Per capirci, e spero in modo definitivo, dopo di che, forse, c’è solo diversità di punti di vista. Una formazione rivoluzionaria è chiaro che ha necessità di fondi per poter svolgere la propria attività (stampa, comunicazione in generale, locali, spese di trasporto eccetera). Naturalmente più la formazione è estesa ed articolata più serviranno fondi. Principalmente si tratterà di reperire questi fondi al proprio interno, tra i militanti, e poi tra i vari livelli della “simpatia” politica.
Ora, se si è il partito politico è istituzionale e quindi appartenente al novero di quelli considerati dallo stato funzionali al sistema (e questo accade nei paesi a capitalismo avanzato come in Italia) si riceveranno finanziamenti pubblici e in più sei nel giro delle prebende di varia provenienza (dipende dal “valore aggiunto” che puoi metter sul piatto). E questo non è il nostro caso.
Se sei invece una forza antisistema, comunista per giunta, sicuramente si dovrà rinunciare a questo tipo di fondi: rimangono quindi quelli interni e in più cespiti di vario tipo (che ne so, proprietà di cui si dispone o altro).
Il problema del finanziamento “extralegale”, per una formazione rivoluzionaria, nasce quando questa si trova ad agire in un ambito non legale e in cui la scelta di appropriarsi dei fondi attraverso vie “particolari” rientra nel rischio più generale che corre per via della sua condizione di clandestinità. E in questo caso è chiaro che il rischio che corre, esempio, per una rapina in una banca, è un rischio interno all’attività che già di per sé è rischiosa perché ti sottopone all’esposizione continua e quindi alla repressione delle forze nemiche. È chiaro che in questo caso non si va tanto per il “sottile” e si fa quello che normalmente non si fa in situazioni di legalità. Ma a questo punto nasce anche una domanda che la forza rivoluzionaria deve porsi: il reperimento delle risorse può incrinare le fondamenta dell’agire politico? Io penso di no perché ritengo che la pratica dell’ “autofinanziamento” debba passare attraverso il vaglio della legittimazione politica di questa pratica. Non basta in questo caso solo la giustificazione della necessità dei fondi. Perché a questo punto potrebbe essere giustificata anche la tratta della prostituzione o degli schiavi.
Un confine quindi deve porsi. Ed è quel confine segnato dai punti fermi che la prassi rivoluzionaria definisce in base al principio della non contraddittorietà tra mezzi e fini. Naturalmente non sempre le situazioni sono cristalline, a volte bisogna valutare, ma sempre secondo questo principio.
Conclusione: dire che i soldi sono necessari è ovvio quanto banale. Non si tratta di non farsi scrupoli (gli scrupoli di solito ce l’hanno le persone timorose e incerte), ma di capire quale strada percorrere. L’immobilità di cui soffrono tante organizzazioni “rivoluzionarie” penso che sia la diretta conseguenza di una ben precisa impostazione generale e quindi di una pratica conseguente. Ma poi il contrario della immobilità non è la… mobilità. Ma questo diventa un altro discorso.