OMNIA SUNT COMMUNIA


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Notiziario del Campo Antimperialista – 5 aprile 2008

TRE EVENTI
tra i tanti venuti alla ribalta nelle ultime due settimane, tre meritano attenzione.
IL PRIMO è stato la rivolta dei cittadini serbi a Kosovska Mitrovica, ad un mese esatto dall’auto-proclamazione di indipendenza del governo degli albanesi. Bersagli dei rivoltosi le insegne, gli uffici e le truppe dell’ONU e della NATO. La soldataglia NATO-Kfor è stata costretta alla ritirata. Risultato: l’enclave serba è stata liberata dalla loro presenza. Ha affermato un ufficiale italiano: «Vivo qui dal 1999, ma un odio del genere non l’avevo mai visto. Tanta rabbia. Tante armi. La gente sparava ad altezza d’uomo». Si tratta di un assaggio di ciò che potrebbe accadere non solo in Kosovo, ma pure in Bosnia. L’11 maggio i serbi voteranno nuovamente per eleggere Presidente e Parlamento. Se, come ci auguriamo, il filo-occidentale Boris Tadic perderà a vantaggio del pur composito fronte anti-NATO (Nikolic, Kostunica e le sinistre), sarà il segnale della fine della pax euro-americana nel Balcani.
IL SECONDO sono state le dichiarazioni di Barak Obama riguardo alla politica estera che adotterebbe se fosse incoronato Imperatore. Ebbene, egli ha affermato che seguirebbe la stessa linea strategica di Reagan e Bush Senior. Coloro che sperano che l’eventuale vittoria di Obama conduca ad una svolta nella politica guerrafondaia degli Stati Uniti sono avvisati.
IL TERZO è il vertice NATO appena conclusosi a Bucarest. Se l’adesione di Ucraina e Georgia è stata solo posticipata, via libera al sistema antimissile che, determinando uno squilibrio strategico dei rapporti di forza, condurrà senz’altro ad una nuova corsa agli armamenti. Questa decisione non simboleggia soltanto lo spirito espansionistico e aggressivo dell’alleanza euro-americana, ma fino a che punto l’Unione Europea, guidata dall’asse franco-tedesco, sia saldamente ancorata agli Stati Uniti. Il vertice ha infine accettato senza sostanziali obiezioni il rafforzamento chiesto con forza da Bush della presenza militare NATO in Afganistan. Segno evidente che l’occupazione traballa e la Resistenza, in questi ultimi tempi, si è rafforzata.


Questo Notiziario contiene:

1. UNA PICCOLA GUANTANAMO IN ITALIA
Lettera testimonianza di un prigioniero arabo-islamico nelle carceri italiane2. L’APOSTATA EGIZIANO E IL PASTORE TEDESCO
A proposito della conversione di Magdi Allam
3. IRAQ: LA RESA DEI CONTI NEL CAMPO SHIITA
la «SAHWA» che gli americani non avrebbero mai desiderato
4. TIBET CHE?
Botta e risposta


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1. UNA PICCOLA GUANTANAMO IN ITALIA
Lettera testimonianza di un prigioniero arabo-islamico nelle carceri italianeBouhrama Yamine dal supercarcere di Siano (CZ)
«A gennaio 2008 è stata aperta una nuova sezione EIV a Benevento, composta da soli prigionieri islamici, una decina in tutto: 5 algerini, 2 iracheni, un egiziano, un tunisino ed un anziano palestinese di 82 anni con problemi di salute, da 17 anni in carcere in Italia per l’Achille Lauro; provenienti dalle sezioni EIV di Siano - Catanzaro (5), Poggioreale (2), Carinola (1), Sulmona (1) e Parma (1).

La struttura della sezione è già di per se significativa: bocche di lupo alle finestre oltre alle reti, reti sopra il passeggio, e ancora luce e televisione vengono spente a mezzanotte; non sono state consegnate le audiocassette con contenuto religioso già consentite nei carceri di provenienza e i libri permessi in cella sono limitati al numero di 5.

Il regime di detenzione si è subito rivelato di tipo intimidatorio e teso ad imporre una disciplina vessatoria e militaresca: a titolo di esempio tra le altre angherie si impone ai prigionieri di stare in piedi, in silenzio e di spegnere il televisore durante la quotidiana battitura delle sbarre della finestra in cella; a chi distribuisce il vitto (uno dei dieci suddetti prigionieri) viene imposto con minacce da tre guardie sempre dietro di non parlare con gli altri. In particolare, il 10 febbraio, una guardia ha minacciato due lavoranti di portarli in isolamento e di picchiarli se non avessero accettato le loro imposizioni.

Dal loro comportamento si presume che le guardie addette a questa sezione appartengano ai Rom (ex Gom) già tristemente famose per i noti fatti di Bolzaneto del G8 di Genova.

Il giorno mercoledì 27 febbraio alle ore 10,30, il sottoscritto Bouhrama Yamine, in seguito ad una protesta verbale, in risposta ad una guardia che con il solito tono provocatorio mi ha detto di non impiegare più di dieci minuti per la doccia, questa guardia mi ha risposto di chiudere la bocca e di rientrare in cella, poi mi si è avvicinato e mi ha colpito con un pugno in faccia, quindi sono intervenute due guardie che mi hanno portato in cella.

Alle ore 12 è tornata la guardia che mi ha colpito, per farmi uscire dalla cella e mi ha insultato. A questo punto c’è stata una colluttazione in cui sono intervenute altre guardie con calci e pugni.

Gli altri prigionieri hanno fatto subito la battitura, quindi sono intervenuti un ispettore ed un brigadiere che mi hanno rinchiuso in cella. Dopo due ore, alle 14,10, è venuto lo stesso brigadiere che mi ha detto di seguirlo dal medico per farmi visitare.

Quando sono sceso, arrivato nel corridoio dove c’è l’infermeria, che è al piano sottostante la sezione, sono stato colpito da una guardia con un pugno in testa, davanti al brigadiere ed all’ispettore, poi trascinato da tre guardie di fronte al medico che mi ha solo guardato in faccia senza visitarmi e ha detto al brigadiere che tutto era a posto!

Poi mi hanno trascinato un’altra volta in una cella a cinque metri di distanza dall’infermeria, dove sono entrate dieci guardie che hanno cominciato a picchiarmi con calci e pugni, alla testa e nel corpo, sbattendomi anche la testa sul muro, per dieci minuti; tutto questo è successo alla presenza dell’ispettore, del brigadiere e del medico.

Quando hanno finito di pestarmi, mi hanno spogliato nudo con la forza e minacciato che se parlavo sarei morto.

Gli altri prigionieri sentendo le mie urla per quanto stava accadendo, hanno fatto subito una battitura di protesta.

Per tre giorni sono rimasto in quella cella ed ho fatto lo sciopero della fame. Il giorno 28 febbraio ho chiesto la matricola per fare la denuncia ma non mi è stato permesso.

Il 29 febbraio alle ore 9,30 sono andato al consiglio di disciplina dove ho esposto l’accaduto al direttore ed al comandante del carcere, a cui hanno risposto dandomi una punizione di 15 giorni di isolamento.

Il giorno 1 marzo vengo chiamato per essere trasferito; quando ero già salito sopra il furgone, un ispettore mi minacciava un’ultima volta dicendomi di non parlare di quanto era successo.

Adesso sono stato trasferito al carcere di Siano – Catanzaro dove ho scontato i 15 giorni di isolamento alle celle di punizione e dove, infine, sono stato ricondotto nella sezione EIV per soli prigionieri politici.

Bouhrama Yamine

Siano 24-03-08

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2. L’APOSTATA EGIZIANO E IL PASTORE TEDESCO
A proposito della conversione di Magdi Allam

Siamo tra coloro che han sempre dubitato che Magdi Allam fosse davvero un musulmano. Ci risulta infatti difficile crederlo, visto che quando viveva in Egitto ha studiato in un collegio dei salesiani. Al massimo l’Allam era un musulmano all’acqua di rose, se non addirittura un sicofante fintosi musulmano per dare maggior credito alla sua personale crociata antislamica. Un battezzo-si-fa-per-dire quindi, che il Papa Ratzinger ha però voluto celebrare di persona, dando ad esso un significato non solo religioso, ma politico inequivocabile.
Colpisce il fotogramma pubblicato da Il Corriere della Sera del 23 marzo. L’Allam è di spalle mentre si vede il volto del Papa che gli da personalmente la benedizione. Un fotogramma inquietante che fissa in maniera indelebile il ghigno di soddisfatta complicità di Ratzinger. Un gesto gravissimo, che non è attenuato dalla dichiarazione vaticana di dissociazione dalle parole pronunciate dall’Allam il giorno successivo. Che parole? Parole di fuoco, parole cariche d’odio. Quanto sia mendace il piagnisteo vittimista per le minacce subite, è dimostrato dalla reiterazione della sua tesi più tipica, ovvero che «... La radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale».
L’allam, forse esagerando definendo «storico» il gesto del Papa, non si trattiene da ulteriori invettive contro gli «estremisti islamici», denunciando, pensate un po’, la persecuzione di cui sarebbero vottime in Italia i convertiti dall’Islam al cattolicesimo, e, com’è nel suo stile, facendo poi appello allo Stato (di polizia) affinchè «li aiuti ad uscire... dalle tenebre e dalle catacombe».
Legittimato dalla sacra benedizione papale, forte di quella profana dello Stato (che non sarà sacra ma è armata di tutto punto), l’Allam non riesce a sfuggire al suo impulso di sbirro e delatore, malamante camuffato col consueto vittimismo.
Della persecuzione dei convertiti al cristianesimo non ne abbiamo traccia, mentre ne abbiamo, e anche troppe, di quella sistematica, asfissiante e crudele che subiscono centinaia di musulmani che sono spiati, pedinati, sequestrati e torturati (Abu Omar), terrorizzati, espulsi, reimpatriati, incarcerati spesso senza prove, dispersi nei penitenziari, segregati nei carceri speciali (come testimonia la denuncia più sopra).
Cristo è morto, ma non dubitiamo che se esso fosse tra noi, sarebbe accanto a queste vittime quasi sempre innocenti, non certo ai lupi come Allam o ai pastori tedeschi con la papalina.

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3. IRAQ: LA RESA DEI CONTI NEL CAMPO SHIITA
la «SAHWA» che gli americani non avrebbero mai desiderato

E’ un fatto indiscutibile che la nuova battaglia scoppiata a Bassora il 25 marzo (e poi estesasi a tutto il sud e il centro del paese fin nel cuore di Baghdad -- e che sta continuando malgrado la tregua formale dichiarata il 30 marzo) l’ha voluta, col pieno appoggio americano, il governo di al-Maliki. Perché? Contenuta momentanemante la spinta della Resistenza sunnita, la coalizione al governo (di cui le due forze decisive sono il Consiglio Supremo Islamico Iracheno-CSII e il Da’wa) vuole infliggere un colpo risolutivo all’eterogeneo movimento di Moqtada, con l’obbiettivo dichiarato di farlo a pezzi e toglierlo di mezzo.

Perché il governo fantoccio ha scelto questo momento? Perché ad ottobre ci saranno decisive elezioni provinciali, elezioni che tutti gli iracheni pensano vincerà appunto Moqtada al-Sadr e che segneranno una sonora sconfitta per la coalizione al governo. Ma la posta in palio non è solo il governo, è l’assetto istituzionale del paese. Al-Maliki, col pieno sostegno non solo del suo partito (Da’wa), ma di quello del CSII di Abdul Aziz al-Hakim, dei due partiti curdi e di alcuni notabili sunniti, vuole un assetto federale che spazzerebbe via l’Iraq come stano nazionale unitario. I governatorati regionali, progettati su basi confessionali, disporranno infatti autonomamente delle riorse petrolifere, producendo la definitiva spaccatura del paese.

Moqtata si oppone fermamente a questa dissoluzione dell’Iraq e mobilita un vasto movimento di massa che si richiama al nazionalismo e denuncia non solo l’occupazione americana, ma ogni interferenza straniera, quella iraniana compresa.

Dare un giudizio univoco della politica di Moqata al-Sadr non è possibile. Ieri a fianco della Resistenza sunnita poi contro, coalizzato con le altre forze shiite come il Consiglio Supremo Islamico Iracheno e il Da’wa e poi avverso, prima nel governo ora a sparare addosso al regime fantoccio di al-Maliki. Un momento invoca la crociata contro l’occupante americano, quello successivo dichiara una tregua unilaterale.

Questo zig-zagare non si spiega tuttavia a causa del suo carattere bizzarro ed estroverso. Se non si giustifica, si comprende, a causa delle molteplici e contrastanti e poderose pressioni a cui egli è sottoposto in quell’inferno che è diventato l’Iraq, segnato da una lotta di tutti contro tutti per il controllo di questo o quel quartiere, di questa o quella città, di questo o quel ponte di transito. Si tratta di una battaglia che precede quella finale, quella che decide le sorti dell’Iraq come stato nazionale unitario, di chi debba avere il potere, di come debbano essere distribuite le risorse petrolifere.

Non che Moqtada non sia protetto da alcuni pezzi dell’apparato politico-militare di Tehran. Il fatto è che a Tehran, sono profondamente divisi sui futuri assetti iracheni e regionali. Il grosso, comunque, aiuta e sostiene non Moqtada, ma i suoi acerrimi avversari shiiti, ovvero i due partiti storici filo-iraniani: il CSII e il Da’wa. Che sono proprio le due forze che gli stessi americani appoggiano, non solo in generale, ma proprio in questi giorni che esse stanno cercando (senza successo per fortuna) di annientare l’esercito del Mahdi, la forza armata di Moqtada. Divisi da un dissidio che potrebbe sfociare in conflitto aperto, americani e iraniani condividono non solo il sostegno al governo di al-Maliki, ma pure lo squartamento dell’Iraq, la sua divisione in rispettive zone d’influenza, in effimeri protettorati petroliferi. L’opposizione di Moqtada a questo disegno è un fatto di grandissima importanza. Dalle sorti di questa opposizione dipendono sia le sorti del governo fantoccio sia qulle del disegno di spezzettamento dell’Iraq in zone di influenza di americani e iraniani.

L’attuale battaglia viene presentata dalla stampa occidentale come scontro tra le milizie di Moqtada e le «forze dell’esercito regolare». Si tratta in verità di scontri tra milizie shiite, poichè il cosiddetto esercito regolare è composto da miliziani del Badr (il braccio armato del CSII), del Da,wa e di Fadila, agghindati con le divise fornite loro dagli occupanti.

Come antimperialisti noi siamo dalla parte di Moqtada e del Mahdi malgrado tutto. Non dimentichiamo le nefandezze compiute da alcuni pezzi del Mahdi contro la popolazione sunnita. Col pretesto di rispondere al terrorismo «qaedista» le milizie che fanno capo a Moqtada hanno spesso compiuto atti gravissimi di ritorsione ed hanno promosso una politica di espulsione dei sunniti da varie zone miste di Baghdad come di altre importanti città. Difficile dimenticare la guerra sporca tra il febbraio 2006 (dopo il tremendo attentato antishiita a Sammarra) e la primavera del 2007. Quella fase tragica sembra essersi chiusa (per fortuna). Se ne è aperta un’altra: nella quale il movimento di Moqtada potrebbe diventare in Iraq ciò che Hezbollah è stato ed è per il Libano.

Le informazioni ch giungono oggi (4 aprile) da Bassora, Karbala, Sadr City, Hilla ecc., sono che i guerriglieri del Mahdi non solo stano resistendo, essi hanno strappato ai loro nemici il controllo di zone e intere città, e questo malgrado l’aviazione americana sia intervenuta pesantemente. Cresce dunque il consenso popolare alla Resistenza di Moqtda, soprattutto dei settori più poveri delle città e dei villaggi. Solidarietà ai guerriglieri è giunta pure dalla popolazione sunnita. A Fallujia, ad esempio, i cittadini hanno donato il loro sangue per inviarlo a Bassora.

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4. TIBET CHE?
Botta e risposta


Il pezzo «SE FOSSIMO TIBETANI - Come opporsi al rinascente Impero Han senza diventare servi di quello americano?», contenuto nell’ultimo nostro Notiziario ha sollevato critiche. Critiche, per così dire, dai due lati opposti della barricata: da parte dei filo-tibetani e da quelli che, al contrario, stanno con la Cina.
In rappresentanza del primo fronte Carmine Colacino sommessamente ci scrive:

«
Eppure quando il Dalai-Lama è venuto in Italia non fu ricevuto... spiace poi vedere il calcolo dei morti, come se la rivolta tibetana, per contare, dovesse avere, prima, un bel po' piú di morti... Io mi sarei aspettato uno sventolare di bandiere della pace, invece, ma evidentemente quelle sono solo bandiere anti-americane e con la pace e con i diritti dei popoli, hanno poco a che vedere... ancora una volta il diritto (e il principio) all'autodeterminazione dei popoli passa al vaglio dell'ideologia... peccato, un'altra occasione perduta»...

# Non abbiamo titolo per parlare a nome dei pacifisti. Rispondiamo invece come antimperialisti che, pur sostenendo in linea di principio il diritto dei popoli all’autodeterminazione, non ne facciamo l’alfa e l’omega della questione nazionale. Noi sosteniamo questa rivendicazione nel contesto globale della lotta all’imperialismo, ovvero, non la sosteniamo affatto (vedi il Kosmet —Kosovo e Metohjia) ove questa rivendicazione sia funzionale agli interessi geopolitici di una potenza imperialistica (interessata magari a squartare su linee “etniche” quelli che bollano come “Stati canaglia”).

# In secondo luogo, sostenere e avocare il diritto all’autodeterminazione non equivale a sostenere una posizione indipendentista. Lenin, tanto per dire, quasi sempre era infatti contro le secessioni e le piccole patrie, a favore del modello federale fondato sui principi di fratellanza fra i popoli e di parità di diritti. Anche nel caso tibetano o del Turkestan orientale, noi non peroriamo in prima battuta la secessione. Cos’è che peroriamo quindi? La trasformazione della Cina in una repubblica federale e democratica in cui tutte le nazioni abbiano uguali diritti e sia posto fine alla supremazia Han.
Passiamo ai filocinesi a scoppio ritardato. Pubblichiamo due messaggi su tutti.

«Cari compagni,
nonostante la polemica brillante contro Fausto Bertinotti, alla fine sul Tibet (e sulla Cina) non vi differenziate molto da lui.
Un cordiale saluto»

Domenico Losurdo

(...)

«Ebbene anche noi vogliamo pronunciarci sul Tibet, ma non per gridare alla repressione Han contro il Tibet, ma per mettere in luce due cose.

Una, specifica, che riguarda il Dalai Lama e la sua cricca di bonzi. E´ evidente che questa cricca agisce in nome e per conto dell´imperialismo occidentale e americano in particolare. Permettere che le olimpiadi sanzionassero la grande ascesa cinese sarebbe stato, con la crisi economica in atto, troppo per gli Stati Uniti. Un´operazione audace e coordinata della CIA in versione tibetana è proprio quello che serviva. Diciamo che lo
stato cinese è stato fin troppo moderato nella reazione
, il che ha consentito a quella banda di controrivoluzionari tibetani di tentare un pogrom incendiando negozi cinesi e bruciando anche chi ci lavorava dentro.
Dobbiamo solidarizzare con l´operazione CIA? Dobbiamo essere dalla parte dei tibetani `oppressi´? Chi combatte veramente l´imperialismo deve stare da un´altra parte. E gli antimperialisti sono impegnati da anni a denunciare l´operazione Kosovo, l´operazione Darfur ecc ecc. La linea `etnica´ è la linea dell´imperialismo oggi.

Seconda questione. Non esiste forse, ci dicono però i critici di sinistra, una questione nazionale, per i tibetani come per altri popoli?
Per il Tibet, quelli che si considerano rivoluzionari, dovrebbero riflettere sul fatto che lo scontro è il prodotto evidente della continuità con la storia cinese dopo il `48. Negli anni cinquanta quando la rivoluzione ha spazzato via il regime feudale dei bonzi, ora con l´avanzare di un processo di ascesa economica che non può non riguardare anche il Tibet. La questione etnica non c´entra, i fatti ci dicono che lo scontro è tra reazione e trasformazione. E, per capirci, noi non siamo mai andati in giro sventolando libretti rossi, ma abbiamo come riferimento la politica dei comunisti che ha permesso la creazione dell´Unione sovietica e della Jugoslavia. Sappiamo dunque riconoscere le caratteristiche ´nazionali´ di certi processi che
hanno portato alla dissoluzione di questi stati a vantaggio dell´imperialismo».

AGINFORM
* (sottolineatura nostra)
CARI COMPAGNI DI AGINFORM,


secondo noi, sulla recente rivolta popolare in Tibet, avete preso un granchio. Come ogni granchio, deve essere pigliato alla giusta maniera, altrimenti l’incauto ci resta ferito.

Dite sbrigativamente di voler mettere in luce due cose. La prima sarebbe che la cricca del Dalai Lama è al servizio della CIA. La seconda è che non esiste una questione nazionale tibetana, ovvero non ci sarebbe alcuna oppressione Han del popolo tibetano.

Che il Dalai Lama e il suo governo in esilio siano arnesi della CIA questo è storicamente provato e non ci piove. Ma questo, va da sé, non dimostra che non esista l’oppressione Han e che essa riguardi non solo i tibetani ma le numerose minoranze nazionali.
Che gli USA siano la principale potenza imperialista è scontato, ma immaginare che essi siano talmente onnipotenti da essersi inventati il problema nazionale tibetano è sintomo di una mentalità complottista alquanto rudimentale.

Si capisce che non avete studiato né la storia cinese, né avete avuto la fortuna di capitare in Cina e in Tibet recentemente. Non ve ne facciamo una colpa, solo vi consigliamo di trattare le questioni complesse col bisturi e non con l’accetta.

Infatti non entrate nel merito del problema, e non ci entrate poiché, le due cose che avete voluto mettere in luce, sono oscurate da una terza cosa, dalla tesi per cui, mentre sarebbero sacrosante tutte le lotte di liberazione nazionale che avvengono nela sfera d’influenza nordamericana, che vadano a farsi fottere tutti quei popoli che dovessero subire oppressione nella zona d’influenza delle potenze pur capitalistiche avverse agli Stati Uniti. Essi si ribellano? Chiedono giustizia e diritti? Peggio per loro! E come giustificate questa macchiavellica enormità? Che siccome un indebolimento della Cina sarebbe negli interessi degli Stati Uniti, il governo cinese va rafforzato, anzi occorre sostenere come lecita e legittima la sua politica repressiva. Ovvero trattate i tibetani come se fossero mercenari, come se fossero i marinesi che hanno in Afganistan, come se fossero i curdi che tengono testa alla Resistenza irachena. Ragionate insomma come se il dissidio cino-americano fosse già una guerra, come se ciò che è solo in potenza fosse già in atto. E questo è un grave errore politico.

Citate di passata l’Unione Sovietica e la Iugoslavia, stabilendo quindi un parallelismo con la Cina. Questo parallelismo è giusto? No che non è giusto! Si tratta infatti di un parallelismo del tutto formale, che non tiene conto del fatto che la Cina è una grande potenza capitalistica la cui forza espansiva si fonda sul più infernale sfruttamento dei lavoratori, i cui investimenti negli USA, come tutti sanno, tengono a galla l’economia imperiale; e che sgomita affinché siano riconosciuti i suoi interessi geopolitici mondiali, ovvero imperialistici. Anche l’equiparazione con la Iugoslavia non tiene, poiché la Iugoslavia non solo era un paese in preda ad una crisi economica devastante; essa è crollata dopo un decennio di embarghi e infine per un attacco frontale antiserbo da parte della NATO —la quale ha utilizzato apertamente certi movimenti nazionalisti (croati, bosniaci, kosovari) come truppe di complemento.

Siccome l’imperialismo usa strumentalmente alcune rivendicazioni nazionali, voi che fate? Buttate il bambino con l’acqua sporca, le legittime aspirazioni democratiche di un popolo assieme agli eventuali dirigenti che strizzano l’occhio a Washington.

Facciamo l’esempio dell’Iran. Volete forse negare che i persiani pur essendo la metà della popolazione sono la nazione dominanante? Volete forse negare che non esistono questioni nazionali come quelle curda, belucia, araba o azera? Come affrontiamo il problema? Neghiamo il sacrosanto diritto diritto di queste nazioni all’autodecisione in quanto l’Iran è un possibile bersaglio di un attacco americano? No! Questo diritto, come insegnava Lenin, va difeso in linea di principio, tuttavia non in modo astratto. Difenderemo l’Iran da un eventuale aggressione imperialista, e condanneremo quei movimenti nazionalisti che dovessero cooperare con gli aggressori. Ma diciamo anche che se l’Iran vuole resistere e vincere deve avere il più vasto sostegno popolare, non solo dei persiani, deve quindi andare incontro e non soffocare le altre nazionalità. Non deve quindi commettere le bestialità compiute da Saddan contro gli shiiti e i curdi.

Si capisce poi che voi considerate antimperialista non un popolo, una nazione o un governo che lottino effettivamente contro l’imperialismo (con tutti i limiti questo era il caso con Milosevic o Saddam). Voi considerate antimperialista chiunque si opponga agli Stati Uniti. Siccome saprete senza dubbio che possono invece esistere conflitti inter-imperialistici, se ne deve dedurre che considerate la Cina odierna come socialista o, quantomeno, un fac-simile socialista. Andatelo a dire ai maoisti cinesi (che liquidano il regime come fascista), oppure provate a dirlo agli operai e ai contadini, Han compresi, che se provano ad alzare la testa vengono trattati peggio che sotto il fascismo.

Un’ultima cosa. Il vostro posizionamento, tutto geopolitico, cascame di una guerra fredda che non c’è più, si basa sul fatto che se gli USA stanno da una parte noi dobbiamo per forza essere da quell’altra. QUASI sempre è così, ma non sempre. Decine sono i casi nella storia recente in cui gli americani ce li siamo trovati tra i piedi nella difesa di qualche causa democratica. Senza andare troppo lontano: il Sudafrica dell’Apartheid, quando gli USA hanno appoggiato le lotte democratiche, fino all’appoggio all’ANC di Mandela.

fraterni saluti antimperialisti

campo_lazio@libero.it



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