"Solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale" Marx-Engels


La strategia usamericana in Afghanistan e in Pakistan: da Bush ad Obama Da un fallimento ad una risoluzione?

di Hans-Christof von Sponeck*

Il “Grande Gioco” del secolo diciannovesimo, descritto da Rudyard Kipling (nel suo romanzo del 1901“Kim”), partecipato dall’India britannica e dalla Russia imperiale per conquistare l’accesso all’India e alle acque calde del Mare Arabico, continua. Oggi, vi partecipano molti nuovi giocatori, ma le questioni praticamente sono sempre le stesse. Non si deve dimenticare che la Gran Bretagna è stata uno dei più importanti giocatori in, e per, l’Hindukush già nei primi giorni del colonialismo. Perciò, non deve destare sorpresa che il governo di Londra, il 28 gennaio 2010, abbia organizzato una conferenza internazionale sull’Afghanistan. Questo conferma in modo convincente il continuo interesse britannico nei confronti di questa area geo-politicamente strategica.


Coinvolgimento degli Stati Uniti nell’area

Per quanto concerne gli Stati Uniti, il loro coinvolgimento nell’area durante il diciannovesimo secolo è stato veramente trascurabile.

Nel ventesimo secolo gli USA hanno partecipato per procura alle mosse strategiche nell’area. Questa indiretta presenza usamericana si è materializzata mediante i collegamenti con i servizi segreti del Pakistan, l’Inter-Services Intelligence (ISI), e attraverso le forniture segrete di armamenti ai Mujaheddin afghani per “dare alla Russia il suo Vietnam”, come affermato da Zbigniev Brzezinski, dal 1977 al 1981 Consigliere per la Sicurezza Nazionale nell’amministrazione Carter. In seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno assunto la parte principale nel plasmare la politica internazionale per l’Afghanistan durante il ventunesimo secolo.


Ambiti del conflitto

Nel 2010 le crisi in Afghanistan e Pakistan sempre più profonde si stanno sviluppando su un’area geografica molto estesa.

Esiste un cerchio esterno di conflitto in cui la NATO guidata dagli USA si oppone alla Russia e alla Cina, membri decisivi della Shanghai Cooperation Organisation (SCO), che contrastano la sua politica in Afghanistan-Pakistan. La SCO è un’alleanza regionale che vede come membri associati la maggior parte dei paesi dell’Asia centrale, fra i quali l’India, il Pakistan, l’Iran e la Mongolia.

La dottrina della NATO del 1999 e la conseguente divulgazione del paradigma che la sicurezza energetica è l’elemento principale della politica della NATO hanno intensificato il braccio di ferro con la Russia e la Cina. Questi due paesi respingono con fermezza l’accerchiamento dell’Occidente e l’interferenza in quella che considerano la loro sfera di tradizionale influenza.

Inoltre, vi è un cerchio più interno di conflitto con il centro in Afghanistan e Pakistan.

È qui dove le divisioni etniche in Afghanistan e la controversia storica fra Afghanistan e Pakistan sul ‘Pashtunistan’ determinano le politiche locali. Il trattato del 1893 fra l’India britannica e la Russia imperiale zarista ha lasciato la sua eredità nella configurazione di un confine artificiale che divide le comunità che parlano Pashtu. Qualsiasi amministrazione degli Stati Uniti alle prese con questo cerchio di conflitto più interno dovrebbe avere una approfondita conoscenza di questo panorama etnico.


Per capire la situazione locale

Altre circostanze locali e regionali devono essere prese in considerazione. Fra queste, la sfiducia dei leader locali nei confronti delle autorità centrali di Kabul, Peshawar ed Islamabad.

Le autorità pachistane di Islamabad non hanno dimenticato che, al tempo dell’indipendenza nel 1947, la Provincia di Frontiera Nord-Occidentale (NWFP) era propensa ad optare per l’India piuttosto che per il Pakistan!

Tradizionalmente, le divisioni religiose più profonde fra Sunniti e Sciiti si sono verificate in Afghanistan. Gli Sciiti della zona di Hazara nell’Afghanistan centrale, della Provincia di Helmand e di altre parti dell’Afghanistan sud-occidentale sono da sempre in conflitto con la maggioranza sunnita di Kabul.

Da quando l’Iran ha allargato la sua sfera di influenza nell’area afghano-pachistana (AfPak area), in Pakistan gli antagonismi fra Sunniti e Sciiti si sono accentuati.

Feudalesimo, povertà e corruzione [1], tutto questo è stato parte integrante della vita nell’area AfPak.

Bisogna considerare tre fattori che hanno considerevole influenza sulle crisi attuali nei due paesi.

Le Nazioni Unite identificano l’Afghanistan come uno dei paesi più poveri nel mondo con una aspettativa di vita media di soli 42 anni, con un’alfabetizzazione negli adulti di circa il 28% e una mortalità nei bambini sotto i cinque anni del 297 per 1000. Il quadro nella cintura tribale del Pakistan che attraversa il confine con l’Afghanistan non è molto differente.

L’India non ha mai del tutto accettato che tre delle sue Province occidentali (Sind, Baluchistan e NWFP) e parti del Punjab le siano state sottratte nel 1947 per formare il Pakistan odierno. Questo spiega in qualche maniera l’interesse che l’India ha dimostrato fin da allora nel conservare un forte punto di appoggio politico in Afghanistan.

Cina e Russia, dal cerchio più esterno, non influenzano da sole gli sviluppi nell’area AfPak, ma esistono molti altri attori che altrettanto bene agiscono nel cerchio più interno, allo scoperto o dietro le quinte.

A contribuire in modo ulteriore alla complessità della crisi vi è la mentalità da bazar degli Stati dell’Asia centrale. Per ragioni monetarie e di altra natura, i governi di questi Stati hanno allacciato contrattazioni sia con la Russia che con gli Stati Uniti e quindi si dimostrano giocatori imprevedibili ed inaffidabili nella regione. Le recenti trattative in Kyrgystan riguardanti la base aerea di Manas servono da perfetto esempio. Sia la Russia che gli Stati Uniti hanno cercato di spuntare il miglior prezzo e alla fine gli Stati Uniti hanno fatto la miglior offerta per ottenere la concessione della base in affitto.

Il mondo musulmano in questa zona, nel Medio Oriente ed altrove si è opposto ai piani espansionistici usamericani. La maggioranza dei popoli che vivono nelle regioni dell’Asia centrale sono di fede musulmana. Questo costituisce un fattore importante che ogni amministrazione degli Stati Uniti deve tenere ben presente. Il Presidente degli USA Obama lo deve avere fatto quando al Cairo nel giugno 2009 ha rivolto il suo discorso conciliante ai popoli musulmani.

Allo stesso modo, gli Afghani e i Pakistani avranno preso nota della sua enfatica sottolineatura relativa ai diritti per la libertà religiosa e per lo sviluppo economico e, cosa più importante, del punto di vista di Obama che nessun sistema di governo dovrebbe essere imposto da un paese ad un altro paese.


Sfide difficili per gli Stati Uniti

Gli Stati Uniti e i loro alleati devono affrontare difficili sfide nel mettere in attuazione i loro piani nell’area AfPak, sotto le migliori circostanze. Il problema è che non ci sono “migliori” circostanze.

Prima di tutto, vi è una completa mancanza di fiducia fra la maggioranza della popolazione che vive nella regione AfPak nei confronti della NATO guidata dagli USA e nei governi coinvolti.

La cooperazione segreta di un tempo si è trasformata in scontro in campo aperto. Da non dimenticare che nell’area gli Stati Uniti avevano cooperato con Osama bin Laden, arruolando, armando ed indottrinando le milizie anti-Sovietiche. Gli amici di ieri dei Mujahedeen sono i nemici dei Mujahedeen di oggi. In una intervista del giugno 2009 rilasciata al settimanale tedesco ‘Der Spiegel’, l’ex Presidente Pervez Musharraf concludeva: “Oggi, gli Usamericani sono odiati in Pakistan. Gli Stati Uniti ci hanno lasciato in eredità 30.000 Mujahedeen che loro hanno procurato ed addestrato!”

Come in Iraq, gli Stati Uniti hanno mancato di preparazione non-militare e di addestramento a comprendere e a trattare con la complessità delle situazioni locali, e questo spiega molti dei fallimenti dell’intervento.

Penetrata in profondità nella psicologia statunitense vi è la percezione che gli Stati Uniti siano chiamati sempre ad esibire una globale leadership in tutti i campi e con ogni mezzo. Malgrado la nuova retorica da parte dell’attuale amministrazione Obama, questa percezione non è svanita. Elementi di una mentalità bi-partisan ‘PNAC’ (il neo-liberista ‘Project for a New American Century’ degli anni Novanta) rimangono presenti e visibili e non sono di buon augurio per i futuri sviluppi nella regione AfPak.

Le complicazioni di natura differente che gli USA e i loro alleati devono affrontare nell’area AfPak sono un terreno collinoso – eccellente per la guerriglia, sfavorevole per un moderno esercito – e linee di rifornimento complicate date le grandi distanze e, come accennato, l’inaffidabilità dei partner dell’Asia centrale.


L’amministrazione Bush nella regione AfPak – una storia di fallimenti

In seguito all’attacco dell’11 settembre 2001 contro le torri gemelle di New York, il coinvolgimento in Afghanistan degli Stati Uniti con azioni di anti-guerriglia sotto copertura si è trasformato in operazioni di contro-terrorismo in campo aperto. Si è intensificata l’assistenza militare USA al Pakistan.

Gli obiettivi dell’amministrazione Bush erano triplici: la sconfitta di Al-Qaida, la distruzione delle basi di appoggio dei Taliban ed una determinazione cieca a portare la democrazia in Afghanistan e all’intero mondo musulmano. Al di là di queste generali aspirazioni, il governo degli Stati Uniti, durante la presidenza di George W. Bush, non ha mai avuto una strategia per l’Afghanistan o per il Pakistan, e tanto meno una strategia per l’area AfPak.

Comunque, come nel caso dell’Iraq, vi è stata molta sperimentazione tattica nel dispiegamento delle truppe, nel mescolare le operazioni militari e l’assitenza umanitaria e nel sollecitare l’appoggio di gruppi locali.

Durante questi anni sono stati investiti sempre più tempo e denari per la sicurezza delle stesse truppe. La diffidenza e l’odio per la presenza straniera, in particolar modo per l’esercito degli Stati Uniti, si sono di continuo accresciuti. Le informazioni trapelate sul crudele trattamento riservato ai prigionieri afghani nella base aerea usamericana di Bagram, l’equivalente di Guantanamo in Afghanistan, hanno alimentato la lotta contro le truppe statunitensi. Il recente attacco terroristico all’interno dell’avamposto della CIA usamericana a Khost nei pressi del confine Afghano-Pakistano da parte di un membro dell’esercito afghano, che ha causato la morte di sette operativi di intelligence statunitensi e di un reporter canadese, è la prova evidente della profondità dell’odio che è stato accumulato nel paese contro gli invasori stranieri.

Quello che non avrebbe dovuto costituire sorpresa a Washington era la facilità con cui i rivoltosi di etnia Pashtu si muovevano avanti ed indietro attraverso le aree di confine fra Afghanistan e Pakistan. Per costoro, questo è territorio di rifugio in entrambi i versanti del confine.

La risposta statunitense è stata quella di mettere in atto operazioni segrete delle Forze Speciali e di impiegare droni pilotati automaticamente contro la fascia tribale del Pakistan. Questo ha elevato i rischi e la complessità della crisi. La dirigenza politica del Pakistan giustificava in maniera riluttante queste incursioni usamericane. Gli Stati Uniti compensavano con assistenza finanziaria e strutture militari, necessarie per rafforzare sia l’esercito che il governo del Pakistan contro un’opposizione sempre più larga nei confronti del presidente Asif Ali Zadari e il gabinetto del primo ministro Yousaf Raza Gilani.

Questo approccio statunitense è stato per decenni il modello della cooperazione fra gli Stati Uniti e il Pakistan. Quello che costituisce la differenza di questi tempi è solo l’entità dei contributi statunitensi.

Lo stato d’animo del popolo, sia in Afghanistan che in Pakistan, è diventato progressivamente ostile all’aumentare del numero di vittime locali. Sono manifestazioni di collera delle popolazioni gli attacchi ben pianificati contro centri di rifornimento della NATO nell’area di Peshawar e contro convogli militari nella strada che collega il Pakistan all’Afghanistan.

Per rendere la situazione ancora più complessa, il servizio segreto del Pakistan, l’ISI, continua a fare un abile doppio gioco nel nord del Pakistan e attraverso il confine con l’Afghanistan, cooperando sia con le autorità statunitensi che con i gruppi locali.

Qual è stato il ruolo delle Nazioni Unite nella crisi AfPak? Presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU non è avvenuta alcuna discussione in merito e sono state destinate in modo limitato assistenza umanitaria e risorse per la ricostruzione nazionale.

L’ONU e le sue agenzie sono state attive nell’occuparsi dei profughi da entrambe le parti del confine. Comunque, tanto i dirigenti dell’ONU che quelli della NATO hanno elogiato la cooperazione tra l’Organizzazione mondiale e l’Alleanza.

Kai Eide, il coraggioso Inviato Speciale delle Nazioni Unite per l’Afghanistan, che avrebbe dovuto lasciare il suo ufficio in marzo [N.d.tr.: Le dimissioni del capo della missione Onu in Afghanistan, annunciate con quattro mesi di anticipo sulla scadenza naturale del mandato, il norvegese Kai Eide si dimette il 12 dicembre 2009, sono la ciliegina sulla torta di uno sfilacciamento generale dell'opzione “civile”, già messa a dura prova dalla marcia indietro di Obama suggellata dalla decisione di inviare 30mila nuovi soldati americani cui si aggiungerebbero altri 10mila uomini Nato tra cui mille italiani.], nel dicembre 2009 dichiarava al Consiglio di Sicurezza dell’ONU che, a suo parere, l’Afghanistan straziato dalla guerra si trovava sull’orlo di diventare incontrollabile. A livello politico, durante gli anni dell’amministrazione Bush, l’ONU aveva rivestito un ruolo poco più di legittimazione della presenza della NATO in Afghanistan.

Questo non deve sorprendere, visto che il presidente Bush non ha dato molto spazio al multilateralismo, né in Iraq né in Afghanistan.

Una conoscenza dell’amministrazione statunitense geo-strategicamente limitata si è palesata in una grave sottovalutazione del peso politico della Russia e dei paesi confinanti con l’Afghanistan, come la Cina, i paesi dell’Asia centrale e l’Iran.

L’amministrazione Bush semplicisticamente riteneva che la superiorità militare degli Stati Uniti fosse bastante a promuovere la causa in Afghanistan, a diffondere nell’area il pluralismo e a marginalizzare la Russia.

In assenza di una strategia, gli USA avevano solo obiettivi politici limitati. Il governo Bush cercava di rafforzare la struttura dell’esercito e della polizia dell’Afghanistan e provvedeva al loro addestramento. Questo non è differente dall’approccio statunitense in Iraq.

Per di più, molti analisti e specialisti di intelligence venivano inviati in Afghanistan per cercare di dare la caccia ad Al-Qaida e ai Taliban.

Durante questi anni, la produzione di oppio in Afghanistan ha raggiunto nuovi record.

L’Ufficio dell’ONU per le Droghe e il Crimine con sede a Vienna valutava che nel 2008 i campi di papavero afghano avevano reso qualcosa come 8.000 tonnellate di oppio. La reazione degli Stati Uniti oscillava da un atteggiamento di laissez-faire alla distruzione di raccolti e laboratori. Poco veniva fatto per promuovere la sostituzione dei raccolti e nulla per ridurre il consumo di oppio afghano all’estero. I mezzi di sostentamento dei contadini dell’Afghanistan e le loro tradizioni venivano completamente ignorati.


L’amministrazione Obama nella regione AfPak – opportunità per una risoluzione

È ancora troppo presto per trarre delle conclusioni sulle politiche della nuova amministrazione degli Stati Uniti rispetto alle problematiche dell’area Afghanistan e Pakistan. Quello che si può dire è che la barra delle ambizioni statunitensi è stata abbassata.

Nel suo discorso del giugno 2009 al Cairo il presidente Obama sottolineava come “nessun sistema di governo può essere imposto da un qualche paese ad un altro paese”.

Tuttavia nulla veniva detto su come portare democrazia, libertà e diritti umani in Afghanistan.

Gli obiettivi dichiarati dal governo Obama, non dissimili da quelli del governo Bush, sono lo smembramento, lo smantellamento e la sconfitta di al-Qaida e dei Taliban e quello di garantire che i paradisi sicuri per questi gruppi in Afghanistan e in Pakistan non costituiscano più a lungo una minaccia per gli Stati Uniti.

Comunque, è importante sottolineare come la retorica del presente governo statunitense e la sua sensibilità di interagire con le problematiche della regione sono decisamente più positive e costruttive rispetto al modo di porsi dei governi precedenti.

Esiste il proposito di collaborare con i Taliban “moderati”, qualsiasi cosa questo comporti.

I giorni della parola d’ordine “Noi li staneremo dovunque essi siano” sono finiti. Basti considerare l’osservazione conciliante del Segretario di Stato Hillary Clinton: “I soggetti che noi adesso combattiamo, li abbiamo addestrati noi venti anni fa. Dobbiamo essere prudenti – stiamo raccogliendo quello che abbiamo seminato!”

Di tutto rilievo è l’atteggiamento più duro che gli Stati Uniti stanno assumendo con il governo Karzai di Kabul.

Un punto importante della posizione critica degli Stati Uniti si riferisce alla corruzione esercitata dal Gabinetto afghano e dal suo troppo esteso sistema burocratico. Sono state sospese le video-conferenze bisettimanali tra i presidenti statunitense ed afghano che avevano luogo nei giorni dell’amministrazione Bush.

Il presidente Obama insiste: “Dobbiamo ascoltare le voci degli Afghani”. Ed in Afghanistan non mancano proprio le voci. Recentemente, un abitante di un villaggio afghano rimarcava: “Noi desideriamo amici, non padroni. Le priorità devono essere priorità per gli Afgani. I diritti importanti ora per noi sono l’agricoltura e l’istruzione.”

In una lettera indirizzata al Presidente Obama, un Taliban afghano ha scritto: “Noi vogliamo che lei ripudi le politiche guerrafondaie della precedente amministrazione statunitense e ponga fine alle guerre anti-umanitarie in Iraq (!) e in Afghanistan.”

Si sono sentite anche voci dal Pakistan sulla crisi AfPak. Un Chitrali, che vive nelle vicinanze del confine afghano, arrabbiato faceva rilevare: “Prego, bisogna fare opportune distinzioni fra atti di terrorismo, atti di criminalità e azioni di protesta locali dopo decenni di promesse mai mantenute dal governo per una migliore fornitura dell’acqua, per strutture sanitarie e per la risoluzione delle controversie territoriali.”

Inoltre, si fanno sentire voci dal governo e dall’esercito del Pakistan, che chiedono che gli Stati Uniti dovrebbero comprendere le necessità di sicurezza del Pakistan ed invertire la loro politica di favore nei confronti dell’India.

La retorica del presidente echeggia queste voci. La sua sfida è di tradurre le sue prese di posizione in azioni tangibili. E non è affatto garantito che le operazioni usamericane nella regione AfPak non possano diventare il tallone di Achille di Obama.

Obama non prevede l’opzione del ritiro delle truppe dalla regione AfPak.

Da quando la nuova amministrazione è entrata in carica, tre riviste di strategia militare sono state pubblicate di seguito, dal consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti generale Lute, dal capo dello Stato Maggiore ammiraglio Mullen e dal generale Petraeus, capo del Comando Centrale delle Forze statunitensi.

Intanto il contingente militare degli Stati Uniti in Afghanistan è aumentato di 30.000 unità, con un aumento delle perdite usamericane che a metà gennaio 2010 arrivano quasi a 1000 caduti. Finalmente, dai comandanti usamericani sono stati mesi in atto tentativi per ridurre al minimo le perdite di civili. Lo scorso anno, Robert Gates, ministro della difesa degli Stati Uniti affermava: “L’uccisione accidentale di Afghani costituisce una delle nostre più gravi vulnerabilità strategiche.” In questa osservazione avrebbe dovuto includere anche le perdite civili del nord Pakistan.

Le operazioni di droni a cavallo del confine “hanno creato più nemici di quelli che si voleva eliminare”, questo il punto di vista di un consigliere militare straniero al generale Petraeus. Il numero esatto di vittime provocate dagli attacchi dei droni usamericani telecomandati non è ancora noto, ma certamente in aumento nelle aree tribali del Pakistan del nord.

Le due guerre statunitensi in Iraq e in Afghanistan hanno ridotto le potenzialità militari degli Stati Uniti ad un minimo storico. La crisi economica e finanziaria globale ha ulteriormente invalidato la libertà di azione usamericana.

Figure politiche importanti degli Stati Uniti, compreso il presidente Obama, hanno ribadito pubblicamente, senza mai fare riferimento all’accresciuta incapacità statunitense, che il governo degli Stati Uniti si aspetta dall’Europa un significativo aumento del sostegno economico e militare per le operazione nell’area AfPak.

Queste aspettative costituiscono un test importante sulla consistenza dei vincoli delle relazioni transatlantiche, dal momento che l’Europa verosimilmente sta eludendo queste aspettative. Gli alleati europei della NATO sono effettivamente sottoposti a forti pressioni politiche nel loro ambiente domestico, tali da riconsiderare la loro partecipazione all’avventura AfPak.

Immediatamente prima della conferenza di Londra sull’Afghanistan (28 gennaio 2010), il ministro della difesa della Germania, Theodor zu Guttenberg, puntualizzava come la Germania avrebbe presentato alla conferenza una strategia unilaterale per l’Afghanistan per un “maggior impegno per la ricostruzione e la formazione professionale nazionale”.

Il ministro degli esteri Guido Westerwell minacciava anche di boicottare la conferenza, se l’incontro di Londra si sarebbe limitato solo ad un dibattito sui contributi addizionali di truppe.

In precedenza, aveva dichiarato al Parlamento germanico che, solo quando obiettivi e strategia fossero stati chiariti in modo definitivo, allora sarebbe stato possibile considerare per l’Afghanistan il problema di “contenuto” ( in linguaggio diretto, la questione dell’aumento di truppe).

Risulta anche interessante il fatto che nel suo discorso aveva fatto riferimento alla delicata questione di un eventuale ritiro di truppe dall’Afghanistan. Non sarebbe stata una sorpresa se a seguito della riunione di Londra, si fosse scoperto che le sue dichiarazioni erano state puramente un abile mossa politica del governo tedesco per preparare l’opinione pubblica ad un prossimo incremento nel dispiegamento di truppe tedesche in Afghanistan.

È importante considerare qui che resta da vedere se il presidente Obama sia in grado di trovare persone con autentica conoscenza delle questioni nell’area specifica. Il suo inviato speciale, Richard Holbrooke, ha dato dimostrazione evidente di non rientrare in questa categoria. Un consigliere deputato alla sicurezza nazionale, responsabile per l’Afghanistan, che di recente si è dimostrato completamente ignaro della molto discussa linea Durand ( il contestato confine fra Afghanistan e Pakistan, dal nome di Sir Mortimer Durand, ministro degli esteri nell’India britannica del 1893), non è molto affidabile!


Le due amministrazioni degli Stati Uniti: dall’“entrata nei conflitti” all’uscita?

Mettendo a confronto l’approccio di Bush con quello di Obama rispetto alle problematiche che interessano l’Afghanistan e il Pakistan, si possono registrare prese di posizione del tutto consimili accanto a differenze significative. Entrambe le amministrazioni ritengono che la leadership degli Stati Uniti sia una pre-condizione per la pace, il benessere e la democrazia nel mondo. Qualsiasi alternativa alla leadership statunitense sarebbe fonte di anarchia internazionale.

Entrambe le amministrazioni hanno sperimentato il dispiegamento di truppe di rilevante entità, l’equilibrio fra le operazioni militari e civili e l’allargamento di negoziati a livello regionale e locale.

Evidente nelle due amministrazioni il deficit di conoscenza geo-strategica.

Comunque, il presidente Obama e la sua squadra riconoscono queste carenze e stanno tentando di porvi rimedio. Questo riguarda il confronto che si sta profilando fra la NATO e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, le divisioni etniche e religiose in Afghanistan e in Pakistan, le delicate situazioni locali trans-frontaliere e, naturalmente, gli interessi particolari di Iran ed India in Afghanistan.

Per ultimo, in entrambe le amministrazioni era presente la convinzione che il meccanismo di un aumento impetuoso del livello delle truppe statunitensi impegnate sul campo per uno specifico periodo di tempo avrebbe comportato una soluzione militare.

Sembra che l’amministrazione Obama abbia cominciato a domandarsi se un intervento fondamentalmente militare possa risolvere la crisi nella regione AfPak.

Entrambi i governi si sono dimostrati consapevoli della situazione potenzialmente pericolosa di un Pakistan come potenza nucleare e hanno impegnato le autorità pakistane negli sforzi per intensificare la protezione delle strutture nucleari nel paese.

Le più importanti differenze negli approcci delle due amministrazioni si sono manifestate al livello retorico.

La disposizione del governo Obama ad ascoltare anche i protagonisti costituisce una differenza notevole rispetto alla precedente leadership a Washington. Una volta ancora, il dialogo e la diplomazia per gli Stati Uniti sono strumenti soddisfacenti nelle relazioni internazionali. Inoltre, l’attuale governo è più energico nel richiedere la ripartizione degli oneri politici, finanziari e militari.

Il presidente Obama è molto più orientato al multilateralismo che il suo predecessore e amerebbe vedere per le Nazioni Unite un ruolo più decisivo e una maggiore attenzione per lo sviluppo nell’area AfPak ed in altre regioni del mondo.

Le relazioni fra gli Stati Uniti e i governi dei paesi dell’Asia centrale come il Tajikistan, l’Uzbekistan, il Kyrgyzstan e il Kazakhstan si sono complicate con l’andar del tempo. L’attuale governo usamericano si rende conto della natura delicata di queste relazioni.

Visto che il Pakistan è divenuto parte integrale della crisi, ora gli Stati Uniti sono alla ricerca di una chiara definizione delle questioni nell’area AfPak, tenendo ben presente la necessità di proteggere le installazioni nucleari del Pakistan.

Nella lotta contro il terrorismo, si è aperto un nuovo fronte nello Yemen. Questo è avvenuto nella assenza completa di conoscenza da parte dell’opinione pubblica, fino all’arresto del 25 dicembre 2009 di Abdulmutallah, figlio di un banchiere nigeriano, che aveva tentato di far precipitare un jet delle linee statunitensi sulla città di Detroit. Il mondo veniva a sapere così che lo Yemen stava diventando un pericoloso covo di al-Qaeda e roccaforte usata per l’addestramento di giovani Musulmani, come questo Abdulmuttalah.

Così lo Yemen è stato annoverato dagli Stati Uniti, e naturalmente dalla NATO, nel conto dei punti caldi attorno al cerchio più interno dell’area AfPak, e in quella zona veniva ulteriormente elevato il livello complesso delle operazioni militari sotto copertura e in campo aperto.

Il presidente Obama si rende conto che sta scattando l’ora della politica sia a Washington che a Brussels e nelle altre capitali di Europa. Una presenza a tempo indeterminato degli Stati Uniti e dei loro alleati della NATO e i costi sempre crescenti, l’occupazione militare e il numero delle perdite, sia afghane che straniere, non sono più a lungo accettabili dai parlamenti e certamente non dalla pubblica opinione nei singoli paesi dell’Unione Europea.

Un diplomatico europeo, di cui si è conservato l’anonimato, è stato citato dai media per avere dichiarato: “Tutti noi, a porte chiuse, ci raccontiamo che prima ce ne andiamo dall’Afghanistan, meglio è!”

Inoltre è abbastanza sicuro che quelli che stanno nel cerchio più esterno al conflitto, i paesi dell’Asia centrale, la Cina e la Russia intensificheranno la loro resistenza ai progetti dell’Occidente in Afghanistan e Pakistan.

I piani provocatori della NATO di espandere la sua sfera di influenza, inglobando come membri i paesi dell’Est, e così completando l’accerchiamento della Russia e della Cina, daranno origine solo ad ulteriori conflitti nell’area e provocheranno una ancor più pericolosa corsa agli armamenti, compreso lo sviluppo dei sistemi d’arma nucleari.

La Russia condivide a breve termine le preoccupazioni dell’Occidente nei confronti del fondamentalismo islamico, dei Taliban e della droga e per queste ragioni offre un qualche appoggio alla NATO, ad esempio consente il trasporto di materiali letali e non-letali attraverso il suo territorio per ferrovia o per via aerea. Questo non è in contraddizione con le fondamentali obiezioni della Russia alla presenza USA/NATO nel suo “cortile dietro casa”. I dirigenti della NATO dovrebbero tenere questo ben presente quando si lamentano del tiepido sostegno della Russia all’avventura della NATO.

La fiducia in sé e la risolutezza in continuo crescendo della Cina concorrono a lanciare nuove sfide all’Alleanza occidentale in Afghanistan. Il comportamento della Cina alla Conferenza Climatica dell’ONU tenutasi a Copenhagen, la sua sfida alle politiche degli Stati Uniti e dell’Unione Europea verso l’Iran, l’audacia dei suoi programmi di investimenti civili in Afghanistan e, da non sottovalutare, la recente decisione di partecipare con la sua marina militare al pattugliamento delle acque territoriali della Somalia sono indicatori di un più diretto e palese interventismo cinese nelle future crisi globali, compresa questa dell’Afghanistan.


L’urgenza di un cambiamento

L’amministrazione Obama ha avuto una buona partenza in politica estera. Le opportunità di andare oltre le intenzioni per la risoluzione dei conflitti globali, compreso quello che interessa l’area AfPak, non si presenteranno per più di tanto tempo. Queste possibilità devono essere afferrate senza indugio.

Il discorso di Obama del 1o dicembre 2009 su una nuova politica degli Stati Uniti nei confronti dell’ Afghanistan fornisce ulteriori chiarimenti su queste intenzioni e dà conferma delle politiche precedenti, negando sicurezza ai rifugi di Al Qaeda e dei rivoltosi Taliban, arrestando l’impeto dei Taliban, impedendo la caduta del governo afghano e rafforzando le forze militari e di polizia dell’Afghanistan.

Si suppone che l’arrivo in aggiunta di 30.000 uomini di truppa statunitensi e un’addizionale di 7.000 uomini delle truppe della coalizione possano favorire il meccanismo del cambiamento.

La novità nella proposta di Obama consiste nella maggior condivisione delle responsabilità con le autorità civili e militari dell’Afghanistan non solo a livello centrale, a Kabul, ma anche a livello regionale e, in modo particolare, a livello locale “per creare le condizioni per il trasferimento totale delle responsabilità agli Afghani” e per intensificare le relazioni degli Stati Uniti con il vicino Pakistan.

Quello che manca è una conferma da parte del governo degli Stati Uniti di avere compreso la vitale importanza di portare tutti quelli dei cerchi esterni ed interni al conflitto a discutere insieme alternative alla fallimentare opzione militare e come possa essere promossa in Afghanistan la ricostruzione nazionale sulla base di misure che rendano solida una durevole fiducia.

La crisi nella regione AfPak e in altre aree richiede un dialogo universalmente coinvolgente e di vasta portata. La comprensione da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali delle cause del fondamentalismo islamico nell’area AfPak e in altre parti del mondo deve essere considerata come pre-requisito di avanzamento.


[1] ‘Corruzione’ è un termine che sfortunatamente viene usato dappertutto in maniera semplicistica ed indifferenziata. Non si tiene in conto delle differenti forme che la cosiddetta “corruzione” assume, dal semplice favoritismo che si basa sulle tradizioni locali agli atti moderni di disonestà criminale. Non è possibile un unico approccio nel considerare il comportamento degli Afghani, che i politici stranieri descrivono per loro comodità con “corruzione”.

* Hans-Christof von Sponeck (1939, Brema, Germania) è stato nominato nel novembre 1988 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, come direttore dell’Ufficio per la Coordinazione delle Operazioni Umanitarie delle Nazioni Unite in Iraq (UNOHCI), la struttura preposta dall’organizzazione internazionale per la gestione del programma “Petrolio-in-cambio-di-Cibo”. Come per il suo predecessore a Bagdad, Denis Halliday, von Sponeck si è dimesso dall’incarico nel febbraio 2000 per protesta contro il prolungarsi delle sanzioni contro l’Iraq.

In precedenza, a partire dal 1968, von Sponeck aveva collaborato nel Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUD) in Gana, Pakistan, Turchia, Botswana, India e a Ginevra.

È autore del libro “A different war : The UN sanctions regime in Irak. (Una guerra diversa: le sanzioni dell’ONU al regime in Iraq) Berghahn Books 2006”

Si è sempre adoperato con grande impegno a fornire proposte e a suggerire percorsi a governi, parlamenti e gruppi per la pace, in favore della risoluzione della crisi irachena e per le riforme dell’ONU.

Ha seguito i corsi di storia moderna dell’Europa presso le Università di Tubinga e Bonn, ha condotto ricerche al Centro Est-Ovest di Honolulu e si è laureato in antropologia fisica presso la Louisiana State University e in demografia presso la Washington University. Insegna all’Università di Marburg e fa parte del consiglio direttivo di numerose Organizzazioni Non Governative in Canada, Svizzera, Svezia, Germania ed Italia.


(Questo documento si basa su una relazione presentata dall’autore nel giugno 2009 su invito dell’Istituto del Lussemburgo per gli Studi europei ed internazionali)


Articolo originale pubblicato il 27 marzo 2010


URL di questo articolo su Tlaxcala: TLAXCALA : America’s AfPak Strategy: From Bush to Obama – From Failure to Resolution?

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)