“Mi scusi, ma io devo morire”: così un Bobby Sands ormai rantolante respinge cordialmente ma fermamente il tentativo dell’inviato di Wojtyla di dissuaderlo dal portare lo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze. Poco dopo - è il 5 maggio 1981 - nel carcere di Long Kesh, a Belfast, il cuore generoso dell’eroe si arresta dopo 66 giorni di atroce agonia. Si tratterà solo del primo di una lunga serie di patrioti nordirlandesi immolatisi in nome di un ideale di libertà. Altri 10 martiri lo seguiranno in quella che passerà alla storia come la cupa primavera dell’“Hunger Strike”. Il tragico epilogo della vicenda è soltanto l’ultimo episodio di una secolare Via Crucis di odio ed efferatezze risalente fin dal lontano 1169, allorché le prime avanguardie normanne misero piede sull’antica isola dei druidi. Invocate dal re di Leinster, sloggiato manescamente dal trono dai prepotenti vicini, le prime sparute pattuglie di uomini del nord aprirono la strada ai possenti eserciti di Enrico II, che nel 1171 portò a termine l’opera iniziata pochi anni prima. Ma lo tsunami albionico avrebbe iniziato a sommergere l’Irlanda solo nel XVI secolo, con l’esplodere delle guerre di religione che raggiunsero il parossismo con i massacri perpetrati dal puritano lord “protettore” Cromwell. I famigerati “plantation” (insediamenti di coloni inglesi, gallesi, scozzesi) ideati allo scopo di “diluire” l’omogeneità etnica dell’isola, ebbero termine soltanto con l’ascesa al trono del cattolico Giacomo II Stuart, presto sloggiato dalla rivoluzione di Guglielmo d’Orange, che costrinse re Giacomo a rifugiarsi in Irlanda. Boyne e Aghrim furono due pietre tombali posate sulle speranze di vedere finalmente un’Irlanda libera e indipendente. In seguito, l’esasperazione della popolazione, decimata dalla miseria e dalle carestie, crebbe tanto da provocare la ribellione del 1798, col conseguente “Act of Union” (1800). Un’unione non voluta, che si tinse di sangue nella famigerata Pasqua dell’aprile 1916. Una mattanza tale da indurre i patrioti a rompere gli indugi e a fondare il Sinn Fein, l’organizzazione politica degli irredentisti irlandesi, e l’Ira, la sua propaggine armata. “Indipendenza o morte” era il loro motto. “La libertà si fa col sangue, non con la saliva” l’imperativo. E indipendenza fu. Questa fu proclamata unilateralmente dal Sinn Fein subito dopo l’infame ecatombe. La successiva, sanguinosa guerra di liberazione 1919-1921 fu condotta all’unisono dal popolo e dai patrioti dell’Ira, che impavidi affrontarono i genocidi “alla vandeana” perpetrati dai crudeli Black and Tans e dalle famigerate polizie filo britanniche, la Ric e la Dmp. La guerra ebbe termine nel 1921, con un Trattato di Londra che sancì, insieme a una pseudo indipendenza dell’isola, una contemporanea, idiota lacerazione della stessa. Status di “dominion” per 26 contee della parte sud (Eire); annessione all’Uk per sei contee del nord (Ulster). Appena “fondata”, l’Eire dovette fare i conti con una feroce guerra civile (1921-1923) esplosa tra le due fazioni irish: quella “legalista” di Micael Collins, che aveva accolto con benevolenza il trattato di semi-indipendenza tanto faticosamente ottenuto e leader del nuovo governo provvisorio, e l’ala diretta da Eamon De Valera, “sceso” invece in clandestinità per una più marcata opzione autenticamente indipendentista. Vinse la seconda, e De Valera, ormai presidente, mise fuorilegge l’Ira, provocò una scissione nel Sinn Fein, e creò il Fianna Fail. Divenuta definitivamente indipendente poco prima della seconda guerra mondiale, l’Eire ha visto esponenti dell’Ira tentare abboccamenti col Terzo Reich miranti all’annessione, in caso di vittoria dell’Asse, delle sei contee dell’Ulster. O’Duffy, “duce” nordirlandese, promosse l’organizzazione e la spedizione di contingenti Ira in Spagna come forze d’appoggio a Francisco Franco. Il dopoguerra vide l’Ira, in rotta di collisione col legittimo governo dell’Eire, lanciarsi ovunque all’attacco delle forze inglesi, sfidando la volontà di un De Valera ormai zelante rispettoso dello status quo. Ben presto si ristabilisce la situazione abituale di logorante guerra civile strisciante - stavolta su suolo nordirlandese - tra cattolici e orangisti, che durante il corso degli anni Settanta-Ottanta vide l’Ulster precipitare in un baratro. E’ questo il teatro delle vicende del giovane Bobby e dei suoi eroici camerati. Ed è questo l’argomento del convegno “Martiri d’Irlanda”, organizzato a Roma a cura dell’associazione culturale Raido, sita in via Scirè 19, tenutosi il 1° marzo scorso nei locali della sala Ouverture ubicati in via Tripoli 22. Il relatore, Maurizio Rossi, presentato da una breve introduzione del camerata Stefano, ha immediatamente esordito proiettando l’uditorio nel tragico teatro sul quale “calcarono” le brevi ma intense esistenze degli eroici ragazzi del Blocco H. Una vita fatta di miseria, di disoccupazione, di vita da trincea, di interi quartieri ridotti a fortini con tanto di recinti e torrette, le abitazioni con sbarre e grate alle finestre per difendersi dal lancio di granate, i negozi con blocchi di cemento sui marciapiedi per impedire lo stazionamento di eventuali auto bomba. Una vita da seminomadi, sempre all’erta e in attesa del peggio. Bobby è costretto a quattro traslochi in poco tempo. Un universo concentrazionario, quindi, con diritto di voto fondato, per i cattolici, non sul suffragio individuale, ma sul reddito o sulle abitazioni. Una famiglia di dieci persone, tutte conviventi, poteva esprimere un solo voto. Le circoscrizioni elettorali erano tracciate col sistema del “gerrymandering”, ovverossia un sofisticato arzigogolo che attraverso tracciati assurdi accorpava e disgregava le comunità a seconda della confessione, onde garantire ai protestanti il maggior numero di seggi possibile a discapito dei cattolici, penalizzati per comprimerne artificiosamente l’alto tasso di natalità. Su tutta questa miscela esplosiva di odio, risentimento e frustrazioni mesta nel torbido una polizia spietata e corrotta, la Ruc, prona alla volontà sopraffattrice dell’occupante inglese. Non c’è scampo per nessuno, insomma, nella Belfast degli anni 70. O cattolico, o protestante. Tertium non datur. E cattolico significa gaelismo, celtismo, amore per le radici druidiche e per Patrizio, il sant’uomo che ha saputo sapientemente contemperare e amalgamare le due culture, i Tuàta de Danaan e Cristo. I mitici eroi celtici sono diventati santi cristiani e viceversa. Mai si era vista tanta armonia, mai tanta serena accettazione di un nuovo credo senza spargimenti di sangue e tuttavia senza rinnegare completamente l’antica confessione. Quest’opera grandiosa fu possibile grazie a Patrizio e questa era l’arma più potente in mano ai negletti cattolici d’Irlanda. Un fascino che ha catturato anche le anime di uomini sensibili come Yeats, protestante poeta romantico che ha declinato in sublime poesia l’epopea di un popolo che si trova a possedere più miti che abitanti. A fare pendant, un bagaglio di cultura e leggende; sul fronte opposto sono schierate le tristi legioni degli iconoclasti seguaci di Martin Lutero e del grottesco “pastore” Ian Paisley. Orangisti, Unionisti, Antipapisti, Protestanti, Anglicani, “Mano Rossa”: mille definizioni, decine di appellativi a nascondere il nulla, il vuoto pneumatico di idee, di spiritualità, di identità. No, questa non è una guerra di religione. La religione vi gioca un ruolo importante, ma qui si tratta soltanto di giustificare sotto nobili ideali una squallida occupazione portata avanti a fini esclusivamente coloniali, imperiali, di sfruttamento e schiavitù fini a se stesse. Null’altro che una turpe brama di potere truccata col laido rossetto di una meretrice che usa il nome di Dio solo per mascherare il culto di Mammona. Ma ormai i giovani nordirlandesi si rendono conto che l’attaccamento identitario è maggiore se un popolo lotta per la vita. Il gaelico ora lo si impara pure da autodidatti e chi inizia a frequentare le scuole lo vede come materia obbligatoria in tutti gli istituti, laddove nell’Eire l’inglese la fa ormai da padrone e i ragazzi si vanno a sballare nelle discoteche in preda alla febbre del sabato sera. No, in Ulster l’unica febbre che pervade i cuori è quella dell’anelito alla libertà. E questo generoso sentimento pervade l’animo di Bobby, che subito si trova coinvolto in azioni armate e per questo è rinchiuso per due volte nel carcere di Long Kesh. Intanto, il morbo ideologico ha pervaso come un cancro anche le strutture dell’Ira e del Sinn Fein, che finiscono per scindersi. La sezione filomarxista viene, potremmo dire, addomesticata, “costituzionalizzata” insomma, mentre l’altra - l’ala “Provisional” - refrattaria a qualsiasi irreggimentazione, è irriducibilmente anticomunista e ferocemente determinata ad ottenere la totale espulsione dei soldati di Sua Maestà dall’Ulster. Bobby è uno di loro. Rapidamente la situazione precipita. I reclusi indipendentisti vogliono che sia loro riconosciuto lo status di “soldati prigionieri”, ma l’ostinato, irragionevole atteggiamento “ostruzionistico” del premier Margaret Thatcher – “Si tratta solo di criminali comuni” - costringe i detenuti del Blocco H di Long Kesh alla “Blanket Protest”. Essi ora si rifiutano d’indossare la divisa dei galeotti. Anche perché il loro regime “reale” è quello di terroristi, con tutte le asprezze che questo comporta. Pur tuttavia, il regime “legale” (ossia quello di “criminali comuni”) prevede agevolazioni che al Blocco H neppure si sognano. Oltre al danno la beffa, insomma. Le posizioni s’irrigidiscono. I secondini fracassano i vetri delle celle, esponendo i detenuti - completamente nudi - al gelo dell’inverno nordico. Da qui l’uso delle coperte (“Blanket”, appunto) per non morire d’ipotermia. Come se non bastasse, ora anche una puntata alla toilette comporta la sottomissione a bestiali pestaggi da parte delle sadiche guardie carcerarie. Si passa allora alla “Dirty protest”. Non si esce più neppure per recarsi al w c. I buglioli vengono svuotati sotto le porte delle celle e i liquami invadono i corridoi. Le sentinelle irrompono nelle celle e i pestaggi si fanno ancora più selvaggi. Un crescendo rossiniano di violenze vede ora i poveri ragazzi costretti a imbrattare di merda le pareti delle guardine. Il tanfo insopportabile e le feci usate a mo’ di arma sono l’unica maniera per impedire agli aguzzini di sua Maestà di caricare armati di manganello nelle celle per massacrarne gli occupanti. Sono anni d’inferno. I reclusi sono ricoperti di escrementi, croste e piaghe. Infine, l’esasperazione è tale che viene sancita l’opzione “finale”. Un gruppo di 55 patrioti dà il via al primo sciopero della fame. Downing Street pare sul punto di ammorbidirsi, e la protesta viene interrotta. Ma la doccia fredda non tarda ad arrivare: la posizione della dama di ferro s’irrigidisce di nuovo e un secondo sciopero della fame vede Bobby Sands tra i primi volontari. No, qui non si tratta di uno Strike Hunger “alla Pannella” di un farsesco digiuno fatto di astinenze giornaliere e di banchetti notturni. Si digiuna sul serio nel Blocco H di Long Kesh. Stavolta il traguardo finale è la morte. E morte sarà. Per Bobby e per altri dieci martiri immolatisi in un gesto sacrale e definitivo sull’altare della libertà. Dopo di loro nulla sarà più come prima. La Thatcher esce apparentemente vincitrice dalla vicenda, ma ora tutto il mondo sa fino a che punto è arrivata la protervia e l’arroganza di un sistema di potere basato sull’oppressione e la schiavitù. Il resto è storia di oggi. Trattati, abboccamenti, accordi. Tutto è in gioco e tutto è in discussione, ma una cosa è certa. In Ulster non si muore più. Nessuno dovrà mai più morire in modo tanto atroce come accadde agli eroici ragazzi di Long Kesh, e la pace, se e quando verrà, a prescindere dalle porzioni di sovranità conquistate o perdute dai contendenti, vedrà vittorioso lo spirito dell’uomo e il sacro anelito alla libertà.