontieff, Parigi 1926, p. 244
    4. Ivi, p. 243.
    5. Ivi, p. 45.
    6. K. Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, cit., cap. II.
    7. N. Berdiaeff, op. cit., p. 251.
    8. Ivi, pp. 251-252.
    9. Ivi, pp. 85-86.
    10. Ivi, p. 90.
    11. Ivi, p. 250.
    12. Ivi, p. 251.
    13. Ivi, p. 250.
    14. K. Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, cit., cap. V.
    15. Mikhail Agursky, La terza Roma. Il nazionalbolscevismo in Unione Sovietica, Il Mulino, Bologna 1989, p. 367.
    16. Arthur Moeller van den Bruck, Il vagabondo del nulla, in: Victor Serge, Germania 1923. La mancata rivoluzione, Graphos, Genova 2003, p. 447.
    17. Pervyj s’ezd Narodov Vostoka [Primo Congresso dei Popoli dell’Oriente], Petrograd 1920, p. 72.
    18. La posizione di Marx nei riguardi della Russia e del mondo musulmano è ben rappresentata da queste espressioni: “La barbarie intrinseca della Russia”, “le influenze demoniache della Roma d’Oriente [Istanbul]”, “la Russia, fedele al vecchio sistema dell’inganno e dei trucchi meschini”, “il fanatismo dei musulmani” (Carlo Marx contro la Russia, Edizioni del Borghese, Milano 1971, pp. 38, 40, 43, 89)
    19. Cit. in: Francis Conte, Gli Slavi, Einaudi, Torino 1991, p. 386.
    20. Ferdinand Ossendowski, Bestie, uomini e dèi, M.I.R., Firenze 1999, p. 191.
    21. Aldo Ferrari, La Foresta e la Steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, Scheiwiller, Milano 2003, p. 209.
    22. Alexandr Duguin, Rusia. El misterio de Eurasia, Grupo Libro 88, Madrid 1992, p. 148.
    23. N. S. Trubeckoj, Fondamenti di fonologia, Einaudi, Torino 1971. Per una esposizione riassuntiva della teoria linguistica di Trubeckoj, si può vedere Carlo Tagliavini, Storia della linguistica, Patron, Bologna 1970, pp. 307- 313.
    24. N. S. Trubeckoj, L’Europa e l’umanità, Einaudi, Torino 1982. Il volume contiene anche Sul vero e sul falso nazionalismo e Il vertice e la base della cultura russa.
    25. A. Ferrari, La Foresta e la Steppa, cit., p. 198.
    26. A. Ferrari, La Russia tra Oriente e Occidente. Per capire il continente-arcipelago, Ares, Milano 1994, p. 156.
    27. P. Savickij, Step’ i osedlost’, in Na putjach, Berlino 1922, p. 343.
    28. Patrick Sériot, N. S. Troubetzkoy, linguiste ou historiosophe des totalités organiques ?, in : N. S. Troubetzkoy, L’Europe et l’humanité. Écrits linguistiques et paralinguistiques, Pierre Mardaga éditeur, Sprimont 1996, p. 17.
    29. A. Ferrari, La Russia tra Oriente e Occidente, cit., pp. 43-45.
    30. Martino Conserva – Vadim Levant, Lev Nikolaevič Gumilëv, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2005, p. 15.
    31. A. Ferrari, La Foresta e la Steppa, cit., p. 264.
    32. Lev Gumilëv, Gli Unni. Un impero di nomadi
    33. A. Ferrari, La Foresta e la Steppa, cit., p. 255.
    34. La bibliografia gumileviana compilata nel 1990 e riportata da M. Conserva e V. Levant (op. cit., pp. 65-83) elenca circa 240 titoli.

 

 
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    Risposte: 38
    Ultimo Messaggio: 19-04-10, 10:33
  5. Risposte: 28
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