Antonio Livi (1)
INTRODUZIONE: LE DISAVVENTURE DI UN FILOSOFO CRISTIANO
Questa monografia su Romano Amerio, alla cui realizzazione si è dedicato Enrico Maria Radaelli con l’amorevole pazienza e la sapiente perspicacia del vero discepolo, è l’occasione più unica che rara che oggi viene offerta agli intellettuali cristiani per conoscere meglio la personalità e il pensiero di un importante filosofo cristiano del Novecento. Io sono convinto che la cultura cattolica trarrà grande profitto da questo libro, se esso riuscirà, come mi auguro, a sottrarre Romano Amerio dall’oblio e dalle interpretazioni riduttive e ingiuste che tale oblio hanno provocato; come risulterà evidente a quanti leggeranno questa monografia, la testimonianza personale di fede che Amerio ci ha lasciato e la sua proposta teoretica di ermeneutica della fede meritano di essere riconsiderati, perché costituiscono un contributo validissimo all’attuale processo di rinnovamento della vita ecclesiale.
Dico questo con profonda e motivata convinzione, senza disconoscere o minimizzare le diverse riserve che si possono obiettivamente avere nei confronti di Amerio come persona, riguardo alle sue scelte di condotta ecclesiale (riserve simili, peraltro, si possono avere nei confronti di qualsiasi cristiano, anche di quelli che sono già stati riconosciuti santi dalla Chiesa o possano esserlo in futuro) e senza dimenticare in alcun momento che le sue tesi filosofiche e teologiche sono opinabili, ossia appartengono al campo della libera discussione tra i credenti, e pertanto possono essere oggetto di critica (nel senso che un cattolico ha il diritto di sostenerle o di condividerle, come ha pure il diritto di respingerle e di sostenere tesi opposte).
Ma, ripeto, pur con tutte queste precisazioni resta il fatto che la biografia e l’opera di Romano Amerio sono, a mio parere, degne di essere adeguatamente riproposte e più serenamente riconsiderate: non solo per un giusto anche se tardivo riconoscimento di una figura importante nel panorama culturale europeo, ma anche e soprattutto per il bene che la comunità dei credenti può ricavarne nelle attuali contingenze storico-culturali. La Chiesa ha oggi bisogno di credenti che si applichino con competenza e passione allo sviluppo della filosofia cristiana, ossia a una riflessione critica sull’attualità e sulla storia che sappia passare « dal fenomeno al fondamento » e consenta all’intelligenza cristiana di volare in alto con « le due ali della ragione e della fede »; e questo certamente ha saputo fare Romano Amerio, adottando una metodologia (la filosofia cristiana ammette varie metodologie) che mi ricorda quella di Antonio Rosmini: un filosofo, peraltro, che gli era molto caro e che ebbe vicende biografiche alquanto simili alle sue, sia pure in un contesto storico affatto differente .
Dicevo della biografia di Romano Amerio e delle sue opere. Mi soffermo adesso brevemente su ciascuno di questi due aspetti della ricognizione attenta e intelligente compiuta da Radaelli in questa monografia.
1. Chi è stato Romano Amerio.
La biografia di Romano Amerio (che molto dice delle sue intenzioni di autentico filosofo cristiano) viene opportunamente limitata da Radaelli agli aspetti salienti del suo lavoro di studioso e di insegnante di filosofia (dove risaltano la serietà, l’umanità e l’umiltà con le quali egli svolse il suo servizio, praticando per lunghissimi anni quella che Rosmini chiamava la « carità intellettuale") e alle scarse ma significative frequentazioni di colleghi illustri (importantissima la corrispondenza con Augusto Del Noce) che gli offrivano il conforto del loro consenso o lo stimolo del loro dissenso e che lo consigliavano o lo sconsigliavano di sostenere determinate tesi, e che comunque mostravano di comprendere e di apprezzare la sua competenza storiografica, filologica e teoretica e la sua passione per la verità . La Chiesa, indubbiamente, esiste anche per questo: per far sì che i cristiani possano aiutarsi a vicenda, con l’incoraggiamento e con la correzione, in tutti i momenti e le circostanze della vita di fede.
A questo proposito, io posso aggiungere ai dati biografici che si trovano nel libro di Radaelli anche dei particolari significativi riguardanti la famiglia. Io infatti sono stato molto amico di suo fratello, Franco. Ho conosciuto Franco, religioso salesiano, quando era anziano e malato; per molti anni era stato insegnante di Filosofia, proprio come il fratello. Andavo a trovarlo a Torino, e mi riceveva nella sua stanzetta nel collegio di Valsalice: era semiparalizzato e derelitto, non apprezzato dai suoi come meritava e non più sostenuto, anzi messo veramente da parte. Mi faceva tanta pena, e per questo – perché meritava davvero di essere apprezzato, e perché le sue opere erano state di grande giovamento alla formazione intellettuale e alla maturazione della fede di varie generazioni di giovani - ho dedicato un anno intero a trovare il modo di ripubblicare una sua opera che valeva molto, Il nuovo catechismo antico.
Questo libro era stato tolto dal mercato proprio dai suoi confratelli, quelli che erano allora i responsabili della casa editrice salesiana che aveva pubblicato tutti i suoi libri e che per alcuni anni li aveva venduti con notevole profitto. Succedono nella Chiesa anche queste cose: i Salesiani avevano deciso di non vendere più Il nuovo catechismo antico, che è l’ultima opera di lui, non per un motivo economico (ancora se ne vendevano più di duemila copie l’anno), ma perché fu bollato come “antiquato”. Poi seppi che Franco Amerio, in realtà, era stato colpito dall’onda di riflusso provocata dalla nomea nefasta del fratello Romano e in qualche modo ne aveva condiviso la sorte. Per questa ragione mi sono domandato: ma cosa avrà di così negativo questo Romano Amerio, da rovinare la vecchiaia a un povero religioso, per di più invalidato da un’ischemia cerebrale? Intanto feci in modo che Il nuovo catechismo antico riapparisse – con un nuovo editing, qualche aggiornamento bibliografico e un nuovo titolo: La dottrina della fede – presso la casa editrice milanese dove lavoravo, una volta ottenuto il consenso dell’editrice salesiana che ne aveva la proprietà letteraria. Franco Amerio approvò il nuovo titolo, vide le bozze, poi poté vederlo già pubblicato.
Purtroppo, non fu un successo editoriale, com’era prevedibile, ma non mi pento affatto di tutto il lavoro che mi è costato, perché Franco Amerio aveva in comune con il fratello di Lugano una perspicacia filosofica notevole: ci sono saggi di ermeneutica storica da lui scritti negli anni Quaranta e Cinquanta che tutt’ora sono citate come autorevoli fonti in opere specialistiche.
Il fatto è che, quando la filosofia si risolve in retorica (come molta pubblicistica dei grandi quotidiani italiani, o come molti libri di saggistica firmati da autori che sono oggi di moda), e gli argomenti sono più politici e culturali che veramente filosofici, si può dire di tutto; quando invece si studia seriamente, le fonti autentiche dell’ermeneutica filosofica sono quelle che esibiscono le credenziali della vera autorevolezza. Così, uno studioso serio non direbbe mai, a proposito di temi magistralmente trattati da Franco Amerio (ad esempio, il pensiero di Giambattista Vico), che i suoi studi sono “superati”; in filosofia un commento del genere sarebbe stupido, come sono stupidi, in generale, i giudizi di valore sulle idee filosofiche che assumono come criterio i trends culturali, mentre l’essenza della filosofia consiste nella ricerca della verità, che si realizza, sì, attraverso la dialettica (che di per sé richiede di tener conto della contingenza storico-culturale), ma basandosi pur sempre sul fondamento meta-culturale e meta-storico della conoscenza, che è rappresentato dal “senso comune” .
L’essenza della filosofia è quindi incompatibile con una pratica del pensiero che escluda a priori la problematizzazione dell’esperienza e pertanto la ricerca della verità : o perché presume di possederla già per altre vie, diverse dalla filosofia (è il caso del moderno dogmatismo scientistico), o perché dichiara di non interessarsene, essendo – si dice – interessanti solo i problemi contingenti del potere (è il caso dello scetticismo contemporaneo, votato alla ricerca del consenso su basi pragmatiche).
Ecco che ho chiamato in causa per la prima volta la nozione di “essenza”; questa nozione, applicata alla storia dottrinale del cristianesimo, era quella che caratterizza il pensiero critico di Romano Amerio, e in essa sta il più importante contributo da lui fornito alla filosofia cristiana. Ma di questo parlerò più avanti, dopo essere passato al secondo punto delle mie considerazioni, quello che si riferisce alle opere di Romano Amerio.
2. Che cosa si può trovare di importante in Romano Amerio.
Per quanto riguarda, dunque, le opere del grande Luganese, il merito di Radaelli è anzitutto di averle presentate tutte, sia quelle di carattere storico-filosofico che quelle di carattere filosofico-teologico. Radaelli non è caduto nell’errore di considerare significativo solo quel paio di opere che comunemente vengono citate a caratterizzare la figura intellettuale di Romano Amerio: Iota unum e Stat veritas, perché le opere dello studioso luganese – in particolare, proprio quelle due che ho ricordato - si possono comprendere appieno solo conoscendole tutte, ciascuna con il suo specifico argomento, l’obiettivo dell’indagine e le relative conclusioni (e dall’insieme delle opere di Amerio si ricava, se lette con spirito di sincera ricerca della verità, che egli praticò con successo una delle forme possibili della filosofia cristiana). In secondo luogo, debbo dire che merito di Radaelli è anche di aver dato tutta l’importanza che merita al contributo offerto da Amerio alla comprensione dell’epoca moderna e del suo rapporto con il dogma cattolico, rapporto che egli giustamente individua nel ruolo che la metafisica svolge all’interno della fede cristiana.
Romano Amerio è d’accordo con Augusto Del Noce (anche se i due filosofi non si sono influenzati a vicenda) nel ritenere che la comprensione dell’epoca moderna richiede di non considerare la modernità come un’unica essenza filosofica, ma un momento della storia del pensiero che è caratterizzato dalla presenza del dogma cristiano e che procede in due diverse direzioni: la prima, culturalmente e politicamente più rilevante, è la direzione assunta dal razionalismo di origine cartesiana, che perde irrimediabilmente la sostanza della metafisica e porta prima al soggettivismo, poi allo scetticismo e al criticismo, e infine all’idealismo; la seconda, minoritaria ma teoreticamente più consistente della prima, è la direzione assunta dai critici di Descartes, che recuperano i valori speculativi del realismo classico e con essi le nozioni metafisiche di creazione, di persona, di legge naturale e di libertà, inaugurando anche nuovi campi di ricerca metafisica, come la filosofia della storia e la filosofia del linguaggio.
Alla prima direzione appartengono, dopo Descartes, altri pensatori tuttora considerati non solo i più importanti ma addirittura gli unici rappresentanti della modernità: Spinoza, Hobbes, Leibniz, Locke, Hume, Rousseau, Kant, Fichte, Hegel, Schelling; con essi la filosofia rompe ogni relazione con la verità cristiana, finendo per stabilire un unico principio del pensiero, quello nel quale la fede è sussunta nella filosofia oppure diventa, come la filosofia stessa, una forma di scetticismo.
Alla seconda direzione appartengono invece pensatori come Pascal, Arnauld, Buffier, Reid, Vico, Jacobi, Kierkegaard, Balmes, Newman e Rosmini, tutti pensatori anti-cartesiani e anti-hegeliani, ma non anti-moderni: ché anzi proprio a loro la modernità deve gli sviluppi positivi che il “post-moderno” cerca invano di “inventare” riducendo tutta la vicenda della filosofia dopo il Medioevo a un’essenza fantastica, la cosiddetta « età della ragione », da superarsi attraverso l’instaurazione della nuova età, denominata « età dell’ermeneutica ». Ma gli studi di storia della filosofia non debbono servire a modellare essenze fantastiche, utili solo ai fini della suggestione retorica, bensì a scoprire l’essenza reale delle vicende umane, avendo come unico fine la sapienza (historia magistra vitae).
Che cosa significa dunque “essenza”? L’essenza, in filosofia, è ciò che caratterizza metafisicamente ogni cosa e la mantiene identica a se stessa nel tempo (nel tempo cioè in cui la tal cosa è essa e non altro). Cogliendo l’essenza di una cosa mediante l’intuizione astrattiva, l’intelletto distingue quella cosa dalle altre, sottraendola così all’opacità dell’indistinzione e dell’indeterminatezza. Quando una cosa è oggetto di discorso, io riferimento alla sua essenza non è altro che la determinazione quanto più esatta possibile di ciò di cui si vuol parlare; in un dialogo, infatti, l’enunciazione dell’essenza dovrebbe essere la risposa chiara ed esplicita alla domanda: “Di che cosa stai parlando?”. Allorché uno degli interlocutori si sottrae (per debolezza mentale o per intenzione fallace) alla doverosa fatica della determinazione, il discorso risulta privo di senso, in quanto privo di un “referente” concreto, e così il dialogo tra gli interlocutori non porta ad alcuna verità, perché non c’è alcuna intesa possibile (si ricordi l’espressione « imperscrutabilità del referente », tipica della filosofia analitica americana): infatti, l’intelletto umano arriva al giudizio, luogo della verità, solo riflettendo sui dati della “semplice apprensione”, ossia sulla presenza sensibile delle cose e sulla correlata intuizione della loro essenza, con la quale si costituisce la dimensione metafisica dell’esperienza.
L’essenza delle cose, espressa dal concetto, è la scoperta fatta da Socrate agli inizi della filosofia in Grecia: Socrate, con la sua “ironia”, convinceva gli Ateniesi che non sapevano nulla, proprio perché non erano in grado di definire l’essenza di quello di cui parlavano. Essi si riempivano la bocca di parole a effetto, come ad esempio la parola “giustizia”; e Socrate, dialogando con loro diceva: “Volete la giustizia?, addirittura volete giustiziarmi, ossia uccidermi per la giustizia?” - “Sì, vogliamo ucciderti per la giustizia!” - “E allora ditemi: che cos’è per voi la giustizia?”. E i suoi interlocutori non potevano dargli alcuna risposta razionale: uno diceva una cosa, uno un’altra, si contraddicevano, e alla fine dovevano riconoscere che non sapevano che cos’è la giustizia. Socrate fece capire ai suoi contemporanei (tra loro, un discepolo geniale come Platone) che essi non conoscevano ciò di cui parlavano, perché non erano capaci di darne una definizione. E la conclusione di Socrate è questa: la definizione è difficile, talvolta impossibile (a tutti o ad alcuni); ma, quando non riusciamo a definire, almeno ci rendiamo conto di non sapere (scio me nihil scire); se invece riusciamo a definire una cosa, allora possiamo dire di quella cosa qualcosa che abbia senso, e così il nostro discorso non è più meramente sentimentale, non è retorica, non è mera abilità sofistica.
Peraltro, dagli studi più recenti si sa che Socrate stesso era uno dei sofisti di Atene, e la Sofistica non era così negativa come la fa apparire il personaggio Socrate nei Dialoghi di Platone. Certo, di ciò che pensasse o dicesse il “vero” Socrate noi direttamente non sappiamo alcunché, e dobbiamo stare a quello che di lui ci dice Platone: e Platone, evidentemente, ha voluto svolgere con tanto impegno e tanta passione una dialettica antisofistica da fornirci dei Sofisti un’immagine che è, appunto, solamente dialettica, ossia strumentale al suo discorso. In realtà la Sofistica è una maniera di fare filosofia che c’è sempre stata e sempre ci sarà; anzi, oggi è quasi l’unica maniera con cui si fa filosofia. Al giorno d’oggi, se io vado in una libreria, guardo i libri esposti in vetrina e sui banchi, e poi, per una più completa informazione, mi faccio dare il catalogo dei libri di saggistica attualmente in commercio e chiedo quali si vendono (non solo le novità, i best sellers, ma anche i classici e i moderni long sellers), debbo constatare che di filosofia vera e propria c’è poco o nulla: piuttosto c’è spesso, camuffata di filosofia, tanta sociologia, tanta psicologia, e soprattutto tanta politica; e la politica resta forse l’unica forma di comunicazione intellettuale che ai nostri giorni suscita qualche interesse. La politica è sempre stata intrinsecamente legata alla filosofia, e filosofia e politica si generano a vicenda. Ma, se la politica, invece di generare filosofia, strumentalizza la filosofia per i suoi fini pragmatici (che in sostanza consistono nel possesso delle cosiddette “leve del potere”), allora non c’è più filosofia vera e propria ma mera ideologia: ed è sotto gli occhi di tutti come la diffusione dell’ideologia sia demandata alla retorica dei sofisti, con la ripetizione ossessiva di slogan privi di sostanza razionale, indifferenti alle essenze reali delle cose e attenti solo ai trends culturali .
3. Riportare il discorso di Amerio sul terreno che gli è proprio.
Non sto divagando, perché mi avvicino con questi discorsi al tema centrale di questa Introduzione. La scomparsa della vera filosofia ha fatto sì che anche i discorsi sulla religione – anche sulla religione rivelata, il cristianesimo – siano diventati vacui e inconcludenti, nel senso che non riescono più a dire qualcosa di definito o di definibile sulla religione e con il continuo ricorso alla retorica (mozione degli affetti alla ricerca di un consenso scontato) fanno intravedere un orizzonte di valori che è appunto solo politico. Per questo dicevo che la filosofia vera e propria non abita più a casa propria, ossia nei libri di saggistica, nemmeno quando si tratta di saggistica di argomento religioso; questi libri infatti non cercano più di discutere sulla verità delle cose, previa una precisa definizione di ciò di cui parlano, ma offrono al pubblico elementi psicologici di suggestione e argomenti dialettici che possano confermare le convinzioni comunemente condivise e già consolidate.
Per questo tutti i libri di argomento religioso hanno oggi lo stesso tono e adoperano gli stessi artifici retorici, senza che si possa avvertire più alcuna distinzione tra autori dichiaratamente atei e anticristiani (Emanuele Severino, Paolo Flores d’Arcais), autori che si compiacciono di essere considerati “vicini” al cristianesimo pur rifiutandone la verità dogmatica (Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, Vincenzo Vitiello) e autori dichiaratamente cattolici, che non nomino perché da tutti conosciuti.
Questi ultimi hanno al loro attivo una produzione saggistica che è nominalmente teologica (dico “nominalmente” perché la teologia, senza lo strumento critico di una autentica filosofia, non sussiste più) ma in realtà è politica, ossia è funzionale a operazioni di potere (non fa differenza che siano a favore o contro i poteri stabiliti, e che si professino conservatori, riformisti o rivoluzionari), e il potere, come sempre, si mantiene o si conquista attraverso un consenso sociale il più vasto possibile, e quindi non può far a meno della cultura: lo aveva capito già Niccolò Machiavelli nel Cinquecento, e la sua lezione è stata ripresa nel Novecento da Lenin, poi da Antonio Gramsci (che disegnò con tanta perspicacia la figura dell’intellettuale “organico”) e infine da Louis Althusser. Mi si dirà: che cosa centra la politica (con questi esempi, poi, tratti dalla storia moderna e contemporanea, e in modo particolare dal comunismo) con la teologia di oggi? C’entra: lo si comprende se si fa tesoro della lezione di Socrate e si bada alle essenze delle diverse cose di cui si parla, e non soltanto ai loro nomi.
L’essenza della filosofia – l’ho già detto - è la ricerca della verità tramite la dialettica; l’essenza della religione è invece il rapporto con Dio sulla base della verità che la ragione naturale ed eventualmente la rivelazione divina ci forniscono riguardo a Dio stesso; infine, l’essenza della teologia è la riflessione razionale sui contenuti della rivelazione divina, riconosciuta come tale e accettata con la fede. Se non c’è, in un discorso, né l’essenza della filosofia né quella della religione né quella della teologia, in questo discorso – al di là dei nomi che esso assume - non può esserci altro che l’essenza della politica, di una politica che in quel momento muove a creare un consenso su alcuni temi propri della cultura.
Ciò avviene ogni qual volta si parla (magari anche in termini teorici, ma con un senso esclusivamente pragmatico) per ottenere con la diffusione delle idee una qualche cosa che viene ritenuta utile per la comunità, sia essa civile o ecclesiale: utile nei rapporti tra le comunità, utile nei rapporti fra un’istituzione e l’altra, utile nei rapporti fra il popolo e le istituzioni… Si tratta insomma di cose che sono riconducibili tutte alla politica, in quanto rispondono alle esigenze vitali e alla logica pragmatica interna alla polis, intesa questa come comunità fatta di popolo e di istituzioni, di strutture materiali e di sovrastrutture simboliche, di utopie e di concretezza (a volte, persino di cinismo, in nome della “ragion di Stato”), di sogni escatologici e di angosciosa contingenza quotidiana, di riconoscimento teorico dei valori religiosi e di prassi che subordina la religione alle esigenze temporali attorno alle quali in quel momento storico c’è il consenso.
La politica- noi cristiani lo sappiamo bene - non è in sé una cosa cattiva, come non lo è il potere, in funzione del quale si fa politica; anzi, sappiamo che la politica è stata talvolta e può sempre essere ancora il luogo della virtù civile e della santità cristiana (al medioevale Luigi di Francia al rinascimentale Thomas More): ma sappiamo anche che la politica è l’occasione per ogni tipo di menzogna e di violenza, e in ogni caso occorre saper individuare la politica nella sua propria essenza specifica, che – ripeto ancora - non è quella della filosofia e nemmeno quella della teologia. Onestà intellettuale vuole che si riconoscano le diverse essenze e non si facciano discorsi ambigui, che possono sì giovare appunto alla politica, ma non giovano affatto alla filosofia e alla teologia, le quali hanno bisogno di un’intenzione sincera di ricerca della verità senza secondi fini come noi uomini abbiamo bisogno dell’aria per respirare.
Ma, a forza di ridurre la filosofia a politica, ci ritroviamo dopo tanti secoli a fare esattamente quello che facevano i sofisti: a dire che non c’è alcuna essenza, non importa cercare le essenze, non importano le definizioni, non importa sapere esattamente di che cosa si parla: importa solo parlare in modo tale che la maggior parte delle persone aderiscano a una proposta operativa. Questa era la filosofia ai tempi della Sofistica, e questo è il motivo per cui dicevo che il senso di molti discorsi di oggi, che vorrebbero essere considerati post-moderni, è quello stesso della Sofistica.
4. Per una critica scevra da pregiudizi ideologici.
Quando la politica è di fatto la quintessenza di ogni discorso filosofico o teologico, capita che un pensatore che vuole fare un discorso autenticamente filosofico, con inevitabili ricadute sull’ermeneutica teologica, sia interpretato come un nemico da combattere o da ridurre al silenzio. Questo è capitato a Romano Amerio.
I giudizi più negativi nei confronti di Romano Amerio, e di conseguenza le operazioni culturali indirizzate alla sua eliminazione dalla scena pubblica, mi sembrano ispirate sempre e soltanto da motivi “politici”, nel senso che ho spiegato or ora. Basti pensare ai capi d’imputazione con cui è stato giudicato (“razionalismo”, “dogmatismo”, “tradizionalismo”) e i reati per i quali è stato condannato (“spirito anticonciliare”, “chiusura al dialogo”, “resistenza all’azione in favore dell’ecumenismo”), nonché la circostanza che tutti questi giudizi negativi riguardano i soli libri di argomento teologico. In realtà, non si possono giudicare questi libri di teologia come se essi non fossero la logica conseguenza dei libri di argomento filosofico, quelli che determinano l’essenza della “filosofia cristiana” attraverso il confronto tra la proposta medioevale di Tommaso d’Aquino, quella rinascimentale di Tommaso Campanella e quella contemporanea di Antonio Rosmini. Amerio ha chiarito magistralmente che per “filosofia cristiana” non si può intendere altro che la “fides quærens intellectum”, ossia la ricerca razionale che si avvale anche dell’esperienza cristiana e la fonda giustamente sulla verità rivelata, sul dogma, ragione per cui è “filosofia cristiana” soltanto quella filosofia che non inventa false ragioni per negare il dogma o svuotarlo di significato veritativo, ma si nutre di “ortodossia”.
Nell’epoca moderna, chiarisce Amerio, è filosofo cristiano Tommaso Campanella, perché sostanzialmente ortodosso, malgrado le speciose accuse di eresia che gli furono mosse ai suoi tempi ; non lo è invece René Descartes, le cui opere furono giustamente e opportunamente messe all’Indice nel 1668. Così, nell’epoca contemporanea, è filosofo cristiano Antonio Rosmini, malgrado le accuse di eresia mossegli da alcuni neotomisti dell’Ottocento sulla base di alcune espressioni ricavate da un’opera postuma e prive del loro naturale contesto dialettico. Amerio era già morto quando la Santa Sede, con un pronunciamento ufficiale, decise di eliminare definitivamente ogni dubbio residuo sull’ortodossia di Rosmini, della quale Amerio fu sempre convinto.
Sulla scia di questi grandi filosofi cristiani, Amerio ha voluto offrire un servizio alla fede cattolica ragionando da filosofo cristiano, appunto, sull’essenza del cristianesimo e sulle sue deformazioni concettuali odierne. Chi comprende bene il valore ecclesiale e i limiti intrinseci di questo contributo di idee, affronta senza sospetti ingiustificati e senza prevenzioni illogiche la lettura di quei due famosi libri, riservandosi di giudicarne in piena libertà, dopo averli letti, la validità filosofica e la congruenza teologica; chi invece non ne comprende affatto il valore ecclesiale e i limiti intrinseci, si comporta come si è comportata la maggioranza degli intellettuali cattolici, cioè condannando i testi (spesso senza nemmeno averli letti) senza alcun motivo scientifico ma solo “per partito preso”, ossia ritenendo Amerio esponente di un partito (teologico-politico) opposto al suo; analogamente, chi milita in qualche altro partito (teologico-politico) e ugualmente non comprende il valore ecclesiale e i limiti intrinseci del discorso di Amerio, si comporta come si è comportata un’esigua minoranza di intellettuali cattolici, cioè esaltando i suoi libri come bandiere di una battaglia, nell’ambito di una pretesa “guerra santa” tra “tradizionalisti” e “progressisti”.
Potremmo chiamare costoro “integralisti di destra” e “integralisti di sinistra”? Integralisti lo sono certamente sia gli uni che gli altri, se per integralismo si deve intendere (questa è la sua vera essenza) l’arbitraria pretesa di ricavare dalla fede comune argomenti apodittici a favore della propria fazione politica, ignorando la differenza tra il dogmatico e l’opinabile e attribuendo alle proprie ipotesi ermeneutiche la certezza che compete soltanto alla verità rivelata, ossia agli enunciati di fede garantiti infallibilmente dal magistero della Chiesa. Ma è lecito dire anche “di destra” e “di sinistra”? Certo, visto che si tratta appunto di posizioni dettate da ideologie teologico-politiche. Se poi mi si obietterà che “destra” e “sinistra” sono ormai termini incerti e contraddittori, risponderò che lo sono sempre stati: e non solo questi termini, perché tutti i termini politici sono sempre incerti e contraddittori, visto che la politica è appunto il luogo della retorica, del discorso sofistico, e il Sofista di oggi, come quello dei tempi di Socrate, rifugge sistematicamente dallo stabilire con chiarezza l’essenza delle cose delle quali parla.
La ri-presentazione dell’opera di Romano Amerio è allora un’occasione da non perdere per ri-considerare il suo discorso senza le chiusure mentali e le strumentalizzazioni di quegli integralisti che, per motivi opposti ma ugualmente sbagliati, hanno commesso l’errore epistemologico di giudicare gli spunti di riflessione di un filosofo cristiano come se fossero l’enunciazione dogmatica dell’eterodossia oppure dell’ortodossia, tutto questo per poi utilizzare condanne o beatificazioni ai fini di una contesa che con la fede ha ben poco a che fare.
Sia gli uni che gli altri, infatti, mostrano di non avere a cuore davvero e soltanto la salvaguardia e l’incremento della fede nella rivelazione divina, infallibilmente custodita e interpretata dalla Chiesa cattolica; perché, una volta messa al sicuro, nella propria coscienza, la dottrina della fede, resta solo da valutare serenamente se una proposta come quella di Amerio, pur nei suoi limiti intrinseci di mera opinione filosofica, può avere un valore ecclesiale di aiuto razionale per il necessario discernimento spirituale mirante a chiarire l’essenza del cristianesimo, per poi applicare questa chiarificazione concettuale al problema sempre attuale di come giudicare le diverse ipotesi di inculturazione del dogma, ipotesi che si possono presentare in forma esplicita, come elaborazioni teoretiche da parte delle scuole teologiche, oppure anche in forma implicita, come opzioni pastorali contingenti.
Prendiamo ad esempio la critica mossa da Amerio alla prassi pastorale che prende il nome di “ecumenismo” e di “dialogo inter-religioso”. Che tale prassi non sia una dottrina – tanto meno una dottrina enunciata in modo irriformabile, impegnando l’infallibilità del magistero ecclesiastico -, risulta chiaro a chi ha le idee chiare in materia di fede; così come risulta chiaro anche che questa prassi può dar adito a interpretazioni contrarie alla vera dottrina della Chiesa. Quest’ultimo aspetto è stato opportunamente rilevato da molti laici e da molti pastori prima ancora che Amerio ne parlasse, e dopo Amerio ne hanno continuato a parlare anche altri, tra i quali io stesso; la Santa Sede, da parte sua, ha emanato un documento pastorale su questo argomento già nel 1991, e successivamente ha chiesto anche una riflessione complessiva da parte della Commissione teologica internazionale, che nel 1997 ha redatto un articolato documento dottrinale, intitolato Il cristianesimo e le religioni¸ infine, a riprova che l’allarme non era infondato, è stato emanato un documento dottrinale di alto profilo, l’istruzione Dominus Iesus, firmata dal cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Tutti gli studi su questo argomento mi confermano nella convinzione che la confusione dei diversi piani – quello dogmatico e quello pastorale - è possibile se non si hanno strumenti critici adeguati per distinguere l’enunciato dottrinale dalla decisione prudenziale e dalle sue motivazioni pratiche.
Ma, una volta fatta la distinzione, come si procede? Se si procede con piena razionalità, una decisione prudenziale che non implica di per sé un pronunciamento dottrinale va giudicata restando sul terreno dell’opinabilità; se si hanno buone ragioni (cattoliche) per giudicare sbagliata, cioè imprudente, una certa prassi, perché può ingenerare confusione dottrinale, si possono esibire queste ragioni mirando al bene della Chiesa, ma senza la pretesa – che sarebbe assurda, irrazionale – di essere assolutamente dalla parte della ragione. Se possono sbagliare i pastori nella valutazione dell’opportunità di una certa iniziativa (la buona fede e le buone intenzioni sono fuori discussione), non può a maggior ragione sbagliare un semplice fedele che osserva e critica?
Dunque, in conclusione, le critiche di Amerio vanno prese per quello che sono: non un’infallibile rilevamento di errori dottrinali, né un’impudente ribellione alla legittima autorità pastorale della gerarchia ecclesiastica, ma semplicemente un contributo (che io considero utilissimo) offerto da un laico, con la sua competenza di filosofo cristiano, alla riflessione sui valori dottrinali messi in gioco dalle vicende ecclesiali più recenti, dalla seconda metà del Novecento a oggi.
L’essenza del cristianesimo, con questa riflessione, non può che essere rilevata con maggior lucidità, la fede non può che esserne maggiormente illuminata, e la carità – che è l’impegno di vivere la fede e di propagarla, per la salvezza dell’umanità - non può che venirne rafforzata. Il che non toglie – l’ho già detto in altre occasioni e adesso lo ribadisco – che molte critiche che Amerio rivolge nei due libri teologici alla Gerarchia ecclesiastica, considerando non conformi alla prudenza dei Pastori della Chiesa alcune loro decisioni disciplinari e pastorali, mi paiono a loro volta irrispettose, e quindi non conformi alla prudenza dei fedeli cattolici.
Ma le mie riserve su questo modo di esprimersi non toccano la sostanza del contributo di Amerio e pertanto non tolgono valore a quanto ho detto prima sui suoi testi teologici. E non penso che la mia interpretazione sia troppo benigna, anzi penso che la mia non sia affatto un’interpretazione (questo è piuttosto il compito che Enrico Maria Radaelli si è prefisso con questo suo libro, che una volta pubblicato affronterà il giudizio dei recensori): da parte mia, io ho voluto soltanto chiarire i termini della questione e mettere in risalto, a beneficio degli eventuali lettori, ciò che mi appare del tutto evidente e assolutamente importante: che oggi è utile, anzi indispensabile riflettere con categorie filosofiche adeguate sull’essenza della nostra religione, su che cosa dobbiamo noi credere e operare per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo.
Solo una riflessione che si avvalga della perspicuità di una mente filosofica come quella di Romano Amerio ci può aiutare, nelle circostanze odierne, a evitare di valutare dottrine ed eventi ecclesiali – dottrine ed eventi che ci riguardano come cristiani e che rimettono in questione la nostra fede - con criteri inadeguati, come possono essere le mode culturali e teologiche o, peggio ancora, le convenienze politiche. E quello che ora dico di Amerio lo stesso potrei dire dei contributi offerti a suo tempo da altri tre laici: Jacques Maritain con Le Paysan de la Garonne, Étienne Gilson con Le Tribulations de Sophie, Augusto Del Noce con L’epoca della secolarizzazione. Come si ricorderà, i loro libri furono contestati con veemenza da folle di recensori scalmanati, animati non dallo spirito del dialogo intra-ecclesiale ma dall’intolleranza fanatica, forse dall’ira nei confronti di chi osava impiegare il proprio prestigio intellettuale (tutti e tre questo prestigio negli Anni Sessanta ce l’avevano, dopo decenni di serio e profondo lavoro filosofico) per mettere in dubbio la consistenza delle ragioni filosofiche che venivano addotte a giustificazione delle tesi teologiche allora di moda, sovversive della tradizione cattolica e dissolvitrici del dogma. Ricordo quell’epoca con amarezza, perché fu persa un’occasione di serena discussione tra intellettuali cattolici per il bene comune della fede cattolica, la quale richiede che si creda senza tentennamenti a ciò che è rivelato da Dio in Gesù Cristo e che il magistero della Chiesa interpreta infallibilmente, lasciando tutto il resto – le scienze umane, la filosofia e la stessa teologia – alla libera discussione degli esperti, alla dialettica delle ragioni da esibire e da vagliare.
Ricordo con amarezza quell’epoca perché vidi come veniva difesa ideologicamente la presunta infallibilità dei teologi progressisti, ossia di quei teologi che, seguendo Hans Küng, contestavano allora l’infallibilità pontificia Con Amerio, qualche anno dopo, è successo qualcosa di analogo, e vorrei che questa monografia riproponesse un tema di discussione che forse oggi può trovare un clima più sereno e più tollerante per il progresso della coscienza ecclesiale e missionaria dei cristiani agli inizi del terzo millennio.
Antonio Livi
(1) Professore Ordinario di Filosofia della conoscenza e Decano della Facoltà di Filosofia nell'Università Lateranense.
Fonte: Aurea Domus