I tamburi rullano da tempo, annunciando tempi cupi per l’economia mondiale e, soprattutto, una radicale inversione di tendenza. È infatti evidente che non tutti siano in sofferenza per la grave finanziaria degli ultimi tempi, che negli Usa ha bruciato una cifra colossale vicina ai 1.000 miliardi di dollari. In particolare, mostrano una malcelata soddisfazione quanti sperano di poter cogliere questa occasione per rilanciare ulteriormente il loro ruolo nell’economia e moltiplicare la loro capacità d’intervento.

Non dobbiamo neppure scordare che anche nella remota provincia italica, lontana dai centri nevralgici dell’Impero, vi sono molti economisti che si sono costruiti sulla macroeconomia keynesiana e che da anni soffrono in silenzio. Negli anni passati, infatti, ben pochi si sono rivolti a loro per avere indicazioni sul da farsi.

Torneremo quindi a Keynes, come hanno pronosticato molti?
Forse non andrà così, dato che la teoria generale dell’interesse, dell’occupazione e della moneta è stata sviluppata dall’economista britannico più di mezzo secolo fa e appare poco indicata per far fronte ai problemi attuali. Ma è egualmente chiaro che nel G7 in corso a Washington uno dei temi più dibattuti sarà il ritorno in forze dello Stato nell’economia globale.

Lo scenario, per giunta, è davvero ricco di contrasti, dato che la Fed americana e la Bce europea non sono intenzionate a muoversi di concerto. A Francoforte non si ha voglia di abbassare i tassi di interesse e questo dipende soprattutto dal fatto che chi in passato ha avuto il marco non è disposto ad espandere la massa monetaria. Ciò è un bene, ma c’è da chiedersi per quanto tempo ancora il gruppo dei premier europei guidato Nicolas Sarkozy accetterà tutto questo.

Tensioni a parte, quello che si annuncia è un ritorno ad un intervento massiccio dello Stato: lo si è visto in Inghilterra (dove Gordon Brown ha nazionalizzato la Northern Rock) e anche negli Stati Uniti (dove è stata salvata la Bear Sterns). Questi maxi-salvataggi sono una notizia perfino peggiore delle previsioni, egualmente pessime, avanzate dal Fondo monetario internazionale, per il quale la crescita nell’area euro sarà solo dell’1,3% e ancora inferiore da noi (solo lo 0,3%).
La sensazione è che si vogliano mettere in discussione alcuni dei capisaldi dell’economia liberale: iniettando soldi pubblici nei mercati ed evitando il fallimento delle società malgestite. Si tratta di due strategie che qualcuno – il ministro dell’economia francese Christine Lagarde, ad esempio – vorrebbe anche istituzionalizzare con la creazione di un “fondo di stabilizzazione monetaria”.

Se queste sono le ricette immaginate, prepariamo ad altre e ben più seri problemi per i mesi a venire.
I salvataggi sono sbagliati per molte ragioni, ma in primo luogo perché le regole “materiali” di un sistema economico sono l’insieme dei comportamenti passati. Così, se si afferma l’idea che le grandi banche non possono fallire, è irragionevole aspettarsi comportamenti oculati da quanti sono incaricati di amministrarle. Va poi aggiunto che un’economia in cui i grandi istituti di credito sono istituzionalmente sotto l’ombrello protettivo dello Stato (grazie ai soldi di contribuenti ignari) è un’economia in cui gli istituti bancari maggiori sono per definizione in posizione privilegiata rispetto alle piccole realtà, che se hanno problemi vanno per aria.

Questo falsa la competizioni: è ingiusto, e pure distruttivo sul piano economico.
Anche l’idea di aumentare e intensificare il ruolo regolatorio di banche centrali e authority sembra inconsapevole del fatto che il disastro attuale è avvenuta entro un sistema finanziario già iper-regolato. Chi non mi crede, provi ad informarsi su come si fa ad aprire una banca.
La questione cruciale è che siamo nel bel mezzo di una grave crisi di fiducia. Sula base di questo, è ragionevole ritenere che un’iniezione di denaro pubblico possa risolvere il problema? Per nulla. Al contrario, bisogna ripartire dai fondamentali e ricreare quelle condizioni istituzionali che possono rimettere in sesto il mercato.

Per avere più trasparenza, però, bisogna che funzioni un sistema sanzionatorio. In altre parole, è necessario che chi sbaglia paghi e che quindi chi ha gestito malamente un’azienda fallisca. Esattamente come avviene negli altri settori. Perché solo se chi sbaglia ne risponde ed esce di scena, il sistema può risanarsi e indurre gli operatori a operare correttamente.

Il problema è che la risposta “più Stato” nasce da un’interpretazione erronea di quanto è successo. Come per la crisi del ’29, si ritiene di essere dinanzi ad una crollo del capitalismo, ignorando in tal modo il ruolo giocato dalla Fed.
Pochi sembrano consapevoli che se il costo del denaro non è definito dal mercato, ci sono da attendersi crisi a ripetizione. Qualcuno ricorda l’ultima bolla finanziaria, legata non all’immobiliare, ma alle dot-com informatiche? Anche allora si accusarono gli operatori finanziari (certo colpevoli di comportamenti imprevidenti), ma non si puntò il dito contro chi – la banca centrale americana – aveva tenuto una politica iper-espansiva e quindi aveva indotto a compiere quegli investimenti.

Il guaio è che le difficoltà degli americani stanno spingendo taluni europei a guardare con occhi nuovi il proprio modello “renano”: dimenticando il micidiale differenziale della crescita che da decenni divide i due lati dell’Atlantico. Al contrario, l’Europa ha bisogno di ripensarsi alla svelta: perché non siamo certo un modello “da esportazione”.

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