Originariamente Scritto da
Abbott
di Francesco Ramella
Fare la spesa a km 0. E’ l’ultima moda del consumatore rispettoso dell’ambiente e attento alla sostenibilità. Di cosa si tratta? L’idea di base è quella di acquistare prodotti agricoli locali e di stagione al fine di ridurre i consumi energetici e le emissioni di anidride carbonica correlati al trasporto di quegli alimenti che, prima di giungere sulle nostre tavole, percorrono decine di migliaia di chilometri. Il fenomeno ha già attecchito all’estero ed è probabile che nei prossimi anni ne sentiremo parlare sempre più spesso anche da noi. Come accade abitualmente per le campagne “verdi”, più ispirate dalle buone intenzioni che supportate da una seria analisi dei problemi e delle possibili soluzioni, l’idea che il consumo locale sia più amico del pianeta di quello globale è quanto meno dubbia.
Ad esempio, è più sostenibile il comportamento di un newyorkese che acquista vino francese di quello di un suo concittadino che si rifornisce in California: nel primo caso, infatti, il trasporto avviene prevalentemente via mare e nel secondo su strada. E, a conti fatti, poiché una nave cargo, a parità di carico trasportato, impiega un decimo dell’energia utilizzata da un autotreno, un viaggio dall’Europa alla costa occidentale degli Stati Uniti, sebbene più lungo, comporta minori emissioni rispetto ad un trasporto su strada tra le due coste americane. Un’imbarcazione è poi circa duecento volte più efficiente di un auto: con la stessa quantità di carburante che consumiamo andando a comprare 10 kg di generi alimentari nel supermercato che dista 2,5 km da casa nostra, un’imbarcazione può movimentare la stessa quantità di merce per 10mila km. In altre parole, l’ultimo miglio è assi più rilevante di tutti quelli che l’hanno preceduto. Non bisogna poi dimenticare che la struttura distributiva degli agricoltori locali è assai più inefficiente di quella dei produttori industriali essendo basata sul trasporto di piccoli quantitativi di prodotto per singola spedizione.
Vi sono poi altri fattori che possono far pendere la bilancia energetica a favore dei prodotti a più alta intensità di trasporto:
un consumatore del nord Europa che mangia mele coltivate in Nuova Zelanda è più amico dell’ambiente di chi preferisce frutti locali; questi ultimi, infatti, a causa del clima più freddo, richiedono molta più energia nella fase di produzione.
E, per quanto possa sembrare strano, sono più ecologicamente corrette le rose regalate a S. Valentino che giungono in Europa dal Kenya in aereo (il mezzo di trasporto di gran lunga più energivoro) di quelle cresciute al caldo artificiale nelle serre olandesi: il rapporto fra le emissioni nei due casi è di uno a sei.
Altro fattore rilevante ai fini del bilancio energetico è la conservazione dei prodotti: una verdura locale non disponibile in Europa nel periodo invernale deve essere mantenuta per molti mesi a basse temperature e l’energia spesa per il raffreddamento può rivelarsi maggiore di quella necessaria per far giungere analogo prodotto fresco dalla Nuova Zelanda.
Una ricerca relativa ai consumi alimentari negli Stati Uniti ha stimato che solo l’11% dell’energia ad essi correlata è imputabile ai trasporti; il 17,5% è attribuibile alla fase di produzione, poco meno del 30% alla lavorazione ed oltre il 40% alla preparazione dei cibi.
D’altra parte, è la stessa idea che auto e camion siano sempre e comunque da colpevolizzare, non regge alla verifica empirica. Immaginate di fare una passeggiata per andare dal verduriere e di lasciare a casa per una volta la vostra vettura. A prima vista i nostri piedi sono il modo di trasporto ecologicamente corretto per eccellenza: neanche un grammo di petrolio consumato. Però, anch’essi hanno bisogno di energia per poter adempiere il proprio compito; e, come abbiamo visto, il cibo che assumiamo per rifornire di carburante le nostre gambe richiede energia per essere prodotto, trasportato, conservato e cucinato. Se beviamo un bicchiere di latte per rifocillarci una volta tornati a casa dalla spesa, annulliamo il beneficio per l’ambiente conseguente all’aver lasciato l’auto in garage (se poi siamo in due a fare il viaggio, allora l’auto risulta essere meno inquinante di noi stessi).
Purtroppo, anche se i benefici ambientali della spesa a km 0 sembrano essere quanto mai evanescenti, con ogni probabilità l’idea continuerà a trovare numerosi sostenitori. Essa rappresenta infatti una formidabile arma di persuasione nelle mani dei protezionisti. Chi non vuol fare i conti con produttori lontani ma più efficienti potrà chiedere che venga istituita una barriera doganale a tutela dell’ambiente. E già successo in Islanda dove è stato introdotto il divieto all’importazione di banane che ora vengono prodotte a costi esorbitanti all’interno di gigantesche serre nell’inospitale isola (due secoli addietro, Adam Smith si chiedeva retoricamente se fosse ragionevole una legge che vietasse l’importazione di vini stranieri in Scozia, considerato che si potevano ottenere ottimi grappoli d’uva sul territorio nazionale creando artificialmente le opportune condizioni climatiche).
A pagare il conto sono, da un lato, i consumatori che pagano un prezzo più alto e, dall’altro, i produttori di qualche paese verosimilmente a più basso reddito. In nome di un difficilmente quantificabile beneficio futuro in termini di minore riscaldamento del pianeta, le politiche volte ad ostacolare il commercio internazionale dei prodotti alimentari vanno quindi a peggiorare le condizioni attuali di vita di coloro che si trovano in condizioni di estrema povertà e per i quali la vendita dei propri prodotti nei Paesi ricchi rappresenta un’opportunità unica di accrescimento del reddito e di miglioramento delle capacità di adattamento al clima che cambia.
Da
Libero Mercato, 29 aprile 2008
Figura 1: consumi di energia correlati al consumo di cibo
http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=6601