Nei giorni scorsi si è avuta tensione nel centro-destra sulla proposta di abolire le province, che da tempo sono inutili carrozzoni. La polemica è nata dal fatto che la Lega Nord vede in quelle istituzioni un fattore di autonomia e quindi s’è opposta alla proposta di Silvio Berlusconi di cancellarle.
La posizione di Umberto Bossi discende pure dal fatto che la provincia rappresenta un dato storico rilevante, con una consistenza identitaria ben definita. Ma il problema di cui qui si discute è di altra natura, dato che ormai tali istituzioni sono assai costose pur avendo competenze limitatissime, occupandosi quasi soltanto di una parte degli edifici scolastici e di strade minori.

La Lega dovrebbe allora negoziare l’abolizione delle province – per tagliare le tasse e favorire quel mondo produttivo che dovrebbe stare a cuore ai leghisti – con l’avvio di un autentico federalismo: che muti in modo radicale la struttura della fiscalità.
Nel corso dei cinque anni a venire si dovrebbe insomma dare a regioni e comuni la piena libertà di determinare l’entità del prelievo e, con essa, una completa autonomia di bilancio. Gli enti locali dovrebbero definire il loro sistema fiscale e chiedere direttamente ai cittadini i soldi di cui hanno bisogno, vincolati solo a destinare una quota limitata delle entrate al potere centrale.

In tal modo avremmo una ventina di sistemi tributari regionali indipendenti e in concorrenza, i quali sarebbero incentivati ad adottare le norme fiscali più semplici e le aliquote più basse per attirare imprese e capitali. Si porrebbe fine, insomma, a quella finanza derivata in virtù della quale oggi la maggior parte dei soldi affluisce a Roma e poi, secondo criteri contorti, prende la strada di Milano o Napoli.
L’autonomia fiscale e di bilancio è ciò che da tempo chiede quel Nord produttivo fatto di lavoratori, imprenditori e artigiani stanchi di essere tartassati e che egualmente vogliono che i proventi delle imposte restino nei loro territori.

Se il prossimo ministro dell’Economia sarà Giulio Tremonti, ci potrebbero essere le condizioni per avviare tale riforma, poiché egli conosce la materia e sa quindi dove mettere le mani per “elvetizzare” il sistema fiscale italiano. Per giunta, da tempo egli è una sorta di trait d’union tra la Lega e Forza Italia e quindi si trova nella migliore posizione per condurre in porto tale simile.
Questa riforma ridurrebbe la spesa pubblica e costringerebbe i centri di spesa periferici a rendere conto di quanto fanno. Ma soprattutto innescherebbe un processo virtuoso di competizione istituzionale che indurrebbe ogni ente locale a usare bene i soldi dei cittadini.

Una simile prospettiva dovrebbe piacere anche a Gianfranco Fini, che dopo la decisione di aderire al Pdl è chiamato a non schierarsi a difesa di logiche patriottarde: utili solo a ritardare il rinnovamento del Paese. Di recente il fondatore di An si è detto convinto della necessità di cedere una parte rilevante del patrimonio statale per ridurre il debito pubblico. Un’opinione sensata, senza dubbio. Ma proprio per questo egli dovrebbe apprezzare che gli enti locali chiedano direttamente ai cittadini le risorse di cui hanno bisogno.

Oltre ai già citati, c’è infine un quinto personaggio che potrebbe giocare un ruolo importante in questa vicenda: Raffaele Lombardo. Deciso a ridare orgoglio all’intero Sud, se sposasse le ragioni della concorrenza tributaria Lombardo potrebbe aprire la strada a un Mezzogiorno autonomo, pronto a farsi “paradiso fiscale” di quanti siano interessati a investire.

Nei prossimi cinque anni assisteremo davvero ad un’evoluzione di questo tipo? È improbabile.
È più facile prevedere che il sistema fiscale resterà sostanzialmente centralizzato e che le stesse province non saranno abolite. Se tali riforme dovessero ancora essere rinviate, però, sapremo almeno a quali uomini politici sono principalmente da addebitare le maggiori responsabilità.
Noi seguitiamo comunque a sperare che quella trasformazione avvenga davvero.

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