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  1. #1
    CON LA RESISTENZA!
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    "Il Ribelle è deciso ad opporre Resistenza. Il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata"
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    Thumbs up "Il Tibet come moda" di Giovanni Di Martino

    Il Tibet come moda
    :::: 16 Aprile 2008 :::: 89 T.U. :::: Analisi :::: Giovanni Di MartinoIntroduzione
    Le prossime olimpiadi estive, che vedono la Cina come paese ospitante, si stanno rivelando un'occasione troppo ghiotta per l'enfatizzazione di una nuova rivoluzione colorata. Un'occasione presa al volo e sfruttata per il meglio.
    Questa volta, però, lo spunto non viene da una battaglia del tutto artificiale, ma viene da una causa della quale anche chi non si si interessa di politica conosce (seppur male) gli attori, che sono la Repubblica Popolare Cinese ed la mite e ridente regione tibetana. La “causa” del Tibet, grazie ad una struttura propagandistica sapientemente organizzata, sta infatti a cuore a molta gente in occidente, grazie al volano rappresentato dalla sulfurea presenza del Dalai Lama in ogni dove, e soprattutto grazie alla conversione al buddismo di molti personaggi famosi. Il tutto dà del buddismo e del Tibet una confusa apparenza di omogenea pace e non violenza, che andrebbe, se non ribaltata, per lo meno rettificata.
    Oggi si chiede da più parti il boicottaggio delle olimpiadi cinesi (con scene davvero pietose, come il tentativo di strappare la fiaccola ad un'atleta sulla sedia a rotelle) per rilanciare la questione cino – tibetana, ed impedire che in uno stato nel quale non sono rispettati i diritti umani si possa svolgere la più importante ed antica manifestazione sportiva. I diritti umani colpiscono ancora, e sempre a senso unico. Si chiama “religione laica dei diritti umani e del politicamente corretto”, locuzione che si adatta molto bene al caso in esame. La religione appena citata, infatti, è una vera potenza transreligiosa, ed anche translaica e transagnostica, nel senso che ad aderire al suo dogma sono le persone più diverse e lontane tra loro. È una confessione molto forte, inoltre, perchè ne sono credenti e praticanti ultraortodossi quasi tutti i capi di stato del mondo e molti sportivi e personaggi dello spettacolo. Ciò spiega il successo mediatico dell'operazione di boicottaggio delle olimpiadi di Pechino, al punto che molti capi di stato e di governo si stanno interrogando sull'opportunità di presenziare o meno alle cerimonie olimpiche. Per inciso si tratta di politici che rappresentano paesi (dagli Stati Uniti alla Germania), che hanno già ospitato manifestazioni olimpiche, e nel contempo mancato di rispettare i dritti umani. In Italia, poi, è il ministro degli esteri uscente Massimo D'Alema (già capo del governo ai tempi del bombardamento di Belgrado, bombardamenti benedetti, tra gli altri, proprio dal Dalai Lama) a prendere posizione, o meglio a non escludere (con le solite abili formule curialesche che gli sono proprie) la diserzione delle cerimonie da parte delle autorità italiane (1).

    Conoscere politicamente la Cina
    Conoscere politicamente la Cina dovrebbe essere la premessa per poterne parlare, e dunque, visto che, partendo dal Tibet, si fa un gran parlare della Cina di oggi, tutti dovrebbero essere preparati in merito, ma così non è. La Cina di oggi viene presentata, infatti, come un paese che, dopo essere stato per tanti anni comunista, ha subito un'esplosione violenta e incontrollata di capitalismo che l'ha resa una miniera di prodotti a basso costo di fabbricazione con i quali presentarsi sul mercato e battere ogni concorrenza. Un popolo che dopo essere andato per anni in bicicletta indossando divise con il colletto alla coreana, si è messo da un giorno all'altro a costruire grattacieli e ad aprire sexy shop ed ora non si ferma più, a tal punto che da più parti si pensa che fosse meglio il comunismo di Mao e di Deng (come dire, almeno non ci davano fastidio sul mercato, mentre questi hanno represso così a lungo la propria voglia di consumismo che ora si sfogano ai nostri danni).
    La Cina all'occidentale, con i grattacieli e gli scantinati pieni di ragazzini che cuciono palloni è un mito da sfatare e in fretta. Anzitutto è sbagliata l'analisi che va per la maggiore circa il percorso politico della Cina degli ultimi anni. La Cina, infatti, non è un paese guidato da un regime di comunismo storico novecentesco dove, a seguito dell'implosione del comunismo nella casa madre sovietica, si sono scoperte le gioie del capitalismo incontrollato. É tutt'altro. Il percorso appena descritto è in realtà quanto successo nell'ultimo ventennio (e con esiti devastanti) in altri paesi, soprattutto dell'est europeo, ma non in Cina. Ma per rendersi conto di ciò occorre fare una piccola premessa sul comunismo cinese.
    Le differenze tra il comunismo cinese e il comunismo sovietico e dell'Europa orientale sono sostanziali. Si tratta, in entrambi i casi di comunismo storico novecentesco, ossia di concrete applicazioni del comunismo a situazioni contingenti, che però sono diversissime tra loro. E dunque il modello richiede delle modifiche sul campo. Questa è la prima sostanziale differenza tra comunismo eurosovietico e maoismo. In Cina il comunismo non sorge spontaneamente in un contesto di capitalismo maturo, come avrebbero voluto Marx e i menscevichi, né si instaura in un contesto di capitalismo immaturo grazie ad una elite rivoluzionaria, come hanno fatto Lenin e i bolscevichi. Né si instaura su un modello feudale che ha saltato la fase capitalistica per estrema arretratezza. In Cina il comunismo si instaura su un modello di produzione asiatico (fattore del quale Marx ha comunque tenuto conto), e quindi differente da quello europeo. Un modello di produzione che lascia alle comunità contadine una autonomia produttiva, senza però che essi siano proprietari della terra. Questa la prima osservazione da tenere presente quando si parla di comunismo in Cina, e grazie alla quale si può comprendere quali grandi differenze ci siano tra esso e gli altri comunismi storici novecenteschi (2).
    La seconda grande differenza tra il comunismo di Mao e gli altri, sta nell'avere ossessivamente teorizzato, e cercato invano di reprimere, l'imborghesimento degli apparati di partito. Imborghesimento che negli anni ottanta e novanta si è fisiologicamente verificato.
    Tuttavia la Cina di oggi non è il frutto dell'imborghesimento degli apparati del partito comunista di terza e quarta generazione che ha fatto sì che il capitalismo si espandesse. É qualcosa di differente, e va analizzato per quello che è, perchè non si tratta di un modello politico inquadrabile sulla base di paradigmi già esistenti e solo da comporre nel modo più adatto. Si tratta di un nuovo modello politico, con il quale occorrerà, nel bene e nel male, fare i conti.
    Ora, è evidente che il modo di produzione capitalistico è diventato dominante nella Cina degli ultimi 15 anni. Il socialismo, però, è ben lungi dall'essere scomparso, anzi, si è solamente rinnovato ed adattato. In Cina si può e si deve dunque ancora parlare di socialismo, ma con le dovute precisazioni. A seguito del crollo dell'Unione Sovietica, infatti, le autorità cinesi non si sono arroccate come ultimo baluardo di un sogno svanito in attesa che venisse il proprio turno, ma hanno pensato ad una possibilità per evitare di finire come l'Urss e i suoi satelliti.
    La soluzione (suggerita anche da economisti ex sovietici, sperimentata a metà degli anni novanta, e valutabile solo tra moltissimi anni) è stata quella di una apertura controllata al capitalismo ed al suo modo di produzione, consentendo però al partito comunista di mantenere ben saldo il bastone del comando. Il che sta facendo registrare effetti interessanti dal punto di vista dei rapporti sociali (e per questa ragione è corretto, a mio avviso, parlare ancora di socialismo): anzitutto c'è stato recentemente un aumento medio superiore al 10 % dei salari; in secondo luogo sono state ammesse rappresentanze sindacali in filiali cinesi di multinazionali che mai hanno accettato i sindacati nelle proprie filiali in giro per il mondo. Ciò non significa che lo sfruttamento insito nel modo di produzione capitalistico non sia dietro l'angolo, ma comunque il tutto non è poco. Anche perchè il tutto accade in un paese estremamente eterogeneo e con un miliardo di abitanti, politicamente nel tempo isolato e soprattutto obbligato, per difendersi dalle minacce statunitensi, a generare nel minore tempo possibile nuove forze produttive.
    É dunque del tutto errato parlare di una Cina ultracapitalista e consumista in modo sfrenato e sregolato, così come è sbagliato parlare di un capitalismo di stato (quella era probabilmente l'Urss, come già Bordiga sessant'anni fa la definiva) o, peggio, di un liberal – comunismo. Sono tutte, bene o male, categorie politiche vecchie e mal riadattate. La Cina di oggi ha generato un paradigma nuovo, una specie di capitalismo pianificato, che come tale andrebbe trattato.

    Le istanze tibetane di oggi e il loro valore geopolitico: tra identità ed identitarismo
    Molti di coloro che vedono la Cina di oggi come un nuovo mostro capitalista e niente più sono soliti fare con semplicità l'equazione Cina = Usa, partendo dalla quale possono abbracciare la causa tibetana, anche senza avere mai avuto a cuore il Tibet, in quanto ritengono che la Cina di oggi non vada semplicemente difesa.
    La Cina invade ed occupa militarmente il Tibet a cominciare dal 1949, reprime le rivolte degli autoctoni, nel tempo, anche con molta cruenza. Appoggiare la Cina nella questione Tibet oggi non significa negare le responsabilità e gli eccessi della repressione cinesi, anche attuali. Per completezza andrebbe ricordato anche che il Tibet, fino all'invasione cinese, era uno stato teocratico abbastanza violento ed arretrato, senza strutture e colmo di analfabeti, passando l'unica opportunità di imparare a leggere e a scrivere attraverso la carriera monastica. Resta poi il fatto che l'equazione Tibet = Dalai Lama è artificiale ed imposta dalla vistosa risonanza mediatica del secondo. Le sette monastiche, nel Tibet di oggi, sono diverse e in lotta tra loro (a volte anche a colpi di cannone, con buona pace della proverbiale tolleranza e non violenza solitamente ad esse accostate).
    Ma trascinando il problema sul terreno della geopolitica, la rivolta del Tibet, soprattutto oggi, ha lo stesso sapore delle rivoluzioni colorate che sono scoppiate negli ultimi anni attorno alla Russia. Isolare la Russia accerchiandola, infatti, soprattutto da quando è in netta ripresa come potenza mondiale, è il disegno non troppo celato degli Stati Uniti, come dimostrano le vicende ucraine, cecene, etc. E isolare politicamente la Cina, altra potenza in crescita, nonché, dopo tanti anni, nuovamente in accordi con la Russia, è la seconda parte del piano statunitense di difesa dei propri interessi. Così, forse, si capirebbe come mai alcune lotte identitarie hanno enfasi mediatica eccessiva (Tibet, Cecenia, Kosovo...) ed altre non ne hanno per nulla (basta come esempio la Palestina?). Occorre dunque, prima di appoggiare qualunque rivendicazione sulla base di un non ben definito principio identitario, distinguere le lotte identitarie da quelle identitariste, ossia quelle lotte che, prendendo spunto dalla questione identitaria, sottendono un diverso scopo di fondo. Anche perchè molto spesso, se non sempre, il diverso scopo di fondo è il principio del divide et impera, che i lettori di Eurasia molto ben conoscono, e che è il cardine della politica estera americana. Favorire separatismi locali anche dove non ci sono, per indebolire il più possibile il potenziale nemico.
    È evidente, per esempio, che nel corso del tempo il comportamento dei russi in Cecenia sia stato a volte deplorevole, lo ha ammesso molto intelligentemente lo stesso Putin davanti al parlamento ceceno appena eletto. Così come è indubbio che nel cuore di alcuni separatisti ceceni ci sia un sentimento puro di indipendenza nazionale. Ma occorre guardare oltre, come, sempre nello stesso discorso, ha invitato a fare Putin. E come soprattutto stanno facendo coloro che fomentano e finanziano da fuori la rivolta cecena. La Cecenia indipendente significa basi Nato nel cuore del vecchio continente e missili puntati su Mosca da molto vicino. Allo stesso modo, il Tibet indipendente (oltre all'esposizione a una nuova possibile teocrazia violenta) significherebbe basi Nato al centro dell'Asia e missili puntati su Mosca. Questa è probabilmente la ragione principale per non cadere nella trappola dell'appoggio al Tibet ed alla sua causa. Una trappola ben architettata, pronta a far passare i cinesi come i cattivi a tutto tondo e i tibetani come i buoni (come nelle migliori pellicole hollywoodiane), il tutto attraverso i viaggi del Dalai Lama, accolto da Bush come un familiare (ed in effetti uscito dal Tibet grazie alla CIA) (3).
    In un recente ed infruttuoso carteggio privato che ho avuto con Giovanni Vuono, rappresentante dell'associazione Italia – Tibet, quest'ultimo replicava alle mie affermazioni circa i rischi di una base Nato al centro dell'Asia, affermando che in Cina le basi ci sono già e da esse i missili sono puntati contro la Russia, l'India e l'Europa. Mi sono limitato a fargli rilevare come un missile cinese in una base militare cinese in Cina sia cosa diversa da un missile americano in una base militare americana in Cina, ma non ha colto la “sfumatura”, né ha voluto rispondere alle mie reiterate domande sul divide et impera, parlando sempre e solo dei famosi diritti umani. Poco importa quindi che la Cina non abbia, negli ultimi settant'anni aggredito altri stati sovrani in giro per il mondo: l'accostamento agli Stati Uniti sembra a molti perfetto, e questa è anche una conseguenza inevitabile della cattiva conoscenza della situazione politica cinese.
    In conclusione, la lotta di liberazione del Tibet, così come oggi viene presentata, è costruita a tavolino da fuori e dunque va accostata alle altre simili (rivoluzioni arancioni, Cecenia, Kosovo...), e soprattutto va distinta dalle lotte dei popoli la cui liberazione non produce alcun vantaggio politico o economico per gli Stati Uniti e dunque sono lasciati a sé dai media euroccidentali, quando non addirittura vilipesi e fatti passare per ciò che non sono: i Palestinesi sono dentro un tombino e prendono luce da una grata sull'asfalto, il Tibet prende luce dalla vetrina del negozio di lusso che lo espone. Le differenze, formali e sostanziali tra le due cause sono evidenti, quindi ogni accostamento fatto in questi giorni è fuori luogo.

    Il boicottaggio olimpico e la coscienza dei vip
    E arriviamo al giorno d'oggi, dove il buddismo è moda e la causa del Tibet deve diventare la causa di tutti. E dove i personaggi dello spettacolo (da Maurizio Costanzo ad Enrico Bertolino) non perdono l'occasione di concludere una puntata dei propri programmi gridando “W il Tibet”.
    Come scritto nell'introduzione, le olimpiadi di Pechino dell'estate 2008 sono la vetrina perfetta per una causa che sta a cuore a molti. Giornali, programmi televisivi, siti internet ed innumerevoli politici ed intellettuali hanno fatto propria la questione del boicottaggio, sull'onda della moda e della propria fede nella religione laica dei diritti umani e del politicamente corretto. E l'apporto che stanno dando alla causa è notevole, proprio nel campo a loro più congeniale, quello della mistificazione: come dimenticare i servizi televisivi sulle repressioni della polizia cinese con i monaci ed i manifestanti caricati sulle camionette da poliziotti palesemente non cinesi? A me, per esempio, lo avevano insegnato all'asilo a riconoscere i cinesi dagli occhi mandorla, occhi a mandorla che quei poliziotti visti in televisione non sempre hanno.
    Per esempio Pero Chiambretti, che appartiene a quella schiera di comici televisivi di successo che percorrono strade scomode, ha dedicato uno speciale del suo programma alla causa tibetana ed alla necessità del boicottaggio olimpico, intervistando l'ex campione Pietro Mennea, il quale, con la sua voce da pugile sonato tipo Gassman nell'ultimo episodio del film “I mostri”, ha spiegato che il CIO (= il comitato olimpico) è un'azienda multinazionale, dedita solo all'accumulo di profitti senza rispettare alcuna pregiudiziale etica. L'opinione di Mennea sul CIO è probabilmente corretta, ma va riflettuto sul fatto che le olimpiadi, certo ben lontane dallo spirito sportivo che le dovrebbe animare, rappresentano l'unica occasione di gloria per molti atleti non miliardari e non europei o americani. A nessuno viene mai in mente, per esempio, di boicottare un gran premio di formula 1 o un campionato mondiale di calcio, anche se l'etica lo imporrebbe e come. L'esempio dell'Italia campione del mondo di calcio nel 2006 è perfetto: la nazionale italiana, guidata da Marcello Lippi, ha vinto il campionato del mondo di calcio in estate, rappresentando un campionato di serie A concluso poco prima con la retrocessione a tavolino per illecito sportivo della squadra arrivata prima in classifica, squadra che ha dato alla nazionale campione più di un giocatore (4).
    Tornando a Chiambretti poi, verrebbe proprio da chiedersi dove si trovasse quando, sempre nel 2006 e poco prima del trionfo mondiale della nazionale di Lippi, la città in cui è nato e in cui risiede (e di cui il Dalai Lama è cittadino onorario) ospitava le olimpiadi invernali, indebitandosi per l'eternità grazie alla firma di un contratto capestro proprio con il CIO, sottoscritto dall'ex sindaco torinese Castellani nel 1999. Un contratto che nessun torinese (nemmeno i consiglieri comunali) si è preso la briga di leggere prima di sottoscriverlo, altrimenti mai sarebbe stato accettato (5).
    Non si può trascurare, a conclusione di questo breve articolo, che ci sono alcuni intellettuali di alta statura non troppo sprovveduti, o semplicemente non in malafede, che, anche per ragioni differenti tra loro, hanno scelto di non cadere nella trappola del Tibet come moda, aderendo, anche a costo dell'impopolarità, all'appello del filosofo Gianni Vattimo: tra i primi firmatari del manifesto contro una visione unilaterale della questione cino – tibetana ci sono Domenico Losurdo, Angelo D'Orsi, Luciano Canfora, Carlo Ferdinando Russo, Fulvio Grimaldi, Gianfranco La Grassa e Costanzo Preve.





    1. La dichiarazione di D'Alema è riportata su LA STAMPA del 8 aprile 2008. Sempre a proposito del bombardamento di Belgrado, occorre ricordare che l'ultima olimpiade tenutasi prima di esso vedeva come paese ospitante gli Stati Uniti (Atlanta 1996). In entrambe le occasioni (l'olimpiade ed il bombardamento) presidente degli Stati Uniti era Bill Clinton (la cui moglie chiede oggi a gran voce la diserzione delle autorità americane alle cerimonie olimpiche), mentre vice presidente era il premio Nobel per la pace Al Gore.
    2. L'analisi delle differenze e delle peculiarità del comunismo cinese rispetto agli altri comunismi storici novecenteschi è da me qui stata volutamente semplificata, visto che lo scopo di questa breve parentesi è di fornire al lettore un quadro della Cina il più lontano possibile dagli errati luoghi comuni che oggi circolano. Per un'analisi dettagliata e ricca di spunti sul maoismo, C. PREVE, Il maoismo, www.kelebekler.com/occ/mao01.htm.
    3. Per una panoramica completa e lontana dalle agiografie della stampa di oggi sul Dalai Lama, si suggerisce D. LOSURDO, Chi è il Dalai Lama?, in “L'Ernesto”, n. 6/2003, del 01.11.2003.
    4. Per farsi un'idea completa sulla moralità e sull'onestà del calcio professionistico italiano si rimanda all'opera omnia dell'ex calciatore professionista Carlo Petrini, pubblicata dalla Kaos Edizioni.
    5. Il testo integrale del contratto si trova su nolimpiadi.8m.com/contratto.html.


    http://www.eurasia-rivista.org/cogit...CzjMxMHV.shtml



    Davvero un'ottima analisi.
    Bravo Giovanni!

  2. #2
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  3. #3
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    Citazione Originariamente Scritto da LupaNera Visualizza Messaggio
    Il Tibet come moda
    :::: 16 Aprile 2008 :::: 89 T.U. :::: Analisi :::: Giovanni Di MartinoIntroduzione
    Le prossime olimpiadi estive, che vedono la Cina come paese ospitante, si stanno rivelando un'occasione troppo ghiotta per l'enfatizzazione di una nuova rivoluzione colorata. Un'occasione presa al volo e sfruttata per il meglio.
    Questa volta, però, lo spunto non viene da una battaglia del tutto artificiale, ma viene da una causa della quale anche chi non si si interessa di politica conosce (seppur male) gli attori, che sono la Repubblica Popolare Cinese ed la mite e ridente regione tibetana. La “causa” del Tibet, grazie ad una struttura propagandistica sapientemente organizzata, sta infatti a cuore a molta gente in occidente, grazie al volano rappresentato dalla sulfurea presenza del Dalai Lama in ogni dove, e soprattutto grazie alla conversione al buddismo di molti personaggi famosi. Il tutto dà del buddismo e del Tibet una confusa apparenza di omogenea pace e non violenza, che andrebbe, se non ribaltata, per lo meno rettificata.
    Oggi si chiede da più parti il boicottaggio delle olimpiadi cinesi (con scene davvero pietose, come il tentativo di strappare la fiaccola ad un'atleta sulla sedia a rotelle) per rilanciare la questione cino – tibetana, ed impedire che in uno stato nel quale non sono rispettati i diritti umani si possa svolgere la più importante ed antica manifestazione sportiva. I diritti umani colpiscono ancora, e sempre a senso unico. Si chiama “religione laica dei diritti umani e del politicamente corretto”, locuzione che si adatta molto bene al caso in esame. La religione appena citata, infatti, è una vera potenza transreligiosa, ed anche translaica e transagnostica, nel senso che ad aderire al suo dogma sono le persone più diverse e lontane tra loro. È una confessione molto forte, inoltre, perchè ne sono credenti e praticanti ultraortodossi quasi tutti i capi di stato del mondo e molti sportivi e personaggi dello spettacolo. Ciò spiega il successo mediatico dell'operazione di boicottaggio delle olimpiadi di Pechino, al punto che molti capi di stato e di governo si stanno interrogando sull'opportunità di presenziare o meno alle cerimonie olimpiche. Per inciso si tratta di politici che rappresentano paesi (dagli Stati Uniti alla Germania), che hanno già ospitato manifestazioni olimpiche, e nel contempo mancato di rispettare i dritti umani. In Italia, poi, è il ministro degli esteri uscente Massimo D'Alema (già capo del governo ai tempi del bombardamento di Belgrado, bombardamenti benedetti, tra gli altri, proprio dal Dalai Lama) a prendere posizione, o meglio a non escludere (con le solite abili formule curialesche che gli sono proprie) la diserzione delle cerimonie da parte delle autorità italiane (1).

    Conoscere politicamente la Cina
    Conoscere politicamente la Cina dovrebbe essere la premessa per poterne parlare, e dunque, visto che, partendo dal Tibet, si fa un gran parlare della Cina di oggi, tutti dovrebbero essere preparati in merito, ma così non è. La Cina di oggi viene presentata, infatti, come un paese che, dopo essere stato per tanti anni comunista, ha subito un'esplosione violenta e incontrollata di capitalismo che l'ha resa una miniera di prodotti a basso costo di fabbricazione con i quali presentarsi sul mercato e battere ogni concorrenza. Un popolo che dopo essere andato per anni in bicicletta indossando divise con il colletto alla coreana, si è messo da un giorno all'altro a costruire grattacieli e ad aprire sexy shop ed ora non si ferma più, a tal punto che da più parti si pensa che fosse meglio il comunismo di Mao e di Deng (come dire, almeno non ci davano fastidio sul mercato, mentre questi hanno represso così a lungo la propria voglia di consumismo che ora si sfogano ai nostri danni).
    La Cina all'occidentale, con i grattacieli e gli scantinati pieni di ragazzini che cuciono palloni è un mito da sfatare e in fretta. Anzitutto è sbagliata l'analisi che va per la maggiore circa il percorso politico della Cina degli ultimi anni. La Cina, infatti, non è un paese guidato da un regime di comunismo storico novecentesco dove, a seguito dell'implosione del comunismo nella casa madre sovietica, si sono scoperte le gioie del capitalismo incontrollato. É tutt'altro. Il percorso appena descritto è in realtà quanto successo nell'ultimo ventennio (e con esiti devastanti) in altri paesi, soprattutto dell'est europeo, ma non in Cina. Ma per rendersi conto di ciò occorre fare una piccola premessa sul comunismo cinese.
    Le differenze tra il comunismo cinese e il comunismo sovietico e dell'Europa orientale sono sostanziali. Si tratta, in entrambi i casi di comunismo storico novecentesco, ossia di concrete applicazioni del comunismo a situazioni contingenti, che però sono diversissime tra loro. E dunque il modello richiede delle modifiche sul campo. Questa è la prima sostanziale differenza tra comunismo eurosovietico e maoismo. In Cina il comunismo non sorge spontaneamente in un contesto di capitalismo maturo, come avrebbero voluto Marx e i menscevichi, né si instaura in un contesto di capitalismo immaturo grazie ad una elite rivoluzionaria, come hanno fatto Lenin e i bolscevichi. Né si instaura su un modello feudale che ha saltato la fase capitalistica per estrema arretratezza. In Cina il comunismo si instaura su un modello di produzione asiatico (fattore del quale Marx ha comunque tenuto conto), e quindi differente da quello europeo. Un modello di produzione che lascia alle comunità contadine una autonomia produttiva, senza però che essi siano proprietari della terra. Questa la prima osservazione da tenere presente quando si parla di comunismo in Cina, e grazie alla quale si può comprendere quali grandi differenze ci siano tra esso e gli altri comunismi storici novecenteschi (2).
    La seconda grande differenza tra il comunismo di Mao e gli altri, sta nell'avere ossessivamente teorizzato, e cercato invano di reprimere, l'imborghesimento degli apparati di partito. Imborghesimento che negli anni ottanta e novanta si è fisiologicamente verificato.
    Tuttavia la Cina di oggi non è il frutto dell'imborghesimento degli apparati del partito comunista di terza e quarta generazione che ha fatto sì che il capitalismo si espandesse. É qualcosa di differente, e va analizzato per quello che è, perchè non si tratta di un modello politico inquadrabile sulla base di paradigmi già esistenti e solo da comporre nel modo più adatto. Si tratta di un nuovo modello politico, con il quale occorrerà, nel bene e nel male, fare i conti.
    Ora, è evidente che il modo di produzione capitalistico è diventato dominante nella Cina degli ultimi 15 anni. Il socialismo, però, è ben lungi dall'essere scomparso, anzi, si è solamente rinnovato ed adattato. In Cina si può e si deve dunque ancora parlare di socialismo, ma con le dovute precisazioni. A seguito del crollo dell'Unione Sovietica, infatti, le autorità cinesi non si sono arroccate come ultimo baluardo di un sogno svanito in attesa che venisse il proprio turno, ma hanno pensato ad una possibilità per evitare di finire come l'Urss e i suoi satelliti.
    La soluzione (suggerita anche da economisti ex sovietici, sperimentata a metà degli anni novanta, e valutabile solo tra moltissimi anni) è stata quella di una apertura controllata al capitalismo ed al suo modo di produzione, consentendo però al partito comunista di mantenere ben saldo il bastone del comando. Il che sta facendo registrare effetti interessanti dal punto di vista dei rapporti sociali (e per questa ragione è corretto, a mio avviso, parlare ancora di socialismo): anzitutto c'è stato recentemente un aumento medio superiore al 10 % dei salari; in secondo luogo sono state ammesse rappresentanze sindacali in filiali cinesi di multinazionali che mai hanno accettato i sindacati nelle proprie filiali in giro per il mondo. Ciò non significa che lo sfruttamento insito nel modo di produzione capitalistico non sia dietro l'angolo, ma comunque il tutto non è poco. Anche perchè il tutto accade in un paese estremamente eterogeneo e con un miliardo di abitanti, politicamente nel tempo isolato e soprattutto obbligato, per difendersi dalle minacce statunitensi, a generare nel minore tempo possibile nuove forze produttive.
    É dunque del tutto errato parlare di una Cina ultracapitalista e consumista in modo sfrenato e sregolato, così come è sbagliato parlare di un capitalismo di stato (quella era probabilmente l'Urss, come già Bordiga sessant'anni fa la definiva) o, peggio, di un liberal – comunismo. Sono tutte, bene o male, categorie politiche vecchie e mal riadattate. La Cina di oggi ha generato un paradigma nuovo, una specie di capitalismo pianificato, che come tale andrebbe trattato.

    Le istanze tibetane di oggi e il loro valore geopolitico: tra identità ed identitarismo
    Molti di coloro che vedono la Cina di oggi come un nuovo mostro capitalista e niente più sono soliti fare con semplicità l'equazione Cina = Usa, partendo dalla quale possono abbracciare la causa tibetana, anche senza avere mai avuto a cuore il Tibet, in quanto ritengono che la Cina di oggi non vada semplicemente difesa.
    La Cina invade ed occupa militarmente il Tibet a cominciare dal 1949, reprime le rivolte degli autoctoni, nel tempo, anche con molta cruenza. Appoggiare la Cina nella questione Tibet oggi non significa negare le responsabilità e gli eccessi della repressione cinesi, anche attuali. Per completezza andrebbe ricordato anche che il Tibet, fino all'invasione cinese, era uno stato teocratico abbastanza violento ed arretrato, senza strutture e colmo di analfabeti, passando l'unica opportunità di imparare a leggere e a scrivere attraverso la carriera monastica. Resta poi il fatto che l'equazione Tibet = Dalai Lama è artificiale ed imposta dalla vistosa risonanza mediatica del secondo. Le sette monastiche, nel Tibet di oggi, sono diverse e in lotta tra loro (a volte anche a colpi di cannone, con buona pace della proverbiale tolleranza e non violenza solitamente ad esse accostate).
    Ma trascinando il problema sul terreno della geopolitica, la rivolta del Tibet, soprattutto oggi, ha lo stesso sapore delle rivoluzioni colorate che sono scoppiate negli ultimi anni attorno alla Russia. Isolare la Russia accerchiandola, infatti, soprattutto da quando è in netta ripresa come potenza mondiale, è il disegno non troppo celato degli Stati Uniti, come dimostrano le vicende ucraine, cecene, etc. E isolare politicamente la Cina, altra potenza in crescita, nonché, dopo tanti anni, nuovamente in accordi con la Russia, è la seconda parte del piano statunitense di difesa dei propri interessi. Così, forse, si capirebbe come mai alcune lotte identitarie hanno enfasi mediatica eccessiva (Tibet, Cecenia, Kosovo...) ed altre non ne hanno per nulla (basta come esempio la Palestina?). Occorre dunque, prima di appoggiare qualunque rivendicazione sulla base di un non ben definito principio identitario, distinguere le lotte identitarie da quelle identitariste, ossia quelle lotte che, prendendo spunto dalla questione identitaria, sottendono un diverso scopo di fondo. Anche perchè molto spesso, se non sempre, il diverso scopo di fondo è il principio del divide et impera, che i lettori di Eurasia molto ben conoscono, e che è il cardine della politica estera americana. Favorire separatismi locali anche dove non ci sono, per indebolire il più possibile il potenziale nemico.
    È evidente, per esempio, che nel corso del tempo il comportamento dei russi in Cecenia sia stato a volte deplorevole, lo ha ammesso molto intelligentemente lo stesso Putin davanti al parlamento ceceno appena eletto. Così come è indubbio che nel cuore di alcuni separatisti ceceni ci sia un sentimento puro di indipendenza nazionale. Ma occorre guardare oltre, come, sempre nello stesso discorso, ha invitato a fare Putin. E come soprattutto stanno facendo coloro che fomentano e finanziano da fuori la rivolta cecena. La Cecenia indipendente significa basi Nato nel cuore del vecchio continente e missili puntati su Mosca da molto vicino. Allo stesso modo, il Tibet indipendente (oltre all'esposizione a una nuova possibile teocrazia violenta) significherebbe basi Nato al centro dell'Asia e missili puntati su Mosca. Questa è probabilmente la ragione principale per non cadere nella trappola dell'appoggio al Tibet ed alla sua causa. Una trappola ben architettata, pronta a far passare i cinesi come i cattivi a tutto tondo e i tibetani come i buoni (come nelle migliori pellicole hollywoodiane), il tutto attraverso i viaggi del Dalai Lama, accolto da Bush come un familiare (ed in effetti uscito dal Tibet grazie alla CIA) (3).
    In un recente ed infruttuoso carteggio privato che ho avuto con Giovanni Vuono, rappresentante dell'associazione Italia – Tibet, quest'ultimo replicava alle mie affermazioni circa i rischi di una base Nato al centro dell'Asia, affermando che in Cina le basi ci sono già e da esse i missili sono puntati contro la Russia, l'India e l'Europa. Mi sono limitato a fargli rilevare come un missile cinese in una base militare cinese in Cina sia cosa diversa da un missile americano in una base militare americana in Cina, ma non ha colto la “sfumatura”, né ha voluto rispondere alle mie reiterate domande sul divide et impera, parlando sempre e solo dei famosi diritti umani. Poco importa quindi che la Cina non abbia, negli ultimi settant'anni aggredito altri stati sovrani in giro per il mondo: l'accostamento agli Stati Uniti sembra a molti perfetto, e questa è anche una conseguenza inevitabile della cattiva conoscenza della situazione politica cinese.
    In conclusione, la lotta di liberazione del Tibet, così come oggi viene presentata, è costruita a tavolino da fuori e dunque va accostata alle altre simili (rivoluzioni arancioni, Cecenia, Kosovo...), e soprattutto va distinta dalle lotte dei popoli la cui liberazione non produce alcun vantaggio politico o economico per gli Stati Uniti e dunque sono lasciati a sé dai media euroccidentali, quando non addirittura vilipesi e fatti passare per ciò che non sono: i Palestinesi sono dentro un tombino e prendono luce da una grata sull'asfalto, il Tibet prende luce dalla vetrina del negozio di lusso che lo espone. Le differenze, formali e sostanziali tra le due cause sono evidenti, quindi ogni accostamento fatto in questi giorni è fuori luogo.

    Il boicottaggio olimpico e la coscienza dei vip
    E arriviamo al giorno d'oggi, dove il buddismo è moda e la causa del Tibet deve diventare la causa di tutti. E dove i personaggi dello spettacolo (da Maurizio Costanzo ad Enrico Bertolino) non perdono l'occasione di concludere una puntata dei propri programmi gridando “W il Tibet”.
    Come scritto nell'introduzione, le olimpiadi di Pechino dell'estate 2008 sono la vetrina perfetta per una causa che sta a cuore a molti. Giornali, programmi televisivi, siti internet ed innumerevoli politici ed intellettuali hanno fatto propria la questione del boicottaggio, sull'onda della moda e della propria fede nella religione laica dei diritti umani e del politicamente corretto. E l'apporto che stanno dando alla causa è notevole, proprio nel campo a loro più congeniale, quello della mistificazione: come dimenticare i servizi televisivi sulle repressioni della polizia cinese con i monaci ed i manifestanti caricati sulle camionette da poliziotti palesemente non cinesi? A me, per esempio, lo avevano insegnato all'asilo a riconoscere i cinesi dagli occhi mandorla, occhi a mandorla che quei poliziotti visti in televisione non sempre hanno.
    Per esempio Pero Chiambretti, che appartiene a quella schiera di comici televisivi di successo che percorrono strade scomode, ha dedicato uno speciale del suo programma alla causa tibetana ed alla necessità del boicottaggio olimpico, intervistando l'ex campione Pietro Mennea, il quale, con la sua voce da pugile sonato tipo Gassman nell'ultimo episodio del film “I mostri”, ha spiegato che il CIO (= il comitato olimpico) è un'azienda multinazionale, dedita solo all'accumulo di profitti senza rispettare alcuna pregiudiziale etica. L'opinione di Mennea sul CIO è probabilmente corretta, ma va riflettuto sul fatto che le olimpiadi, certo ben lontane dallo spirito sportivo che le dovrebbe animare, rappresentano l'unica occasione di gloria per molti atleti non miliardari e non europei o americani. A nessuno viene mai in mente, per esempio, di boicottare un gran premio di formula 1 o un campionato mondiale di calcio, anche se l'etica lo imporrebbe e come. L'esempio dell'Italia campione del mondo di calcio nel 2006 è perfetto: la nazionale italiana, guidata da Marcello Lippi, ha vinto il campionato del mondo di calcio in estate, rappresentando un campionato di serie A concluso poco prima con la retrocessione a tavolino per illecito sportivo della squadra arrivata prima in classifica, squadra che ha dato alla nazionale campione più di un giocatore (4).
    Tornando a Chiambretti poi, verrebbe proprio da chiedersi dove si trovasse quando, sempre nel 2006 e poco prima del trionfo mondiale della nazionale di Lippi, la città in cui è nato e in cui risiede (e di cui il Dalai Lama è cittadino onorario) ospitava le olimpiadi invernali, indebitandosi per l'eternità grazie alla firma di un contratto capestro proprio con il CIO, sottoscritto dall'ex sindaco torinese Castellani nel 1999. Un contratto che nessun torinese (nemmeno i consiglieri comunali) si è preso la briga di leggere prima di sottoscriverlo, altrimenti mai sarebbe stato accettato (5).
    Non si può trascurare, a conclusione di questo breve articolo, che ci sono alcuni intellettuali di alta statura non troppo sprovveduti, o semplicemente non in malafede, che, anche per ragioni differenti tra loro, hanno scelto di non cadere nella trappola del Tibet come moda, aderendo, anche a costo dell'impopolarità, all'appello del filosofo Gianni Vattimo: tra i primi firmatari del manifesto contro una visione unilaterale della questione cino – tibetana ci sono Domenico Losurdo, Angelo D'Orsi, Luciano Canfora, Carlo Ferdinando Russo, Fulvio Grimaldi, Gianfranco La Grassa e Costanzo Preve.





    1. La dichiarazione di D'Alema è riportata su LA STAMPA del 8 aprile 2008. Sempre a proposito del bombardamento di Belgrado, occorre ricordare che l'ultima olimpiade tenutasi prima di esso vedeva come paese ospitante gli Stati Uniti (Atlanta 1996). In entrambe le occasioni (l'olimpiade ed il bombardamento) presidente degli Stati Uniti era Bill Clinton (la cui moglie chiede oggi a gran voce la diserzione delle autorità americane alle cerimonie olimpiche), mentre vice presidente era il premio Nobel per la pace Al Gore.
    2. L'analisi delle differenze e delle peculiarità del comunismo cinese rispetto agli altri comunismi storici novecenteschi è da me qui stata volutamente semplificata, visto che lo scopo di questa breve parentesi è di fornire al lettore un quadro della Cina il più lontano possibile dagli errati luoghi comuni che oggi circolano. Per un'analisi dettagliata e ricca di spunti sul maoismo, C. PREVE, Il maoismo, www.kelebekler.com/occ/mao01.htm.
    3. Per una panoramica completa e lontana dalle agiografie della stampa di oggi sul Dalai Lama, si suggerisce D. LOSURDO, Chi è il Dalai Lama?, in “L'Ernesto”, n. 6/2003, del 01.11.2003.
    4. Per farsi un'idea completa sulla moralità e sull'onestà del calcio professionistico italiano si rimanda all'opera omnia dell'ex calciatore professionista Carlo Petrini, pubblicata dalla Kaos Edizioni.
    5. Il testo integrale del contratto si trova su nolimpiadi.8m.com/contratto.html.


    http://www.eurasia-rivista.org/cogit...CzjMxMHV.shtml



    Davvero un'ottima analisi.
    Bravo Giovanni!
    poi, pubblicata su €urasia ...è ancora più ottima

  4. #4
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    a prescindere.

  5. #5
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    ...e l'avevo già postata ieri, trallel€uro, trallalà !!

  6. #6
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    a prescindere.
    sei veramente un vietcong

  7. #7
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    Predefinito Io so' l'autore

    E' significativo, ma non ho ancora capito di che cosa, il fatto che l'articolo non abbia ricevuto un solo commento (tranne uno nel post inserito da Stan), ad eccezione di chi, come Stan o Lupa, lo abbiano già letto in privato.
    Ne deduco che:

    - o sono riuscito a scrivere un testo così perfetto che le argomentazioni filotibetane che si sono sprecate su questo forum nei giorni scorsi si sono sciolte come neve al sole (anche perchè erano del tipo "le SS stavano col buddismo" oppure "la Cina è comunista, anzi capitalista, comunque non è fascista");

    - o, più semplicemente, perchè leggere è faticoso...

  8. #8
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    Citazione Originariamente Scritto da B.M.P.T: Visualizza Messaggio
    E' significativo, ma non ho ancora capito di che cosa, il fatto che l'articolo non abbia ricevuto un solo commento (tranne uno nel post inserito da Stan), ad eccezione di chi, come Stan o Lupa, lo abbiano già letto in privato.
    Ne deduco che:

    - o sono riuscito a scrivere un testo così perfetto che le argomentazioni filotibetane che si sono sprecate su questo forum nei giorni scorsi si sono sciolte come neve al sole (anche perchè erano del tipo "le SS stavano col buddismo" oppure "la Cina è comunista, anzi capitalista, comunque non è fascista");

    - o, più semplicemente, perchè leggere è faticoso...
    Ciao Juan!

    eh eh....magari perchè c'è da preparare il discorsino...mica si può improvvisare su due piedi

  9. #9
    mormilla
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    Citazione Originariamente Scritto da LupaNera Visualizza Messaggio
    Ciao Juan!

    eh eh....magari perchè c'è da preparare il discorsino...mica si può improvvisare su due piedi
    http://webdesign.html.it/guide/lezio...-di-usabilita/

  10. #10
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    finalmente qualcuno un po' critico co' 'sto cacchio di Tibet!!!

 

 
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